Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ANNO 2016

 

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

PRIMA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

QUELLO CHE NON SI DICE

 

 

LA MAFIA TI UCCIDE, TI AFFAMA, TI CONDANNA

IL POTERE TI INTIMA: SUBISCI E TACI

LE MAFIE TI ROVINANO LA VITA. QUESTA ITALIA TI DISTRUGGE LA SPERANZA

UNA VITA DI RITORSIONI, MA ORGOGLIOSO DI ESSERE DIVERSO

 

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI

Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.

Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.

Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?

"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)

«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.

Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

Vittorio Emanuele sul 2 giugno: "Il referendum 1946 fu incompleto". Il figlio di Re Umberto II attacca: "Molti italiani non poterono votare, ma mio padre dimostrò responsabilità nonostante De Gasperi si proclamò Capo dello Stato con un colpo di mano", scrive Ivan Francese, Giovedì 02/06/2016, su "Il Giornale". Secondo Vittorio Emanuele di Savoia il referendum del 2 giugno 1946, con cui l'Italia divenne una repubblica, non sarebbe stato "completo". Perché - e questa è verità storica - in alcuni territori dell'allora Regno d'Italia non fu possibile votare e perché a molti connazionali prigionieri all'estero non venne permesso l'accesso alle urne. Il primogenito di Re Umberto affida ad un messaggio rivolto "a tutti gli italiani" la sua amarezza in occasione del 70° anniversario della nascita della Repubblica italiana. Non si votò, ricorda il principe, "in alcuni territori italiani ancora non del tutto liberi ed al voto non poterono partecipare molti italiani che, per essersi rifiutati di collaborare con i tedeschi, si trovavano ancora in campi di prigionia all'estero." Inoltre Vittorio Emanuele elogia il senso di responsabilità del padre, quando "il consiglio dei ministri presieduto da Alcide De Gasperi, con un colpo di mano, nominò lo stesso Capo Provvisorio dello Stato". Il Re, "dopo un mese di regno, desiderando una piena legittimazione che gli permettesse di traghettare la Nazione in una rinascita al termine delle dolorose esperienze della guerra, prima della consultazione dichiarò che se la Monarchia non avesse raggiunto la maggioranza assoluta dei voti, avrebbe indetto un nuovo Referendum. In quei giorni ed in quelle ore di tensione Egli mantenne un alto senso di responsabilità per le sorti del Paese ed una terzietà che il mondo gli ha riconosciuto." Vittorio Emanuele, infine, vuole celebrare l'abnegazione del Re alla causa d'Italia, che lo portò a rinunciare alla Corona pur di salvare l'indipendenza della Patria: "Pur in assenza di alcuna imposizione, partì di propria volontà per un temporaneo esilio, al fine di smorzare le tensioni di un Paese diviso in due e con le truppe jugoslave di Tito, schierate sul confine orientale, decise ad intervenire in caso di vittoria monarchica. Un esilio durato, poi, per Lui tutta la vita, per me 56 anni e per mio figlio - nato 26 anni dopo il referendum - ben 30 anni".

«Sul Re Soldato c'è un pregiudizio antistorico», scrive Francesca Angeli, Venerdì 17/07/2015, su "Il Giornale". «Un divieto privo di senso». Ignazio La Russa quando era ministro della Difesa si era impegnato personalmente per favorire il ritorno della salma di Vittorio Emanuele III in Italia, in occasione del 150 anniversario dell'Unità d'Italia che cadeva nel 2011. Ma il tentativo si impantanò.

La Russa ritiene fondati i timori di Maria Gabriella di Savoia per la salma del Re Soldato?

«Si tratta di un rischio reale che forse finalmente riuscirà a smuovere le coscienze di chi ancora si oppone al ritorno delle salme dei Savoia, un veto antistorico che non ha più nessuna ragione di esistere».

Chi allora ebbe paura della sua proposta per il rientro delle spoglie?

«Prevalse la tipica pavidità italiana. La preoccupazione per eventuali polemiche da parte di chi non riesce a superare antichi pregiudizi ideologici che oggi suonano assurdi e ridicoli».

Perché ritiene sia doveroso riportare Vittorio Emanuele III in Italia?

«Vittorio Emanuele III è stato Re d'Italia, è una figura che appartiene alla nostra Storia, nella buona e nella cattiva sorte. Le disposizioni transitorie avevano allora un senso che oggi ovviamente non hanno più. Si temevano colpi di coda dopo le polemiche sull'esito del referendum. Ma ora non vedo ragioni plausibili per un simile veto. Certo non è criminalizzabile in sè l'istituto della monarchia e oggi tutti i risentimenti e le tensioni allora comprensibili dovrebbero essersi finalmente placati».

Sono molti i protagonisti del passato con i quali il nostro Paese fatica a chiudere i conti.

«Senza dubbio. A 70 anni dalla sua fine il fascismo è ancora un elemento centrale del dibattito politico. Io me ne stupisco sempre. C'è chi non perde l'occasione per paragonare il Pd attuale al partito fascista e il premier Renzi a Mussolini. Quando si apre questa polemica in Parlamento io intervengo e da “esperto della materia” tranquillizzò i timorosi: il Pd e Renzi non hanno nulla a che fare con Mussolini e il fascismo».

Quindi il nodo è quello? Il legame dei Savoia col fascismo?

«No. Lo stesso Benito Mussolini è stato seppellito in Italia. Posso capire si continui a a dibattere su un'ideologia ma francamente non capisco come si possa ancora dibattere una questione come il rientro di un uomo che fu Re d'Italia».

Se la salma fosse riportata in Italia pensa sarebbe giusto tumularla al Pantheon?

«Assolutamente sì. È quella la tomba della famiglia Savoia dove si trovano Vittorio Emanuele II e Umberto. Quando ero al ministero della Difesa feci questa promessa alla famiglia. Incontrai proprio davanti al Pantheon Vittorio Emanuele con la moglie, Marina Doria e il figlio Emanuele Filiberto e mi attivai per il ritorno della salma e la sua sepoltura. Mi sembrava giusto farla coincidere con i 150 anni ma purtroppo l'occasione andò persa».

Lancerebbe un nuovo appello?

«Potrei farlo soltanto se raccogliessi un consenso trasversale. Sono consapevole che una mia iniziativa in questa direzione altrimenti verrebbe subito strumentalizzata».

Sapevate che da noi ci fu un genocidio? La tesi di Pino Aprile nel nuovo libro «Carnefici» Viaggio in un Risorgimento crudele e feroce tra idee e commenti, scrive Lino Patruno il 2 giugno 2016 su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Ora la conferma: fu genocidio. Sappiamo cosa avvenne qualche anno fa, quando Pino Aprile lo scrisse per la prima volta nel suo libro bestseller Terroni sull’unità d’Italia. Una sollevazione della casta accademica che tentò di ridicolizzarlo perché addirittura parlò di metodi nazisti ai danni del Sud. Ma che dice, come osa. Ora non solo lo ripete. Non solo titola esplicitamente il suo nuovo libro Carnefici (Piemme, pag. 465, euro 19,50). Ma ci aggiunge tutte le prove. Aggiunge cioè quanto nessuno storico di professione si è finora degnato di cercare ma che c’era. E che getta una luce ancòra più cupa e inquietante su quel Risorgimento accompagnato da tante trombe ma da poca verità. Un lavoro improbo, come era prevedibile e come dimostrano le pagine sofferte anche per il lettore tra una mole immane di documenti. Perché non è che tu vai alla caccia di qualcosa di molto compromettente e indegno per i vincitori e lo trovi così. Fra archivi reticenti allora e più inaccessibili di Fort Knox ora. Fra manomissioni, cancellazioni, alterazioni, reticenze per camuffare quella che fu fatta passare per una liberazione del Sud quando fu invece una feroce occupazione militare. Con sprezzo di ogni rispetto dei diritti umani. E l’aggravante che avveniva non contro un nemico ma contro un popolo altrettanto formalmente italiano. Bisognava fare l’Italia, è vero. Ma per farla, secondo Aprile, l’odio e l’arbitrio andarono ben al di là di ogni raffronto tranne quello, appunto, del nazismo. Perché centinaia di migliaia di italiani del Sud furono fucilati, uccisi, incarcerati, deportati, torturati oltre che derubati. E le cifre dicono che non fu solo lotta al brigantaggio. Ma un metodo applicato sempre e ovunque. Una unità nata in un dolore che non risparmiò nessuna famiglia meridionale. Che è rimasto nella loro vita come un sottofondo che le segna ancòra oggi. E che svela un segreto terribile per un Paese che non ha voluto finora aprire la porta della sua stanza della vergogna. Dal 1765 alla sua caduta, nel Regno delle Due Sicilie la popolazione era sempre cresciuta. Negli ultimi cinquant’anni, di 50mila l’anno. In sei anni fra il 1862 e il 68, invece, i morti superarono i nati. Ma il dato più impressionante è che mancano all’appello di qualsiasi censimento e di qualsiasi conto incrociato non meno di 600mila persone (un milione secondo la rivista Civiltà cattolica): che fine hanno fatto? Una su dieci. Come se fossero scomparse le attuali città di Bari, Taranto e Brindisi. E, fatte le proporzioni, come se oggi sparissero dal Sud 2 milioni di abitanti. Non c’era ancòra in quegli anni l’emigrazione che fu l’unica alternativa alla miseria un paio di decenni dopo. Non erano morti di brigantaggio né di scontri militari conosciuti. Quei 600mila furono fatti sparire. Non può essere altro, scrive Aprile, che la somma di ciò che non si è mai saputo: arbitrarie stragi segrete, fucilazioni non registrate, finiti di stenti in carcere senza che se ne seppe più nulla, svaniti in campi di concentramento senza lasciare tracce, volatilizzati in sconosciuti luoghi di deportazione. O scomparsi per suicidi indotti dalla disperazione. Compresi quei 5mila militari all’anno dichiarati morti per misteriose cause indipendenti dal servizio, poco meno di tutti gli italiani vittime nelle guerre di indipendenza. E’ stato questo il prezzo della cosiddetta liberazione. Del «supremo bene» della nuova patria senza neanche il coraggio della verità. Desaparecidos come nelle più atroci dittature contemporanee. Ma senza una plaza nella quale le madri li potessero invocare. E senza una sanzione per i responsabili anzi onorificenze per il buon lavoro fatto. Un genocidio, insiste Aprile, se genocidio è lo sterminio di massa pianificato da uno Stato. Se genocidio è la cancellazione di una economia, di una cultura, di una gente e della sua colpa di appartenere a un gruppo nazionale diverso. Quando ci si poteva arrivare senza il «necessario dolore» se non fosse stata anche una non necessaria umiliazione di sangue e di disprezzo per i vinti. Ai quali poi si è inferta l’ulteriore condanna del silenzio. Così le tombe di chi vinse sono archi di trionfo. E per gli sconfitti neanche un ceppo di ricordo. Ma si può fare la pace soltanto facendo la pace con la storia, la vera storia, come ha scritto lo scrittore turco Hasan Cemal memore del negato sterminio degli armeni da parte del suo Paese. La pace fondata sulla giustizia che ancòra manca in Italia. Anche perché prima o poi la storia racconta. E se non è la storia, come dicevano i nostri vecchi, quando una cosa nessuno te la vuole dire, allora la terra si crepa, si apre. E parla. Un giorno, conclude Aprile, in uno o l’altro luogo del martirio, arriveranno migliaia di terroni, ognuno con una pietra o un fiore. E li lasceranno lì da soli, se gli italiani non volessero farlo insieme. E su ogni mattone, il nome di un paese distrutto, e ogni fiore per ogni giovane vita andata. Per diventare poi nomi di strade e piazze, per avere una data sul calendario. Unico modo per rifare davvero l’Italia, per riparare al «supremo sacrificio» con cui non fu fatta allora.

Il Sud è una colonia interna: 32 domande per chi non ci crede, scrive Francesco Pipitone il 15 settembre 2014 su "Vesuvio On line". Questo non è articolo, non è un testo tradizionale in cui cerco di spiegare la mia visione di uno o più fatti, un insieme di parole atte a dimostrare una tesi. Leggerete una serie di domande rivolte a chi non ci ascolta, a chi ci liquida come raccontatori di frottole, di nostalgici di un tempo che è andato e non c’è più, un tempo dove il Mezzogiorno d’Italia era indipendente ed era fautore della propria sorte. L’Unità d’Italia era un passo da compiere, o forse no, non è questa la cosa essenziale: essa è avvenuta, inutile pensare a quale sarebbe la situazione odierna senza le azioni militari nell’allora Regno delle Due Sicilie, tuttavia dopo oltre 150 anni è innegabile che un’identità nazionale non ci sia, che non ci sia un popolo italiano veramente unito. “Abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani”, è questa una delle frasi dove si scorge maggiormente il supremo errore, quello di voler manipolare alcuni milioni di persone e renderli un corpo unico, quello di aver fatto una nazione senza i propri abitanti – dovevano essere gli italiani a fare l’Italia, non il sangue. A prescindere dalle trame della storia, dal 1861 ad oggi l’operato delle classi dirigenti italiane via via susseguitesi hanno fatto scelte che hanno portato alla prosperità di una parte della penisola a scapito dell’altra e, come da titolo, ecco 32 domande (ma sarebbero potute tranquillamente essere di più) per chi non crede che il Sud sia una colonia interna:

1) Qual è l’area più ricca del Paese?

2) Dove sono più aeroporti?

3) Dove sono più treni?

4) Dove arriva l’Alta Velocità?

5) Dove sono più autostrade?

6) Dove funzionano meglio i trasporti pubblici?

7) Dove sono più scuole?

8) Dove vengono offerti più servizi ai cittadini?

9) Dove si trovano più asili nido?

10) Dove c’è meno disoccupazione?

11) Il Sud ha i due terzi delle coste italiane, perché non vengono costruite infrastrutture?

12) Emigrano di più i Meridionali o i Settentrionali?

13) Sapevi che prima dell’Unità il Sud non aveva mai conosciuto l’emigrazione come fenomeno?

14) In quale parte del Paese c’è una migliore copertura ADSL?

15) Dove hanno sede legale le maggiori imprese italiane?

16) Lo sai che il 94% di quello che spendi va al Nord?

17) Lo sai che più del 90% dei fondi della cassa per il Mezzogiorno è stato dirottato alle grandi aziende del Nord?

18) Quando si parla del Sud in giornali e TG nazionali, quali sono i temi affrontati?

19) Lo sai che prima dell’Unità Napoli era principale città italiana?

20) Lo sai che Garibaldi si pentì di aver conquistato le Due Sicilie?

21) Lo sai che secondo dati ufficiali, Milano, Roma, Torino, Bologna e Firenze sono più pericolose di Napoli? In questa classifica Napoli è 36esima, le altre città elencate sono tra le prime sette posizioni.

22) Lo sai che al Nord, secondo dati ufficiali, vengono fatti più incidenti stradali? Perché al Sud si paga molto di più per l’assicurazione?

23) Lo sai che la spazzatura della Terra dei Fuochi proviene quasi tutta dal Nord?

24) Lo sai che la Pianura Padana è la zona più inquinata d’Europa? Perché i Media non ne parlano come per la Terra dei Fuochi?

25) Lo sai che in Basilicata c’è il petrolio, viene estratto, e l’unica cosa di cui “beneficiano” i Lucani sono inquinamento e tumori?

26) Lo sai che vogliono trivellare l’Irpinia nonostante sia una zona altamente sismica, oltre a essere un punto cruciale dove scorre l’acqua che arriva nelle case di milioni di persone che abitano tre regioni?

27) Lo sai che anche in Calabria sono stati sotterrati rifiuti, e il disastro potrebbe essere maggiore rispetto alla Terra dei Fuochi?

28) Lo sai che in Basilicata si sono verificati dodici incidenti nucleari, e sono stati riscontrati livelli di radioattività simili a quelli di Fukushima?

29) Lo sai che a Gela, in Sicilia, la percentuale di neonati nati con malformazioni è almeno sei volte superiore alla media nazionale? È una zona di raffinerie come tutta la Sicilia, ma, guarda un po’, la benzina costa più che al Nord.

30) Hai mai sentito i media nazionali parlare dell’Ilva di Taranto e del gruppo Riva? Se sì, quanto approfonditamente?

31) Perché lo Stato Italiano ha posto il segreto, negli anni Novanta, sul disastro nella Terra dei Fuochi?

32) Ti bastano queste domande a farti riflettere, o sei ancora convinto che dire che il Sud è una colonia interna non abbia fondamento alcuno?

I Bersaglieri in festa a Palermo. E le centinaia di palermitani scannati nel 1866? Scrive Ignazio Coppola su "I Nuovi Vespri" il 29 maggio 2016. Certo che le autorità cittadine di Palermo non hanno molta memoria storica. Hanno invitato i Bersaglieri a festeggiare in città – non si capisce bene che cosa – proprio nell’anno in cui noi ricordiamo i 150 anni della ‘Rivolta del Sette e mezzo’, quando le truppe dei Bersaglieri, al comando del generale Raffaele Cadorna, per conto dei Savoia, repressero nel sangue una giusta rivolta contro i predoni piemontesi che stavano affamando la Sicilia. Dei bersaglieri ricordiamo anche le stragi di Genova e, soprattutto, la strage di Pontelandolfo e Casalduni. Dal 23 al 29 Maggio Palermo – oggi è l’ultimo giorno di questa ‘festa’ – con il coinvolgimento delle istituzioni locali, sindaco in testa ed autorità militari, tra sfilate, manifestazioni, esibizioni di fanfare, annulli postali, inaugurazioni di monumenti commemorativi e corse a passo di carica che hanno assordato la città, si è svolto il 64° Raduno Nazionale dei bersaglieri. Si tratta quegli stessi bersaglieri eredi e discendenti di quei militari che, nel 1866, esattamente 150 anni fa, in occasione della "Rivolta del Sette e Mezzo" (una rivolta puntualmente ignorata dalla storiografia ufficiale), uccisero centinaia di palermitani per conto di casa Savoia! Insomma, un bel modo per ricordare, a Palermo, la "Rivolta del Sette e mezzo!". Le cronache raccontano che, nel reprimere la rivolta, i bersaglieri agli ordini del generale Raffaele Cadorna – che nel nome del re galantuomo mise in stato d’assedio Palermo – attraversando a passo di carica la città e, con le baionette innestate, misero a ferro e a fuoco la capitale della Sicilia, massacrando ed uccidendo centinaia e centinaia di rivoltosi e quanti capitavano loro a tiro. Del resto, i nostri “eroi” bersaglieri non si comportarono meglio – anzi si comportarono peggio – quando, ancor prima dei fatti di Palermo del 1866, nell’Aprile del 1849, agli ordini del generale Alfonso La Marmora, fondatore qualche anno prima del corpo, furono mandati dal re “galantuomo” a reprimere la rivolta di Genova che voleva rendersi indipendente dal Regno di Sardegna. In quell’occasione il corpo speciale dei bersaglieri fece di tutto e di più. “In quei drammatici giorni la soldataglia sabauda si abbandonò alle più meschine azioni contro la popolazione civile, violentando donne ed uccidendo padri di famiglia e fratelli che si opponevano allo scempio, sparando alle finestre alla gente che vi si affacciava e correndo per le strade al grido: Denari, denari o la vita, a cui fecero seguito irruzioni e predazioni. Neppure i luoghi sacri vennero risparmiati e le argenterie razziate; i prigionieri, anche quelli che si erano arresi, vennero uccisi o stipati in celle anguste e costretti addirittura a dissetarsi della propria urina. Così scriveva l’allora re di Sardegna, Vittorio Emanuele, per ringraziarlo, al comandante dei bersaglieri La Marmora: “Mio caro generale vi ho affidato l’affare di Genova perché siete un coraggioso. Non potevate fare di meglio”. I genovesi, che “i piemontesi non potevano fare di meglio”, se lo ricordarono e non dimenticarono per lungo tempo le barbarie, i saccheggi e le ruberie commesse dai fanti piumati a danno della loro città e avendo memoria di tutto questo fu per lungo tempo consuetudine che le famiglie genovesi non inviassero i figli a prestare servizio militare nei bersaglieri. Solo qualche anno fa i genovesi hanno consentito al corpo dei bersaglieri di potere mettere piede nella loro città. Ma quello che superò tutti in barbarie ed atrocità si verificò il 4 agosto del 1861, quando il generale Enrico Cialdini, sempre in nome del re galantuomo, si rese protagonista – insieme con il corpo speciale di Bersaglieri agli ordini del Maggiore Negri – della strage di Pontelandolfo e Casalduni, di due paesi della provincia di Benevento. Saprete certo quello che fecero i nazisti per rappresaglia nell’estate del 1944 a Marzabotto e Sant’anna di Stazzena definito dal mondo civile un crimine contro l’umanità. Ebbene, i bersaglieri di Cialdini a Pontelandolfo e Casalduni, per rappresaglia, fecero anche di peggio di quello che fecero i nazisti 83 anni dopo. I nazisti, in quel lontano Agosto del 1944, uccisero e massacrano gli abitanti di Marzabotto e di Sant’Anna lasciando però in piedi le abitazioni dei due paesi. I bersaglieri, a Pontelandolfo e Casalduni, dopo avere ucciso e massacrato tutti gli abitanti – uomini, vecchi, donne e bambini – non lasciarono alcuna abitazione in piedi bruciando tutte le case dei due paesi. Le chiese furono assaltate, le case furono dapprima saccheggiate per poi essere incendiate con le persone che ancora vi dormivano. In alcuni casi, i bersaglieri attesero che i civili uscissero delle loro abitazioni in fiamme per poter sparare loro non appena fossero stati allo scoperto. Gli uomini furono fucilati mentre le donne (nonostante l’ordine di risparmiarle) furono sottoposte a sevizie o addirittura vennero violentate appunto come avevano fatto 12 anni prima a Genova i bersaglieri di Alfonso La Marmora. “Ieri mattina all’alba giustizia fu fatta contro Pontelandolfo e Casalduni. Essi bruciano ancora”. Così scriveva il maggiore Negri per rendicontare a Enrico Cialdini la conclusione dell’eccidio. E saranno poi i bersaglieri di Emilio Pallavicini a ferire sull’Aspromonte il “disubbidiente” Giuseppe Garibaldi nell’agosto del 1862 e a rendersi protagonisti, a loro volta, dell’eccidio di Fantina (un paesino della provincia di Messina) in cui furono trucidati senza pietà alcuni volontari in fuga dall’Aspromonte che avevano avuto la sventura di seguire il nizzardo. Non va dimenticata, in questo lungo corollario di orrori, la repressione della rivolta che va sotto il nome della “Rivolta dei Cutrara” effettuata a Castellammare del Golfo il 1 gennaio del 1862 dai bersaglieri del generale Quintino che, oltre a trucidare vecchi e donne, misero al muro e fucilarono una bambina di solo nove anni, Angelina Romano. E poi ancora che dire di un’altra strage dimenticata, compiuta dal corpo dei bersaglieri ad Auletta, un paese in provincia di Salerno, nel luglio del 1861, dove furono uccisi ed imprigionati centinaia e centinaia di cittadini. L’elenco delle stragi dimenticate in cui furono tristemente protagonisti i fanti piumati è molto lungo e potrebbe continuare. Per una maggiore e più puntuale informazione al riguardo vi rimando alla lettura del libro di recentissima pubblicazione di Pino Aprile che, nel descrivere e documentare gli eccidi che furono compiuti nel Sud del paese agli albori dell’Unità d’Italia e in cui i bersaglieri furono tristemente protagonisti primari, non poteva scegliere titolo migliore Carnefici – Ecco le prove. Ecco perché, alla luce di tutti questi eccidi e massacri perpetrati agli albori dell’Unità d’Italia e nel nome del re galantuomo, ai bersaglieri di oggi che ritualmente celebrano i loro i raduni, come in questi giorni a Palermo, mi sento di dare il mio sommesso consiglio: ossia quello di ritrovare la memoria dei crimini contro l’umanità commessi nel Sud e in Sicilia dai loro antesignani. Sarebbe a questo punto opportuno che, tra feste, celebrazioni, sfilate e commemorazioni trovassero pure il tempo di chiedere scusa per i tanti eccidi e crimini commessi in passato dal “glorioso” corpo dei bersaglieri. Iniziando a chiedere scusa alla città di Palermo che, come già ricordato, fu teatro, nel Settembre del 1866 della "Rivolta del sette e mezzo" dove furono commessi, al pari di altri paesi del Mezzogiorno, eccidi e massacri e dove in questi giorni di Maggio si svolge il 64° raduno dei Bersaglieri. Palermo aspetta ancora queste scuse.

Carnefici di Pino Aprile. Pino Aprile, giornalista, già vicedirettore di Oggi, e pugliese d’origine, ritorna ad un tema già affrontato in precedenza, quello del conflitto tra Nord e Sud. Con Carnefici, ritorna all’ultima pagina di Terroni in cui aveva spiegato ai lettori come centocinquant’anni non fossero stati sufficienti a risolvere il problema di un divario tra regioni del Nord e del Sud Italia. Ma se così è stato, è accaduto perché non si è voluto risolvere l’eterna questione meridionale: troppi interessi la caratterizzano da sempre. Le Due Germanie, pur divise da un muro, in vent’anni sono tornate ad essere una sola Germania. Perché in Italia questo non è accaduto? Partendo da questo grande interrogativo, Pino Aprile continua una fredda analisi della situazione. Carnefici è un’analisi di una sorta di rapporto di dipendenza che si è creato tra Nord e Sud, rendendo il meridione assolutamente succube del settentrione. Si diventa dipendenti dei propri carnefici e così è accaduto ad una parte d’Italia che non può far altro che fare la parte della vittima, mentre il Nord si diverte a prendere il ruolo di chi comanda, di chi lavora meglio e in modo più efficace. La verità non è questa, sono solo maschere che ci si abitua a portare. Questo ce lo ricorda Pino Aprile in Carnefici.

«Io so. So tutti i nomi e so tutti i fatti di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove». È il cuore di un celeberrimo atto d’accusa di Pier Paolo Pasolini pubblicato sul Corriere della Sera. Anche Pino Aprile sa. Sa tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero “meridionali”. Lo ha appreso con stupore e sgomento, e lo ha raccontato in un libro spartiacque, Terroni, che ha aperto una breccia irreparabile sulla facciata del trionfalismo nazionalistico. Se mancavano ancora prove, ora le ha trovate tutte, al termine di un’incalzante e drammatica ricerca durata cinque anni. E sono le prove di un genocidio. Perché è questo l’ordine di grandezza che emerge dall’incrocio dei risultati dei censimenti disposti dai Savoia (nel 1861 e nel 1871) e dei dati delle anagrafi borboniche: un genocidio. Centinaia di migliaia di persone scomparse è la cifra della strage di italiani del Sud compiuta per unificare l’Italia. Si scopre, così, di come venivano rasi al suolo paesi interi, saccheggiate le case, bruciati vivi i superstiti. Si apprende come avvenivano i rastrellamenti degli abitanti di interi villaggi, e li si sottoponeva a marce forzate di decine di chilometri, e a torture. Ci si imbatte in fucilazioni a tappeto di centinaia di persone. L’Italia “liberata” è stata nella realtà dei fatti un immenso Arcipelago Gulag, di cui ora si può ricostruire la mappa e l’organizzazione: deportazioni, campi di concentramento, epidemie. Sono atrocità degne della ferocia dell’Isis. Per molto meno, sono stati processati e condannati ufficiali e gerarchi nazisti. Ma in Italia, invece, agli autori di quei crimini di guerra sono andate medaglie, promozioni e, talvolta, piazze e strade dedicate in quegli stessi paesi che insanguinarono. Monumenti ai carnefici. Con pagine di rara potenza, appassionate e documentate, forte di reperti e fonti che per troppo tempo sono stati celati, Pino Aprile svela il vero volto di molti dei presunti eroi della storia Patria, ed evidenzia le ripercussioni di questa tragedia negata e cancellata. È questa la sua opera fondamentale, la più sconvolgente e ambiziosa. Quella dopo la quale davvero non si potrà più dire: io non sapevo. "Io so. So tutti i nomi e so tutti i fatti di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove". È il cuore di un celeberrimo atto d'accusa di Pier Paolo Pasolini pubblicato sul "Corriere della Sera". Anche Pino Aprile sa. Sa tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero "meridionali". Lo ha appreso con stupore e sgomento, e lo ha raccontato in un libro spartiacque, "Terroni", che ha aperto una breccia irreparabile sulla facciata del trionfalismo nazionalistico. Se mancavano ancora prove, ora le ha trovate tutte, al termine di un'incalzante e drammatica ricerca durata cinque anni. E sono le prove di un genocidio. Perché è questo l'ordine di grandezza che emerge dall'incrocio dei risultati dei censimenti disposti dai Savoia (nel 1861 e nel 1871) e dei dati delle anagrafi borboniche: un genocidio. Centinaia di migliaia di persone scomparse è la cifra della strage di italiani del Sud compiuta per unificare l'Italia. Si scopre, così, di come venivano rasi al suolo paesi interi, saccheggiate le case, bruciati vivi i superstiti. Si apprende come avvenivano i rastrellamenti degli abitanti di interi villaggi, e li si sottoponeva a marce forzate di decine di chilometri, e a torture. Ci si imbatte in fucilazioni a tappeto di centinaia di persone. L'Italia "liberata" è stata nella realtà dei fatti un immenso Arcipelago Gulag, di cui ora si può ricostruire la mappa e l'organizzazione: deportazioni, campi di concentramento, epidemie.

“Carnefici”: l’indicibile genocidio dei meridionali. Il nuovo libro di Pino Aprile, scrive Raffaele Vescera il 7 maggio 2016.  Se le parole sono pietre, il termine genocidio è un macigno. Pesante da scagliare per chi lo lancia, difficile da digerire per chi lo riceve. Ancora più greve se la parola genocidio, come fa Pino Aprile nel suo nuovo libro “Carnefici”, viene usata per definire l’annessione violenta del Regno delle Due Sicilie al Piemonte. Annessione, tale è stata, non unità, visto che gli stessi re sabaudi, conquistando il Sud con inenarrabili atrocità, si vantavano di aver allargato il Regno del Piemonte, piuttosto che aver fatto l’Italia. Allora, se di macigno si tratta, proviamo a dargli una misura, un peso: che cos’è un genocidio, e quando è consentito l’uso di questa parola? Perché lo sterminio degli Ebrei è stato immediatamente definito come un genocidio nella stessa Germania che l’ha compiuto, mentre quello degli Armeni, a distanza di un secolo, è ancora negato dallo Stato turco, che processa chi ne parla? La storia, com’è noto, la scrivono i vincitori, se in Europa avesse vinto la follia di Hitler, lo sterminio di sei milioni di esseri umani, sarebbe stato sminuito, negato e rimosso dalla storiografia ufficiale, e i partigiani sarebbero ancora oggi chiamati “banditen”, come i resistenti all’occupazione del Sud, prima ai francesi e poi ai piemontesi, sono chiamati briganti, lazzari, sanfedisti, straccioni. Hitler ha perso, e per gli ebrei c’è giustizia storica. Gli Armeni hanno perso, e per il milione di Armeni sterminati in Turchia, non c’è verità. Pino Aprile c’informa che la definizione di “genocidio” si deve all’avvocato polacco Raphael Lemkin, la cui famiglia fu coinvolta nell’Olocausto, dai nazisti: si intende per genocidio un «piano coordinato di azioni differenti che hanno come obiettivo la distruzione dei fondamenti essenziali della vita dei gruppi nazionali attraverso la distruzione delle istituzioni politiche e sociali, dell’economia, della cultura, della lingua, dei sentimenti nazionali o della religione, della libertà, della dignità, della salute e perfino della vita degli individui non per motivazioni individuali ma in quanto membri di un gruppo nazionale». Il Mezzogiorno d’Italia in seguito all’occupazione violenta dell’esercito piemontese, subì tutto questo? Lo stesso Antonio Gramsci, un secolo fa, scrisse: “Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d’infamare col marchio di briganti.” Tuttavia, nonostante le significative dichiarazioni di alcuni tra i maggiori uomini di cultura, di ieri e di oggi, quali Paolo Mieli e altri, la storiografia ufficiale, gestita dai baroni universitari di scuola liberal-massonica, negano, seppure al loro interno molte crepe si siano aperte. La loro critica al cosiddetto revisionismo del Risorgimento, nel migliore dei casi, è quella dell’insufficienza di prove documentali sull’enorme numero dei morti di parte meridionale, da noi quantificato in centinaia di migliaia, nei peggiori dei casi parlano di “pura invenzione”, poiché, pur ammettendo un piccolo numero di morti in campo meridionale, le atrocità sarebbero state commesse da parte dei briganti, piuttosto che da quella piemontese. Come mettere sullo stesso piano chi difende la propria terra e un invasore straniero? Analizziamo le condizioni del genocidio definite da Lemkim. Il libero Stato delle Due Sicilie fu privato delle sue istituzioni politiche e sociali, sostituite non da nuove ma da quelle già in uso in Piemonte, lo stesso accadde per la sua economia, fu distrutto il tessuto industriale e mercantile del Mezzogiorno per favorire la crescita di quella del Nord. Altresì distrutta la cultura e la dignità dei Meridionali, che pur appartenendo ad un popolo faro di civiltà da tre millenni, si videro bollati dai conquistatori come selvaggi e incivili, letteralmente “peggio degli affricani”, con due effe, come gentilmente ci descrivevano gli arroganti e vieppiù incolti ufficiali piemontesi nei loro grossolani rapporti, e come tuttora siamo classificati con epiteti insultanti. Stesso disprezzo ha subito la nostra lingua e il nostro sentimento di appartenenza ad uno Stato, quello del Regno di Napoli, in auge da sette secoli, dagli svevi di Federico II alla dinastia dei Borbone, riconosciuto nel mondo come civilissimo, tenendo conto dei canoni del tempo, si capisce. Tutto questo è stato ampiamente indagato e dimostrato mediante vasta documentazione da storici ed economisti, lo stesso Pino Aprile ce ne dà conto nel suo best seller Terroni, un saggio che, nelle sue sconvolgenti rivelazioni sulle atrocità compiute dall’esercito piemontese in dieci anni di guerra di conquista del Sud, mascherata da guerra al brigantaggio, ha cambiato la stessa percezione identitaria dei Meridionali, favorendo un processo di autostima. Ma tutto ciò viene giustificato dai risorgimentalisti come il prezzo da pagare al “progresso” al nuovo mondo che avanzava. Chissà se la raccontano allo stesso modo agli indiani d’America sopravvissuti allo sterminio operato dai nostri “civilissimi” bianchi. Manca però l’ultimo passo, quello decisivo per giustificare l’uso della definizione genocidio, ovvero quello della privazione della salute e della vita degli individui, non in quanto colpevoli di qualcosa, ma perché appartenenti ad un gruppo nazionale. Al di là dei singoli episodi di atrocità compiuti contro i cosiddetti briganti e contro l’inerme popolazione, va dunque dimostrato che da parte sabauda vi fu un piano preordinato di sterminio. Il nuovo saggio di Pino Aprile “Carnefici” colma la lacuna con una poderosa mole documentale, rintracciata attraverso minuziose ricerche archivistiche, sui singoli episodi di sterminio ma soprattutto sugli scompensi demografici, risultanti dalla comparazione dei censimenti di prima e dopo l’unità d’Italia. Su una popolazione di poco più di sette milioni di persone, a distanza di pochi anni mancava all’appello quasi mezzo milione di abitanti, in tempi in cui nessuno emigrava dal Sud, cui va aggiunta la mancata crescita demografica, in una terra la cui popolazione cresceva regolarmente da sempre. Con i “nati mancati” Il numero dei “desaparecidos” sale a circa il dieci per cento della popolazione meridionale. E’ come se di colpo oggi sparissero dal Sud due milioni di abitanti. La seconda volta che vi fu decrescita della popolazione al Sud accadde a causa della prima guerra mondiale, combattuta più di tutto dai meridionali usati come carne da macello, combinata con l’epidemia spagnola. La terza volta è oggi, in virtù dell’avanzato stato di impoverimento e disoccupazione del Mezzogiorno. Certo, se si sommano i morti delle fucilazioni immediate “sul campo” ai paesi distrutti per rappresaglia con lo sterminio dei loro abitanti, anche donne, bambini e anziani, alla carcerazione di un numero enorme di uomini, detenuti senza accusa e senza processo e lasciati morire di stenti e malattie nelle patrie galere, come lo stesso Crispi dovette ammettere, e alle deportazioni dei militari dell’esercito borbonico, per i quali, riempiti i lager subalpini come Fenestrelle, si cercava “una landa desolata in Patagonia”, i conti dello sterminio tornano. Non ci fu famiglia meridionale che non fu coinvolta dal massacro, anche quella mia, e quella vostra. Senza contare i milioni di uomini successivamente emigrati nelle Americhe per sfuggire alla miseria e alle vessazioni provocate dal nuovo Stato italiano. Il nuovo lavoro di Pino Aprile, di 468 pagine, edito da Piemme, è dunque un libro “necessario” affinché nessuno possa più negare o possa dire “io non sapevo”. Fu genocidio, ora ci sono le prove, e tanto basti affinché il popolo meridionale presenti il conto dei misfatti allo Stato italiano. I morti non si possono certo restituire alla vita, ma la loro dignità sì. C’è un solo modo per farlo: lo stato italiano riconosca il genocidio e chieda scusa ai Meridionali, come lo stato americano ha fatto con i suoi abitanti originari. Senza verità non ci può essere Unità, un paese civile non si può fondare sulla menzogna. Si cambino i testi scolastici e si formino i giovani sul rispetto della Storia e dei loro padri.

Giuseppe Garibaldi, mercenario dei due mondi. Scritto da Alessandro Lattanzio, il 24/6/2011 su “Aurora”. Per mettere un pietra tombale sul mito di Garibaldi. I festeggiamenti per il 200° anniversario della nascita di Giuseppe Garibaldi, e per il 150° anniversario dallo sbarco a Marsala e dalla proclamazione della cosiddetta Unità d’Italia, pur con tutto lo stantio corteo di corifei e apologeti, non hanno suscitato dibattiti né analisi sul processo di unificazione dell’Italia. Questi eventi non sono diventati occasione per affrontare i nodi della storia italiana, o meglio italiane. Niente di niente. Neanche gli atenei o le accademie, né ricercatori e né docenti, hanno avuto il coraggio di affrontare, in modo serio e complessivo, la natura del processo storico italiano che va dall’Unità ad oggi. Anzi, il General Intellect italiano, a ennesima dimostrazione della sua subalternità e del suo provincialismo, ha solo prodotto qualche raccolta di ‘memorie’ dei garibaldini, veri o presunti poco importa, spacciandola come lavoro storico e di analisi storica. Nulla di più falso, poiché ogni vero storico sa che la memorialistica è altamente inaffidabile; e l’Italia è la patria delle ‘memorie’ scritte per secondi fini politico-personalistici. Inoltre, voler costruire la storia patria raccogliendo le memorie di una parte sola, che ha una memoria… appunto parziale, ha più il sapore dell’opera di indottrinamento e della retorica, piuttosto che della onesta e disinteressata ricerca storica. Capisco che in questi anni di disfacimento nazionale, di contestazione dell’Italia quale nazione unica, e dell’italianità quale sentimento patriottico, alcuni settori ideologicamente e strumentalmente legati al cosiddetto risorgimento sentano il bisogno di ravvivare un patriottismo nazionale che almeno salvaguardi la concezione, attualmente propagandata nelle scuole e nei media, che si ha della storia italiana. Soprattutto proprio quella riguardante il periodo della costituzione della sua statualità unitaria. Ma il fatto è che, con il riproporsi di schemi patriottardi e di affabulazioni devianti, non si renda proprio un buon servizio neanche alla storia dell’Italia. La figura di Giuseppe Garibaldi, in tal caso, è centrale; non in quanto super-uomo o eroe di uno o più mondi. Ma in quanto strumento di forze superiori, ma non sto parlando della Storia con la S maiuscola, ma più prosaicamente di mercati, risorse, capitali, commerci, banche e finanza, ecc. Insomma, delle regole e dinamiche dettate dai rapporti di forza tra potenze coloniali, tra i nascenti imperialismi, l’equilibrio tra potenze regionali e mondiali. E in questo contesto deve essere inserita, appunto, la figura di Garibaldi. Lasciamo agli affabulatori e agli annebbianti i raccontini sull'eroe dei due mondi e sul Cincinnato di Caprera. Partiamo, quindi, dall’analizzare il ruolo e la posizione dell’obiettivo principe della più notoria spedizione dell’avventuriero nizzardo: la Sicilia. La Sicilia, granaio e giardino del Regno di Napoli (o delle Due Sicilie), oltre ad avere una economia agricola abbastanza sviluppata, almeno nella sua parte orientale, ovvero una agrumicoltura sostenuta e avanzata, necessaria ad affrontare il mercato internazionale, sbocco principale di tale tipo di coltura; possedeva una forte marineria, assieme a quella di Napoli, tanto da essere stata una nave siciliana la prima ad inaugurare una linea diretta con New York e gli Stati Uniti d’America. Marineria avanzata per sostenere una avanzata produzione agrumicola destinata al commercio estero, come si è appena detto. Capitalismo, altro che gramsciana arretratezza feudale. Ma il fiore all’occhiello dell’economia siciliana era rappresentata da una risorsa strategica, all’epoca, ovvero lo zolfo. Lo zolfo e i prodotti solfiferi, erano estremamente necessari per il nascente processo di industrializzazione. Lo zolfo veniva utilizzato per la produzione di sostanze chimiche, come conservanti, esplosivi, fertilizzanti, insetticidi; oltre che per produrre beni di uso quotidiano, come i fiammiferi. Era insomma il lubrificante del motore dell’imperialismo, soprattutto di quello inglese. Con la rivoluzione nella tecnologia navale, ovvero la nascita della corazzata, e la diffusione delle ferrovie in Europa, e non solo, ne fanno montare la domanda e, quindi, la necessità di sempre maggiori quantità di acciaio, ferro e ghisa. Perciò, i processi produttivi connessi richiedono sempre più ampie quantità di zolfo; cosi come la richiedono l’economia moderna tutta, industriale e commerciale. Tipo quella dell’Impero Britannico. La Sicilia, alla luce dei mutamenti epocali che si vivevano alla metà dell’800, diventa un importante obiettivo strategico, un asset geo-politicamente e geo-economicamente cruciale. Difatti l’Isola possedeva 400 miniere di zolfo che, all’epoca, coprivano circa il 90% della produzione mondiale di zolfo e prodotti affini. Come poteva, l’Isola, essere ignorata dai centri strategici dell’Impero di Sua Maestà? Come potevano l’Ammiragliato e la City trascurare la posizione della Sicilia, al centro geografico del Mediterraneo, proprio mentre si stava lavorando per realizzare il Canale di Suez? La nuova via sarebbe divenuta l’arteria principale dei traffici commerciali e marittimi dell’Impero Britannico. Come potevano ignorare tutto ciò i Premier e i Lord, gli imperialisti conservatori e gli imperialisti liberali, i massoni e i missionari d’Albione? Come? E come potevano dimenticare che, all’epoca, il Regno di Napoli e le marinerie di Sicilia e della Campania, marinerie mediterranee, fossero dei temibili concorrenti per la flotta commerciale inglese? Come potevano? Il General Intellect dell’imperialismo inglese, il maggiore dell’epoca, non poteva certo ignorare e trascurare simili fattori strategici. Loro no. Semmai a ignorarlo è stato tutto il circo italidiota dei cantori del Peppino longochiomato e barbuto. Tutti i raccoglitori di cimeli garibaldineschi, più o meno genuini, non hanno mai avuto il cervello (il cervello appunto!) di capire e studiare questi trascurabili elementi. La Sicilia è terra di schiavi e di africani, barbara e senza storia, non vale certo un libro che ne spieghi anche solo il valore materiale. Così vuole la vulgata dei nostrani storici accademici; o di certe ‘storiche’ contemporanee venete che, invece delle vicende dell’assolata terra triangolata, preferiscono dedicarsi alle memorie della masnada di mercenari vestiti delle rosse divise destinate, non a caso, agli operai del mattatoio di Montevideo. Tralasciando la biografia e gli interessi dei fratelli Rubattino, che attuarono quella vera e propria False Flag Operation detta Spedizione dei Mille, giova ricordare che Garibaldi, dopo la riuscita missione (covert operation), venne accolto presso la Loggia Alma Mater di Londra. Vi fu una festa pubblica, di massa, che lo accolse a Londra e lo accompagnò fino alla sede centrale della massoneria anglo-scozzese. La più grande pagliacciata a cui abbia mai assistito scrisse un testimone diretto dell’evento. Un tal Karl Marx. Giuseppe Garibaldi venne scelto da Londra, poiché si era già reso utile alla causa dell’impero britannico. In America Latina, quando gli inglesi, tramite l’Uruguay, favorirono la secessione della provincia brasiliana di Rio Grande do Sul dall’impero brasiliano, alimentandola guerra civile in Brasile, Garibaldi venne assoldato per svolgere il ruolo di raider, ovvero incursore nelle retrovie dell’esercito brasiliano. Il suo compito fu di sconvolgere l’economia dei territori nemici devastando i villaggi, bruciando i raccolti e razziando il bestiame. Morti e mutilati tra donne e bambini abbondarono, sotto i colpi dei fucili e dei machete dei suoi uomini. Durante quelle azioni, Garibaldi ebbe la guida delle forze navali riogradensi. “Il 14 luglio 1838, al comando della sua nave, la Farroupilha, affrontò la navigazione sull’Oceano Atlantico, ma a causa del mare in tempesta e dell’eccessivo carico a bordo, la Farroupilha si rovesciò. Annegarono sedici dei trenta componenti dell’equipaggio, tra cui gli amici Mutru e Carniglia; il nizzardo fu l’unico italiano superstite.” Dimostrando, così, il suo vero valore sia come comandante militare, che come comandante di nave. Per la sua inettitudine e crudeltà, tanti di coloro che lo circondavano morirono per causa sua. Il compito svolto da Garibaldi rientrava nella politica di intervento coloniale inglese nel continente Latinoamericano; la nascita della repubblica-fantoccio del Rio Grande do Sul, rientrava nel processo di controllo e consolidamento del flusso commerciale e finanziario di Londra verso e da il bacino del Rio de la Plata; la regione economicamente più interessante per la City. Escludere l’impero brasiliano dalla regione era una carta strategica da giocare, perciò Londra, tramite anche Garibaldi, al soldo dell’Uruguay, provocò la guerra civile brasiliana. La borghesia compradora di Montevideo era legata da mille vincoli con l’impero inglese. Ivi Garibaldi svolse sufficientemente bene il suo compito. Divenne un bravo comandante militare, sia grazie ai consigli di un carbonaro suo sodale, tale Anzaldo, e sia perché si trovò di fronte i battaglioni brasiliani costituiti, per lo più, da schiavi neri armati di picche. Facile averne ragione, se si disponeva della potenza di fuoco necessaria, che fu graziosamente concessa dalla regina Vittoria. Ma alla fine la guerra fu persa, e nel 1842 Garibaldi si rifugiò in Uruguay, dove ottenne il comando della insignificante flotta locale. “Il diplomatico inglese William Gore Ouseley lo assolda assieme ad altri marinai per fare razzie e impedire i traffici marini degli stati latinoamericani. Erano tutti vestiti con camicie rosse.”  Tentò di pubblicare il Legionario Italiano, ma la sua distribuzione venne vietata in Uruguay: si era attirato l’odio della popolazione locale; per i continui massacri di inermi cittadini veniva visto come il demonio. E’ grazie agli articoli di quel giornale, da lui stesso pubblicato, che nacque la leggenda dell’Eroe dei due mondi. Tra l’altro, l'anticlericale Garibaldi, nel 1847 scrisse al cardinal Gaetano Bedini, nunzio in Brasile, per “offrire a Sua Santità (Pio IX) la sua spada e la legione italiana per la patria e per la Chiesa cattolica” ricordando “i precetti della nostra augusta religione, sempre nuovi e sempre immortali” pur sapendo che “il trono di Pietro riposa sopra tali fondamenti che non abbisognano di aiuto, perché le forze umane non possono scuoterli”. La sua proposta di mettersi al soldo del cupolone venne respinta. Qualche anno dopo, l’eroe dei due mondi venne richiamato a Londra, distogliendolo dal suo ameno lavoro: il trasporto di coolies cinesi, ovvero operai non salariati, da Hong Kong alla California. La carne cinese era richiesta dal capitale statunitense per costruire, a buon prezzo, le ferrovie della West Coast. Garibaldi si prodigava nel fornire l’‘emancipazione’ semischiavista agli infelici cinesi, in cambio di congrua remunerazione dai suoi presunti ammiratori yankees. Coloro che richiesero l’intervento di Garibaldi, in Sicilia, effettivamente furono due siciliani, Francesco Crispi e Giuseppe La Farina. Crispi venne inviato a Londra, presso i suoi fratelli di loggia, per dare l’allarme al gran capitale inglese: Napoli stava trattando con una azienda francese per avviare un programma per meccanizzare, almeno in parte, le miniere e la produzione dello zolfo. Il progettato processo di modernizzazione della produzione mineraria siciliana, avrebbe alleviato il popolo siciliano dalla piaga del lavoro minorile semischiavistico delle miniere di zolfo. Ma i baroni proprietari delle miniere, stante l’alto margine di profitto ricavato dal lavoro non retribuito, e timorosi che l’interventismo economico della ‘arretrata amministrazione borbonica’, potesse sottrarre loro il controllo dell’oro rosso, decisero di chiedere l’intervento britannico, allarmando Londra sul destino delle miniere di zolfo. Non fosse mai che lo stolto Luigi Napoleone potesse controllare il 90% di una materia prima necessaria alle macchine e alle fornaci del capitale imperiale inglese. Tutto ciò portò alla chiamata alle armi del loro eroe dei due mondi. E i ‘carusi’ delle miniere solfifere devono ringraziare Garibaldi, e i suoi amici anglo-piemontesi, se la loro condizione semischiavista si è protratta fino agli anni ’50 del secolo scorso. Le due navi della Rubattino, della Spedizione dei Mille, arrivarono a Marsala l’11 maggio 1860. Ad attenderli non vi erano unità della marina napoletana o una compagnia del corpo d’armata borbonico, forte di 10000 uomini, stanziata in Sicilia e comandata dal Generale Landi. In compenso era presente una squadra della Royal Navy, la Argus e l‘Intrepid, posta nella rada di Marsala, a vigilare affinché tutto andasse come previsto. I 1089 garibaldini, di cui almeno 19 inglesi. In realtà, erano solo l’avanguardia del vero corpo d’invasione; tra giugno e agosto, infatti, sbarcò in Sicilia un’armata anglo-piemontese di 21000 soldati, per lo più mercenari anglo-franco-piemontesi, che attuarono, già allora, la tattica di eliminare qualsiasi segno di riconoscimento delle proprie forze armate. Il corpo era costituito, in maggioranza, da carabinieri e soldati piemontesi, momentaneamente posti in congedo o disertori riarruolati come volontari nella missione d’invasione, e anche da qualche migliaio di ex zuavi francesi, che avevano appena esportato la civiltà nei villaggi dell’Algeria e sui monti della Kabilya. Anche nei pressi di Pachino, sbarcò un piccolo corpo di spedizione garibaldino, costituito da 150 uomini, che trasportavano in Sicilia i quattro cannoni acquistati a Malta dagli sponsor inglesi dell’invasione. Inoltre, erano presenti dei veri e propri volontari/mercenari, finanziati per lo più dall’aristocrazia e dalla massoneria inglesi; si trattava di un misterioso reggimento di uomini in divisa nera, comandati da tal John Dunn. Infine, i 21000 invasori furono protetti da ben quaranta tra vascelli e fregate della Mediterranean Fleet della Royal Navy. Il primo scontro a fuoco, tra garibaldini e l’8.vo battaglione cacciatori napoletani, del 15 maggio, si risolse ufficialmente nella sconfitta di quest’ultima. Fatto sta che nella breve battaglia di Calatafimi, a fronte delle perdite dell’esercito napoletano, che ebbe una mezza dozzina di feriti, i garibaldini vennero letteralmente sbaragliati, subendo circa 30 morti e 100 feriti. In realtà, nella mitizzata battaglia di Calatafimi, i soldati napoletani che cozzarono con l’avventuriero Garibaldi dovettero sì abbandonare il campo, ma perché il comandante di Palermo, generale Landi, aveva loro negato l’invio di rifornimenti e di munizioni, costringendo la guarnigione borbonica non solo a smorzare l’impeto con cui affrontarono i garibaldini, ma anche ad abbandonare il terreno, quindi, lasciando libero Garibaldi nel proseguire l’avanzata su Palermo. L’armata di Landi, di circa 16000 uomini, era accampato nei pressi di Calatafimi, ma il generale napoletano preferì ritirarsi e rinchiudersi a Palermo. A Palermo, il 28 maggio 1860, dopo due gironi di scontri presso Porta Termini, nell’allora periferia della capitale siciliana, contro un centinaio di soldati napoletani, i garibaldini entrarono in città. Il comandante della guarnigione borbonica, Generale Lanza, sebbene avesse il comando di ben 24000 uomini e fosse sostenuto dall’artiglieria della pirofregata Ercole, li fece invece asserragliare nel palazzo del governatore, e quando parte delle truppe napoletane respinsero i garibaldini, arrivando a cento metri dal posto di comando di Garibaldi, ricevettero l’ordine di ritirata dal Lanza stesso, che l’8 giugno decise di consegnare la città agli anglo-garibaldini. Contribuì alla decisione, probabilmente, la consegna da parte inglese di un forziere carico di piastre d’oro turche. La moneta franca del Mediterraneo. Il 31 maggio, a Catania, sebbene i garibaldini occupassero la città, nell’arco di ventiquattrore vennero sloggiati dalle truppe napoletane comandate da Ruiz-Ballestreros. Ma anche costui ricevette l’ordine di ritirata dal comandante della piazza di Messina, generale Clary, che a sua volta, col pieno appoggio del corrotto e fellone ministro della guerra di Napoli, Pianell, abbandonò Messina il 24 luglio. Rimase a resistere la cittadella, che cadde quando cedette anche Gaeta. L’avanzata dei garibaldini, rincalzati dal corpo d’invasione che li seguiva, incontrò un ostacolo quasi insormontabile presso Milazzo. Qui, il 20 luglio, la guarnigione napoletana impose un pesante pedaggio ai volontari di Garibaldi. Infatti la battaglia di Milazzo ebbe un risultato, per Garibaldi, peggiore di quella di Calatafimi. A fronte dei 120 morti tra i napoletani guidati dal Colonnello Beneventano del Bosco, le ‘camicie rosse’ al comando del primo luogotenente di Garibaldi, Medici, subirono ben 800 caduti in azione. La guarnigione napoletana si ritirò, in buon ordine e con l’onore delle armi da parte garibaldina! Ma solo quando, all’orizzonte sul mare, si profilò una squadra navale anglo-statunitense, con a bordo una parte del vero e proprio corpo d’invasione mercenario, e dopo che la pirocorvetta ex-napoletana Veloce, ribattezzata Tukory, al comando del disertore Amilcare Anguissola, bombardasse parte delle truppe napoletane schierate sulla spiaggia. Inoltre, le navi napoletane, lasciarono che il corpo anglo-piemontese sbarcasse alle spalle della guarnigione nemica di Milazzo. Va sottolineato che i vertici della marina borbonica, come quelli dell’esercito napoletano, erano stati corrotti con abbondanti quantità di oro turco e di prebende promesse nel futuro regno unito sabaudo. Così si spiega il comportamento della marina napoletana, che alla vigilia dello sbarco di Garibaldi, sequestrò una nave statunitense carica di non meglio identificati soldati (i notori mercenari), ma che subito dopo la rilasciò. Così come, nello stretto di Messina, la squadra napoletana (pirofregata Ettore Fieramosca, pirocorvette L’Aquila e Fulminante) evitò di ostacolare, ai garibaldini, il passaggio del braccio di mare, permettendo a Garibaldi e a Bixio, a bordo dei piroscafi Torino e Franklin (battente bandiera statunitense), di sbarcare il 18 agosto, a Mileto Porto Salvo, in Calabria. La guarnigione di Reggio si arrese senza sparare un colpo, mentre il generale napoletano Briganti venne fucilato a Mileto dalla sua truppa, per fellonìa. Dal reggino in poi, fu una corsa fino all’entrata ‘trionfale’ a Napoli, dove Garibaldi fece subito assaggiare il nuovo ordine savoiardo: i suoi ufficiali fecero sparare sugli operai di Pietrarsa, poiché si opponevano allo smantellamento delle officine metalmeccaniche e siderurgiche fatte costruire dall'arretrata amministrazione borbonica. Certo, il regno delle Due Sicilie era fu reame particolarmente limitato, almeno sul piano della politica civica, ma nulla di eccezionale riguardo al resto dei regni italiani. Di certo fu che la monarchia borbonica, dopo il disastro della repressione antiborghese della rivoluzione partenopea del 1799, avviò una politica che permise il prosperare, nell’ambito della proprio apparato amministrativo e di governo, degli elementi ottusi, malfidati e corrotti. Condizione necessaria per poter perdere, in modo catastrofico, la più piccola delle guerre. In seguito ci fu la battaglia del Volturno, già perduta dai borbonici, poiché presi tra due fuochi: i mercenari di Garibaldi a sud e l’esercito piemontese a nord. E quindi l’assedio di Gaeta e Ancona, e poi la guerra civile nota come Guerra al Brigantaggio. Una guerra che costò, forse, 300000 vittime. Prezzo da mettere in relazione con i 4000 morti, in totale, delle tre Guerre d’Indipendenza italiane. Solo tale cifra descrive la natura reale del processo di unificazione italiana. La Sicilia, in seguito, venne annessa con un plebiscito farsa; poi nel 1866 scoppiò, a Palermo, la cosiddetta Rivolta del Sette e mezzo, che fu domata tramite il bombardamento dal mare della capitale siciliana. Bombardamento effettuato dalla Regia Marina che così, uccidendo qualche migliaio di palermitani in rivolta o innocenti si riscattò dalla sconfitta di Lissa, subita qualche settimana prima e da cui stava ritornando. Poco dopo esplose, a Messina, una catastrofica epidemia di colera, la cui dinamica stranamente assomigliava alla guerra batteriologica condotta dagli yankees contro gli indiani nativi d’America. Migliaia e migliaia di morti in Sicilia. Tralasciamo di spiegare il saccheggio delle banche siciliane, che assieme a quelle di Napoli, rimpinguarono le tasche di Bomprini e di altri speculatori tosco-padani, ammanicati con le camarille di Rattazzi e Sella; la distruzione delle marineria siciliana; lo stato di abbandono della Sicilia per almeno i successivi 40 anni; la feroce repressione dei Fasci dei Lavoratori siciliani; l’emigrazione epocale che ne scaturì. Infine un novecento siciliano tutto da riscrivere, dall’ammutinamento dei battaglioni siciliani a Caporetto alle vicende del bandito Giuliano, uomo forse legato al battaglione Vega della X.ma MAS, e che fu al servizio degli USA e del sionismo; per arrivare alla vicenda del cosiddetto Milazzismo e a una certa professionalizzazione dell'antimafia (che va a braccetto con quella di certo antifascismo) dei giorni nostri. Garibaldi, una volta sistematosi a Caprera, aveva capito che la Sicilia e il Mezzogiorno d’Italia, non gli avrebbero perdonato ciò che gli aveva fatto. Rendiamoci conto di una cosa; Garibaldi non agiva in quanto massone, ma in quanto agente dell’impero inglese. Tra l’altro come afferma Lucy Riall, Garibaldi era una aderente alla setta cristologica di Saint Simon. Ora, come spiega benissimo lo Storico dell’Economia Paul Bairoch, la setta cristologica (nemica del papato) guidata dal guru Saint Simon, aveva come scopo occulto il favoreggiamento dell’imperialismo londinese. Nel saggio di Bairoch, Economia e Storia Mondiale Garzanti, a pag. 38 si può leggere: “Quel che i protezionisti francesi (…) chiamarono Coup d’état fu rivelato da una lettera di Napoleone III al suo ministro di stato. Ciò rese pubblici i negoziati segreti, che erano cominciati nel 1846, con l’incontro a Parigi tra Richard Cobden (apostolo inglese del libero scambio, legato all’industria inglese) e Michel Chevalier, seguace di Saint Simon e professore di economia politica. Il trattato commerciale tra Inghilterra e Francia venne firmato nel 1860 (notare la data), e doveva durare 10 anni. Fu trovato il modo di eludere la discussione al parlamento (francese), che probabilmente sarebbe stata fatale per il progetto di legge. Perciò un gruppo di teorici riuscì a introdurre il libero scambio in Francia e, di conseguenza, nel resto del continente, contro la volontà della maggior parte di coloro che guidavano i diversi settori dell’economia. La minoranza a favore del liberoscambismo, che era energicamente sostenuta da Napoleone III (un vero utile idiota, NdR), il quale era stato convertito a questa dottrina durante le sue lunghe permanenze in Inghilterra e che vedeva le implicazioni politiche del trattato. Il trattato anglo-francese, che fu rapidamente seguito da nuovi trattati tra la Francia e molti altri paesi, condusse a un disarmo tariffario dell’Europa continentale… Tra il 1861 e il 1866, praticamente tutti i paesi europei entrarono in quella che fu definita ‘la rete dei trattati di Cobden’.” Garibaldi, seguace della setta di SaintSimon, a sua volta legata ai circoli dominanti inglesi, effettuò l’azione contro il Regno delle Due Sicilie, con il preciso scopo sia di possedere un’Isola (la Sicilia) strategica sia sul piano geo-economico che geo-strategico, ma anche di eliminare un concorrente, Napoli, che aveva le carte in regola per non cadere nella rete di Cobden. Il resto, sulle gesta di Garibaldi, dell’assassino schiavista Nino Bixio, ecc., è solo fuffa patriottarda italidiota.

Ernesto "Che" Guevara: la verità rossa e la verità vera, scrive “Cumasch”. La storia dovrebbe essere oggettiva, ma in realtà alcuni aspetti vengono da sempre distorti e adattati alle convinzioni ideologiche di chi li tratta. In un paese che si definisce antifascista (ma non evidentemente anticomunista...) certi aspetti "scomodi" del Comunismo sono da sempre ignorati. La Storia ne è piena: i massacri delle Foibe, i massacri dei 20.000 soldati italiani nei Gulag Sovietici su ordine di Togliatti, ecc...La storia di Ernesto Guevara rappresenta forse il più grande falso storico mai verificatosi. Tutti conoscono la storia "ufficiale" del Che. Chi non ha mai sentito parlare del "poeta rivoluzionario?" Del "medico idealista"? Ma chi conosce le reali gesta di questo "eroe"? Da tempo immemore il volto leonino di Ernesto “Che” Guevara compare su magliette e gadgets, in ossequio all’anticonsumismo rivoluzionario. La fortuna di quest’eroe della revoluçion comunista è dovuto a due coincidenze: 1) – “Gli eroi son sempre giovani e belli” (La locomotiva – F. Guccini); come ironizzò un dirigente del PCI nel ’69, se fosse morto a sessant’anni e fosse stato bruttarello di certo non avrebbe conquistato le benestanti masse occidentali di quei figli di papà “marxisti immaginari”. 2) – l’ignoranza degli estimatori di ieri e di oggi. Il “Che”, infatti, viene associato a tutto quanto fa spettacolo nel grande circo della sinistra: dal pacifismo antiamericano alle canzoni troglodite di Jovanotti «sogno un’unica chiesa che va da Che Guevara a Madre Teresa». Meglio allora fare un po’ di chiarezza sulla realtà del personaggio: Ernesto Guevara De la Serna detto il “Che” nasce nel 1928 da una buona famiglia di Buenos Aires. Agli inizi degli anni 50 si laurea in medicina e intanto con la sua motocicletta gira in lungo e in largo l’America Latina. In Guatemala viene in contatto con il dittatore Jacobo Arbenz, un approfittatore filosovietico che mantiene la popolazione in condizioni di fame e miseria, ma che gira in Cadillac e abita in palazzotti coloniali. A causa dei forti interessi economici degli Usa in Guatemala, viene inviato un contingente mercenario comandato da Castillo Armas a rovesciare il dittatore. Il “Che”, anziché sacrificarsi a difesa del “compagno”, scappa e si rifugia nell’ambasciata argentina; di qui ripara in Messico dove, in una notte del 1955, incontra un giovane avvocato cubano in esilio che si prepara a rientrare a Cuba: Fidel Castro. Subito entrano in sintonia condividendo gli ideali, il culto dei “guerriglieri” e la volontà di espropriare il dittatore Batista del territorio cubano. Sbarcato clandestinamente a Cuba con Fidel, nel 1956 si autonomina comandante di una colonna di “barbudos” e si fa subito notare per la sua crudeltà e determinazione. Un ragazzo non ancora ventenne della sua unità combattente ruba un pezzo di pane ad un compagno. Senza processo, Guevara lo fa legare ad un palo e fucilare. Castro sfrutta al massimo i nuovi mezzi di comunicazione e, pur a capo di pochi e male armati miliziani, viene innalzato agli onori dei Tg e costruisce la sua fama. Dopo due anni di scaramucce per le foreste cubane, nel ’58 l’unità del “Che” riporta la prima vittoria su Batista. A Santa Clara un treno carico d’armi viene intercettato e cinquanta soldati vengono fatti prigionieri. In seguito a ciò Battista fugge e lascia l’Avana sguarnita e senza ordini. Castro fa la sua entrata trionfale nella capitale accolto dalla popolazione festante. Una volta rovesciato il governo di Batista, il Che vorrebbe imporre da subito una rivoluzione comunista, ma finisce con lo scontrarsi con alcuni suoi compagni d'armi autenticamente democratici. Guevara viene nominato “procuratore” della prigione della Cabana ed è lui a decidere le domande di grazia. Sotto il suo controllo, l’ufficio in cui esercita diventa teatro di torture e omicidi tra i più efferati. Secondo alcune stime, sarebbero stati uccise oltre 20.000 persone, per lo più ex compagni d’armi che si rifiutavano di obbedire e di piegare il capo ad una dittatura peggiore della precedente. Nel 1960 il “pacifista” GUEVARA, istituisce un campo di concentramento ("campo di lavoro") sulla penisola di Guanaha, dove trovano la morte oltre 50.000 persone colpevoli di dissentire dal castrismo. Ma non sarà il solo lager, altri ne sorgono in rapida successione: a Santiago di Las Vegas viene istituito il campo Arca Iris, nel sud est dell’isola sorge il campo Nueva Vida, nella zona di Palos si istituisce il Campo Capitolo, un campo speciale per i bambini sotto i 10 anni. I dissidenti vengono arrestati insieme a tutta la famiglia. La maggior parte degli internati viene lasciata con indosso le sole mutande in celle luride, in attesa di tortura e probabile fucilazione. Guevara viene quindi nominato Ministro dell’Industria e presidente del Banco Nacional, la Banca centrale di Cuba. Mentre si riempie la bocca di belle parole, Guevara sceglie di abitare in una grande e lussuosa casa colonica in un quartiere residenziale dell’Avana. E' facile chiedere al popolo di fare sacrifici quando lui per primo non li fa: pratica sport borghesissimi, ma la vita comoda e l’ozio ammorbidiscono il guerrigliero, che mette su qualche chilo e passa il tempo tra parties e gare di tiro a volo, non disdegnando la caccia grossa e la pesca d’altura. Per capire quali "buoni" sentimenti animassero questo simbolo con cui fregiare magliette e bandiere basta citare il suo testamento, nel quale elogia «l’odio che rende l’uomo una efficace, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere». Sono queste le parole di un idealista? Di un amico del popolo? Se si, quale popolo? Solo quello che era d'accordo con lui? Guevara si dimostra una sciagura come ministro e come economista e, sostituito da Castro, viene da questi “giubilato” come ambasciatore della rivoluzione. Nella nuova veste di vessillifero del comunismo terzomondista lancia il motto «Creare due, tre, mille Vietnam!». Nel 1963 è in Algeria dove aiuta un suo amico ed allievo, lo sterminatore Desirè Kabila (attuale dittatore del Congo) a compiere massacri di civili inermi! Il suo continuo desiderio di diffusione della lotta armata e un tranello di Castro lo portano nel 1967 in Bolivia, dove si allea col Partito comunista boliviano ma non riceve alcun appoggio da parte della popolazione locale. Isolato e braccato, Ernesto De La Serna viene catturato dai miliziani locali e giustiziato il 9 ottobre 1967. Il suo corpo esposto diviene un’icona qui da noi e le crude immagini dell’obitorio vengono paragonate alla “deposizione di Cristo”. Fra il sacro e il profano la celebre foto del “Che” ha accompagnato un paio di generazioni che hanno appeso il suo poster a fianco di quello di Marylin Monroe. Poiché la madre degli imbecilli è sempre incinta, ancora oggi sventola la bandiera con la sua effige e i ragazzini indossano la maglietta nel corso di manifestazioni “contro la guerra”. Come si fa a prendere come esempio una persona così? Possibile che ci siano migliaia di persone (probabilmente inconsapevoli della verità) che sfoggiano magliette con il suo volto? In quelle bandiere e magliette c'è una sola cosa corretta: il colore. Rosso, come il sangue che per colpa sua è stato sparso. In un film di qualche anno fa Sfida a White Buffalo, il bianco chiede al pellerossa: «Vuoi sapere la verità rossa oppure la verità vera?». Lasciamo a Gianni Minà la verità rossa, noi preferiamo conoscere la verità vera.

L’ITALIA DEGLI INVIDIOSI. (1901 - Luigi Capuana, Il Marchese di Roccaverdina, Vallecchi, Firenze, 1972) -  "E se c'era qualcuno che osava di fargli osservare che si era fatto sempre così, da Adamo in poi e che era meglio continuare a fare così, il marchese alzava la voce, lo investiva: - Per questo siete sempre miserabili! per questo la terra non frutta più! Avete paura di rompervi le braccia zappando a fondo il terreno? Gli fate un po' il solletico a fior di pelle, e poi pretendete che i raccolti corrispondano! Eh, sì! Corrispondono al poco lavoro. E sarà ancora peggio!" (p. 45) -  "Noi abbiamo quel che ci meritiamo. Non ci curiamo di associarci, di riunire le nostre forze. Io vorrei mettermi avanti, ma mi sento cascare le braccia! Diffidiamo l'uno dell'altro! Non vogliamo scomodarci per affrontare le difficoltà, nel correre i pericoli di una speculazione. Siamo tanti bambini che attendono di essere imboccati col cucchiaino... Vogliamo la pappa bell'e pronta!" (pp. 86-87)

(1913 - Grazia Deledda, Canne al vento, Mondadori, Milano, 1979) -  "Che posso fare, che posso io? Tu credi che siamo noi a fare la sorte? ... E tu, sei stato tu, a fare la sorte?" "Vero è! Non possiamo fare la sorte - ammise Efix." (p. 195) -  "Sì, - egli disse allora, - siamo proprio come le canne al vento, donna Ester mia. Ecco perché! Siamo canne, e la sorte è il vento." "Sì, va bene: ma perché questa sorte?" "E il vento, perché? Dio solo lo sa." (p. 240) 

(1915 - Norman Douglas, Vecchia Calabria, Giunti Martello, Firenze, 1978) -  "... qual è il più evidente vizio originario? L'invidia, senza il minimo dubbio." "D'invidia gli uomini patiscono e muoiono, per invidia si uccidono l'un l'altro. Produrre una razza più placida (con l'aggettivo 'placida' io intendo solida e riservata), diluire le invidie e le azioni da esse ispirate, è, in fin dei conti, un problema di nutrizione. Sarebbe interessante scoprire di quanto cupo arrovellarsi e di quanti gesti vendicativi è responsabile quel ditale di caffè nero mattutino." (p. 191)

(1930 - Corrado Alvaro, Gente in Aspromonte, Garzanti, Milano, 1981) -  "Glielo aveva detto tante volte di non menar vanto del figlio e di non gloriarsi dell'avvenire, perché l'invidia ha gli occhi e la fortuna è cieca. Signore Iddio, com'è fatta la gente! che non può vedere un po' di bene a nessuno, e anche se non hanno bisogno di nulla, invidiano il pane che si mangia e le speranze che vengono su." (pp. 68-69)

(1959 - Morris L. West, L'avvocato del diavolo, Mondadori, Milano, 1975) -  "Eccolo qui, il maledetto guaio di questo paese! La vedi bene anche tu la ragione per cui siamo di cinquant'anni più indietro che tutto il resto d'Europa. Non vogliamo organizzarci, non vogliamo neanche sentire la parola disciplina. Non vogliamo collaborare. Ma è impossibile costruire un mondo migliore con una zuppiera piena di pasta e un secchio d'acqua santa." (p. 111)

(1975 - Giuseppe Fava, Gente di rispetto, Bompiani, Milano, 1975) -  "Elena, hai mai pensato... quante volte, dinanzi alle cose che accadono, una sciagura, una malattia... l'essere umano ha un moto di disperazione e si chiede perché... la ragione delle cose voglio dire... nascere, poi soffrire o morire? Solo un attimo di ribellione, perché subito ognuno si rassegna all'idea che è Dio a muovere le cose e deve avere il suo segreto disegno. Così l'essere umano sopporta il suo destino; ma che altro può fare? Pensa che tutto deve necessariamente accadere, anche il dolore e la morte, e di questo fa la sua consolazione..." "E questo cosa c'entra con la miseria? Che c'entra con l'ingiustizia? Sono soltanto due cose umane: perché i poveri dovrebbero subirle?" "Perché quasi sempre il povero pensa che tutte le cose umane siano come la morte: la miseria, l'ignoranza fanno parte di questa fatalità. Altrimenti..." "Altrimenti cosa?" "Altrimenti da migliaia di anni gli uomini avrebbero già dovuto uccidere e sgozzare i potenti e i fortunati ... Di questo paese non ci dovrebbe essere più pietra su pietra." (pp. 163-164)

ITALIA, IL PAESE DOVE L’INVIDIA TRIONFA? Siamo davvero affetti da quella malattia chiamata invidia? Scrive “Plindo”. Perchè la tendenza degli italiani è quella di criticare sempre in negativo l’operato degli altri? Perchè spesso ci limitiamo a guardare solo con estrema superficialità le cose anziché approfondire e cercare di capire? In Italia davvero trionfa l’invidia? Oppure è diffusa in egual modo in tutto il mondo? La difficoltà delle persone ad andare oltre e cercare di capire qualcosa di diverso, è davvero grande. I più purtroppo si soffermano sull’aspetto più esposto dell’argomento senza scendere in profondità, arruolandosi il diritto di criticare e dare suggerimenti senza che nessuno li abbia richiesti. Tutto questo viene spesso si confonde con la libertà di pensiero. La libertà di pensiero non ha niente a che vedere l’invidia. Ed è giustissimo che ognuno di noi abbia la libertà di esprimere ciò che pensa come meglio crede, tuttavia è allo stesso tempo consigliabile informarsi, approfondire e cercare di capire altrimenti si corre il rischio che la nostra libertà di pensiero sia fraintesa per invidia. L’invidia nasce da un confronto tra noi e gli altri ed è sgradevole sia per chi la prova in prima persona che per chi la riceve. L’invidioso è una persona che desidera possedere ciò che altri hanno e che ritiene di non poter avere. Ci sono diverse tipologie di invidia. La prima è quella rabbiosa, la più pericolosa. Spesso chi ne è affetto non prova nemmeno a chiedersi se ha capito bene. Critica impulsivamente a spada tratta qualsiasi cosa, con quella rabbia (e talvolta ignoranza) tipica di colui che ha disperatamente cercato di farcela nella vita senza mai riuscirci realmente. La seconda tipologia di invidia è quella passiva, altrettanto pericolosa. Ne sono affetti quelli che provano un sentimento di invidia forte che però lo dimostrano con l’indifferenza più totale; quest’ultimi non muovono alcuna critica, semplicemente evitano di cooperare per non portare alcun tipo di vantaggio alla persona oggetto di invidia. Il terzo e ultimo tipo di invidia è quella che affligge coloro che inizialmente, per esempio, fanno concretamente parte di un determinato progetto, dopodichè, allontanandosi da questo per le più svariate vicissitudini, lo criticano in maniera feroce, tuttavia, in incognito. Pericolosissimi. E voi in quale tipologia di invidia vi ritrovate?

Se l’eguaglianza trasuda invidia. L’Italia paralizzata e la lezione americana sulla mobilità sociale, scrive Francesco Forte il 6 Maggio 2015 su “Il Foglio”. Wall Street Journal e Nbc News Poll hanno pubblicato un sondaggio dal quale risulta che la preoccupazione più grande per la maggioranza degli americani intervistati non è la diseguaglianza di reddito in sé, ma la mancanza di mobilità sociale, ossia chance uguali per tutti per andare avanti economicamente. Questa preferenza è molto più marcata tra i repubblicani che tra i filodemocratici: ma comunque solo il 37 per cento di questi ultimi si preoccupa della diseguaglianza più che della mobilità. Fra i filorepubblicani quelli che hanno a cuore la riduzione della diseguaglianza più della mobilità scendono al 15 per cento. Ma il dato che più colpisce è che solo il 34 per cento di coloro che stanno in classi di reddito inferiore ai 30 mila dollari (25 mila euro) annui assegna alla diseguaglianza un’importanza maggiore della mobilità. Le donne che si preoccupano più della diseguaglianza che delle opportunità di modificarla sono solo il 25 per cento contro il 32 degli uomini. Temo che i risultati in Italia siano diversi, data la facilità con cui incontrano più consenso quelli che sostengono la patrimoniale, il reddito minimo garantito, il posto fisso, le imposte progressive, rispetto a quelli che vorrebbero l’ascensore sociale più a portata di mano e la meritocrazia. Forse ciò dipende dal fatto che sino agli anni 50 quasi metà della nostra popolazione viveva di agricoltura e che la maggioranza agognava ad avere un pezzo di terra da coltivare, nel proprio paese, con la casa sopra. Erano stanziali, abitudinari. Invece gli americani avevano il carro dei pionieri, erano mobili; allevavano il bestiame, più che coltivare orti e poderi con la coltura intensiva. Ma c’è anche il fatto che da noi la sinistra politica dall’Ottocento in poi si è imbevuta della lotta di classe, della concezione marxista, per cui il ricco è generalmente uno sfruttatore del lavoro altrui. Va invidiato, tartassato o espropriato, non ammirato e imitato. Non credo che ciò abbia a che fare con l’etica cattolica, in confronto alla protestante, secondo la vulgata di Max Weber. Infatti nell’Italia del Rinascimento la ricchezza era oggetto di ammirazione, assieme alla bellezza. E ciò non solo nei vestiti, nelle carrozze e nelle case dei signori, ma anche nelle cattedrali e nelle vesti dei prelati. Del resto, c’è stata un’epoca, negli anni 80 dello scorso secolo, in cui è sembrato che, insieme al trionfo della televisione, ci fosse anche quello della mobilità sociale, con la riduzione delle diseguaglianze nelle opportunità e la dinamica della competizione al primo posto rispetto alla riduzione delle diseguaglianze nei redditi. Ora abbiamo i No Tav, i No Expo, i No all’abrogazione dell’articolo 18, i No al cambiamento di mansione, di sede, di incarico, di turnazione. La richiesta del reddito di cittadinanza, il bonus in rapporto inverso al reddito e non in proporzione alla produttività, la tutela dall’inflazione per le pensioni minime e in proporzione inversa all’aumento del loro livello, non in base ai contributi versati, e via elencando. A ciò consegue un tasso di crescita del paese che è solo dello 0,6 per cento del pil e un’elevata disoccupazione generale e giovanile. Tu l’as voulu, George Dandin.

Briatore: è l’Italia degli invidiosi. "Da questo Paese si deve fuggire". La scelta dell’imprenditore: "All’estero ammirano chi ce la fa", scrive Leo Turrini il 23 luglio 2016 su “Il Quotidiano.net”.

«Giù le mani da Bonolis! E comunque esiste soltanto una soluzione...».

Sarebbe a dire?

«Lasciarsi alle spalle l’Italia, diventata la patria dell’invidia sociale».

Flavio Briatore non capisce più il Paese delle origini. Lui, sette volte campione del mondo di Formula Uno con Michael Schumacher e Fernando Alonso, non si sottrae al ruolo di simbolo. Di una opulenza mai nascosta, per capirci.

«Io ormai ho rinunciato a comprendere i miei connazionali – sbotta il manager piemontese – Non vi capisco più».

Cosa abbiamo fatto di male?

«Vede, io non voglio scomodare Trump, il discorso nemmeno riguarda la politica. Qui parliamo di una cultura negativa impossibile da estirpare. C’è una differenza enorme tra gli italiani e gli americani, gli inglesi, eccetera».

Quale differenza?

«All’estero ammirano chi ce la fa, chi conquista il successo. Chi diventa ricco per meriti suoi si trasforma in un simbolo positivo».

Da noi invece...

«Ma prenda proprio il caso di Bonolis! A parte il fatto che immagino abbia preso un aereo privato per ragioni di famiglia, mica ha sperperato soldi pubblici. Uno sarà libero di usare il suo denaro come meglio crede o no?».

Beh, non fa una piega.

«Le dirò di più. Basta con questi moralismi da strapazzo. Bonolis è un grande professionista della televisione, uno showman che muove un cospicuo giro d’affari. Ogni sua produzione genera centinaia di posti di lavoro! Di cosa stiamo parlando, mi scusi?».

Forse di niente.

«Eh, bisognerebbe spiegare ai ragazzi che la ricchezza non va detestata. In Italia invece l’invidia sociale si trasforma addirittura in odio. Dovremmo augurarci di stare tutti meglio, ma prevale l’idea assurda che tutti dovremmo stare peggio».

Il trionfo del pauperismo.

«E infatti non se ne può più. Quando ho aperto il Billionaire in Sardegna, mi descrivevano come un nemico del popolo. Ma se spendo soldi miei e rispetto le leggi, di cosa dovrei sentirmi colpevole? Di avercela fatta?».

«Anche i ricchi piangano», recitava uno sfortunato slogan elettorale.

«Appunto. Non sono ottimista perché sradicare un sentimento così profondo non è impresa facile. Infatti io ho preso una decisione ormai venti anni fa e non mi sono mai pentito».

È andato a vivere all’estero.

«Sicuro. Potendo, dall’Italia bisogna andarsene».

Magari con l’aereo di Bonolis. Ma Briatore non tornerebbe nemmeno se lo chiamasse la Ferrari?

«Per carità! Io la Formula Uno non la seguo più da tempo. E comunque anche la Ferrari, per tornare a vincere, deve andare all’estero».

Addirittura.

«O Marchionne apre una base tecnica in Inghilterra o le vittorie se le scorda, si fidi».

L’invidia in Italia …il piccolo decalogo dell’invidioso cronico, scrive Beppe Servegnini (da Il Corriere della Sera, giovedì 16 febbraio 2012, pag. 45). Come attaccare chiunque abbia successo in un Paese di simpatici demagoghi. Una settimana senza Internet, terminata ieri a mezza­notte (questa rubrica è stata dettata). Una quaresima 2.0 che mi ha evitato di commentare due sconcertan­ti esibizioni dell’Intere una di Adriano Celentano: le prime, diciamo, non me le aspettavo. La quarta figuraccia – candidarci per un’Olimpiade che non possiamo permet­terci- è. stata evitata. L’Italia ha bisogno di manutenzione, non di un’altra (costosa) inaugurazione. Un altro tema che avrei volu­to discutere in settimana è l’assalto scomposto a Silvia Deaglio, giovane professoressa associata dì medicina presso l’Università di Torino, figlia dell’economista Mario Deaglio e del ministro El­sa Fornero. Non la conosco di persona; mentre, se non ricordo male, ho incontrato due volte il papà e una volta la mamma (che mi ha salutato con una domanda tremenda). Ma ho letto l’appun­to di Tito Boeri per lavoce.info - arrivato per fax, sempre a cau­sa del digiuno digitale. Leggo: Silvia Deaglio è quattro volte so­pra la media per l’indice H (che misura il numero di lavori scien­tifici in rapporto al numero di citazioni ricevute). In queste valu­tazioni internazionali – credetemi – mamma e papà non conta­no. Tutto lascia pensare che la connazionale sia una giovane don­na in gamba. L’astio delle reazioni, tuttavia, mi ha fatto pensare, Affinché sia più facile, in questo Paese di sim­patici demagoghi, attaccare indi­scriminatamente chi ha successo, ho pensato di stilare il piccolo de­calogo dell’invidioso cronico.

1. Chi ha successo ha certamen­te inlbrogIMo.Altr.ib1ehti avresti avuto successo pure tu. O no?

2. In Italia nulla è metodico, sal­vo il sospetto.

3. A pensar male si fa peccato, ma si indovina. Senza dimentica­re che per il peccato, poi, c’è l’assoluzione.

4· Chiunque ottenga apprezzamento pubblico, dimostra che il pubblico non capisce niente.

5· La mediocrità è un esempio di democrazia applicata. lI merito, una forma di arroganza.

6. Se esiste il minimo comune denominatore, scusate, perché insistere nel dare il massimo?

7· Nella conventicola dell’università italiana, è possibile solo il modello Frati (il rettore della Sapienza dov’è accademicamente sistemata tutta la sua famiglia). II resto è ipocrisia applicata.

8. I genitori di successo possono – anzi, devono – produrre soltanto figli infelici e frustrati. In caso contrario, l’onere della prova spetta a questi ultimi: dimostrate di non avere imbrogliato, marrani!

9· Bisogna diffidare del plauso internazionale. Come si per­mettono americani, inglesi e tedeschi di farci i complimenti? Co­sa contano le università di Columbia e Yale, che oltretutto si chia­mano come una casa cinematografica e una serratura?

1o, Quando si tratta di concorsi, incarichi, titoli e promozioni l’importante è fare di tutta l’erba un fascio. E se qualcuno vi accusa per questo, urlategli in faccia: «Fascista sarà lei!”.

Invidiosi o gufi, quando la politica non tollera i diversi. L’eterna abitudine a isolare chi ha opinioni diverse, scrive Mattia Feltri il 24/11/2014 su “La Stampa”. C’è una parte di sinistra, dice il sindaco di Firenze, Dario Nardella, che «sembra assecondare l’Italia invidiosa». Dunque chi è perplesso o apertamente contrario alle politiche di governo non è che la pensi in altro modo, semplicemente è invidioso: termine contenuto nel vocabolario renziano fra gufi e rosiconi, come il premier è abituato a definire gli avversari. Se è un peccato, lo è doppio. Primo perché non è un linguaggio nuovo: erano «invidiosi», secondo Silvio Berlusconi, quelli che lo attaccavano nei giorni tumultuosi delle olgettine; erano «invidiosi», secondo Roberto Formigoni, quelli che prevedevano sconfitte del centrodestra in Lombardia; erano «invidiosi», secondo l’allora leader dei giovani di Forza Italia, Simone Baldelli, i coetanei di sinistra che deridevano una loro iniziativa (e da cui erano chiamavano «piazzisti», tanto per sottolineare la profondità dell’analisi). Sui gufi c’è da star qui mezza giornata. Erano «gufi» e pure «cornacchie» appollaiati sulla Quercia, secondo il fondatore di Alleanza nazionale, Gianfranco Fini, quelli che si aspettavano la crisi del primo governo Berlusconi, 1994; erano «gufi» (e di nuovo «cornacchie»), sempre secondo Fini, quelli che nel 2004 davano in discesa il suo partito; erano «gufi», secondo Dario Franceschini, quelli che nel 2009 vedevano il Pd in difficoltà nel posizionamento europeo (coi socialisti o coi popolari?); erano «gufi» e «veterocomunisti», secondo Berlusconi, i contendenti di centrosinistra. I gufi da queste parti svolazzano da molto prima che li avvistasse Renzi, e ora che li ha avvistati parlano tutti di «gufi»: Beatrice Lorenzin, Nunzia De Girolamo, Luigi De Magistris. È un peccato - secondo motivo - perché i rottamatori non hanno rottamato un metodo fastidioso, il metodo di attribuire a chi è in disaccordo secondi fini inconfessabili perché meschini o loschi. Il sostantivo più usato nel ventennio della Seconda repubblica è «malafede». Sono stati dichiarati in malafede Francesco Rutelli da Francesco Storace, l’intero Pds da Maurizio Gasparri, l’intera An da Luigi Manconi, l’intero centrodestra da Luciano Violante, Massimo D’Alema da Pier Ferdinando Casini, Walter Veltroni da Adolfo Urso, Umberto Bossi da Barbara Pollastrini, Giulio Tremonti da Vincenzo Visco, l’intera Forza Italia da tutta la Margherita, l’intero Ulivo da Renato Schifani, Piero Fassino da Giorgio Lainati, i fuoriusciti del M5S dai non fuoriusciti del M5S...Potremmo andare avanti fino all’ultima pagina di questo giornale, ma tocca segnalare che gufi, rosiconi, invidiosi e disonesti sono tutti figli dei coglioni - linguisticamente e psicologicamente parlando - con cui Berlusconi tratteggiò gli elettori di sinistra nella campagna elettorale del 2006. Se qualcuno non è convinto dalle tue ricette, è un coglione. E siccome la vita è un andirivieni da tergicristallo, a loro volta gli elettori di centrodestra erano irrimediabilmente «coglioni» (o, con le attenuanti, «fessi») secondo l’analisi di Dario Fo; Antonio Di Pietro, assecondando le sue attitudini, li iscrisse in un politico registro degli indagati in quanto «complici».  Un meraviglioso ribaltamento della logica spinge a escludere di essere un po’ tardo chi non capisce gli altri: sono gli altri a essere tardi. Ci abbiamo messo del nostro anche noi giornalisti, poiché negli anni si sono letti autorevoli commentatori parlare - per esempio - della «dabbenaggine» e della «complicità nella furbizia illegale» degli ostinati sostenitori di Forza Italia, che a sua volta - secondo esempio - prendeva i voti nella «zona grigia dell’illegalità fiscale» (per non parlare delle perpetue e reciproche accuse di servaggio fra star dei quotidiani). Gli evasori votano Berlusconi, in Sicilia chiunque vinca è perché lo ha votato la mafia, in Italia chiunque vada al governo è a ruota dei padroni e della finanza globale. Una così solida indisponibilità a prendere in considerazione le ragioni degli interlocutori non aveva bisogno dell’esplosivo sbarco sul pianeta della politica di Beppe Grillo (annunciato con un benaugurante vaffanculo). Lui ha riunito in una banda planetaria di farabutti, o in alternativa di imbecilli, chiunque non si inebri alle sue sentenze. A proposito, eccone una delle più rilassate: «Il vero gufo è Renzi».

Il secondo vizio capitale degli Italiani: l’invidia. Che si appunta più sui lontani che sui vicini, scrive Nico Valerio. “Essere stati onesti non ci è convenuto”, ragioneranno tra sé e sé i ministri italiani che una volta tanto hanno fatto gli americani dichiarando pubblicamente redditi, proprietà e perfino numero e modello di automobile posseduta. L’invidia generale, il secondo vizio capitale in Italia, dopo l’antipatia, si è appuntata su di loro. Ma è un falso bersaglio. E anche lo stesso tiro con l’arco in questo caso è uno sport sbagliato. E così, ancora una volta l’Italiano medio si rivela. I paesani, si sa (l'Italia è il classico Paese di provincia), sono invidiosi se un loro concittadino, ritenuto a torto o a ragione "uguale a loro", ha più successo o guadagna di più. Ma vista l’ipocrisia sociale del municipalismo e della meschina solidarietà di quartiere o borgo, di solito l’invidia si appunta meno sui vicini di casa, che un giorno potrebbero esserti utili, che sui personaggi lontani e inaccessibili. Come i governanti e i politici, appunto, ma anche gli attori, i presentatori della televisione, i calciatori e qualunque “personaggio pubblico”. Così anziché lodare l’autodenuncia all'anglosassone di redditi e proprietà da parte dei ministri del governo Monti, su internet e sui giornali i concittadini li stanno investendo di ironia, astio, critiche di ogni tipo. Eppure, sono sicuri questi invidiosi che davvero gli piacerebbe la vita che fanno (e hanno fatto, per arrivare a questo punto della loro carriera) quei ricchi ministri “tecnici” (finanzieri, economisti di grido, industriali o avvocatoni)? Conoscendo bene gli Italiani, rispondo di no. Gli Italiani, certo, vorrebbero la pappa già cotta, ma nessun sacrificio per ottenerla. Nessun italiano medio appena benestante resterebbe così a lungo con auto così vecchie come quelle denunciate dai ministri. Dunque è solo pura (in realtà non c’è nulla di più impuro dell’invidia) invidia sociale e personale. Impura, perché anziché impegnarsi a studiare o a fare comunque imprese geniali o cose creative in genere, cioè a misurarsi nella scala del merito individuale, gli Italiani invidiosi invidiano il risultato, fortuito o meno, di quelle altrui imprese: il successo economico. Ovvero, l’ultimo gradino. E’ come se uno scalatore invidiasse un altro soltanto per essere arrivato sul Monte Bianco, senza calcolare tutta la sua preparazione, magari ultradecennale, e comunque l’intera e difficoltosa salita. L’impiegato tipo, in particolare (categoria da cui solitamente vengono le critiche e le invidie maggiori), uomo o donna che sia, che spesso ha scelto o si è accontentato di questo lavoro proprio per la sua manifesta tranquillità, per il minimo potere decisionale e quindi per la quasi nulla responsabilità personale, non può invidiare chi da solo, rischiando e impegnando tutta la propria personalità, coi relativi alti rischi, persegue posizioni elevate in cui proprio le capacità personalissime di giudizio critico e decisionali sono gli elementi che procurano alti guadagni. Un grande errore, perciò, questo genere di invidia lavorativa. E poiché l’invidia ottunde la ragione anche dei pochi intelligenti, gli invidiosi non capiscono che l’autodenuncia dei ministri serve nei Paesi liberali a mettere in luce preventivamente eventuali interessi in conflitto, non a favorire invidie e moralismi da strapazzo. In un sistema liberale è lecito e perfino auspicabile che la gente guadagni e diventi ricca, se lo vuole e può, perché si presume, fino a prova contraria, che c’entri in qualche misura un particolare merito. Ecco perché le raccomandazioni o le cordate di “amici”, e i privilegi in genere sono o malvisti o addirittura puniti severamente. Come atti di “concorrenza sleale” o illecita. Benissimo, quindi, se un concittadino è diventato meritatamente ricco. A patto però che non solo paghi tutte le tasse, ma che abbia (come i liberali ricordano sempre alla borghesia) anche dei doveri, che insomma sia grato alla società per la possibilità insolita che ha avuto, e che quindi sia sempre attento ai bisogni delle classi meno abbienti e povere. E invece alcuni ministri “tecnici” ricchi, non provenendo dalla politica, e non avendo perciò quel minimo di frequentazione diretta dei ceti disagiati o poveri dell’elettorato, sono apparsi insensibili quando hanno scelto di tassare ancor più i ceti medi e bassi, anziché quelli alti (per es., operazioni di finanza, banche, assicurazioni) e di svendere inutili enti o proprietà di Stato. E sono apparsi odiosi quando hanno ironizzato sui “fannulloni” o sugli “impiegati pigri” o sugli “sfigati” che guadagnano 500 o 1000 euro al mese, come se tutti costoro fossero degli incapaci. In realtà la psicologia ci insegna che il vedersi sbarrata ogni strada elevata dal sistema della raccomandazione e delle “amicizie giuste”, spesso ereditate dalla famiglia, può far cadere in depressione e abulia individui anche di valore. Stiano attenti, perciò i neo-politici tecnici o i ministri ricchi a ostinarsi a frequentare solo i pari grado sociale, cioè i ricchi e potenti. Accade invece nei veri Paesi liberali che sono quelli anglosassoni, forse nello spirito antico del calvinismo e luteranesimo (religioni che a differenza del cattolicesimo non vogliono le sfacciate ostentazioni e ritengono successo e soldi una sorta di riconoscimento di Dio), i ricchi, politici o no, per farsi in qualche modo perdonare di aver ricevuto più di quanto hanno dato nella grande partita a poker che è la vita, non solo facciano beneficienza a larghe mani, non solo finanzino premi e fondazioni e istituti di ricerca scientifica, favoriti anche dall’esenzione fiscale, ma svolgano addirittura “lavori socialmente utili”. Come appunto, se ne sono capaci, quello quasi onorifico di aiutare a gestire la cosa pubblica. Ecco, dopo ricchissimi padroni delle ferriere che hanno depredato il Paese pensando egoisticamente solo ai propri interessi economici, fiscali e giudiziari, dopo ministrucoli senza arte né parte che privi di altre occupazioni (tanto meno studi, figuriamoci!) hanno preso la Politica come unica fonte delle loro ricchezze e dei loro privilegi, ci piace immaginare che i super-ricchi del governo Monti stiano svolgendo, pur con gli inevitabili errori e limiti (devono essere votati in Parlamento proprio dai Partiti che hanno combinato o sottovalutato dolosamente il disastro economico) una sorta di anno sabbatico a favore del Paese. E il fatto che qualcuno di loro abbia rinunciato almeno allo stipendio di ministro avvalora questa sensazione del tutto nuova, ma anche un po’ antica, che ci riporta ai tempi dell’800, quando fare politica era quasi un “servizio”, un “dovere civile”. E c’erano deputati ricchi che si impoverivano a causa della politica. “Ma perché i governanti devono per forza essere ricchi?” chiedono i cittadini comuni. E’ vero, ci sono stati parlamentari che al momento di entrare alla Camera o al Senato erano operai o disoccupati, e tuttora non pochi parlamentari italiani hanno come unico reddito lo stipendio. Ma, attenzione, questi sono proprio i famigerati “politici di professione”, quelli più malvisti dal pubblico. Ed anche l’avvocato che smette la professione per fare il deputato, alla lunga diventa un politico di professione. Però lo stipendio in Italia è tale da trasformare un povero in un benestante, e dopo un’intera legislatura, in un ricco. Per i governanti, poi, lo stipendio totale è ancora più alto, anche se di poco. E’ quindi impossibile che chi siede al Governo sia povero. Diversissimo, invece, il caso dei tanti dirigenti o managers di Stato (e anche privati) che dimostrano quotidianamente di non meritare affatto l’alto stipendio guadagnato, e ancor meno la pensione d’oro. In questo caso la critica popolare, pur manifestata con i colori sgradevoli dell’invidia, svolge un ruolo prezioso. Può aiutare a farli vergognare di se stessi.

Commentare le notizie senza leggerle, quando Facebook è lo specchio dell’Italia di oggi. Cosa succede quando un gesto di disperazione (non) è di un lavoratore italiano, scrive Emanuele Capone il 29/07/2016 su "La Stampa". Ripubblichiamo l’articolo comparso su Il Secolo XIX che ricostruisce la vicenda dei commenti all’articolo pubblicato il 28 luglio sull’edizione online. Ieri mattina abbiamo pubblicato sulla pagina Facebook del Secolo XIX la notizia dell’uomo di 38 anni che ha cercato di darsi fuoco a Sarzana (foto) dopo avere perso casa e lavoro, ma senza specificare che si tratta di un cittadino marocchino. Abbiamo scritto semplicemente che «un uomo di 38 anni, sfrattato e senza lavoro, tenta di darsi fuoco davanti alla moglie e ai figli». Il primo commento è arrivato 4 minuti dopo la pubblicazione del post: «Diamo lavoro agli altri...», con tanto di “mi piace” di un’altra persona che evidentemente ha la medesima opinione; poi, un diluvio: «(con gli, ndr) immigrati non lo fanno», «aiutiamo gli italiani come il signore», o anche, in rapida sequenza, «per lui non esistono sussidi, alberghi e pranzi pagati, vero?» e «aiutiamo gli altri, noi carne da macello», «come mai non gli hanno dato un albergo a tre stelle come ai (suoi, ndr) fratelli migratori?», e i vari «ma noi... pensiamo a ‘sti maledetti immagrati (così nel testo, ndr)» e «invece agli immigrati... » o il più articolato «ma perché, perché... basta andare a Brindisi, imbarcarsi per l’Albania e fare ritorno a Brindisi il giorno dopo... vestito male... e il gioco è fatto!». È solo quasi 4 ore dopo la condivisione del post che qualcuno legge la notizia e si accorge che il 38enne è in effetti un cittadino straniero, e lo fa notare agli altri: «24 commenti e nessuno ha letto l’articolo, viste le risposte!». Proprio così: sino a quel punto, evidentemente, moltissimi avevano commentato basandosi solo sul titolo, senza nemmeno sapere su che cosa stavano esprimendo la loro opinione. Da quel momento, il tenore degli interventi cambia, c’è chi fa notare a molti dei primi commentatori che «guardate che è marocchino» e comunque il post perde rapidamente d’interesse: il 38enne non è italiano e quindi, come fa notare qualche irriducibile, «non avremo perso nulla...». Quel che è accaduto ieri dimostra innanzi tutto qual è il rapporto degli italiani (di una parte, almeno) con i cittadini stranieri: nessuna sorpresa qui, purtroppo. E nemmeno sorprende quel che è diventato il rapporto degli (stessi?) italiani con l’informazione: se prima si sfogliava velocemente il giornale al bar, si spiavano i titoli dalla spalla del vicino in autobus, adesso il bancone del bar è diventato il News Feed di Facebook e i titoli si scorrono ancora più velocemente, perché tempo da perdere per leggere non ce n’è. Per commentare quello che non si è letto, invece, sembra essercene in abbondanza. Ed è anche per questo, per la mancanza di attenzione di chi legge, che da tempo il rapporto dei siti d’informazione con commenti e commentatori è parecchio travagliato. E nell’ultimo anno non è migliorato: «Spegniamo i commenti per un po’», aveva annunciato The Verge a luglio 2015, più o meno nello stesso periodo in cui la Bbc si chiedeva se «è iniziata la fine dei commenti online». In realtà, almeno per il momento, i commenti sopravvivono, ma sempre più siti decidono di passare la “patata bollente” (di chi insulta, offende, minaccia di morte, si esprime in modo razzista e così via) a Facebook: sotto gli articoli non si può più commentare e si è “costretti” a farlo sui social network, dove chi scrive è identificabile con un nome e un cognome e soprattutto dove la responsabilità legale diventa personale (perché anche i giornali devono tutelarsi): se offendi, vieni chiamato tu a rispondere , non chi gestisce il sito. Pensateci, se siete fra le oltre 60mila persone che ieri si sono viste passare davanti su Facebook la notizia dell’uomo (sì, un marocchino) che ha cercato di darsi fuoco a Sarzana e avete lasciato un commento basandovi solo sul titolo. Se a scuola vi hanno insegnato a leggere, prima che a scrivere, un motivo ci sarà. Abbiamo scelto di non pubblicare qui i nomi dei commentatori, ma il post è pubblico: se siete curiosi, potete trovare gli autori sulla nostra pagina su Facebook.

Filippo Facci censurato. Vittorio Feltri su “Libero Quotidiano il 31 luglio 2016, la furia e lo sdegno: "Il popolo di fessi e cretini". I social network talvolta possono essere divertenti, ma sono quasi sempre dannosi. Amplificano i luoghi comuni, danno voce a chi di norma non ne ha e ciò ha un valore democratico almeno apparente. Non serve combatterli e chiederne l’abolizione. Chi non ha niente da dire di solito è molto ciarliero e si esprime con veemenza verbale nella speranza - vana - di farsi sentire e di avere udienza. La maggioranza dei fruitori dei social è costituita da gente isterica che si sfoga insultando chiunque abbia un ruolo più o meno importante, politici, uomini e donne sotto i riflettori, insomma i cosiddetti vip. I luoghi di incontro telematico sono la versione moderna e ingigantita del bar commercio, dove ciascuno dice la prima scemata che gli viene in testa, raramente verificando l’attendibilità delle proprie sparate. Su Twitter e su Facebook dominano il turpiloquio, l’invettiva e l’ingiuria. Persone anonime si divertono un mondo ad avere accesso alla piazza web che consente loro di sparacchiare giudizi anche temerari, comunque incauti, di sicuro poco ponderati. I social permettono a tutti di porsi in evidenza, anzi di illudersi di contare qualcosa e di orientare l’opinione pubblica. Però sul piano pratico non so fino a che punto le idee della folla che usa internet per farsi notare incidano sulle decisioni di chi ha in mano le leve del potere. Poco, suppongo. Anche perché l’uso del computer in Italia è ancora limitato alle persone giovani che hanno dimestichezza con le tecnologie avanzate. Osservando quanto avviene sui social si ha poi la sensazione che essi siano un moltiplicatore di banalità atte ad incrementare il conformismo. Chi esce dagli schemi più diffusi del pensiero unico, quello di moda, si trova a dover combattere con una massa di disinformati che però, essendo assai folta, si ritiene forte e invincibile. L’esempio più eclatante lo si è avuto in questi giorni. Il nostro ottimo inviato Filippo Facci, per aver scritto articoli documentati e vigorosi contro le violenze islamiste, è stato confinato all’indice da Facebook, escluso dalla community quale elemento indesiderabile. In altri termini, censurato, bocciato quale disturbatore intollerabile di coloro che sono al servizio della divulgazione convenzionale. Facci, giornalista eminente di Libero, come tutti può piacere o no, ma è indubbio che sia un uomo di rara intelligenza e capace di interpretare i fatti della vita in modo originale. Sull’islam egli ha scritto pagine che è da fessi sottovalutare in quanto offrono spunti di riflessione profonda. Ebbene, poiché le sue tesi non rientrano nel calderone delle insulsaggini correnti, i guardiani di Facebook le hanno disinvoltamente oscurate, quasi si trattasse di bestemmie. Ormai siamo a questo punto. Chi non sta con i musulmani, assassini o no, in Italia è sgradito, considerato un reietto, un fascista, peggio, un essere indegno di ospitalità. Fossi in Facci, mi vanterei di essere respinto dai cretini. Libero è suo e lo sarà sempre. Vittorio Feltri

E poi la pietra tombale...

«I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli», scrive “La Stampa” il 10 giugno 2015. Attacca internet Umberto Eco nel breve incontro con i giornalisti nell’Aula Magna della Cavallerizza Reale a Torino, dopo aver ricevuto dal rettore Gianmaria Ajani la laurea honoris causa in “Comunicazione e Cultura dei media” perché «ha arricchito la cultura italiana e internazionale nei campi della filosofia, dell’analisi della società contemporanea e della letteratura, ha rinnovato profondamente lo studio della comunicazione e della semiotica». È lo stesso ateneo in cui nel 1954 si era laureato in Filosofia: «la seconda volta nella stessa università, pare sia legittimo, anche se avrei preferito una laurea in fisica nucleare o in matematica», scherza Eco. La sua lectio magistralis, dopo la laudatio di Ugo Volli, è dedicata alla sindrome del complotto, uno dei temi a lui più cari, presente anche nel suo ultimo libro `Numero zero´. In platea il sindaco di Torino, Piero Fassino e il rettore dell’Università di Bologna, Ivano Dionigi. Quando finisce di parlare scrosciano gli applausi. Eco sorride: «non c’è più religione, neanche una standing ovation». La risposta è immediata: tutti in piedi studenti, professori, autorità. «La tv aveva promosso lo scemo del villaggio rispetto al quale lo spettatore si sentiva superiore. Il dramma di Internet è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità», osserva Eco che invita i giornali «a filtrare con un’equipe di specialisti le informazioni di internet perché nessuno è in grado di capire oggi se un sito sia attendibile o meno». «I giornali dovrebbero dedicare almeno due pagine all’analisi critica dei siti, così come i professori dovrebbero insegnare ai ragazzi a utilizzare i siti per fare i temi. Saper copiare è una virtù ma bisogna paragonare le informazioni per capire se sono attendibili o meno». 

Il professor Vittorino Andreoli: "L'Italia è un Paese malato di mente. Esibizionisti, individualisti, masochisti, fatalisti", scrive Andrea Purgatori su L'Huffington Post il 06/08/2013. “L’Italia è un paziente malato di mente. Malato grave. Dal punto di vista psichiatrico, direi che è da ricovero. Però non ci sono più i manicomi”. Il professor Vittorino Andreoli, uno dei massimi esponenti della psichiatria contemporanea, ex direttore del Dipartimento di psichiatria di Verona, membro della New York Academy of Sciences e presidente del Section Committee on Psychopathology of Expression della World Psychiatric Association ha messo idealmente sul lettino questo Paese che si dibatte tra crisi economica e caos politico e si è fatto un’idea precisa del malessere del suo popolo. Un’idea drammatica. Con una premessa: “Che io vedo gli italiani da italiano, in questo momento particolare. Quindi, sia chiaro che questa è una visione degli altri e nello stesso tempo di me. Come in uno specchio”.

Quali sono i sintomi della malattia mentale dell’Italia, professor Andreoli?

“Ne ho individuati quattro. Il primo lo definirei “masochismo nascosto”. Il piacere di trattarsi male e quasi goderne. Però, dietro la maschera dell’esibizionismo”.

Mi faccia capire questa storia della maschera.

“Beh, basta ascoltare gli italiani e i racconti meravigliosi delle loro vacanze, della loro famiglia. Ho fatto questo, ho fatto quello. Sono stato in quel ristorante, il più caro naturalmente. Mio figlio è straordinario, quello piccolo poi…”.

Esibizionisti.

“Ma certo, è questa la maschera che nasconde il masochismo. E poi tenga presente che generalmente l’esibizionismo è un disturbo della sessualità. Mostrare il proprio organo, ma non perché sia potente. Per compensare l’impotenza”.

Viene da pensare a certi politici. Anzi, a un politico in particolare.

“Pensi pure quello che vuole. Io faccio lo psichiatra e le parlo di questo sintomo degli italiani, di noi italiani. Del masochismo mascherato dall’esibizionismo. Tipo: non ho una lira ma mostro il portafoglio, anche se dentro non c’è niente. Oppure: sono vecchio, però metto un paio di jeans per sembrare più giovane e una conchiglia nel punto dove lei sa, così sembra che lì ci sia qualcosa e invece non c’è niente”.

Secondo sintomo.

“L’individualismo spietato. E badi che ci tengo a questo aggettivo. Perché un certo individualismo è normale, uno deve avere la sua identità a cui si attacca la stima. Ma quando diventa spietato…”.

Cattivo.

“Sì, ma spietato è ancora di più. Immagini dieci persone su una scialuppa, col mare agitato e il rischio di andare sotto. Ecco, invece di dire “cosa possiamo fare insieme noi dieci per salvarci?”, scatta l’io. Io faccio così, io posso nuotare, io me la cavo in questo modo… individualismo spietato, che al massimo si estende a un piccolissimo clan. Magari alla ragazza che sta insieme a te sulla scialuppa. All’amante più che alla moglie, forse a un amico. Quindi, quando parliamo di gruppo, in realtà parliamo di individualismo allargato”.

Terzo sintomo della malattia mentale degli italiani?

“La recita”.

La recita?

“Aaaahhh, proprio così… noi non esistiamo se non parliamo. Noi esistiamo per quello che diciamo, non per quello che abbiamo fatto. Ecco la patologia della recita: l’italiano indossa la maschera e non sa più qual è il suo volto. Guarda uno spettacolo a teatro o un film, ma non gli basta. No, sta bene solo se recita, se diventa lui l’attore. Guarda il film e parla. Ah, che meraviglia: sto parlando, tutti mi dovete ascoltare. Ma li ha visti gli inglesi?”.

Che fanno gli inglesi?

“Non parlano mai. Invece noi parliamo anche quando ascoltiamo la musica, quando leggiamo il giornale. Mi permetta di ricordare uno che aveva capito benissimo gli italiani, che era Luigi Pirandello. Aveva capito la follia perché aveva una moglie malata di mente. Uno nessuno e centomila è una delle più grandi opere mai scritte ed è perfetta per comprendere la nostra malattia mentale”.

Torniamo ai sintomi, professore.

“No, no. Rimaniamo alla maschera. Pensi a quelli che vanno in vacanza. Dicono che sono stati fuori quindici giorni e invece è una settimana. Oppure raccontano che hanno una terrazza stupenda e invece vivono in un monolocale con un’unica finestra e un vaso di fiori secchi sul davanzale. Non è magnifico? E a forza di raccontarlo, quando vanno a casa si convincono di avere sul serio una terrazza piena di piante. E poi c’è il quarto sintomo, importantissimo. Riguarda la fede…”.

Con la fede non si scherza.

“Mica quella in dio, lasciamo perdere. Io parlo del credere. Pensare che domani, alle otto del mattino ci sarà il miracolo. Poi se li fa dio, San Gennaro o chiunque altro poco importa. Insomma, per capirci, noi viviamo in un disastro, in una cloaca ma crediamo che domattina alle otto ci sarà il miracolo che ci cambia la vita. Aspettiamo Godot, che non c’è. Ma vai a spiegarlo agli italiani. Che cazzo vuoi, ti rispondono. Domattina alle otto arriva Godot. Quindi, non vale la pena di fare niente. E’ una fede incredibile, anche se detta così sembra un paradosso. Chi se ne importa se ci governa uno o l’altro, se viene il padre eterno o Berlusconi, chi se ne importa dei conti e della Corte dei conti, tanto domattina alle otto c’è il miracolo”.

Masochismo nascosto, individualismo spietato, recita, fede nel miracolo. Siamo messi malissimo, professor Andreoli.

“Proprio così. Nessuno psichiatra può salvare questo paziente che è l’Italia. Non posso nemmeno toglierti questi sintomi, perché senza ti sentiresti morto. Se ti togliessi la maschera ti vergogneresti, perché abbiamo perso la faccia dappertutto. Se ti togliessi la fede, ti vedresti meschino. Insomma, se trattassimo questo paziente secondo la ragione, secondo la psichiatria, lo metteremmo in una condizione che lo aggraverebbe. In conclusione, senza questi sintomi il popolo italiano non potrebbe che andare verso un suicidio di massa”.

E allora?

“Allora ci vorrebbe il manicomio. Ma siccome siamo tanti, l’unica considerazione è che il manicomio è l’Italia. E l’unico sano, che potrebbe essere lo psichiatra, visto da tutti questi malati è considerato matto”.

Scherza o dice sul serio?

“Ho cercato di usare un tono realistico facendo dell’ironia, un tono italiano. Però adesso le dico che ogni criterio di buona economia o di buona politica su di noi non funziona, perché in questo momento la nostra malattia è vista come una salvezza. E’ come se dicessi a un credente che dio non esiste e che invece di pregare dovrebbe andare in piazza a fare la rivoluzione. Oppure, da psichiatra, dovrei dire a tutti quelli che stanno facendo le vacanze, ma in realtà non le fanno perché non hanno una lira, tornate a casa e andate in piazza, andate a votare, togliete il potere a quello che dice che bisogna abbattere la magistratura perché non fa quello che vuole lui. Ma non lo farebbero, perché si mettono la maschera e dicono che gli va tutto benissimo”.

Guardi, professore, che non sono tutti malati. Ci sono anche molti sani in circolazione. Secondo lei che fanno?

“Piangono, si lamentano. Ma non sono sani, sono malati anche loro. Sono vicini a una depressione che noi psichiatri chiamiamo anaclitica. Penso agli uomini di cultura, quelli veri. Che ormai leggono solo Ungaretti e magari quel verso stupendo che andrebbe benissimo per il paziente Italia che abbiamo visitato adesso e dice più o meno: l’uomo… attaccato nel vuoto al suo filo di ragno”.

E lei, perché non se ne va?

“Perché faccio lo psichiatra, e vedo persone molto più disperate di me”.

Grazie della seduta, professore.

“Prego”.

Italiani asociali con migliaia di amici su facebook. Psicologia: gli italiani non amano i vicini di casa, scrive il 18 aprile 2016 Grazia Musumeci. Gli italiani razzisti e asociali? In un certo senso sì, soprattutto se hanno a che fare con i vicini di casa. Sarebbe questo l’allarme lanciato da un video-denuncia italiano proposto dalla Nescafé che ha sottoposto alcune persone a un test mettendole a confronto con situazioni sociali diverse, tra cui anche i rapporti condominiali o in generale col vicino di casa. Si è visto che l’italiano medio tende a essere generoso, allegro, socievole e accogliente, ma quando viene messo a confronto con i vicini di casa o di pianerottolo diventa completamente asociale: non saluta, guarda altrove, evita il dialogo, risponde a monosillabi … altro che la torta di benvenuto per i nuovi arrivati, che tanto si vede nei film! E’ la diffidenza che domina nei confronti delle persone o delle famiglie che dovranno condividere una delle nostre pareti. Non ci si fida, se non dopo molti anni e molti tentativi. Il 61% risponde di non avere proprio alcun contatto col vicino di casa, il 57% dichiara di avere contatti solo in ascensore. Sono stati intervistate 1.800 persone di età compresa tra i 18 e i 65 anni e i più asociali in assoluto sono risultati, come sempre, gli abitanti delle grandi città con Milano, Torino, Venezia e Bologna tra le prime in classifica per “asocialità”. A Roma le cose già migliorano mentre al Sud i rapporti sembrano più cordiali, anche se pure qui i vicini si evitano nel 50% dei casi. La diffidenza non ha a che fare con cultura o colore della pelle, la stessa lontananza che si riserva a un immigrato africano la si riserva all’ingegnere italiano del piano di sotto!

Italiani, popolo di «asociali», (ma solo con i vicini di casa). Avvertiti come fastidiosi, persone a cui mostrare distacco senza nemmeno scambiarsi un sorriso e una battuta: sei italiani su dieci li evitano e mostrano caratteristiche asociali nei loro confronti. Un video-esperimento racconta le abitudini sul pianerottolo, scrive Eva Perasso il 14 aprile 2016 su “Il Corriere della Sera”. Si chiama asocialità condominiale ed è un comportamento che in Italia è particolarmente diffuso. Non salutare i dirimpettai del proprio pianerottolo, guardare in basso quando si incrociano i condomini per strada, evitare il dialogo persino nello spazio angusto dell'ascensore, fino ad arrivare a non instaurare alcun rapporto - nemmeno il più banale di gentilezza reciproca - anche nel corso di diversi anni passati a condividere tetto, spese e faticose riunioni di amministrazione: ecco i tratti comuni per riconoscere il tipico “condomino asociale”. Accade in Italia: una curiosa ricerca e un video-esperimento commissionati da Nescafè hanno provato a misurare quanto gli italiani siano asociali nei confronti dei vicini di casa e i risultati sono stati poco gentili nei confronti di chi condivide il tetto con altri condomini. Il 61 per cento degli italiani ammette di non voler avere alcun rapporto con i vicini e anzi la diffidenza è alta in alcuni dei luoghi in cui questa relazione si instaura e si mantiene: l'ascensore (la diffidenza qui è pari al 57 per cento), pianerottolo e scale (66 per cento), fino alla chiacchiera dal balcone (evitata dal 41 per cento degli italiani) sono i luoghi più comuni per un incontro e uno scambio, ma anche i più temuti. Il sondaggio web ha coinvolto 1.800 italiani tra i 18 e i 65 anni e ha anche provato a capire le motivazioni di questa diffidenza, che porta all'asocialità condominiale, all'interno di strutture che invece sono (e sono state nei decenni passati nel nostro Paese) altamente sociali per via della condivisione di spazi comuni. Dalla ricerca emerge però chiaramente come la vicinanza fisica non si trasformi automaticamente in atti di solidarietà o in interazione tra le parti. I più diffidenti sono gli uomini (69 per cento, contro il 53 per cento delle donne) e la città dove si instaurano meno rapporti di buon vicinato è Milano, seguita da Torino, Venezia e Bologna. Al Sud i rapporti sembrano più cordiali, anche se un buon 50 per cento ammette di evitarli. Il professor Marco Costa, del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna, commenta i risultati: «Gli impegni lavorativi possono far vivere la propria abitazione come luogo di rifugio proprio perché l’attività sociale viene già coltivata in altri ambienti. Quando si è a casa, si cerca anzitutto un nido in cui vivere la privacy». Gli intervistati hanno messo in luce la mancanza di tempo per i rapporti sociali condominiali per via dei ritmi di vita frenetici e la paura della microcriminalità, ma anche un po' di timidezza: un italiano su due dichiara di temere di essere ignorato dal vicino, uno su tre non vorrebbe apparire troppo invadente, molti si giustificano mettendo in campo la loro timidezza. Curiose e divertenti le tattiche messe in atto per evitare di avere rapporti coi vicini, anche quando proprio il contatto sembra ormai irrimediabile: frasi di circostanza e di scuse per non fermarsi a chiacchierare vengono usate da oltre il 60 per cento dei vicini, mentre addirittura 8 persone su 10 ammettono di far finta di non vedere il vicino, chinando spesso il capo sul cellulare. Fino al rifiuto totale dell'interazione: aspettare di trovare l'ascensore vuoto o controllare che nessuno passi per le scale prima di uscire dal proprio uscio sono comportamenti confessati da molti.

Italiani asociali? 6 italiani su 10 non parlano coi vicini di casa, specie nei condomìni. Testa bassa o sguardo altrove: gli italiani sono asociali, specie con i vicini di casa. Un’indagine svela che il 61 per cento ammette di non aver alcun tipo di relazione coi propri vicini di casa e di aver difficoltà a relazionarvisi. Esperti sociologi e psicologi spiegano le ragioni di questa «asocialità condominiale», scrive mercoledì 13 aprile 2016 Luigi Mondo. Giornalista esperto in salute. Ha scritto quasi 50 libri tra saggistica, manualistica e narrativa, tradotti in diverse lingue.  Altro che buon vicinato o rapporti sociali ricchi e costruttivi, gli italiani quando si tratta di vicini di casa ci fanno una pessima figura. E poi, magari, sono gli stessi che si vantano di avere un sacco di ’’amici’’ su Facebook. Ben 6 italiani su dieci confessano infatti di non avere alcuna intenzione di approfondire alcun rapporto coi propri dirimpettai. Il capro espiatorio della mancanza di riguardo circa i rapporti tra vicinato sarebbero la frenesia della routine quotidiana (73 per cento) e il poco tempo per socializzare (68 per cento). Si è passati così dal cosiddetto ’’condominio famiglia’’ tipico degli anni ‘50, in cui la maggior parte dei vicini di casa si conoscevano e condividevano i momenti della quotidianità, si è passati ai ’’condomini asociali’’, dove si conosce a malapena il nome dei dirimpettai, evitati o salutati a fatica sui pianerottoli. La palma dei più asociali va agli abitanti delle grandi città del Nord, dove la mescolanza di etnie e provenienze regionali, unitamente ai ritmi lavorativi frenetici, hanno accentuato la diffidenza nei condomìni, che si manifesta principalmente sul pianerottolo di casa e le scale (66 per cento), in ascensore (57 per cento) e sul balcone (41 per cento). Lo sconsolante quadro è emerso da uno studio promosso da NESCAFÉ, che porta alla luce una problematica raccontata dal video-esperimento sociale ’’The Nextdoor Hello’’. L’indagine da cui si è preso spunto per l’esperimento è stata condotto con metodologia WOA (Web Opinion Analysis) su circa 1.800 italiani, uomini e donne di età compresa tra i 18 e i 65 anni. Il monitoraggio è avvenuto online sui principali social network, blog e forum per capire come sono cambiati nel tempo i rapporti nei condomìni italiani tra vicini di casa. «L’esperimento sociale The Nextdoor Hello è nato grazie all’individuazione di un fenomeno sempre più forte nelle città italiane, ovvero la crescente difficoltà delle persone di comunicare con i propri vicini di casa – afferma Matteo Cattaneo, Marketing Manager NESCAFÉ – L’obiettivo che abbiamo raggiunto è stato quello di dimostrare empiricamente, attraverso un concreto esperimento ’’sul campo’’ raccontato da un video, che è possibile ridurre le distanze venutesi a creare tra dirimpettai anche con un semplice gesto, come offrire una tazza di caffè». Ma perché questa diffidenza per i vicini di casa è sempre più marcata? Secondo il campione di italiani, il motivo principale sta nella frenesia della routine quotidiana che impedisce di approfondire qualsiasi rapporto che non riguardi il nucleo famigliare, le amicizie più strette o l’ambito lavorativo. Di conseguenza si ha a disposizione poco tempo per la socializzazione, scoraggiata ancora di più dall’aumentata percezione di microcriminalità e terrorismo attraverso i media (39 per cento). Quasi un italiano su 2 (49 per cento) teme di essere ignorato dal vicino, mentre il 32 per cento dei monitorati ha paura di risultare invadente e il 29 per cento sostiene di essere troppo timido. «Gli impegni lavorativi possono far vivere la propria abitazione soprattutto come luogo di riposo e rifugio proprio perché l’attività sociale viene già coltivata in altri ambienti, come il luogo di lavoro ad esempio – spiega il dott. Marco Costa, professore del Dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi di Bologna – Di conseguenza quando si è a casa, si cerca anzitutto un nido in cui vivere la privacy, la riservatezza e il riposo. In secondo luogo, nella società sta aumentando la mobilità e diminuisce il senso di attaccamento al luogo e anche al vicinato». Il problema è che spesso però il contatto con i vicini di casa è inevitabile fuori dalla porta di casa. Quando questo accade, come cercano di divincolarsi gli italiani che non amano il contatto coi condòmini? Ben 8 su 10 fanno proprio finta di niente (79 per cento), abbassando lo sguardo o facendo finta di scrivere un messaggio con lo smartphone. La seconda ’’via di fuga’’ cui si ricorre di più è la frase ’’Scusa ma sono di fretta’’ (68 per cento), seguita dalla variante ’’Sono in ritardo’’ (64 per cento). Il 45 per cento addirittura evita di utilizzare l’ascensore se già occupato da altri vicini, mentre il 39 per cento si assicura che sulle scale non ci sia nessuno quando esce di casa. «La prossimità spaziale tra vicini di casa è una potenzialità che non porta automaticamente all’interazione e alla solidarietà – spiega il dott. Giandomenico Amendola, professore di Sociologia Urbana nella Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze – Essa non determina una spinta all’interazione e, men che meno, alla costituzione di solidi rapporti interpersonali. A maggior ragione, in un palazzo abitato da lavoratori, le occasioni di incontro sono inevitabilmente sporadiche e in genere molto rapide e formali. Andando ad analizzare i fattori che agiscono sui rapporti di vicinato, i principali sono l’omogeneità sociale-culturale e il tempo di residenza». Qual è l’identikit del ’’coinquilino asociale’’? Da quanto emerso dall’indagine sono soprattutto gli uomini a essere diffidenti nei confronti dei vicini di casa (69 per cento), contro il 53 per cento delle donne. La fascia di età che raccoglie più persone diffidenti con i vicini di casa è quella tra i 31 e i 50 anni (71 per cento), mentre scende al 60 per cento tra gli over 50 e al 51 per cento tra gli under 30. Il fenomeno è molto più forte tra gli abitanti dei grandi centri urbani del Centro-Nord come Milano (69 per cento), Torino (68 per cento), Venezia (66 per cento) e Bologna (64 per cento). Al Centro si verifica con minore intensità, come a Roma (57 per cento), mentre al Sud abbiamo Napoli (55 per cento) e Palermo (52 per cento). Tra le categorie più ’’asociali col vicinato’’ ci sono i manager (68 per cento), i liberi professionisti (65 per cento), gli avvocati (64 per cento), i bancari (63 per cento) e gli impiegati (62 per cento). «Per abbattere questi muri la ricetta è molto semplice – conclude lo psicologo Marco Costa – Basta creare attività comuni come pulizia dei luoghi condivisi o feste di condominio, occorre cioè creare degli obiettivi comuni in cui i condomini possono riconoscersi. Piccoli gesti come l’offrire un caffè od offrire cibo costituiscono anche attività che permettono d’incontrare gli altri senza la preoccupazione di dover interagire in modo personale, mitigando l’ansia di un contatto personale». Il sociologo Giandomenico Amendola afferma invece che «Tra i principali simboli della socializzazione tra vicini, il caffè ne è un esempio e appartiene alla tradizione nordamericana: l’espressione ’’popping into neighbours for a coffee’’ è infatti tipica dei sobborghi statunitensi contrassegnati da una forte omogeneità sociale. Proprio per ridare forza a questa tradizione di vicinato è nato il movimento dei Coffee Parties». Quali dunque gli effetti positivi della socializzazione tra vicini di casa? Al primo posto la scomparsa dell’imbarazzo nei successivi incontri con i condòmini (61 per cento), fatto che rende le persone più serene e meno timorose di incrociare i dirimpettai negli spazi comuni. In seconda posizione la consapevolezza di avere un appoggio in caso di bisogno (53 per cento); questo si può verificare per esempio quando manca un ingrediente in cucina o in caso di lievi incidenti domestici. Infine, al terzo posto, la maggiore intraprendenza nell’invitare i vicini di casa per condividere un momento di relax (44 per cento), per esempio davanti a un buon caffè.

Claudio Martelli: “Giovanni Falcone? Era solo, i magistrati lo avevano isolato”. L’ex Ministro di giustizia che volle Falcone con sè al Ministero così racconta: “Giovanni doveva diventare capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo e invece il Csm gli preferì Antonino Meli. Venne a lavorare con me quando in Sicilia era delegittimato”, scrive Paola Sacchi. Claudio Martelli, già vicepresidente del Consiglio dei ministri e titolare del dicastero di Grazia e Giustizia, racconta a Il Dubbio chi era Giovanni Falcone e perché nel 1991 lo prese a lavorare con sé in Via Arenula. L’ex delfino di Bettino Craxi, l’autore della relazione “Meriti e bisogni”, racconta chi era “il giudice più famoso del mondo, che non usava gli avvisi di garanzia come una pugnalata”.

Onorevole Martelli, quando Falcone arrivò da lei si scatenarono molte polemiche. Perché?

«Le polemiche arrivarono dopo, quando soprattutto emerse il disegno di creare oltre alle Procure distrettuali anche una Procura nazionale Antimafia, che poi venne battezzata la Super-procura. Lì si infiammarono gli animi e in alcuni casi si intossicarono».

Gli animi di chi?

«Di chi dirigeva l’Associazione nazionale magistrati. Era Raffaele Bertoni che arrivò a dire letteralmente: di una Procura nazionale Antimafia, di un’altra cupola mafiosa non c’è alcun bisogno…»

Addirittura?

«Sì. E ci furono esponenti del Csm, in particolare il consigliere Caccia, il quale disse che Falcone non dava più garanzie di indipendenza di magistrato da quando lavorava per il ministero della Giustizia. Io dissi che questa era un’infamia. Lui mi querelò, ma alla fine vinsi. Venne indetto anche uno sciopero generale della Anm contro l’istituzione della Procura nazionale Antimafia. Uno sciopero generale, dico!»

Oggi suona come roba dell’altro mondo…

«Sì, ma questo era il clima. La tesi di fondo era che Martelli intendeva ottenere la subordinazione dei Pm al ministro della Giustizia. Questa era la più grande delle accuse. Poi c’erano quelle a Giovanni e al suo lavoro».

Il Pci e poi Pds non fu neppure tanto tenero. O no?

«Erano in prima linea i comunisti. E gli esponenti della magistratura che ho citato erano tutti di area comunista. L’Unità faceva grancassa, dopo aver osannato Falcone in passato, aveva cambiato atteggiamento già prima che Falcone venisse al ministero».

Quando?

«Quando si rompe il fronte anti-mafia e alcuni di quegli esponenti a cominciare dal sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, incominciano ad attaccare Giovanni».

Che successe?

«La polemica tra Orlando e Falcone sorge quando Giovanni indagando sulla base di un rapporto dei Carabinieri in merito a un appalto di Palermo osserva che con Orlando sindaco, Vito Ciancimino era tornato a imperare sugli appalti di Palermo. A quel punto il Sindaco perde la testa e come era nel suo stile temerario e sino ai limiti dell’oltraggio accusa Falcone di tenere nascosti nei cassetti i nomi dei mandanti politici degli assassini eccellenti di Palermo. Cioè quelli di Carlo Alberto Dalla Chiesa di Piersanti Mattarella».

Eravamo arrivati a questo punto?

«Sì, non contento Orlando fa un esposto firmato da lui, dall’avvocato Galasso e da altri, al Csm sostenendo che Falcone aveva spento le indagini sui più importanti delitti di mafia. Il Csm convoca Falcone nell’autunno del ’91 e lo sottopone a un interrogatorio umiliante, contestandogli di non aver mandato avvisi di garanzia a tizio, caio o sempronio. Giovanni pronuncia frasi che secondo me dovrebbero restare scolpite nella memoria di tutti i magistrati italiani».

Le più significative?

«Disse Giovanni: non si usano gli avvisi di garanzia per pugnalare alla schiena qualcuno. Si riferiva in particolare al caso del costruttore siciliano Costanzo. Falcone sostenne che si mandano quando si hanno elementi sufficienti. Ancora: non si rinviano a giudizio le persone se non si ha la ragionevole convinzione e probabilità di ottenere una sentenza di condanna. Le procedure penali per Giovanni non erano un taxi e quindi non vanno a taxametro».

Ritiene che l’insegnamento di Falcone sia stato poi seguito, in passato e nei nostri giorni?

«Sì, ci sono per fortuna magistrati che hanno seguito il suo metodo molto scrupoloso nelle indagini. E quando otteneva la collaborazione dei pentiti era molto attento a verificare le loro dichiarazioni».

Faccia un esempio.

«In un caso palermitano, un pentito, tal Pellegriti, dichiarò che il mandante degli assassini di Piersanti Mattarella era l’on. Salvo Lima. Falcone gli chiese da chi, come e quando l’avesse saputo. Fa i riscontri e scopre che in quella data Pellegriti era in galera. Dopodiché lo denuncia per calunnia. Ma siccome questo pentito era già diventato un eroe dei tromboni dell’anti-mafia, quelli delle tavole rotonde…»

Intende dire gli stessi che celebrano Falcone?

«Sì, dopo ci arriviamo…allora, stavo dicendo che questi si inviperirono contro Falcone perché aveva rovinato loro il giocattolo. E quindi dopo questo episodio e quanto ho raccontato prima, lo denunciano al Csm che “processa” Falcone. Il quale a un certo punto perde la pazienza e dice: se mi delegittimate, io ho le spalle larghe, ma cosa devono pensare tutti i giovani procuratori, ufficiali di polizia giudiziaria? Falcone in quel momento era il giudice più famoso al mondo».

Ci ricordi perché.

«Era quello che aveva fatto condannare in primo grado e in appello la cupola mafiosa dei Riina, Greco e Provenzano. Grazie a lui gli americani avevano condotto l’operazione Pizza connection…. Era così autorevole e famoso che una volta in Canada un giudice di tribunale volle che si sedesse in aula posto suo. Ma poi arrivò la stagione del corvo di Palermo: le lettere anonime nelle quali si infangavano Falcone e De Gennaro».

Un clima ostile, quasi da brivido con il senno di poi…

«Ora se a questo si aggiunge che Giovanni doveva diventare capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo e invece il Csm gli preferì Antonino Meli, e che poi si candidò al Csm e venne bocciato, e infine a procuratore capo di Palermo gli preferirono Pietro Giammanco, si può ben capire il clima attorno a lui. Che giustifica una frase di Paolo Borsellino dopo la strage di Capaci: lo Stato e la magistratura che forse ha più responsabilità di tutti ha cominciato a far morire Falcone quando gli preferirono altri candidati. Venne a lavorare con me quando a Palermo era ormai isolato, delegittimato, messo sotto stato di accusa».

È vera la leggenda che per sdrammatizzare quando arrivava in ufficio dopo pranzo alle segretarie chiedesse scherzoso: neppure oggi Kim Basinger ha chiamato per me?

«Sì, l’ho sentito anche io. Lui aveva anche una grande ironia e la faceva anche su stesso, amava molto la vita. Credo che Giovanni a Roma visse uno dei periodo fu sereni della sua esistenza, perché era messo in condizioni di lavorare».

Come vede le polemiche di oggi tra magistratura e politica?

«Certe cose con Falcone non c’entrano niente. Lui sosteneva la necessità di separare le carriere dei magistrati tra Pm e giudici. Perché il giudice deve essere terzo, imparziale, come dice la Costituzione».

Cosa pensa delle accuse indiscriminate di Piercamillo Navigo, presidente della Anm, ai politici?

«Davigo veniva definito da Antonio Di Pietro il nostro “ragioniere”. Ma io gli riconosco il merito di aver sbaragliato nel congresso dell’Anm tutte le correnti. E poi non è vero che lui accusa indiscriminatamente i politici. Dice che i politici di oggi sono peggio di quelli di ieri». Intervista rilasciata al quotidiano Il Dubbio.

Siamo tutti mafiosi, ma additiamo gli altri di esserlo. La mafia che c’è in noi. Quando i delinquenti dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i politici dicono: “qua è cosa nostra!”; quando le istituzioni ed i magistrati dicono: “qua è cosa nostra!”; quando caste, lobbies e massonerie dicono: “qua è cosa nostra!”; quando gli imprenditori dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i sindacati dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i professionisti dicono: “qua è cosa nostra!”; quando le associazioni antimafia dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i cittadini, singoli od associati, dicono: “qua è cosa nostra!”. Quando quella “cosa nostra”, spesso, è il diritto degli altri, allora quella è mafia. L’art. 416 bis c.p. vale per tutti: “L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri”.

Se la religione è l’oppio dei popoli, il comunismo è il più grande spacciatore. Lo spaccio si svolge, sovente, presso i più poveri ed ignoranti con dazione di beni non dovuti e lavoro immeritato. Le loro non sono battaglie di civiltà, ma guerre ideologiche, demagogiche ed utopistiche. Quando il nemico non è alle porte, lo cercano nell’ambito intestino. Brandiscono l’arma della democrazia per asservire le masse e soggiogarle alle voglie di potere dei loro ipocriti leader. Lo Stato è asservito a loro e di loro sono i privilegi ed il sostentamento parassitario fiscale e contributivo. Come tutte quelle religioni con un dio cattivo, chi non è come loro è un’infedele da sgozzare. Odiano il progresso e la ricchezza degli altri. Ci vogliono tutti poveri ed al lume di candela. Non capiscono che la gente non va a votare perché questa politica ti distrugge la speranza.    

Quando il più importante sindaco di Roma, Ernesto Nathan, ai primi del ‘900 scoprì che tra le voci di spesa era stata inserita in bilancio, la TRIPPA, necessaria secondo alcuni addetti agli archivi del comune, per nutrire i gatti che dovevano provvedere a tenere lontani i topi dai documenti cartacei, prese una penna e barrò la voce di spesa, tuonando la celeberrima frase: NON C'È PIÙ TRIPPA PER GATTI, il che mise fine alla colonia felina del Comune di Roma. 

I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)

 “L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.

La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)

Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta". 

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?

Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.

Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."

Ogni tema trattato sinteticamente in quest'opera è oggetto di approfondimento analitico in un saggio dedicato.

Alcune puntualizzazioni sul Diritto di Cronaca, Diritto di Critica, Privacy e Copyright.

In seguito al ricevimento di minacce velate o addirittura palesi nascoste dietro disquisizioni giuridiche, al pari loro si palesa quanto segue. I riferimenti ad atti ed a persone ivi citate, non hanno alcuna valenza diffamatoria e sono solo corollario di prova per l'inchiesta. Le persone citate, in forza di norme di legge, non devono sentirsi danneggiate. Ogni minaccia di tutela arbitraria dei propri diritti da parte delle persone citate al fine di porre censura in tutto o in parte del contenuto del presente dossier o vogliano spiegare un velo di omertà sarà inteso come stalking o violenza privata, se non addirittura tentativo di estorsione mafiosa. In tal caso ci si costringe a rivolgerci alle autorità competenti.

Come è noto, il diritto di manifestare il proprio pensiero ex art. 21 Cost. non può essere garantito in maniera indiscriminata e assoluta ma è necessario porre dei limiti al fine di poter contemperare tale diritto con quelli dell’onore e della dignità, proteggendo ciascuno da aggressioni morali ingiustificate. La decisione si trova in completa armonia con altre numerose pronunce della Corte. La Cassazione, infatti, ha costantemente ribadito che il diritto di cronaca possa essere esercitato anche quando ne derivi una lesione dell’altrui reputazione, costituendo così causa di giustificazione della condotta a condizione che vengano rispettati i limiti della verità, della continenza e della pertinenza della notizia. Orbene, è fondamentale che la notizia pubblicata sia vera e che sussista un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti. Il diritto di cronaca, infatti, giustifica intromissioni nella sfera privata laddove la notizia riportata possa contribuire alla formazione di una pubblica opinione su fatti oggettivamente rilevanti. Il principio di continenza, infine, richiede la correttezza dell’esposizione dei fatti e che l’informazione venga mantenuta nei giusti limiti della più serena obiettività. A tal proposito, giova ricordare che la portata diffamatoria del titolo di un articolo di giornale deve essere valutata prendendo in esame l’intero contenuto dell’articolo, sia sotto il profilo letterale sia sotto il profilo delle modalità complessive con le quali la notizia viene data (Cass. sez. V n. 26531/2009). Tanto premesso si può concludere rilevando che pur essendo tutelato nel nostro ordinamento il diritto di manifestare il proprio pensiero, tale diritto deve, comunque, rispettare i tre limiti della verità, pertinenza e continenza.

Diritto di Cronaca e gli estremi della verità, della pertinenza e della continenza della notizia. L'art. 51 codice penale (esimente dell'esercizio di un diritto o dell'adempimento di un dovere) opera a favore dell'articolista nel caso in cui sia indiscussa la verità dei fatti oggetto di pubblicazione e che la stessa sia di rilevante interesse pubblico. In merito all'esimente del Diritto di Cronaca ex art. 51 c.p., la Suprema Corte con Sentenza n 18174/14 afferma: "la cronaca ha per fine l'informazione e, perciò, consiste nella mera comunicazione delle notizie, mentre se il giornalista, sia pur nell'intento di dare compiuta rappresentazione, opera una propria ricostruzione di fatti già noti, ancorchè ne sottolinei dettagli, all'evidenza propone un'opinione". Il diritto ad esprimere delle proprie valutazioni, del resto non va represso qualora si possa fare riferimento al parametro della "veridicità della cronaca", necessario per stabilire se l'articolista abbia assunto una corretta premessa per le sue valutazioni. E la Corte afferma, in proposito: "Invero questa Corte è costante nel ritenere che l'esimente di cui all'art. 51 c.p., è riconoscibile sempre che sia indiscussa la verità dei fatti oggetto della pubblicazione, quindi il loro rilievo per l'interesse pubblico e, infine, la continenza nel darne notizia o commentarli ... In particolare il risarcimento dei danni da diffamazione è escluso dall'esimente dell'esercizio del diritto di critica quando i fatti narrati corrispondano a verità e l'autore, nell'esposizione degli stessi, seppur con terminologia aspra e di pungente disapprovazione, si sia limitato ad esprimere l'insieme delle proprie opinioni (Cass. 19 giugno 2012, n. 10031)".

La nuova normativa concernente il rapporto tra il diritto alla privacy ed il diritto di cronaca è contenuta negli articoli 136 e seguenti del Codice privacy che hanno sostanzialmente recepito quanto già stabilito dal citato art. 25 della Legge 675 del 1996. In base a dette norme chiunque esegue la professione di giornalista indipendentemente dal fatto che sia iscritto all'elenco dei pubblicisti o dei praticanti o che si limiti ad effettuare un trattamento temporaneo finalizzato esclusivamente alla pubblicazione o diffusione occasionale di articoli saggi o altre manifestazioni del pensiero:

può procedere al trattamento di dati sensibili anche in assenza dell'autorizzazione del Garante rilasciata ai sensi dell'art. 26 del D. Lgs. 196 del 2003;

può utilizzare dati giudiziari senza adottare le garanzie previste dall'art. 27 del Codice privacy;

può trasferire i dati all'estero senza dover rispettare le specifiche prescrizioni previste per questa tipologia di dati;

non è tenuto a richiedere il consenso né per il trattamento di dati comuni né per il trattamento di dati sensibili.

Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. Infatti sono autore del libro che racconta della vicenda. A tal fine posso assemblarle o per fare una rassegna stampa.'''

Da quello che ho capito quello che si teme ancora non è avvenuto. Quindi, mai fasciarsi il capo prima di romperlo. Il credere di essere nei guai ed esserlo, ce ne corre. Quando sarà il momento di difendersi ci vorrà un buon avvocato. Prima nulla si può fare se non attendere gli eventi.

Comunque impara a cavartela da solo, perché quando sei nei guai non c’è nessuno che ti aiuti.

L’Egoismo e la Tirannia non consiste nel vivere come vogliamo noi, ma nel pretendere che gli altri vivano come pare a noi

Pur tuttavia il tempo corre a nostro sfavore.

Se il diritto all’oblio non cancella la storia. Il Garante della Privacy ha bocciato il ricorso di un ex terrorista italiano sulla rimozione da parte di Google dei contenuti sul suo passato, scrive Marta Serafini il 21 giugno 2016 su “Il Corriere della Sera”. Il terrorismo non si cancella. Il Garante della Privacy ha bocciato il ricorso di un ex terrorista italiano sulla rimozione da parte di Google dei contenuti che riguardano il suo passato. Oggetto di discussione, il diritto all’oblio. Risvolto della questione, la lotta tra il diritto alla privacy e il diritto all’informazione. Già nel leggere le prime righe del provvedimento pubblicato ieri nella newsletter del Garante ci si scontra con la complessità del tema. «XY ha finito di scontare la pena nel 2009 per gravi di fatti di cronaca di cui è stato protagonista tra la fine degli anni 70 e i primi anni 80», recita il testo. Si parla degli Anni di Piombo, di vicende che ci hanno segnato. Il Garante ha deciso di difendere la storia. Eppure non può divulgare il nome del protagonista. Secondo passaggio: XY ha chiesto la rimozione da Google di articoli e di suggerimenti di ricerca che lo associano alla parola terrorista. Ma sia Big G che il Garante gli hanno risposto picche. «Le informazioni di cui si chiede la “deindicizzazione” fanno riferimento a reati particolarmente gravi», recitano le motivazioni. Non importa dunque che dagli Anni di Piombo a oggi sia passato molto tempo. E non importa nemmeno che nel 2013 la Corte di Cassazione abbia dato ragione a un ex Prima linea che faceva una richiesta del tutto simile. Dal maggio 2014 alle richieste «tradizionali» si sono aggiunte quelle che riguardano Internet. Google, adeguandosi a una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea, consente l’esercizio del diritto all’oblio anche in Rete. Da allora 33.633 sono le richieste arrivate solo dall’Italia. E se nel 32,2 per cento dei casi Google le ha soddisfatte, in questo ultimo frangente ha deciso di rifiutare, supportato dal Garante. Però non è sempre andata così. Quando si aprì il contenzioso su Renato Vallanzasca, venne fuori che Wikipedia rischiava di dover far sparire centinaia di voci. Allora Jimmy Wales, cofondatore dell’enciclopedia digitale, tuonò: «La storia è un diritto umano. Nascondere la verità è profondamente immorale». Parole che viene difficile non condividere, soprattutto se si parla di terrorismo. Ma che nell’era di Internet hanno implicazioni da non sottovalutare.

DIRITTO ALL’OBLIO. FINE DELLA STORIA!

Per gente indegna. Umanità senza vergogna e con la memoria corta. Nata, ma per i posteri mai vissuta.

Voi umani, dimenticate il passato. Hitler, Stalin ed ogni piccolo e grande criminale innominabile dai giudici avrà la facoltà di essere innominato.

Intervista al dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Cosa c’entra Lei che non è giornalista con il Diritto all’Oblio?

«Io della Cronaca faccio Storia. Ciononostante personalmente sono destinatario degli strali ritorsivi dei magistrati. A loro non piace che si vada oltre la verità giudiziaria. La loro Verità. Oggi però sono intere categorie ad essere colpite: dai giornalisti ai saggisti. Dagli storici ai sociologi. Perché oggi in tema di Diritto all'Oblio e Libertà di espressione, la Cassazione tutela meno del Regolamento Privacy. Una recente sentenza della Cassazione colpisce un giornale (Prima Da Noi) con una interpretazione inedita e pericolosa del diritto all'oblio. Superando le previsioni dei Garanti Privacy e della Corte europea dei Diritti dell'Uomo».

Cosa dice la legge sulla Privacy?

«La nuova normativa, concernente il rapporto tra il diritto alla privacy ed il diritto di cronaca, è contenuta negli articoli 136 e seguenti del Codice privacy che hanno sostanzialmente recepito quanto già stabilito dal citato art. 25 della Legge 675 del 1996. In base a dette norme chiunque esegue la professione di giornalista indipendentemente dal fatto che sia iscritto all'elenco dei pubblicisti o dei praticanti, o che si limiti ad effettuare un trattamento temporaneo finalizzato esclusivamente alla pubblicazione o diffusione occasionale di articoli saggi o altre manifestazioni del pensiero:

può procedere al trattamento di dati sensibili anche in assenza dell'autorizzazione del Garante rilasciata ai sensi dell'art. 26 del D. Lgs. 196 del 2003;

può utilizzare dati giudiziari senza adottare le garanzie previste dall'art. 27 del Codice privacy;

può trasferire i dati all'estero senza dover rispettare le specifiche prescrizioni previste per questa tipologia di dati;

non è tenuto a richiedere il consenso né per il trattamento di dati comuni né per il trattamento di dati sensibili».

Cosa prevedeva la Legge e la Giurisprudenza?

«Come è noto, il diritto di manifestare il proprio pensiero ex art. 21 Cost. non può essere garantito in maniera indiscriminata e assoluta, ma è necessario porre dei limiti al fine di poter contemperare tale diritto con quelli dell’onore e della dignità, proteggendo ciascuno da aggressioni morali ingiustificate. La decisione si trova in completa armonia con altre numerose pronunce della Corte. La Cassazione, infatti, ha costantemente ribadito che il diritto di cronaca possa essere esercitato anche quando ne derivi una lesione dell’altrui reputazione, costituendo così causa di giustificazione della condotta a condizione che vengano rispettati i limiti della verità, della continenza e della pertinenza della notizia. Orbene, è fondamentale che la notizia pubblicata sia vera e che sussista un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti. Il diritto di cronaca, infatti, giustifica intromissioni nella sfera privata laddove la notizia riportata possa contribuire alla formazione di una pubblica opinione su fatti oggettivamente rilevanti. Il principio di continenza, infine, richiede la correttezza dell’esposizione dei fatti e che l’informazione venga mantenuta nei giusti limiti della più serena obiettività. A tal proposito, giova ricordare che la portata diffamatoria del titolo di un articolo di giornale deve essere valutata prendendo in esame l’intero contenuto dell’articolo, sia sotto il profilo letterale sia sotto il profilo delle modalità complessive con le quali la notizia viene data (Cass. sez. V n. 26531/2009). Tanto premesso si può concludere rilevando che pur essendo tutelato nel nostro ordinamento il diritto di manifestare il proprio pensiero, tale diritto deve, comunque, rispettare i tre limiti della verità, pertinenza e continenza. Diritto di Cronaca e gli estremi della verità, della pertinenza e della continenza della notizia. L'art. 51 codice penale (esimente dell'esercizio di un diritto o dell'adempimento di un dovere) opera a favore dell'articolista nel caso in cui sia indiscussa la verità dei fatti oggetto di pubblicazione e che la stessa sia di rilevante interesse pubblico. In merito all'esimente del Diritto di Cronaca ex art. 51 c.p., la Suprema Corte con Sentenza n 18174/14 afferma: "la cronaca ha per fine l'informazione e, perciò, consiste nella mera comunicazione delle notizie, mentre se il giornalista, sia pur nell'intento di dare compiuta rappresentazione, opera una propria ricostruzione di fatti già noti, ancorchè ne sottolinei dettagli, all'evidenza propone un'opinione". Il diritto ad esprimere delle proprie valutazioni, del resto non va represso qualora si possa fare riferimento al parametro della "veridicità della cronaca", necessario per stabilire se l'articolista abbia assunto una corretta premessa per le sue valutazioni. E la Corte afferma, in proposito: "Invero questa Corte è costante nel ritenere che l'esimente di cui all'art. 51 c.p., è riconoscibile sempre che sia indiscussa la verità dei fatti oggetto della pubblicazione, quindi il loro rilievo per l'interesse pubblico e, infine, la continenza nel darne notizia o commentarli ... In particolare il risarcimento dei danni da diffamazione è escluso dall'esimente dell'esercizio del diritto di critica quando i fatti narrati corrispondano a verità e l'autore, nell'esposizione degli stessi, seppur con terminologia aspra e di pungente disapprovazione, si sia limitato ad esprimere l'insieme delle proprie opinioni (Cass. 19 giugno 2012, n. 10031)"».

Con la novella di cosa si sta parlano?

«La sentenza 13161/16 del 24 giugno 2016 (Presidente Salvatore Di Palma, relatore Maria Cristina Giancola) entrerà nella storia perché cancella la Storia. La Suprema Corte ha infatti allargato di parecchio la sfera del diritto all’oblio (right to be forgotten) secondo cui si può far valere il diritto ad essere dimenticati, ovvero a fare in modo che il nostro passato non ritorni a galla con una ricerca online anche dopo anni. La Cassazione, ha stabilito che “un articolo di cronaca su un accoltellamento in un ristorante dovesse essere cancellato dall’archivio digitale perché pur essendo corretto, raccontando la verità e non travalicando i limiti di legge, aveva prodotto un danno ai ricorrenti, cioè i soggetti attivi della vicenda di cronaca giudiziaria”. Vicenda che, ai tempi della richiesta di rimozione dell’articolo, non si era ancora conclusa in giudizio. Spiega Vincenzo Tiani: “La Cassazione richiama la celebre sentenza Google Spain (C-131/12) che ha sancito per prima l’esistenza di un diritto ad essere dimenticati, e le linee guida dell’Art. 29 Data Protection Working Party (WP29) redatte dopo la sentenza (novembre 2014). Peccato che ciò che la Corte di Giustizia Europea (CJEU) ha sancito in quell’occasione è che ogni soggetto ha diritto sì alla de-indicizzazione dai motori di ricerca delle notizie che lo riguardano, qualora lesive della sua dignità, denigratorie, non più rilevanti per l’opinione pubblica, ma mai ha stabilito che tali informazioni dovessero essere rimosse dagli archivi dei giornali, soprattutto laddove tale pubblicazione fosse legale, come nel caso in specie. Ci si riferisce sempre alla lista di risultati che fornisce il motore di ricerca e mai alla notizia di per sé. Se poi andiamo a leggere le linee guida di WP29, al paragrafo 18 questo indirizzo viene confermato. Si dice infatti che la de-indicizzazione non riguarda i motori di ricerca di piccola portata come quelli dei giornali online. Ergo non vi è un obbligo per la testata non solo di rimuovere l’articolo ma neanche di de-indicizzarlo dal proprio motore di ricerca, cosa che avrebbe lo stesso effetto di rimuoverlo visto che lo renderebbe di fatto introvabile.”»

Cosa dice la sentenza Google Spain?

«La sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea C-131/12 (Google Spain case, nda), del 13 maggio 2014, ha disposto che i singoli individui possono chiedere ai motori di ricerca di rimuovere specifici risultati che appaiono effettuando una ricerca con il proprio nome, qualora tali risultati siano relativi all’interessato e risultino obsoleti. Un risultato può essere considerato obsoleto quando la tutela dei dati personali dell’interessato prevale rispetto all’interesse pubblico alla conoscenza della notizia cui tale risultato rimanda. E su questo che si deve ragionare. I risultati della ricerca devono essere vagliati per verificare quale dei due diritti fondamentali, quello alla privacy e quello di cronaca, debba prevalere. Ciononostante con la nuova GDPR (General Data Protection Regulation, Reg. 2016/679), che entrerà in vigore nel 2018 sostituendo la ormai obsoleta direttiva 95/46/EC, il Diritto alla Cancellazione (o diritto all’Oblio) è stato introdotto dall’Art. 17. Secondo la nuova norma, qualora sussistano alcuni dei motivi previsti successivamente, l’interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano senza ingiustificato ritardo e il titolare del trattamento ha l’obbligo di cancellare senza ingiustificato ritardo i dati personali […] Tuttavia, al comma 3, si prevedono talune eccezioni. Chi detiene e fa uso dei dati dell’interessato (il titolare del trattamento, il giornale in questo caso) non dovrà dare seguito alla richiesta di cancellazione qualora tale uso sia stato lecitamente fatto:

a) per l’esercizio del diritto alla libertà di espressione e di informazione; 

d) a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici conformemente all’articolo 89, paragrafo 1, nella misura in cui il diritto di cui al paragrafo 1 rischi di rendere impossibile o di pregiudicare gravemente il conseguimento degli obiettivi di tale trattamento».

Quali sono stati gli effetti?

«Google rende noti i dati relativi al diritto all'oblio fino al 2015 introdotto da una sentenza della corte di Giustizia Ue nel maggio 2014, che garantisce il diritto dei cittadini europei a veder cancellati sui motori di ricerca i link a notizie personali "inadeguate o non più pertinenti". I link rimossi sono 580mila».

Allora sembra essere tutto risolto!

«Per nulla! Siamo in Italia e per gli ermellini nostrani l’interesse pubblico cessa dopo due anni. Spiega Vincenzo Tiani: “Quello che la Cassazione ha pensato invece è che, scaduti 2 anni e 6 mesi, tale eccezione venga meno. Non solo questa interpretazione mette a repentaglio il diritto alla libera informazione, lasciando spazio a una censura della stampa approvata dalla Corte stessa, ma viola il diritto di difesa (artt. 24 e 25 Cost.) poiché si basa su una legge non scritta e su una interpretazione totalmente libera e priva di solide basi che la possano rendere condivisibile. Il termine di 2 anni e 6 mesi è totalmente arbitrario oltre che ingiustificato. Forse che la stampa sia destinata, in un prossimo futuro, a sopravvivere giusto il tempo di un like su facebook?”»

Cosa ha detto la vittima azzannata degli ermellini?

«"Confesso che ci abbiamo messo più di un giorno per comprendere che si trattava di una sentenza reale ed ufficiale del massimo organo giudiziario – scrive il direttore Alessandro Biancardi il 30 Giugno 2016 su “Prima Da Noi”. La cosa ci ha colpito ulteriormente perchè dopo le pessime esperienze nel piccolo tribunale di provincia riponevamo una certa fiducia nella inappellabile Cassazione. Ci siamo sbagliati ma almeno ora sappiamo di che morte dovremo morire noi, la libertà di stampa e soprattutto la libertà di informarsi. Non spenderemo più parole per esprimere il nostro sdegno ed il nostro disgusto per aver raccolto solo umiliazioni in una guerra che abbiamo deciso di combattere da soli contro tutti per la libertà e la dignità di un Paese quando nessuno sapeva cosa fosse il diritto all’oblio, una invenzione che nella nostra esperienza permette a lobby e pregiudicati di tornare nell’ombra indisturbati. Siamo di fronte ad una situazione più che assurda generata dal giudice dei giudici che condanna un giornalista che ha fatto bene il proprio mestiere ma che ha provocato un danno violando una norma che non esiste e che stabilisce la scadenza di un articolo. Assurdo perchè siamo stati condannati una prima volta perchè non avevamo cancellato l’articolo e pure una seconda volta pur avendolo cancellato ma non abbastanza in fretta. Assurdo perchè gli ermellini dicono in sostanza che i due che si sono accoltellati nel loro ristorante hanno avuto un danno all’immagine (loro e del ristorante) non dalla violenza del gesto di cui si spera siano responsabili ma dal suo racconto rimasto fruibile sul web. Assurdo perchè si stabilisce che in venti anni il Garante della Privacy non ci ha capito niente. La domanda però è: ora ci dite come avremmo dovuto e potuto fare per non incorrere in questa violazione? Dove avremmo dovuto leggere la data di scadenza dell’articolo? Sul retro, sul tappo, sul codice civile, penale, deontologico? A proposito ma un giornalista che cancella articoli siamo sicuri che rispetta le leggi della categoria (l’autocensura è condannata, la post censura no)? Ma sappiamo bene il perchè dopo sei anni siamo i primi ad essere stati condannati per questo: perché la maggior parte dei siti preferisce cancellare per non ‘avere problemi’ nonostante non ci sia una legge che impone il dovere di farlo. Dal canto nostro non riusciremo a far fronte alla mole di danni che abbiamo provocato con 800mila articoli in archivio esercitando correttamente il nostro lavoro di onesti giornalisti e per questo molto difficilmente il quotidiano potrà sopravvivere, schiacciato da superficialità, poteri forti e sentenze impossibili da immaginare in un Paese davvero serio. Ma noi siamo l’ultimo dei problemi, cercheremo giustizia fuori dall'Italia e con il tempo anche la gente capirà, ci volessero anche 20 anni ma alla fine capirà…".»

Ed allora, quali gli effetti sul suo operato?

«Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi internazionali vigenti sul copyright. Le norme internazionali mi permettono di fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. Infatti sono autore di oltre un centinaio di libri con centinaia di pagine che raccontano l'Italia per argomento e per territorio. A tal fine posso assemblare le notizie afferenti lo stesso tema per fare storia o per fare una rassegna stampa. Questo da oggi lo potrò fare nel resto del mondo, ma non in Italia: la patria dell'Omertà. Perchè se non c’è cronaca, non c’è storia. Ed i posteri, che non hanno seguito la notizia sfuggente, saranno ignari di cosa sono stati capaci di fare di ignobile ed atroce i loro antenati senza vergogna».

Diritto all'oblio e libertà, la Cassazione tutela meno del Regolamento Privacy. Una recente sentenza della Cassazione colpisce un giornale con una interpretazione inedita e pericolosa del diritto all'oblio. Superando le previsioni dei Garanti Privacy e della Corte europea dei Diritti dell'Uomo, scrive Vincenzo Tiani, Law & Digital Communication l'1 luglio 2016. La sentenza 13161/16 del 24 giugno 2016 (Presidente Salvatore Di Palma, relatore Maria Cristina Giancola) entrerà nella storia, suo e nostro malgrado. La Suprema Corte ha infatti allargato di parecchio le maglie del diritto all’oblio (right to be forgotten) secondo cui si può far valere il diritto ad essere dimenticati, ovvero a fare in modo che il nostro passato non ritorni a galla con una ricerca online anche dopo anni. Il caso. La Cassazione, come riportato dalle parole del convenuto Giornale Online PrimaDaNoi.it, ha stabilito che “un articolo di cronaca su un accoltellamento in un ristorante dovesse essere cancellato dall’archivio digitale perché pur essendo corretto, raccontando la verità e non travalicando i limiti di legge, aveva prodotto un danno ai ricorrenti, cioè i soggetti attivi della vicenda di cronaca giudiziaria”. Vicenda che, ai tempi della richiesta di rimozione dell’articolo, non si era ancora conclusa in giudizio. La sentenza ricalca l’analoga n. 3/2013 del Tribunale di Ortona. In quel precedente caso, due coniugi erano stati arrestati e poi giudicati innocenti. Il giornale aveva riportato legittimamente la vicenda e, dopo il decreto d’archiviazione per i coniugi, aveva proceduto ad aggiornare l’articolo. Nonostante questo, i coniugi ritenevano lesa la propria immagine in quanto da una ricerca su Google comparivano gli articoli del giornale con la notizia del loro arresto, ma anche quelli della loro innocenza. Anche dopo il parere del Garante della Privacy, favorevole per PrimaDaNoi.it, il giudice ha comunque ritenuto il diritto alla privacy dei coniugi predominante, una volta esaurita la prima necessità di dare la notizia. Anche in quel caso, un diritto di cronaca collegato ad un timer. Ma se ai tempi di quella sentenza il tema del diritto all’oblio era sorto da poco, in seguito al caso Google Spain ancora in corso, in quest’ultima occasione c’erano tutti gli elementi per discostarsi da quella prima sentenza, stando anche il fatto che la materia è delicatissima e in Italia non vige un sistema giuridico dove il precedente è vincolante. Da ultimo, fattore importante anche per la sola richiesta a Google per la de-indicizzazione dal motore di ricerca, in questo caso il processo era ancora in corso e non c’era stata archiviazione come nel precedente. Quali i diritti in gioco. I diritti che ogni giudice in questi casi è chiamato a bilanciare sono due diritti di pari rango come il diritto di cronaca e quello alla privacy. Due diritti riconosciuti anche dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (ECHR). Ciò che stupisce è come gli Ermellini non abbiano tenuto conto della Giurisprudenza, se non italiana almeno europea, che mai in passato ha chiesto la rimozione dei contenuti dall’archivio del giornale, ben sapendo come ciò avrebbe indebolito fortemente la libertà di stampa, fondamentale in una società democratica. Tale scelta della Corte Europea è stata confermata anche in quei casi, come quelli di diffamazione a mezzo stampa, in cui i fatti raccontati nell’articolo erano stati poi smentiti, pur se l’autore aveva sufficienti ragioni e fonti per procedere alla pubblicazione. Perché non appare condivisibile il principio usato dalla Cassazione. La Cassazione richiama la celebre sentenza Google Spain (C-131/12) che ha sancito per prima l’esistenza di un diritto ad essere dimenticati, e le linee guida dell’Art. 29 Data Protection Working Party (WP29) redatte dopo la sentenza (novembre 2014). Peccato che ciò che la Corte di Giustizia Europea (CJEU) ha sancito in quell’occasione è che ogni soggetto ha diritto sì alla de-indicizzazione dai motori di ricerca delle notizie che lo riguardano, qualora lesive della sua dignità, denigratorie, non più rilevanti per l’opinione pubblica, ma mai ha stabilito che tali informazioni dovessero essere rimosse dagli archivi dei giornali, soprattutto laddove tale pubblicazione fosse legale, come nel caso in specie. Ci si riferisce sempre alla lista di risultati che fornisce il motore di ricerca e mai alla notizia di per sé. Se poi andiamo a leggere le linee guida di WP29, al paragrafo 18 questo indirizzo viene confermato. Si dice infatti che la de-indicizzazione non riguarda i motori di ricerca di piccola portata come quelli dei giornali online. Ergo non vi è un obbligo per la testata non solo di rimuovere l’articolo ma neanche di de-indicizzarlo dal proprio motore di ricerca, cosa che avrebbe lo stesso effetto di rimuoverlo visto che lo renderebbe di fatto introvabile. Il diritto all’oblio e Google. Come dicevamo, di diritto all’oblio si è parlato molto negli ultimi 2 anni, da quando la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea C-131/12 (Google Spain case, nda), del 13 maggio 2014, ha disposto che i singoli individui possono chiedere ai motori di ricerca di rimuovere specifici risultati che appaiono effettuando una ricerca con il proprio nome, qualora tali risultati siano relativi all’interessato e risultino obsoleti. Un risultato può essere considerato obsoleto quando la tutela dei dati personali dell’interessato prevale rispetto all’interesse pubblico alla conoscenza della notizia cui tale risultato rimanda. Così Google, nella pagina dedicata alle richieste spiega come queste saranno vagliate per verificare quale dei due diritti fondamentali, quello alla privacy e quello di cronaca, debba prevalere. Questo è quanto avrebbe dovuto fare la parte attrice invece di chiedere al giornale e al giudice la rimozione dell’articolo al giornale. Sarebbe bastata una richiesta gratuita a Google. In caso di risposta negativa si sarebbe potuta rivolgere al Garante della Privacy. E invece, nulla di tutto questo. La conferma nelle eccezioni del nuovo Regolamento Europeo. Con la nuova GDPR (General Data Protection Regulation, Reg. 2016/679), che entrerà in vigore nel 2018 sostituendo la ormai obsoleta direttiva 95/46/EC, il Diritto alla Cancellazione (o diritto all’Oblio) è stato introdotto dall’Art. 17. Secondo la nuova norma, qualora sussistano alcuni dei motivi previsti successivamente, l’interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano senza ingiustificato ritardo e il titolare del trattamento ha l’obbligo di cancellare senza ingiustificato ritardo i dati personali […] Tuttavia, al comma 3, si prevedono talune eccezioni. Chi detiene e fa uso dei dati dell’interessato (il titolare del trattamento, il giornale in questo caso) non dovrà dare seguito alla richiesta di cancellazione qualora tale uso sia stato lecitamente fatto:

a) per l’esercizio del diritto alla libertà di espressione e di informazione; 

d) a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici conformemente all’articolo 89, paragrafo 1, nella misura in cui il diritto di cui al paragrafo 1 rischi di rendere impossibile o di pregiudicare gravemente il conseguimento degli obiettivi di tale trattamento;

La lesione del diritto di difesa. Quello che la Cassazione ha pensato invece è che, scaduti 2 anni e 6 mesi, tale eccezione venga meno. Non solo questa interpretazione mette a repentaglio il diritto alla libera informazione, lasciando spazio a una censura della stampa approvata dalla Corte stessa, ma viola il diritto di difesa (artt. 24 e 25 Cost.) poiché si basa su una legge non scritta e su una interpretazione totalmente libera e priva di solide basi che la possano rendere condivisibile. Il termine di 2 anni e 6 mesi è totalmente arbitrario oltre che ingiustificato. Forse che la stampa sia destinata, in un prossimo futuro, a sopravvivere giusto il tempo di un like su facebook? Ci auguriamo di no e che PrimaDaNoi.it faccia ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per ottenere un ribaltamento della sentenza e ristabilire l’importanza del diritto di cronaca.

Diritto all’oblio. La Cassazione conferma: «cancellare sempre articoli anche se attuali». Le testate on line che rendono fruibile l’archivio violano la legge sulla privacy. L’interesse pubblico? Per un articolo finisce dopo due anni, scrive Alessandro Biancardi il 30 Giugno 2016 “Prima Da Noi”. Il giornale on line che ha in archivio articoli viola la legge sulla privacy perchè detiene dati sensibili senza il consenso dell’interessato. Alla fine è arrivata la sentenza della Cassazione che conferma la seconda sentenza del tribunale di Ortona del gennaio 2013 che per la seconda volta in Italia sanciva l’esistenza del diritto all’oblio applicandolo alla cancellazione integrale e totale degli articoli anche dagli archivi dei siti on line. La sentenza si rifaceva integralmente ad una precedente emessa nel 2011 sempre dal tribunale di Ortona che può essere considerata la prima in assoluto in Italia di quel genere. Entrambe le sentenze hanno visto soccombere PrimaDaNoi.it mentre da allora il dibattito su questo controverso diritto è montato fino ad invadere l’Europa e poi gli Stati Uniti. La stessa Cassazione più volte si è espressa in maniera non sempre univoca decidendo caso per caso ma mai si era arrivato ad una decisione tanto drastica. Ancora una volta questo quotidiano è il soggetto soccombente di una sentenza che entrerà nella storia e che apre uno squarcio inimmaginabile sulla fruizione delle notizie e dell’informazione sul web, che taglia di netto la libertà dei giornalisti, limita incredibilmente il diritto di cronaca ma soprattutto dà una mazzata al diritto ad essere informati dei cittadini e a ricercare informazioni.

CHE COSA DICE LA SENTENZA?

La sentenza della Cassazione 13161/16 (Presidente Salvatore Di Palma, relatore Maria Cristina Giancola) conferma di fatto la sentenza 3/2013 del tribunale di Ortona che aveva stabilito che un articolo di cronaca su un accoltellamento in un ristorante dovesse essere cancellato dall’archivio digitale perchè pur essendo corretto, raccontando la verità e non travalicando i limiti di legge, aveva prodotto un danno ai ricorrenti, cioè i soggetti attivi della vicenda di cronaca giudiziaria. A nulla era valsa l’eccezione relativa al diritto di cronaca per cui un fatto se è vero non può produrre un danno nè al fatto che la notizia di due anni prima era ancora attuale perchè il processo relativo non era nemmeno iniziato. In quell’occasione scattò una sanzione di 10mila euro e la parte già in primo grado azionò il pignoramento dell’unico mezzo di trasporto del direttore Alessandro Biancardi. Il fatto di cronaca era accaduto nel 2008 ma già il 6 settembre 2010 i titolari del ristorante chiedevano al giornale la cancellazione dell’articolo perchè ledeva l’immagine della loro attività commerciale. Cancellazione rifiutata. Nel frattempo il tribunale di Ortona emette la prima sentenza sull’oblio e ci condanna per un articolo non cancellato ed ancora presente nell’archivio. Il fatto ci induce a cancellare anche l’articolo oggetto del secondo contenzioso ancora in corso a scopo transattivo e per limitare i danni paventati. Il giudice di fatto non ne tiene conto e calcola comunque che il danno è stato procurato dalla data di pubblicazione (2008) a quella di cancellazione (2011) perchè il trattamento dei dati si era protratto oltre lo scopo necessario anche se con finalità giornalistiche. PrimaDaNoi.it, difesa dall’avvocato Massimo Franceschelli, ha proposto ricorso in Cassazione invocando la falsa applicazione della legge sulla privacy e chiedendo la nullità della sentenza perchè i dati sono stati trattati unicamente per finalità giornalistiche e per questo non c’è bisogno di alcuna autorizzazione. Inoltre il fatto del 2008 non poteva beneficiare dell’oblio perchè l’ultima udienza del processo penale sull’accoltellamento si è tenuta il mese scorso (maggio 2016). Si legge nella sentenza della Cassazione: «l’illecito trattamento dei dati personali è stato dal tribunale specificatamente ravvisato non già nel contenuto e nelle originarie modalità di pubblicazione e diffusione on line dell’articolo di cronaca sul fatto accaduto nel 2008 nè nella conservazione e archiviazione informatica di esso ma nel mantenimento del diretto ed agevole accesso a quel risalente servizio giornalistico del 29 marzo 2008 e della sua diffusione sul web quanto meno a fare tempo dal ricevimento della diffida in data 6 settembre 2010 per la rimozione di questa pubblicazione dalla rete (spontaneamente attuata solo nel corso del giudizio)». Dunque sarebbe corretto pubblicare e mantenere in archivio ma solo per un determinato periodo che nessuna legge prevede e che questa sentenza stabilisce “congruo” in due anni e mezzo. Trascorso questo tempo l’articolo non solo dovrebbe essere deindicizzato (sempre a carico della testata on line a differenza di quanto stabilito dalla Corte di giustizia Europea nel 2014) ma sparire dal web completamente. «La facile accessibilità e consultabilità dell’articolo giornalistico, superiore a quelle dei quotidiani cartacei, tenuto conto dell’ampia diffusione locale del giornale online consentiva di ritenere che dalla data di pubblicazione fino a quella della diffida stragiudiziale fosse trascorso sufficiente tempo perchè le notizie divulgate potessero avere soddisfatto gli interessi pubblici sottesi al diritto di cronaca giornalistico». «Il persistere del trattamento dei dati personali aveva determinato una lesione del diritto dei ricorrenti alla riservatezza ed alla reputazione e ciò in relazione alla peculiarità dell’operazione di trattamento, caratterizzata da sistematicità e capillarità della divulgazione dei dati trattati ed alla natura degli stessi, particolarmente sensibili attenendo a vicenda giudiziaria penale». «La Corte di Cassazione», ha puntualizzato l’avvocato Massimo Franceschelli, «ha deciso in senso contrario rispetto al procuratore generale il quale aveva chiesto l’accoglimento del nostro ricorso giudicandolo fondato e spiegando che non potesse applicarsi il diritto all’oblio perchè il processo penale era ancora in corso». In conclusione la Cassazione stabilisce che:

1) Dopo la pubblicazione dell’articolo l’interesse pubblico alla lettura di quella notizia viene meno (qui si dice che bastano due anni e mezzo).

2) Alla richiesta di cancellazione si doveva ottemperare subito perchè trascorso il tempo.

3) Il diritto di cronaca vale all’istante ma non si possono trattare dati sensibili e renderli fruibili al pubblico per sempre perchè dopo un pò prevale la privacy (per mantenerli ci vuole il consenso).

4) Si cancellano anche articoli recenti ed attuali.

Un articolo corretto produce un danno risarcibile per il solo fatto di essere fruibile

IL GOLPE OLTRE IL BAVAGLIO

Confesso che ci abbiamo messo più di un giorno per comprendere che si trattava di una sentenza reale ed ufficiale del massimo organo giudiziario. La cosa ci ha colpito ulteriormente perchè dopo le pessime esperienze nel piccolo tribunale di provincia riponevamo una certa fiducia nella inappellabile Cassazione. Ci siamo sbagliati ma almeno ora sappiamo di che morte dovremo morire noi, la libertà di stampa e soprattutto la libertà di informarsi. Non spenderemo più parole per esprimere il nostro sdegno ed il nostro disgusto per aver raccolto solo umiliazioni in una guerra che abbiamo deciso di combattere da soli contro tutti per la libertà e la dignità di un Paese quando nessuno sapeva cosa fosse il diritto all’oblio, una invenzione che nella nostra esperienza permette a lobby e pregiudicati di tornare nell’ombra indisturbati.

Siamo di fronte ad una situazione più che assurda generata dal giudice dei giudici che condanna un giornalista che ha fatto bene il proprio mestiere ma che ha provocato un danno violando una norma che non esiste e che stabilisce la scadenza di un articolo. Assurdo perchè siamo stati condannati una prima volta perchè non avevamo cancellato l’articolo e pure una seconda volta pur avendolo cancellato ma non abbastanza in fretta. Assurdo perchè gli ermellini dicono in sostanza che i due che si sono accoltellati nel loro ristorante hanno avuto un danno all’immagine (loro e del ristorante) non dalla violenza del gesto di cui si spera siano responsabili ma dal suo racconto rimasto fruibile sul web. Assurdo perchè si stabilisce che in venti anni il Garante della Privacy non ci ha capito niente. La domanda però è: ora ci dite come avremmo dovuto e potuto fare per non incorrere in questa violazione? Dove avremmo dovuto leggere la data di scadenza dell’articolo? Sul retro, sul tappo, sul codice civile, penale, deontologico? A proposito ma un giornalista che cancella articoli siamo sicuri che rispetta le leggi della categoria (l’autocensura è condannata, la post censura no)? Ma sappiamo bene il perchè dopo sei anni siamo i primi ad essere stati condannati per questo: perché la maggior parte dei siti preferisce cancellare per non avere problemi nonostante non ci sia una legge che impone il dovere di farlo. Dal canto nostro non riusciremo a far fronte alla mole di danni che abbiamo provocato con 800mila articoli in archivio esercitando correttamente il nostro lavoro di onesti giornalisti e per questo molto difficilmente il quotidiano potrà sopravvivere, schiacciato da superficialità, poteri forti e sentenze impossibili da immaginare in un Paese davvero serio. Ma noi siamo l’ultimo dei problemi, cercheremo giustizia fuori dall'Italia e con il tempo anche la gente capirà, ci volessero anche 20 anni ma alla fine capirà…. Una cosa la voglio dire chiara e forte: siamo fieri di quello che abbiamo fatto e ci stupiamo ancora oggi, dopo anni di sofferenze e umiliazioni, di come sia ancora forte il nostro senso per la libertà e la legalità. Che non cambia. Siamo fieri di combattere alla stregua dei partigiani di un tempo contro uno strapotere subculturale fascista e totalitario che avvantaggia dittature di ogni tipo e umilia il cittadino qualunque e lo svuota dei diritti fondamentali. Oggi anche il diritto alla conoscenza. Siamo fieri di essere migliori di tantissime persone che rappresentano le istituzioni e che avrebbero l’obbligo di far prosperare questo Paese, far rispettare le leggi, spiegare cosa sia la legalità e la libertà e colpire chi delinque. Tutti dovrebbero avere immenso rispetto per la Costituzione italiana, l’ultimo baluardo per le nostre libertà e diritti, e sulla attività giornalistica è chiara: «La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure». Questa sentenza invece dice che dopo un pò bisogna essere autorizzati per trattare i dati sensibili e di fatto con la deindicizzazione e la cancellazione degli articoli dal web si applica una censura. Postuma ma sempre censura è. Alessandro Biancardi 

 

 

 

 

SOMMARIO PRIMA PARTE

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

INTRODUZIONE. IN QUESTO MONDO DI LADRI.

ESIBIZIONISMO. LA SINDROME DELL'APPARIRE. QUESTI POLITICI: COMMEDIANTI NATI?

FENOMENOLOGIA DEL TRADIMENTO E DELLA RINNEGAZIONE.

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

L’ITALIA DEI PAZZI.

SI STAVA MEGLIO QUANDO SI STAVA PEGGIO.

GLI SCRITTORI DEL REALE IN TRINCEA CONTRO MEDIA ED ISTITUZIONI.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

PARLIAMO DI RACCOMANDAZIONI NEI CONCORSI PUBBLICI E NELLE ABILITAZIONI DI STATO.

I BAMBINI PRIGIONIERI DEGLI ADULTI INDOTTRINATORI IDIOTI.

PARLIAMO DELL’ISTRUZIONE E DEGLI IGNORANTI LAUREATI.

PARLIAMO DELL'ITALIA "MODAIOLA".

TESTIMONE DI GEOVA? NO GRAZIE!!!

IL WATERGATE GRILLINO, OSSIA IL M5SGATE.

LE PRIMARIE A COMPENSO DEL PD.

LA DEMOCRAZIA A MODO MIO.

TOPONOMASTICA DIVISIVA ED IDEOLOGICA.

A PROPOSITO DI MAFIA E DI TERRORISMO ISLAMICO.

PARLIAMO DEI RISCATTI DEGLI ITALIANI RAPITI ALL'ESTERO E IL FINANZIAMENTO AI TERRORISTI.

SANTA INQUISIZIONE: COME LA RELIGIONE COMUNISTA CAMBIA LA STORIA.

25 APRILE: LA DATA DI UNA SCONFITTA.

PARLIAMO DI CULTURA, MEDIA, SPETTACOLO ED INFORMAZIONE.

L’ITALIA DEGLI ONESTI. SANITA’ E VOLONTARIATO. AMBULANZE 118. LAVORO NERO CON SOLDI PUBBLICI.

PARLIAMO DI MASSONERIA, MAFIA ED ANTIMAFIA.

E PARLIAMO PURE DI ANTIUSURA.

PARLIAMO DI DISUGUAGLIANZE.

PARLIAMO DEL CALO DEMOGRAFICO.

 

SOMMARIO SECONDA PARTE

 

PARLIAMO DI SANITA’.

PARLIAMO DI TASSE E DI SPRECHI.

PARLIAMO DELLE BABY PENSIONI.  

PARLIAMO DI LADRONIA: OSSIA DI GOVERNO E PUBBLICA AMMINISTRAZIONE.

RISARCIMENTO PER I PROCESSI LUNGHI. LEGGE PINTO? NO! LEGGE TRUFFA!

COME SI DICE…“CANE NON MANGIA CANE!”

PARLIAMO DI INGIUSTIZIA E MALAGIUSTIZIA.

ONESTA’ E DISONESTA’.

IL GIUSTIZIALISMO GIACOBINO E LA PRESCRIZIONE.

GIUSTIZIALISTI: COME LA METTIAMO CON GLI ERRORI GIUDIZIARI?

PARLIAMO DI INTERCETTAZIONI: LECITE, AMBIGUE, SELVAGGE.

PARLIAMO DELLE OFFESE DEL PUBBLICO MINISTERO ALL’IMPUTATO.

PARLIAMO DI TORTURA E VIOLENZA DI STATO.

PARLIAMO DELLE CASTE E DELLE LOBBIES IMPUNITE.

PARLIAMO DELLA MAFIA MILITARE.

PARLIAMO DI SPECULAZIONI.

INGIUSTO PROCESSO TRIBUTARIO.

PARLIAMO DELLA QUESTIONE MORALE DEI GIUDICI TRIBUTARI.

SCIENZA E GIUSTIZIA.

PROFUGOPOLI.

LADRI DI BAMBINI.

PARLIAMO DI ABUSI SUI DEBOLI E SUGLI INCAPACI.

PARLIAMO DI AMBIENTE, FRODI ALIMENTARI ED ANIMALI.

PARLIAMO DELLO SPORT TRUCCATO.

PARLIAMO DELL’ITALIA DEI BAGARINI. GLI AVVOLTOI DEL BIGLIETTO ONLINE.

PARLIAMO DELL'ITALIA RAZZISTA.

PARLIAMO DELLA BASILICATA.

PARLIAMO DELLA CALABRIA.

PARLIAMO DELLA CAMPANIA.

PARLIAMO DELL’EMILIA ROMAGNA.

PARLIAMO DEL LAZIO.

PARLIAMO DELLA LIGURIA.

PARLIAMO DELLA LOMBARDIA.

PARLIAMO DEL MOLISE.

PARLIAMO DELLA PUGLIA.

PARLIAMO DELLA SARDEGNA.

PARLIAMO DELLA SICILIA.

PARLIAMO DELLA TOSCANA.

PARLIAMO DEL TRENTINO ALTO ADIGE.

PARLIAMO DEL VENETO.

PARLIAMO DELL’EUROPA DEGLI ONESTI. 

 

  

 

 

 

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande)

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Tra i nostri avi abbiamo condottieri, poeti, santi, navigatori,

oggi per gli altri siamo solo una massa di ladri e di truffatori.

Hanno ragione, è colpa dei contemporanei e dei loro governanti,

incapaci, incompetenti, mediocri e pure tanto arroganti.

Li si vota non perché sono o sanno, ma solo perché questi danno,

per ciò ci governa chi causa sempre e solo tanto malanno.

Noi lì a lamentarci sempre e ad imprecare,

ma poi siamo lì ogni volta gli stessi a rivotare.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Codardia e collusione sono le vere ragioni,

invece siamo lì a differenziarci tra le regioni.

A litigare sempre tra terroni, po’ lentoni e barbari padani,

ma le invasioni barbariche non sono di tempi lontani?

Vili a guardare la pagliuzza altrui e non la trave nei propri occhi,

a lottar contro i più deboli e non contro i potenti che fanno pastrocchi.

Italiopoli, noi abbiamo tanto da vergognarci e non abbiamo più niente,

glissiamo, censuriamo, omertiamo e da quell’orecchio non ci si sente.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Simulano la lotta a quella che chiamano mafia per diceria,

ma le vere mafie sono le lobbies, le caste e la massoneria.

Nei tribunali vince il più forte e non chi ha la ragione dimostrata,

così come abbiamo l’usura e i fallimenti truccati in una giustizia prostrata.

La polizia a picchiare, gli innocenti in anguste carceri ed i criminali fuori in libertà,

che razza di giustizia è questa se non solo pura viltà.

Abbiamo concorsi pubblici truccati dai legulei con tanta malizia,

così come abbiamo abusi sui più deboli e molta ingiustizia.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Abbiamo l’insicurezza per le strade e la corruzione e l’incompetenza tra le istituzioni

e gli sprechi per accontentare tutti quelli che si vendono alle elezioni.

La costosa Pubblica Amministrazione è una palla ai piedi,

che produce solo disservizi anche se non ci credi.

Nonostante siamo alla fame e non abbiamo più niente,

 c’è il fisco e l’erario che ci spreme e sull’evasione mente.

Abbiamo la cultura e l’istruzione in mano ai baroni con i loro figli negli ospedali,

e poi ci ritroviamo ad essere vittime di malasanità, ma solo se senza natali.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Siamo senza lavoro e senza prospettive di futuro,

e le Raccomandazioni ci rendono ogni tentativo duro.

Clientelismi, favoritismi, nepotismi, familismi osteggiano capacità,

ma la nostra classe dirigente è lì tutta intera da buttà.

Abbiamo anche lo sport che è tutto truccato,

non solo, ma spesso si scopre pure dopato.

E’ tutto truccato fin anche l’ambiente, gli animali e le risorse agro alimentari

 ed i media e  la stampa che fanno? Censurano o pubblicizzano solo i marchettari.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Gli ordini professionali di istituzione fascista ad imperare e l’accesso a limitare,

con la nuova Costituzione catto-comunista la loro abolizione si sta da decenni a divagare.

Ce lo chiede l’Europa e tutti i giovani per poter lavorare,

ma le caste e le lobbies in Parlamento sono lì per sé  ed i loro figli a legiferare.

Questa è l’Italia che c’è, ma non la voglio, e con cipiglio,

eppure tutti si lamentano senza batter ciglio.

Che cazzo di Italia è questa con tanta pazienza,

non è la figlia del rinascimento, del risorgimento, della resistenza!!!

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Questa è un’Italia figlia di spot e di soap opera da vedere in una stanza,

un’Italia che produce veline e merita di languire senza speranza.

Un’Italia governata da vetusti e scaltri alchimisti

e raccontata sui giornali e nei tg da veri illusionisti.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma se tanti fossero cazzuti come me, mi piacerebbe tanto.

Non ad usar spranghe ed a chi governa romper la testa,

ma nelle urne con la matita a rovinargli la festa.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Rivoglio l’Italia all’avanguardia con condottieri, santi, poeti e navigatori,

voglio un’Italia governata da liberi, veri ed emancipati sapienti dottori. 

Che si possa gridare al mondo: sono un italiano e me ne vanto!!

Ed agli altri dire: per arrivare a noi c’è da pedalare, ma pedalare tanto!!      

Antonio Giangrande (scritta l’11 agosto 2012)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Poema di Avetrana di Antonio Giangrande

Avetrana mia, qua sono nato e che possiamo fare,

non ti sopporto, ma senza di te non posso stare.

Potevo nascere in Francia od in Germania, qualunque sia,

però potevo nascere in Africa od in Albania.

Siamo italiani, della provincia tarantina,

siamo sì pugliesi, ma della penisola salentina.

Il paese è piccolo e la gente sta sempre a criticare,

quello che dicono al vicino è vero o lo stanno ad inventare.

Qua sei qualcuno solo se hai denari, non se vali con la mente,

i parenti, poi, sono viscidi come il serpente.

Le donne e gli uomini sono belli o carini,

ma ci sposiamo sempre nei paesi più vicini.

 

Abbiamo il castello e pure il Torrione,

come abbiamo la Giostra del Rione,

per far capire che abbiamo origini lontane,

non come i barbari delle terre padane.

 

Abbiamo le grotte e sotto la piazza il trappeto,

le fontane dell’acqua e le cantine con il vino e con l’aceto.

 

Abbiamo il municipio dove da padre in figlio sempre i soliti stanno a comandare,

il comune dove per sentirsi importanti tutti ci vogliono andare.

Il comune intitolato alla Santo, che era la dottoressa mia,

di fronte alla sala gialla, chiamata Caduti di Nassiriya.

Tempo di elezioni pecore e porci si mettono in lista,

per fregare i bianchi, i neri e i rossi, stanno tutti in pista.

Mettono i manifesti con le foto per le vie e per la piazza,

per farsi votare dagli amici e da tutta la razza.

Però qua votano se tu dai,

e non perché se tu sai.

 

Abbiamo la caserma con i carabinieri e non gli voglio male,

ma qua pure i marescialli si sentono generale.

 

Abbiamo le scuole elementari e medie. Cosa li abbiamo a fare,

se continui a studiare, o te ne vai da qua o ti fai raccomandare.

Parlare con i contadini ignoranti non conviene, sia mai,

questi sanno più della laurea che hai.

Su ogni argomento è sempre negazione,

tu hai torto, perché l’ha detto la televisione.

Solo noi abbiamo l’avvocato più giovane d’Italia,

per i paesani, invece, è peggio dell’asino che raglia.

Se i diamanti ai porci vorresti dare,

quelli li rifiutano e alle fave vorrebbero mirare.

 

Abbiamo la piazza con il giardinetto,

dove si parla di politica nera, bianca e rossa.

Abbiamo la piazza con l’orologio erto,

dove si parla di calcio, per spararla grossa.

Abbiamo la piazza della via per mare,

dove i giornalisti ci stanno a denigrare.

 

Abbiamo le chiese dove sembra siamo amati,

e dove rimettiamo tutti i peccati.

Per una volta alla domenica che andiamo alla messa dal prete,

da cattivi tutto d’un tratto diventiamo buoni come le monete.

 

Abbiamo San Biagio, con la fiera, la cupeta e i taralli,

come abbiamo Sant’Antonio con i cavalli.

Di San Biagio e Sant’Antonio dopo i falò per le strade cosa mi resta,

se ci ricordiamo di loro solo per la festa.

Non ci scordiamo poi della processione per la Madonna e Cristo morto, pure che sia,

come neanche ci dobbiamo dimenticare di San Giuseppe con la Tria.

 

Abbiamo gli oratori dove portiamo i figli senza prebende,

li lasciamo agli altri, perché abbiamo da fare altri faccende.

 

Per fare sport abbiamo il campo sportivo e il palazzetto,

mentre io da bambino giocavo giù alle cave senza tetto.

 

Abbiamo le vigne e gli ulivi, il grano, i fichi e i fichi d’india con aculei tesi,

abbiamo la zucchina, i cummarazzi e i pomodori appesi.

 

Abbiamo pure il commercio e le fabbriche per lavorare,

i padroni pagano poco, ma basta per campare.

 

Abbiamo la spiaggia a quattro passi, tanto è vicina,

con Specchiarica e la Colimena, il Bacino e la Salina.

I barbari padani ci chiamano terroni mantenuti,

mica l’hanno pagato loro il sole e il mare, questi cornuti??

Io so quanto è amaro il loro pane o la michetta,

sono cattivi pure con la loro famiglia stretta.

 

Abbiamo il cimitero dove tutti ci dobbiamo andare,

lì ci sono i fratelli e le sorelle, le madri e i padri da ricordare.

Quelli che ci hanno lasciato Avetrana, così come è stata,

e noi la dobbiamo lasciare meglio di come l’abbiamo trovata.

 

Nessuno è profeta nella sua patria, neanche io,

ma se sono nato qua, sono contento e ringrazio Dio.

Anche se qua si sentono alti pure i nani,

che se non arrivano alla ragione con la bocca, la cercano con le mani.

Qua so chi sono e quanto gli altri valgono,

a chi mi vuole male, neanche li penso,

pure che loro mi assalgono,

io guardo avanti e li incenso.

Potevo nascere tra la nebbia della padania o tra il deserto,

sì, ma li mi incazzo e poi non mi diverto.

Avetrana mia, finchè vivo ti faccio sempre onore,

anche se i miei paesani non hanno sapore.

Il denaro, il divertimento e la panza,

per loro la mente non ha usanza.

Ti lascio questo poema come un quadro o una fotografia tra le mani,

per ricordarci sempre che oggi stiamo, però non domani.

Dobbiamo capire: siamo niente e siamo tutti di passaggio,

Avetrana resta per sempre e non ti dà aggio.

Se non lasci opere che restano,

tutti di te si scordano.

Per gli altri paesi questo che dico non è diverso,

il tempo passa, nulla cambia ed è tutto tempo perso.

 

 

 

 

 

 

 

 

La Ballata ti l'Aitrana di Antonio Giangrande

Aitrana mia, quà già natu e ce ma ffà,

no ti pozzu vetè, ma senza ti te no pozzu stà.

Putia nasciri in Francia o in Germania, comu sia,

però putia nasciri puru in africa o in Albania.

Simu italiani, ti la provincia tarantina,

simu sì pugliesi, ma ti la penisula salentina.

Lu paisi iè piccinnu e li cristiani sempri sciotucunu,

quiddu ca ticunu all’icinu iè veru o si l’unventunu.

Qua sinti quarche tunu sulu ci tieni, noni ci sinti,

Li parienti puè so viscidi comu li serpienti.

Li femmini e li masculi so belli o carini,

ma ni spusamu sempri alli paisi chiù icini.

 

Tinimu lu castellu e puru lu Torrioni,

comu tinumu la giostra ti li rioni,

pi fa capii ca tinimu l’origini luntani,

no cumu li barbari ti li padani.

 

Tinimu li grotti e sotta la chiazza lu trappitu,

li funtani ti l’acqua e li cantini ti lu mieru e di l’acitu.

 

Tinimu lu municipiu donca fili filori sempri li soliti cumannunu,

lu Comuni donca cu si sentunu impurtanti tutti oluni bannu.

Lu comuni ‘ntitolato alla Santu, ca era dottori mia,

ti fronti alla sala gialla, chiamata Catuti ti Nassiria.

Tiempu ti votazioni pecuri e puerci si mettunu in lista,

pi fottiri li bianchi, li neri e li rossi, stannu tutti in pista.

Basta ca mettunu li manifesti cu li fotu pi li vii e pi la chiazza,

cu si fannu utà ti li amici e di tutta la razza.

Però quà votunu ci tu tai,

e no piccè puru ca tu sai.

 

Tinumu la caserma cu li carabinieri e no li oiu mali,

ma qua puru li marescialli si sentunu generali.

 

Tinimu li scoli elementari e medi. Ce li tinimu a fà,

ci continui a studià, o ti ni ai ti quà o ta ffà raccumandà.

Cu parli cu li villani no cunvieni,

quisti sapunu chiù ti la lauria ca tieni.

Sobbra all’argumentu ti ticunu ca iè noni,

tu tieni tuertu, piccè le ditto la televisioni.

Sulu nui tinimu l’avvocatu chiù giovini t’Italia,

pi li paisani, inveci, iè peggiu ti lu ciucciu ca raia.

Ci li diamanti alli puerci tai,

quiddi li scanzunu e mirunu alli fai.

 

Tinumu la chiazza cu lu giardinettu,

do si parla ti pulitica nera, bianca e rossa.

Tinimu la chiazza cu l’orologio iertu,

do si parla ti palloni, cu la sparamu grossa.

Tinimu la chiazza ti la strata ti mari,

donca ni sputtanunu li giornalisti amari.

 

Tinimu li chiesi donca pari simu amati,

e  donca rimittimu tutti li piccati.

Pi na sciuta a la tumenica alla messa do li papi,

di cattivi tuttu ti paru divintamu bueni comu li rapi.

 

Tinumu San Biagiu, cu la fiera, la cupeta e li taraddi,

comu tinimu Sant’Antoni cu li cavaddi.

Ti San Biagiu e Sant’Antoni toppu li falò pi li strati c’è mi resta,

ci ni ricurdamo ti loru sulu ti la festa.

No nni scurdamu puè ti li prucissioni pi la Matonna e Cristu muertu, comu sia,

comu mancu ni ma scurdà ti San Giseppu cu la Tria.

 

Tinimu l’oratori do si portunu li fili,

li facimu batà a lautri, piccè tinimu a fà autri pili.

 

Pi fari sport tinimu lu campu sportivu e lu palazzettu,

mentri ti vanioni iu sciucava sotto li cavi senza tettu.

 

Tinimu li vigni e l’aulivi, lu cranu, li fichi e li ficalinni,

tinimu la cucuzza, li cummarazzi e li pummitori ca ti li pinni.

 

Tinimu puru lu cummerciu e l’industri pi fatiari,

li patruni paiunu picca, ma basta pi campari.

 

Tinumu la spiaggia a quattru passi tantu iè bicina,

cu Spicchiarica e la Culimena, lu Bacinu e la Salina.

Li barbari padani ni chiamunu terruni mantinuti,

ce lonnu paiatu loro lu soli e lu mari, sti curnuti??

Sacciu iù quantu iè amaru lu pani loru,

so cattivi puru cu li frati e li soru.

 

Tinimu lu cimitero donca tutti ma sciri,

ddà stannu li frati e li soru, li mammi e li siri.

Quiddi ca nonnu lassatu laitrana, comu la ma truata,

e nui la ma lassa alli fili meiu ti lu tata.

 

Nisciunu iè prufeta in patria sua, mancu iù,

ma ci già natu qua, so cuntentu, anzi ti chiù.

Puru ca quà si sentunu ierti puru li nani,

ca ci no arriunu alla ragioni culla occa, arriunu culli mani.

Qua sacciu ci sontu e quantu l’autri valunu,

a cinca mi oli mali mancu li penzu,

puru ca loru olunu mi calunu,

iu passu a nanzi e li leu ti mienzu.

Putia nasciri tra la nebbia di li padani o tra lu disertu,

sì, ma ddà mi incazzu e puè non mi divertu.

Aitrana mia, finchè campu ti fazzu sempri onori,

puru ca li paisani mia pi me no tennu sapori.

Li sordi, lu divertimentu e la panza,

pi loro la menti no teni usanza.

Ti lassu sta cantata comu nu quatru o na fotografia ti moni,

cu ni ricurdamu sempri ca mo stamu, però crai noni.

Ma ccapì: simu nisciunu e tutti ti passaggiu,

l’aitrana resta pi sempri e no ti tai aggiu.

Ci no lassi operi ca restunu,

tutti ti te si ni scordunu.

Pi l’autri paisi puè qustu ca ticu no iè diversu,

lu tiempu passa, nienti cangia e iè tuttu tiempu persu.

Testi scritti il 24 aprile 2011, dì di Pasqua.

 

 

 

 

PRIMA PARTE

 

INTRODUZIONE. IN QUESTO MONDO DI LADRI.

In Questo Mondo Di Ladri di Antonello Venditti.

Eh, in questo mondo di ladri

C' ancora un gruppo di amici

Che non si arrendono mai.

Eh, in questo mondo di santi

Il nostro cuore rapito

Da mille profeti e da quattro cantanti.

Noi, noi stiamo bene tra noi

E ci fidiamo di noi.

In questo mondo di ladri,

In questo mondo di eroi,

Non siamo molto importanti

Ma puoi venire con noi.

Eh, in questo mondo di debiti

Viviamo solo di scandali

E ci sposiamo le vergini.

Eh, e disprezziamo i politici,

E ci arrabbiamo, preghiamo, gridiamo,

Piangiamo e poi leggiamo gli oroscopi.

Voi, vi divertite con noi

E vi rubate tra voi.

In questo mondo di ladri,

In questo mondo di eroi,

Voi siete molto importanti

Ma questa festa per noi.

Eh, ma questo mondo di santi

Se il nostro cuore rapito

Da mille profeti e da quattro cantanti.

Noi, noi stiamo bene tra noi

E ci fidiamo di noi.

In questo mondo... in questo mondo di ladri...

In questo mondo... in questo mondo di ladri...

In questo mondo... in questo mondo di ladri... 

 

Mamma l’italiani,  canzone del 2010 di Après La Class

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

nei secoli dei secoli girando per il mondo

nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo

non viene dalla Cina non è neppure americano

se vedi uno spaccone è solamente un italiano

l'italiano fuori si distingue dalla massa

sporco di farina o di sangue di carcassa

passa incontrollato lui conosce tutti

fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

a suon di mandolino nascondeva illegalmente

whisky e sigarette chiaramente per la mente

oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso

non smercia sigarette ma giochetti per il sesso

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

l'Italia agli italiani e alla sua gente

è lo stile che fa la differenza chiaramente

genialità questa è la regola

con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia

l'Italia e la sua nomina e un alta carica

un eredità scomoda

oggi la visione italica è che

viaggiamo tatuati con la firma della mafia

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

vacanze di piacere per giovani settantenni

all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni

pagano pesante ragazze intraprendenti

se questa compagnia viene presa con i denti

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

spara la famiglia del pentito che ha cantato

lui che viene stipendiato il 27 dallo Stato

nominato e condannato nel suo nome hanno sparato

e ricontare le sue anime non si può più

risponde la famiglia del pentito che ha cantato

difendendosi compare tutti giorni più incazzato

sarà guerra tra famiglie

sangue e rabbia tra le griglie

con la fama come foglie che ti tradirà

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

"Gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio. Bizzarro popolo gli italiani. Un giorno 45 milioni di fascisti. Il giorno successivo 45 milioni tra antifascisti e partigiani. Eppure questi 90 milioni di italiani non risultano dai censimenti. Il capitalismo è un'ingiusta ripartizione della ricchezza. Il comunismo è una giusta distribuzione della miseria. Il comunismo è la filosofia dei falliti, il credo degli ignoranti, il vangelo dell’invidia; la sua caratteristica intrinseca è la condivisione della povertà. (Lo diceva dei comunisti solo perchè a quel tempo non c'erano i grillini Ndr). Pensieri attribuiti dal web a Winston Churchill.

Quel bisogno primordiale del Capro espiatorio, scrive Daniele Zaccaria il 29 ago 2016 su “Il Dubbio”. Il giustizialismo è la traduzione politica di una pulsione profonda: tra sacrifici umani e letterari, le società espiano le proprie colpe individuando una vittima designata all'interno del gruppo, da Edipo a Dreyfus, da Gesù Cristo al signor Malaussène. E se questa cupa processione di forche, questa esultanza scomposta per un brillìo di manette, questo sangue che scorre sotto l'applauso ammorbante del "popolo", questo tutti contro uno (o contro pochi) non fosse altro che un rito catartico, un esorcismo collettivo per placare gli istinti violenti della comunità? Il giustizialismo non è soltanto una cultura propagandata e codificata dall'alto, non è solo cinica manutenzione degli spiriti indignati da parte delle élites o dei tribuni della plebe, ma anche una forza primordiale che delinea una precisa condizione psicologica, qualcosa che attiene alle pulsioni profonde degli esseri umani e alla loro vita collettiva. Individuare una vittima all'interno di un gruppo (popolo, etnia, scuola, squadra, famiglia, setta, confraternita) per poi spingerla ai margini di quel gruppo permette di convogliare la violenza endemica verso un obiettivo esterno, che sia esso un individuo o una minoranza di individui, un politico corrotto o un immigrato clandestino. E non importa se siano colpevoli o innocenti, poiché la logica tribale del sacrificio è estranea alle corrispondenze del diritto. La maggioranza ha bisogno di emettere una condanna per mondare se stessa da ogni colpa: è la regola aurea del capro espiatorio. Nelle società moderne la costruzione del capro espiatorio avviene nell'intreccio malsano tra la propaganda dei governi e i pregiudizi popolari, tra manipolazione ideologica e credenze striscianti. Il caso più famoso è l'Affaire Dreyfus, l'ebreo alsaziano ufficiale dell'esercito accusato ingiustamente di spionaggio e alto tradimento che ha rappresentato per la società francese di fine Ottocento il colpevole ideale; per dirla con le parole di Georges Clemenceau «Dreyfus è il capro espiatorio del giudaismo sul quale convergono e si accumulano tutti i presunti crimini precedentemente commessi dagli ebrei». Ebrei traditori, zingari, omosessuali, donne in burquini, kulaki, minoranze etniche, oppositori politici, ma anche sovrani decaduti, banchieri, massoni, re Mida globali, kasta, ciò che caratterizza il capro espiatorio sono le sue qualità estreme; estrema povertà, estrema ricchezza, estrema bellezza o bruttezza, estrema distanza o vicinanza dal gruppo che lo respinge o lo scaccia via. Come fa notare l'antropologo e filosofo francese Réné Girard autore del celebre Le bouc émissaire (1982), probabilmente lo studio più approfondito sul concetto di capro espiatorio, «il rito sacrificale non è altro che la replica del primo linciaggio spontaneo che riporta l'ordine all'interno di una collettività. Attorno alla vittima sacrificata la comunità trova pace, producendo una specie di solidarietà nel crimine». Il sacrificio è dunque violenza legalizzata e funzionale all'equilibrio sociale del gruppo, in particolare nei momenti di crisi (carestie, guerre, epidemie, conflitti sociali). Nella Bibbia (Levitico) il capro sacrificato deve placare l'ira di Dio, è un animale scelto a sorte su cui però converge il biasimo di tutta la comunità, in realtà, sottolinea Girard, la bestia viene uccisa affinché tutti possano mondarsi dei propri peccati e non per paura di una reale ritorsione divina. L'aspetto religioso non è altro che il contenitore simbolico, l'involucro di un espiazione tutta umana. Un tratto talmente interiorizzato e trasmesso nel corso della storia che spesso chi viene colpito dalla vendetta del gruppo accetta docilmente suo destino senza ribellarsi, giocando il ruolo della vittima consenziente. Le tecniche di manipolazione, la semplice prostrazione degli individui nei confronti del potere inquisitorio, la sproporzione di mezzi tra accusa e difesa rendono tutti noi dei potenziali Benjamin Malaussène, il surreale personaggio inventato dallo scrittore Daniel Pennac direttore tecnico di un grande magazzino nonché "capro espiatorio di professione". Nella mitologia classica la prima vittima consenziente è Edipo, l'incestuoso e parricida Edipo, che accetta senza battere ciglio il verdetto ottuso dei tebani i quali lo credono colpevole di aver portato in città un'epidemia di peste; vittima di una mistificazione, Edipo è un innocente perseguitato dal pregiudizio popolare. Le sue parole remissive, la sua stoica accettazione di una colpa che non ha commesso equivalgono a una confessione estorta sotto tortura nella cella buia di un commissariato. Questo tratto di vittima consenziente emerge ancora di più nel sacrificio di Cristo come è raccontato dal Nuovo Testamento: "l'agnello di Dio", letteralmente capro espiatorio umano-divino, afferma di sacrificarsi per salvare il genere umano ma allo stesso tempo si dichiara innocente, accetta il martirio non perché si ritiene colpevole di lesa maestà ma perché sa che c'è bisogno di un colpevole per interrompere il circolo vizioso della violenza. È uno schema ciclico, perché la società contemporanea sostituisce rapidamente i suoi idoli e i suoi bersagli, sempre alla ricerca di nuove vittime, di nuovo sangue da far scorrere per placare la rabbia repressa e alienata delle maggioranze. La rete da questo punto di vista è un formidabile moltiplicatore dell'indignazione popolare e della calunnia collettiva. Diffamare qualcuno senza prove, additare un comportamento non conforme alla volontà del gruppo, perché infedele, osceno, immorale, vedere ovunque complotti e cospirazioni da parte di misteriosi burattinai o di fantomatiche spectre del crimine planetario incarnate dai "signori" disincarnati dell'economia, del farmaco, della guerra, della droga, della religione, dell'informazione, dell'immigrazione testimonia questo bisogno corale di costruire sempre nuovi capri espiatori. Che poi uno lo faccia al grido di "onestà, onestà" o a quello di "fuori gli immigrati" poco cambia.

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

Vengo anch'io. No, tu no (1967 - Fo, Jannacci)

Inserita nell'album omonimo (che contiene una schidionata di brani indimenticabili: si va da "Giovanni, telegrafista" a "Pedro, Pedreiro", da "Ho visto un re" a "Hai pensato mai", quest'ultima versione in lingua della stupenda "Gastu mai pensà" di Lino Toffolo), "Vengo anch'io. No, tu no" (1967) porta Enzo Jannacci in cima alle classifiche di vendite, con esiti commerciali mai più ripetuti nel corso della sua lunga carriera. Assai accattivante nell'arrangiamento, attraversato da elementi circensi, la canzone divenne una sorta di inno di tutti gli esclusi d'Italia dai grandi rivolgimenti in atto - siamo, ricordiamolo, nel '68 - perchè snobbati dall'intellighenzia dell'epoca. Grazie a versi beffardi e surreali, scritti da Jannacci in sostituzione di quelli originariamente vergati perlopiù da Dario Fo e maggiormente ancorati al reale, il brano s'imprime nella memoria collettiva, diviene una sorta di tormentone nazionale, contribuisce in larga misura a far conoscere ad un pubblico più vasto la figura di un artista inclassificabile quanto geniale.

Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale

Vengo anch'io? No tu no

Per vedere come stanno le bestie feroci

e gridare "Aiuto aiuto e` scappato il leone"

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe andare tutti quanti ora che è primavera

Vengo anch'io? No tu no

Con la bella sottobraccio a parlare d'amore

e scoprire che va sempre a finire che piove

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore

Vengo anch'io? No tu no

Dove ognuno sia già pronto a tagliarti una mano

un bel mondo sol con l'odio ma senza l'amore

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale

Vengo anch'io? No tu no

per vedere se la gente poi piange davvero

e scoprire che è per tutti una cosa normale

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

No, no e 354 volte no. La sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre il significato originario. Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012 (fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”. Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento. Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.

NO TAV, NO dal Molin, NO al nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua: negli ultimi tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO? A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali, rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da compensare l’inevitabile impatto ambientale ed i costi da sostenere? E’ plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi, che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo, dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di sicurezza, soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente protagonista dell’Europa del futuro. NO?

Il Paese dei "No" a prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile. In Italia non basta rispettare le regole per riuscire ad investire nelle grandi infrastrutture. Perché le regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni decisione è messa in discussione dai mal di pancia fragili e umorali della piazza. E di chi la strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha verificato che dopo i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori sono gli amministratori pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15 punti i rappresentanti delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito dall'associazione no profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che in Italia ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza di "no" a prescindere, veti politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente: gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex magistrato Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello mondiale della mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”, “diverso”, “portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai termovalorizzatori per puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44 Area Est del porto partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove saranno bruciati e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio delle sagge collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza andare lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di Brescia, dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli Della Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che non sono tali”.

In Italia stiamo per inventare la "tirannia della minoranza". Tocqueville aveva messo in guardia contro gli eccessivi poteri del Parlamento. Con la legge elettorale sbagliata si può andare oltre...scrive Dario Antiseri, Domenica 04/09/2016, su "Il Giornale". Nulla di più falso, afferma Ludwig von Mises, che liberalismo significhi distruzione dello Stato o che il liberale sia animato da un dissennato odio contro lo Stato. Precisa subito Mises in Liberalismo: «Se uno ritiene che non sia opportuno affidare allo Stato il compito di gestire ferrovie, trattorie, miniere, non per questo è un nemico dello Stato. Lo è tanto poco quanto lo si può chiamare nemico dell'acido solforico, perché ritiene che, per quanto esso possa essere utile per svariati scopi, non è certamente adatto ad essere bevuto o usato per lavarsi le mani». Il liberalismo prosegue Mises non è anarchismo: «Bisogna essere in grado di costringere con la violenza ad adeguarsi alle regole della convivenza sociale chi non vuole rispettare la vita, la salute, o la libertà personale o la proprietà privata di altri uomini. Sono questi i compiti che la dottrina liberale assegna allo Stato: la protezione della proprietà, della libertà e della pace». E per essere ancora più chiari: «Secondo la concezione liberale, la funzione dell'apparato statale consiste unicamente nel garantire la sicurezza della vita, della salute, della libertà e della proprietà privata contro chiunque attenti ad essa con la violenza». Conseguentemente, il liberale considera lo Stato «una necessità imprescindibile». E questo per la precisa ragione che «sullo Stato ricadono le funzioni più importanti: protezione della proprietà privata e soprattutto della pace, giacché solo nella pace la proprietà privata può dispiegare tutti i suoi effetti». È «la pace la teoria sociale del liberalismo». Da qui la forma di Stato che la società deve abbracciare per adeguarsi all'idea liberale, forma di Stato che è quella democratica, «basata sul consenso espresso dai governati al modo in cui viene esercitata l'azione di governo». In tal modo, «se in uno Stato democratico la linea di condotta del governo non corrisponde più al volere della maggioranza della popolazione, non è affatto necessaria una guerra civile per mandare al governo quanti intendano operare secondo la volontà della maggioranza. Il meccanismo delle elezioni e il parlamentarismo sono appunto gli strumenti che permettono di cambiare pacificamente governo, senza scontri, senza violenza e spargimenti di sangue». E se è vero che, senza questi meccanismi, «dovremmo solo aspettarci una serie ininterrotta di guerre civili», e se è altrettanto vero che il primo obiettivo di ogni totalitario è l'eliminazione di quella sorgente di libertà che è la proprietà privata, a Mises sta a cuore far notare che «i governi tollerano la proprietà privata solo se vi sono costretti, ma non la riconoscono spontaneamente per il fatto che ne conoscono la necessità. È accaduto spessissimo che persino uomini politici liberali, una volta giunti al potere, abbiano più o meno abbandonato i principi liberali. La tendenza a sopprimere la proprietà privata, ad abusare del potere politico, e a disprezzare tutte le sfere libere dall'ingerenza statale, è troppo profondamente radicata nella psicologia del potere politico perché se ne possa svincolare. Un governo spontaneamente liberale è una contradictio in adjecto. I governi devono essere costretti ad essere liberali dal potere unanime dell'opinione pubblica». Insomma, aveva proprio ragione Lord Acton a dire che «il potere tende a corrompere e che il potere assoluto corrompe assolutamente». Un ammonimento, questo, che dovrebbe rendere i cittadini e soprattutto gli intellettuali ed i giornalisti più consapevoli e responsabili. Da Mises ad Hayek. In uno dei suoi lavori più noti e più importanti, e cioè Legge, legislazione e libertà, Hayek afferma: «Lungi dal propugnare uno Stato minimo, riteniamo indispensabile che in una società avanzata il governo dovrebbe usare il proprio potere di raccogliere fondi per le imposte per offrire una serie di servizi che per varie ragioni non possono essere forniti o non possono esserlo in modo adeguato dal mercato». A tale categoria di servizi «appartengono non soltanto i casi ovvi come la protezione dalla violenza, dalle epidemie o dai disastri naturali quali allagamenti e valanghe, ma anche molte delle comodità che rendono tollerabile la vita nelle grandi città, come la maggior parte delle strade, la fissazione di indici di misura, e molti altri tipi di informazione che vanno dai registri catastali, mappe e statistiche, ai controlli di qualità di alcuni beni e servizi». È chiaro che l'esigere il rispetto della legge, la difesa dai nemici esterni, il campo delle relazioni internazionali, sono attività dello Stato. Ma vi è anche, fa presente Hayek, tutta un'altra classe di rischi per i quali solo recentemente è stata riconosciuta la necessità di azioni governative: «Si tratta del problema di chi, per varie ragioni, non può guadagnarsi da vivere in un'economia di mercato, quali malati, vecchi, handicappati fisici e mentali, vedove e orfani, cioè coloro che soffrono condizioni avverse, le quali possono colpire chiunque e contro cui molti non sono in grado di premunirsi da soli ma che una società la quale abbia raggiunto un certo livello di benessere può permettersi di aiutare». La «Grande Società» può permettersi fini umanitari perché è ricca; lo può fare «con operazioni fuori mercato e non con manovre che siano correzioni del mercato medesimo». Ma ecco la ragione per cui esso deve farlo: «Assicurare un reddito minimo a tutti, o un livello cui nessuno scenda quando non può provvedere a se stesso, non soltanto è una protezione assolutamente legittima contro rischi comuni a tutti, ma è un compito necessario della Grande Società in cui l'individuo non può rivalersi sui membri del piccolo gruppo specifico in cui era nato». E, in realtà, ribadisce Hayek, «un sistema che invoglia a lasciare la sicurezza goduta appartenendo ad un gruppo ristretto, probabilmente produrrà forti scontenti e reazioni violente quando coloro che ne hanno goduto prima i benefici si trovino, senza propria colpa, privi di aiuti, perché non hanno più la capacità di guadagnarsi da vivere». Tutto ciò premesso, Hayek torna ad insistere sul pericolo insito anche nelle moderne democrazie dove si è persa la distinzione tra legge e legislazione, vale a dire tra un ordine che «si è formato per evoluzione», un ordine «endogeno» e che si «autogenera» (cosmos) da una parte e dall'altra «un ordine costruito». Un popolo sarà libero se il governo sarà un governo sotto l'imperio della legge, cioè di norme di condotta astratte frutto di un processo spontaneo, le quali non mirano ad un qualche scopo particolare, si applicano ad un numero sconosciuto di casi possibili, e formano un ordine in cui gli individui possano realizzare i loro scopi. E, senza andare troppo per le lunghe, l'istituto della proprietà intendendo con Locke per «proprietà» non solo gli oggetti materiali, ma anche «la vita, la libertà ed i possessi» di ogni individuo costituisce, secondo Hayek, «la sola soluzione finora scoperta dagli uomini per risolvere il problema di conciliare la libertà individuale con l'assenza di conflitti». La Grande società o Società aperta in altri termini «è resa possibile da quelle leggi fondamentali di cui parlava Hume, e cioè la stabilità del possesso, il trasferimento per consenso e l'adempimento delle promesse». Senza una chiara distinzione tra la legge posta a garanzia della libertà e la legislazione di maggioranze che si reputano onnipotenti, la democrazia è perduta. La verità, dice Hayek, è che «la sovranità della legge e la sovranità di un Parlamento illimitato sono inconciliabili». Un Parlamento onnipotente, senza limiti alla legiferazione, «significa la morte della libertà individuale». In breve: «Noi possiamo avere o un Parlamento libero o un popolo libero». Tocqueville, ai suoi tempi, aveva messo in guardia contro la tirannia della maggioranza; oggi, ai nostri giorni, in Italia, si va ben oltre, sempre più nel baratro, con la proposta di una legge elettorale dove si prefigura chiaramente una «tirannia» della minoranza. Dario Antiseri

Quelli che... è sempre colpa del liberalismo. Anche se in Italia neppure esiste. A sinistra (ma pure a destra) è diffusa l'idea che ogni male della società sia frutto dell'avidità e del cinismo capitalistico. Peccato sia l'esatto contrario: l'assenza di mercato e di concorrenza produce ingiustizie e distrugge l'eco..., scrive Dario Antiseri, Domenica 04/09/2016, su "Il Giornale". Una opinione sempre più diffusa e ribadita senza sosta è quella in cui da più parti si sostiene che i tanti mali di cui soffre la nostra società scaturiscano da un'unica e facilmente identificabile causa: la concezione liberale della società. Senza mezzi termini si continua di fatto a ripetere che il liberalismo significhi «assenza di Stato», uno sregolato laissez fairelaissez passer, una giungla anarchica dove scorrazzano impuniti pezzenti ben vestiti ingrassati dal sangue di schiere di sfruttati. Di fronte ad un sistema finanziario slegato dall'economia reale, a banchieri corrotti e irresponsabili che mandano sul lastrico folle di risparmiatori, quando non generano addirittura crisi per interi Stati; davanti ad una disoccupazione che avvelena la vita di larghi strati della popolazione, soprattutto giovanile; di fronte ad ingiustizie semplicemente spaventose generate da privilegi goduti da bande di cortigiani genuflessi davanti al padrone di turno; di fronte ad imprenditori che impastano affari con la malavita e ad una criminalità organizzata che manovra fiumi di (...) (...) denaro; di fronte a queste e ad altre «ferite» della società, sul banco degli imputati l'aggressore ha sempre e comunque un unico volto: quello della concezione liberale della società. E qui è più che urgente chiedersi: ma è proprio vero che le cose stanno così, oppure vale esattamente il contrario, cioè a dire che le «ferite» di una società ingiusta, crudele e corrotta zampillano da un sistematico calpestamento dei principi liberali, da un tenace rifiuto della concezione liberale dello Stato? Wilhelm Röpke, uno dei principali esponenti contemporanei del pensiero liberale, muore a Ginevra il 12 febbraio del 1966. Nel ricordo di Ludwig Erhard, allora Cancelliere della Germania Occidentale: «Wilhelm Röpke è un grande testimone della verità. I miei sforzi verso il conseguimento di una società libera sono appena sufficienti per esprimergli la mia gratitudine, per avere egli influenzato la mia concezione e la mia condotta». E furono esattamente le idee della Scuola di Friburgo alla base della strabiliante rinascita della Germania Occidentale dopo la fine della seconda guerra mondiale. Ancora Erhard, qualche anno prima, nel 1961: «Se esiste una teoria in grado di interpretare in modo corretto i segni del tempo e di offrire un nuovo slancio simultaneamente ad un'economia di concorrenza e a un'economia sociale, questa è la teoria proposta da coloro che vengono chiamati neoliberali o ordoliberali. Essi hanno posto con sempre maggiore intensità l'accento sugli aspetti politici e sociali della politica economica affrancandola da un approccio troppo meccanicistico e pianificatore». E tutt'altro che una assenza dello Stato caratterizza la proposta dei sostenitori dell'Economia sociale di mercato. La loro è una concezione di uno Stato forte, fortissimo, istituito a presidio di regole per la libertà: «Quel che noi cerchiamo di creare - affermano Walter Eucken e Franz Böhm nel primo numero di Ordo (1948) è un ordine economico e sociale che garantisca al medesimo tempo il buon funzionamento dell'attività economica e condizioni di vita decenti e umane. Noi siamo a favore dell'economia di concorrenza perché è essa che permette il conseguimento di questo scopo. E si può anche dire che tale scopo non può essere ottenuto che con questo mezzo». Non affatto ciechi di fronte alle minacce del potere economico privato sul funzionamento del mercato concorrenziale né sul fatto che le tendenze anticoncorrenziali sono più forti nella sfera pubblica che in quella privata, né sui torbidi maneggi tra pubblico e privato, gli «Ordoliberali» della scuola di Friburgo, distanti dalla credenza in un'armonia spontanea prodotta dalla «mano invisibile», hanno sostenuto l'idea che il sistema economico deve funzionare in conformità con una «costituzione economica» posta in essere dallo Stato. Scrive Walter Eucken nei suoi Fondamenti di economia politica (1940): «Il sistema economico deve essere pensato e deliberatamente costruito. Le questioni riguardanti la politica economica, la politica commerciale, il credito, la protezione contro i monopoli, la politica fiscale, il diritto societario o il diritto fallimentare, costituiscono i differenti aspetti di un solo grande problema, che è quello di sapere come bisogna stabilire le regole dell'economia, presa come un tutto a livello nazionale ed internazionale». Dunque, per gli Ordoliberali il ruolo dello Stato nell'economia sociale di mercato non è affatto quello di uno sregolato laissez-faire, è bensì quello di uno «Stato forte» adeguatamente attrezzato contro l'assalto dei monopolisti e dei cacciatori di rendite. Eucken: «Lo Stato deve agire sulle forme dell'economia, ma non deve essere esso stesso a dirigere i processi economici. Pertanto, sì alla pianificazione delle forme, no alla pianificazione del controllo del processo economico». «Non fa d'uopo confutare ancora una volta la grossolana fola che il liberalismo sia sinonimo di assenza dello Stato o di assoluto lasciar fare o lasciar passare». Questo scrive Luigi Einaudi in una delle sue Prediche inutili (dal titolo: Discorso elementare sulle somiglianze e sulle dissomiglianze tra liberalismo e socialismo). E prosegue: «Che i liberali siano fautori dello Stato assente, che Adamo Smith sia il campione dell'assoluto lasciar fare e lasciar passare sono bugie che nessuno studioso ricorda; ma, per essere grosse, sono ripetute dalla più parte dei politici, abituati a dire: superata l'idea liberale; non hanno letto mai nessuno dei libri sacri del liberalismo e non sanno in che cosa esso consista». Contro Croce, per il quale il liberalismo «non ha un legame di piena solidarietà col capitalismo o col liberismo economico della libera concorrenza», Einaudi giudica del tutto inconsistente simile posizione in quanto una società senza economia di mercato sarebbe oppressa da «una forza unica dicasi burocrazia comunista od oligarchia capitalistica capace di sovrapporsi alle altre forze sociali», con la conseguenza «di uniformizzare e conformizzare le azioni, le deliberazioni, il pensiero degli uomini». Così Einaudi nel suo contrasto con Croce (in B. Croce-L. Einaudi, Liberismo e Liberalismo, 1957). È un fatto sotto gli occhi di tutti che ipertrofia dello Stato ed i monopoli sono storicamente nemici della libertà. Monopolismo e collettivismo ambedue sono fatali alla libertà. Per questo, tra i principali compiti dello Stato liberale vi è una lotta ai monopoli, a cominciare dal monopolio dell'istruzione. Solo all'interno di precisi limiti, cioè delle regole dello Stato di diritto, economia di mercato e libera concorrenza possono funzionare da fattori di progresso. Lo Stato di diritto equivale all'«impero della legge», e l'impero della legge è condizione per l'anarchia degli spiriti. Il cittadino deve obbedienza alla legge legge che deve essere «una norma nota e chiara, che non può essere mutata per arbitrio da nessun uomo, sia esso il primo dello Stato». Uguaglianza giuridica di tutti i cittadini davanti alla legge; e, dalla prospettiva sociale, uguaglianza delle opportunità sulla base del principio che «in una società sana l'uomo dovrebbe poter contare sul minimo necessario per la vita» un minimo che sia «non un punto di arrivo, ma di partenza; una assicurazione data a tutti gli uomini perché tutti possano sviluppare le loro attitudini» (Lezioni di politica sociale, 1944). Netta appare, quindi, la differenza tra la concezione liberale dello Stato e la concezione socialista dello Stato, nonostante che l'una e l'altra siano animate dallo stesso ideale di elevamento materiale e morale dei cittadini. «L'uomo liberale vuole porre norme osservando le quali risparmiatori, proprietari, imprenditori, lavoratori possano liberamente operare, laddove l'uomo socialista vuole soprattutto dare un indirizzo, una direttiva all'opera dei risparmiatori, proprietari, imprenditori suddetti. Il liberale pone la cornice, traccia i limiti dell'operare economico, il socialista indica o ordina le maniere dell'operare» (Liberalismo e socialismo in Prediche inutili). E ancora: «Liberale è colui che crede nel perfezionamento materiale o morale conquistato con lo sforzo volontario, col sacrificio, colla attitudine a lavorare d'accordo cogli altri; socialista è colui che vuole imporre il perfezionamento colla forza, che lo esclude, se ottenuto con metodi diversi da quelli da lui preferito, che non sa vincere senza privilegi a favor proprio e senza esclusive pronunciate contro i reprobi». Il liberale discute per deliberare, prende le sue decisioni dopo la più ampia discussione; ma questo non fa colui che presume di essere in possesso della verità assoluta: «Il tiranno non ha dubbi e procede diritto per la sua via; ma la via conduce il paese al disastro». Dario Antiseri

"Liberali di tutta Italia, svegliatevi". Pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore "La Nave di Teseo", un brano dal nuovo libro di Nicola Porro, "La disuguaglianza fa bene", scrive Nicola Porro, Lunedì 12/09/2016, su "Il Giornale". Nel tempo in cui viviamo, bisogna diffidare di quanti si definiscono liberali senza esserlo. I principi del liberalismo classico, nonostante sembrino accettati da tutti, non lo sono fino in fondo. Da quanto abbiamo appena detto, il liberale tende a essere conservatore quando c’è una libertà da proteggere (il diritto di proprietà, ad esempio, di chi non riesce a sfrattare un inquilino moroso), progressista quando se ne devono tutelare di nuove (si pensi alle recenti minacce alla nostra privacy da parte di banche, stati o anche motori di ricerca) e talvolta anche reazionario quando occorre recuperare diritti sepolti nel passato (ad esempio una tassazione ridotta). Il filo rosso che lega queste diverse attitudini è ciò che Dario Antiseri definisce l’«individualismo metodologico»: la storia è guidata dalle azioni degli individui e sono questi ultimi che determinano le scelte fondamentali dell’economia. La collettività non esiste in sé, è la somma di una molteplicità di individui. Come diceva Pareto, un altro grande liberale di cui parleremo: «I tempi eroici del socialismo sono passati, i ribelli di ieri sono i soddisfatti di oggi». Il rischio è che questi soddisfatti si spaccino per liberali e anzi finiscano per spiegare ai liberali come devono comportarsi, anche in virtù degli errori che essi stessi hanno commesso. Quanti intellettuali ex maoisti, ex comunisti, ex gruppettari, ex fiancheggiatori delle Brigate rosse e delle rivolte di piazza, oggi in posizioni di comando, decantano le virtù del mercato? Se la loro fosse una conversione ragionata, alla Mamet come leggeremo, la cosa non dovrebbe scandalizzarci. Il problema è che i soddisfatti di oggi hanno un’idea farsesca del liberalismo e lo associano al loro personale successo. Che nella gran parte dei casi è arrivato solo grazie alle loro spiccate capacità di relazione. Fermatevi un attimo, pensate agli intellettuali che contano e vedrete due caratteristiche ricorrenti: hanno praticamente tutti combattuto contro i liberali tra gli anni sessanta e settanta eppure oggi spiegano al mondo i pregi del liberalismo, che a seconda dei casi si porta dietro l’aggettivo sociale o democratico. I veri liberali, non solo di casa nostra, si devono dare una mossa. Svegliarsi da un letargo ideale, che dura da qualche lustro. Il progresso tecnologico e quello degli ordini più o meno spontanei in cui si sono trasformate le nostre istituzioni obbliga anche i liberali di ieri ad affrontare, sul piano teorico, nuove sfide. Se i principi restano i medesimi, il contesto e le minacce sono cambiate. Alcuni dei veleni tipici del mercato hanno preso forme diverse, soprattutto quando sono coinvolte istituzioni finanziarie e grandi corporation digitali. Il monopolio e la sua rendita, il ruolo del free rider (cioè di chi ottiene benefici senza pagarne il prezzo) e il peso del moral hazard (ovvero prendere rischi enormi contando sul fatto di essere poi salvati, come nel caso di alcune note banche) hanno assunto forme diverse. Non è questo certo il luogo per affrontare in modo dettagliato il problema. Qualcosa si può dire, però. Un liberale classico pretende che l’impresa con perduranti conti in rosso fallisca. Altrimenti si stravolgerebbe la regola principale del mercato e della concorrenza. Il discorso vale anche per le banche. E se vale per le banche di una nazione, dovrebbe valere per tutti, vista la globalizzazione dei mercati? La risposta, sia chiaro, non è univoca. Anche dal punto di vista strettamente liberale. Taluni ad esempio potrebbero, per la tutela suprema del mercato, continuare a pensare che in ultima analisi salvare il fallito danneggerà anche il salvatore: e dunque chiederanno il fallimento delle banche nonostante i paesi vicini le sostengano con denaro pubblico. D’altra parte è anche vero che la discussione sembra essersi spostata dai conti dell’impresa ai bilanci della politica, dagli scambi sul mercato alle trattative nei palazzi del potere. Come rispondere alle imprese che sono tutelate e protette dalle proprie leggi nazionali, nonostante abbiano i conti in disordine? Insomma è una sfida nuova al pensiero liberale tradizionale. Così come si è rinnovata la battaglia contro i monopoli. Una fissazione di Luigi Einaudi, ma non solo. Pensiamo a quando Facebook – tra poco con i suoi 1,7 miliardi di abitanti la nazione più popolata della Terra – o Google – praticamente l’unico motore di ricerca sopravvissuto – diventeranno dei rentiers, dei profittatori della posizione privilegiata che hanno conquistato, e non più degli innovatori. E qui dimentichiamo per un attimo la gigantesca questione della privacy (altro terreno inesplorato) e andiamo al centro degli affari. Grazie al loro successo questi colossi spazzeranno via dal mercato (comprandolo) ogni concorrente. È sbagliato pensare che lo stato si debba occupare di loro, ma altrettanto illogico ritenere che il set di regole pensate per l’atomo si possa adattare al mondo dei byte: siamo di fronte a un processo simile a quello che ha visto cambiare le nostre civiltà da agricole a industriali. E che oggi le vede diventare digitali. Nuove entusiasmanti sfide per i liberali, che ieri contestavano Pigou e le sue esternalità basate sull’inquinamento dell’industria nei fiumi, e oggi dovranno capire come, e se, contenere gli effetti collaterali del digitale. Facebook ha impiegato quattro anni a toccare la favolosa capitalizzazione di borsa di 350 miliardi di dollari (praticamente quanto vale l’intera borsa italiana), Google nove, Microsoft tredici, Amazon diciotto e Apple trentuno anni. La velocità con cui queste grandi multinazionali assumono dimensioni finanziarie gigantesche è aumentata vertiginosamente. Ciò può spaventare, ma d’altro canto può anche rappresentare la fragilità di questi colossi: come velocemente sono nati e cresciuti, così rapidamente si possono sgonfiare. Chi mai pensava che Yahoo sarebbe stata acquistata per pochi (si fa per dire, meno di 5) miliardi di euro da un operatore telefonico? Il dilemma di un liberale oggi resta: si deve intervenire o no nella regolazione economica? E come? Problemi di sempre, ma che oggi hanno cambiato forma. 

Antonio Socci su “Libero Quotidiano” del 13 giugno 2016, il sospetto terrificante: complotto contro Cav e Ratzinger. Robert Spaemann e Josef Seifert, due filosofi cattolici, amici e collaboratori di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, demoliscono l'Amoris laetitia (e il pensiero) di Bergoglio. Il cardinale Mueller definisce «eretica» l'affermazione di «uno dei più stretti consiglieri» di Bergoglio. Mentre il catto-conservatore americano George Weigel, che sta con Bergoglio, se la prende con Benedetto XVI perché è ancora «papa emerito», mentre - secondo lui - doveva tornare semplicemente vescovo. Sono fatti di questi giorni. Nella Chiesa è in corso un terremoto. Ma per capirlo bisogna partire dagli antefatti. Non era mai accaduto, in 2000 anni, che un papa iniziasse il suo pontificato dicendo: «Pregate per me perché io non fugga per paura davanti ai lupi». Per un curioso caso proprio quel papa, senza alcun grosso motivo dichiarato, poi «rinuncia» al ministero (il diritto canonico lo ammette, ma per gravissimi motivi). Tuttavia decide - primo nella storia - di essere «papa emerito», dicendo nel suo ultimo discorso: «La mia decisione di rinunciare all' esercizio attivo del ministero, non revoca questo». Fu vera rinuncia? Nel febbraio del 2014 pubblicai su Libero un'inchiesta su questa domanda e sulle cause di quella vicenda misteriosa, anche perché era evidente che Ratzinger non aveva problemi di salute. Un vaticanista andò a disturbarlo. E alla domanda sul perché era rimasto papa emerito (invece di tornare vescovo), si sentì rispondere: «Il mantenimento dell'abito bianco e del nome Benedetto è una cosa semplicemente pratica. Nel momento della rinuncia non c' erano a disposizione altri vestiti». La veste misteriosa - Una raffinata e ironica elusione della domanda: come si poteva credere che, invece di tornare vescovo (come di prassi), Benedetto fosse rimasto papa per motivi sartoriali? In tutto il Vaticano non c'era una tonaca nera? Una tale risposta faceva capire che, in quel momento, il papa non poteva ancora parlare e c'era un mistero. Solo ora, dopo tre anni, i veli finalmente si stanno squarciando. Il 21 maggio scorso infatti mons. Georg Gaenswein, segretario di Ratzinger, ha tenuto un'esplosiva conferenza dove ha ribaltato la «tesi sartoriale», rivelando che dal 2013 c' è un «ministero (petrino) allargato. Per questo Benedetto XVI non ha rinunciato né al suo nome, né alla talare bianca. Per questo l'appellativo corretto con il quale rivolgerglisi ancora oggi è "Santità". Egli non ha abbandonato l'ufficio di Pietro, egli ha invece rinnovato quest' ufficio». Inoltre siamo in «una sorta di stato d' eccezione» e quello di Benedetto è un «pontificato d' eccezione». Il fulmine di quel giorno su San Pietro? «Di rado il cosmo ha accompagnato in modo più drammatico una svolta storica». Gaenswein ha pure spiegato che Benedetto non si è dimesso per la vicenda Vatileaks: «Quello scandalo era troppo piccolo per una cosa del genere e tanto più grande il ben ponderato passo di millenaria portata storica che Benedetto XVI ha compiuto». Dunque tutt' altro che un banale andare in pensione con la veste bianca perché era nell' armadio. Oggi si scopre che si tratta di un «passo di millenaria portata storica» in cui Benedetto «non ha affatto abbandonato questo ministero». Il terremoto in corso nella Chiesa ruota attorno a questi eventi. Ma va letto all' interno di un complicato scontro geopolitico e ideologico planetario. In esso c' è anche la chiave per capire i fatti politici degli ultimi anni: l'egemonia tedesca della Ue che ha terremotato la nostra economia; la defenestrazione di Berlusconi del 2011 e l'arrivo di Monti e Renzi; la criminalizzazione e l'isolamento di Putin; il tumulto per la Brexit (forse pure il crollo del prezzo del petrolio). L'alleanza proibita - I contorni di questa guerra non convenzionale emergono ora grazie al tramonto di Obama, all' irrompere dei cosiddetti «populismi» che in Europa sono nati per reazione alla Ue tecnocratica (tedesca) e grazie al terremoto rappresentato dal successo di Trump, un corpo estraneo per la Casta americana, fatta di Democratici, di Wall Street e (alcuni) Repubblicani. In sintesi l'obiettivo strategico della Casta americana - rappresentata da Obama e dalla Clinton - è impedire che si saldi la storica alleanza fra Europa e Russia che farebbe la fortuna di entrambe: la prima ha un'enorme potenza tecnologica e industriale, la seconda è un immenso scrigno di risorse naturali. Una tale alleanza euro-asiatica, di 800 milioni di persone unite da una storia che affonda le sue radici nel cristianesimo (fortemente riscoperto nella Russia di Putin), diventerebbe inevitabilmente interlocutrice della Cina (il più grande mercato del pianeta) e produrrebbe di fatto un mondo multipolare. Gli Usa hanno cercato di far saltare questa prospettiva anzitutto destabilizzando alcuni paesi ex sovietici, in particolare l'Ucraina, sostenendo lì regimi antirussi. Poi costringendo l'Europa a imporre sanzioni economiche alla Russia per isolare Putin (sanzioni che all' Italia costano tantissimo). Infine cercando addirittura di allargare la Nato fino ai Paesi baltici, con strategie aggressive e provocatorie (come le esercitazioni militari Anaconda 2016 di questi giorni). Lo scopo è creare un corridoio che dall'Europa occidentale arriva fino all' Asia (l'Ucraina è fondamentale). Questa strategia americana presuppone però un'Europa unificata sotto la Germania, come tecnocrazia, e sotto un'ideologia «liberal» (ovvero laicista), per isolare Putin. Per conseguire tale obiettivo dovevano essere spazzati via i soggetti estranei a questo progetto. Per esempio - in Italia - quel Berlusconi che prendeva le distanze dalla tecnocrazia Ue e propagandava l'amicizia e l'alleanza con Putin. Silurato. Ieri il «populista» Nigel Farage ha fatto la «vera storia d' Europa» di questi anni in una mirabolante intervista al Corriere della Sera dove spiega come siamo diventati «una colonia tedesca». Ma uno degli intoppi per questo progetto era rappresentato anche dalla Chiesa di Benedetto XVI. Paradossalmente il papa tedesco era un ostacolo per una Ue a guida tedesca, sotto l'egemonia «liberal» obamiana. Fu prospettato a Benedetto XVI di accettare una «riunificazione ecumenica» con i protestanti del Nord Europa e del Nord America per dar vita a una sorta di «religione comune dell'Occidente». Per la Chiesa Cattolica significava sciogliersi nel minestrone del pensiero unico «politically correct». Diventando un irrilevante museo folk in un'Europa «multiculturale». A questa «dittatura del relativismo» Benedetto XVI disse no. Rispose: finché ci sono io non accadrà. Il «caso» volle che dopo un po' sentì venir meno il vigore e fu costretto a rinunciare all'«esercizio attivo» del ministero petrino (rinuncia a metà?). Dentro la Chiesa - ha spiegato Gaenswein - era in corso un «drammatico scontro» fra la fazione progressista e quanti seguivano Ratzinger nella sua lotta contro «la dittatura del relativismo». I progressisti persero al Conclave del 2005, ma, dopo la rinuncia, vinsero nel 2013. Religione imperiale - Ora papa Bergoglio ha fatto sua l'Agenda Obama. Il 18 maggio, a Washington, al Catholic-Evangelical Leadership Summit, Obama ha affermato che le chiese devono lasciar perdere i «temi divisivi» come aborto e matrimoni gay e dedicarsi al problema della povertà. L' Impero vuole una Chiesa «assistente sociale» che consola i perdenti nell' ospedale da campo dei poteri forti, ma non disturba i manovratori. La candidata Hillary Clinton un anno fa, a un convegno di femministe abortiste, ha addirittura affermato: «I codici culturali profondamente radicati, le credenze religiose e i pregiudizi strutturali devono essere modificati». Le chiese dunque devono arrendersi al laicismo «liberal» dell'Impero. Di fatto Bergoglio ha abbandonato i «principi non negoziabili». E ora lui, da sempre in ottimi rapporti con i protestanti americani, si prepara al viaggio del 31 ottobre in Svezia per celebrare Lutero e «ricucire» a 500 anni esatti dallo scisma. Prove di nuova religione imperiale? Antonio Socci

Antonio Socci su “Libero Quotidiano” del 3 settembre 2016: "Il Papa, l'islam e migranti. Dopo secoli, così fa a pezzi la Chiesa". Proprio nelle stesse ore in cui il Viminale dava notizia di una nuova ondata migratoria all' assalto dell' Italia (oltre 13 mila in soli quattro giorni: siamo già arrivati a 145 mila migranti ospitati, quando in tutto il 2015 erano stati 103 mila), proprio nelle stesse ore - dicevo - Papa Bergoglio ha varato un nuovo dicastero sociale prendendo lui stesso - in persona - la responsabilità della sezione migranti per potenziare al massimo le sue pressioni per l' abbattimento delle frontiere d' Europa. Ormai quello dell'emigrazione, per lui, è qualcosa più di un'ossessione: è un dogma ideologico con cui sta sostituendo i bimillenari pilastri della Chiesa Cattolica. Non lo sfiora l'idea che l'emigrazione, in sé, sia una tragedia che dovrebbe essere scongiurata (sia per i paesi d' origine, sia per chi parte, sia per i paesi d' arrivo). Così come lo lascia indifferente la crisi del nostro stato sociale che ormai non riesce più a sostenere nemmeno le fasce indigenti della popolazione italiana. È indifferente pure all' enorme problema rappresentato dall' immigrazione musulmana in Europa che risulta non assimilabile ai nostri valori e a volte permeabile alla predicazione violenta o terroristica. La propaganda bergogliana per una immigrazione indiscriminata iniziò nel luglio 2013 con il viaggio a Lampedusa (che è stato preso come un invito a salpare dalle coste africane) ed è stata particolarmente devastante per l'Italia. L' ultimo numero di Limes dedicato proprio all' emigrazione, rileva la novità del 2016: «da Paese di transito siamo diventati Paese obiettivo». La rivista di geopolitica aggiunge: «L' Italia sta cambiando pelle» e «immaginare che mutamenti tanto profondi possano impattare sull' Italia senza produrvi strappi, a tessuto sociale e politico-istituzionale costante, implica l'uso di sostanze stupefacenti. Eppure proprio questa sembra la postura della nostra classe dirigente». L'asse con la sinistra - Purtroppo l'asse Bergoglio-Sinistra porta non solo a sottovalutare il problema, ma, peggio, a considerarlo positivo. A marzo scorso Bergoglio ha apertamente ammesso che è in atto una «invasione araba», ma che non è di per sé una cosa negativa. Del resto ha anche giustificato ed elogiato l'Islam in tutti i modi, assestando invece sui cattolici (e sull' Occidente) una gragnuola continua di accuse. Bergoglio sembra perseguire un progetto nichilista di distruzione delle identità dei popoli e della Chiesa stessa, nella quale assistiamo da tre anni a un radicale ribaltamento di direzione. Fino a Giovanni Paolo II e a Benedetto XVI - in continuità con duemila anni di tradizione cattolica - la missione fondamentale è stata spirituale (la salvezza eterna), al centro delle preoccupazioni e del lavoro della Chiesa c' è stata l'evangelizzazione (per far fronte alla scristianizzazione di interi popoli) e la difesa della vita e della famiglia, come fondamenti dell'umano aggrediti dall' ideologia moderna. Con Bergoglio sparisce ciò che è spirituale e soprannaturale e tutta la scena viene occupata dai temi mondani della rozza Teologia della liberazione sudamericana (un cattocomunismo ribollito). Bergoglio infatti intrattiene rapporti fraterni con tutti i capoccia della sinistra sudamericana, a cominciare da quel Morales che gli regalò il crocifisso su Falce e martello, per finire alla brasiliana Dilma Rousseff, appena destituita e sottoposta a impeachment (Leonardo Boff, uno dei padri della Teologia della liberazione, amico personale di Bergoglio, ha reso noto che il papa argentino ha scritto una lettera personale di sostegno alla Roussef). Ma ancor di più Bergoglio è vezzeggiato dai magnati del nuovo capitalismo americano che amano atteggiarsi da progressisti magari sostenendo le crociate più anticattoliche dell'ideologia politically correct. I paperoni laicisti - Il pellegrinaggio di questi paperoni laicisti da Bergoglio è continuo: l'ultimo in ordine di tempo è stato Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook. Il 22 gennaio scorso era stata la volta di Tim Cook, amministratore delegato di Apple, che ha portato a Bergoglio una grossa elargizione (pecunia non olet). Pure Leonardo Di Caprio il 28 gennaio si è presentato con un assegno «per opere di carità». Bergoglio aveva ricevuto anche il capo di Google, Eric Schmidt e - a fine febbraio - Kevin Systrom, fondatore e amministratore delegato di Instagram. Invece il Papa argentino ha chiuso la porta in faccia ai poverissimi familiari di Asia Bibi, la madre cristiana condannata a morte in Pakistan per la sua fede, quando sono venuti in Europa a cercare aiuto e sostegno (hanno trovato appoggio perfino in Hollande, ma Bergoglio non ha accordato loro un'udienza privata o un appello pubblico). Solo per miliardari e vip ha sempre la porta spalancata. Ma il suo sponsor più potente e discusso è il famoso speculatore d' assalto George Soros (recentemente schieratosi contro la Brexit). Considerando il tipo di cause che Soros sostiene e finanzia è sicuramente da considerarsi un nemico della Chiesa Cattolica. Proprio le sue battaglie sono venute alla luce di recente grazie ad hacker che hanno reso pubblici migliaia di documenti della sua Open Society. Si è appreso del sostegno dato alla causa dell'aborto e a quella Lgbt, infine alla lotta contro la cosiddetta islamofobia (la sua fondazione finanzia anche organizzazioni anti-israeliane). Si batte inoltre a favore dell'emigrazione in Europa da considerarsi come «nuovo standard di normalità». Infine è emerso - ma i giornali italiani lo hanno taciuto - che Soros è potentemente intervenuto perché si cambino «le priorità della Chiesa Cattolica Usa» e perché i vescovi americani si allineino a Bergoglio. Lo scopo è portare l'elettorato cattolico a votare Clinton (di cui Soros è donatore) e non Trump. Cambiare le priorità della Chiesa significa accantonare i temi della famiglia e della vita e sbandierare i temi sociali cari ai liberal, alla Sinistra. Già altri potentati nei decenni scorsi hanno cercato di influenzare cattolici e gerarchia per sovvertire l'insegnamento della Chiesa. Ma ora, per la prima volta, hanno il loro migliore alleato nel vescovo di Roma. Nella Chiesa di Bergoglio sono spariti i «principi non negoziabili» e pure su sacramenti e legge morale si assestano colpi pesanti. Mentre sono stati elevati a verità indiscutibili l'emigrazione e l'ambientalismo più eco-catastrofista. Ieri per esempio Bergoglio ha celebrato la Giornata mondiale di preghiera per la cura del creato. Non una giornata mondiale di preghiera per i cristiani perseguitati e massacrati, ma una giornata per la salvaguardia di zanzare e piccoli rettili di cui si preoccupa già nella sua enciclica ecologista. Sapore new age - È quella nuova «religione della terra» di sapore New age, cioè gnostico, che già ha celebrato il suo trionfo con la mostruosa proiezione di scimmioni sulla facciata di San Pietro. Nel suo messaggio per l'evento di ieri, Bergoglio chiede una «conversione ecologica». In un'epoca di grande apostasia, in cui interi popoli hanno dimenticato Dio, Bergoglio - vicario di un «Dio non cattolico» (parole sue) - chiede la «conversione ecologica», invece della conversione a Gesù Cristo. Inoltre papa Bergoglio - che evita di rinnovare il grido di dolore dei predecessori davanti a un miliardo di aborti in 20 anni - invita a pentirsi «del male che stiamo facendo alla terra», per esempio, quando non facciamo la raccolta differenziata, quando non facciamo un uso oculato della plastica e quando non utilizziamo il trasporto pubblico, ma quello privato (esempi suoi). Queste trasgressioni vanno confessate ed espiate, dice il Papa che nell' Amoris laetitia ha archiviato i peccati mortali da sempre condannati nel Vangelo. Come si vede qua il cambiamento di priorità è vertiginoso. Benedetto XVI aveva iniziato il suo pontificato tuonando contro «la dittatura del relativismo», Bergoglio in questo regime nichilista e anticristiano è invece applauditissimo. Antonio Socci

Antonio Socci su “Libero Quotidiano” del 20 agosto 2016: il megasiluro su islam e Papa. Sberla ai cristiani che stanno con Allah. Ieri Avvenire ha pubblicato un editoriale (un editoriale esprime la linea ufficiale del giornale) e il cuore di tale editoriale è un'enormità fuori dalla fede cattolica. Purtroppo tale editoriale è firmato da un mio amico di Cl, ma bisogna essere anzitutto amici della verità, per cui - con dolore - devo rilevare che se il giornale della Cei propone una simile idea come suo editoriale, siamo a un passo dall'abisso (e anche dal ridicolo). Ecco la frase su cui l'editoriale di Avvenire costruisce tutto il suo teorema bergogliano: "Infatti, per chiunque creda - cristiano o islamico o ebreo - Dio è uno, grande, onnipotente, misericordioso. Le differenze semmai sono a riguardo dell'io". Come si vede ormai "l'effetto Bergoglio" sta dilagando. Siamo alle parole in liberà. A leggere questo editoriale del giornale della Cei infatti la fede dei cristiani e dei musulmani sarebbe la stessa e identica sarebbe la loro concezione di Dio. Ma il direttore di Avvenire, Tarquinio, che un tempo fu ratzingeriano, non ha mai sentito parlare della Santissima Trinità che è il cuore della fede cristiana e che i musulmani ritengono la peggiore delle bestemmie? nella cupola della Moschea della Roccia, costruita dai musulmani sul luogo santo degli ebrei, al posto dell'antico Tempo di Gerusalemme, campeggia una scritta che appunto nega la Trinità. L'islam in quella scritta proclama: "Dio non ha un figlio". L'islam nasce proprio dalla negazione della divinità di Gesù Cristo e dalla negazione della Trinità di Dio. È il più radicale e violento attacco che si sia visto al cuore della fede cristiana. Possiamo dunque dire che non c'è differenza nella concezione di Dio fra cristiani e musulmani? È lo stesso apostolo san Giovanni a chiarire che se non si riconosce il Figlio, non si possiede nemmeno il Padre: "Chi è il menzognero se non colui che nega che Gesù è il Cristo? L'anticristo è colui che nega il Padre e il Figlio. Chiunque nega il Figlio, non possiede nemmeno il Padre; chi professa la sua fede nel Figlio possiede anche il Padre (1Gv 2, 22-23). Mi sembra chiarissimo. Ed è ovvio che l'abissale differenza nella concezione dell'"io" (della persona), fra islam e cristianesimo, deriva proprio da un'abissale differenza nella concezione di Dio. Ad avvenire però lo ignorano. So per certo che l'editorialista ha almeno sentito parlare della Santissima Trinità e del credo trinitario dei cristiani. Tuttavia i tempi - nella Chiesa e dentro Cl - sono tali che la Verità della fede viene ormai allegramente cestinata, per dar voce alle più assurde supercazzole. Mi pare, vedendo quello che accade nella Chiesa (e anche il triste spettacolo del Meeting 2016) che si possa dire che molti "si vergognano di Cristo", come amaramente lamentò don Giussani nella sua ultima intervista. Oggi questa tendenza è diventata dominante dentro Cl e nella Chiesa. Solo come memorandum riproduco qui sotto alcuni passi della Dominus Jesus che ricordano a tutti qual è la fede dei cattolici: "Il perenne annuncio missionario della Chiesa viene oggi messo in pericolo dalle teorie di tipo relativistico che intendono giustificare il pluralismo religioso, non solo de facto ma anche de iure (o di principio). Di conseguenza, si ritengono superate verità come, ad esempio, il carattere definitivo e completo della rivelazione di Gesù Cristo, la natura della fede cristiana rispetto alla credenza nelle altre religioni, il carattere ispirato dei libri della Sacra Scrittura, l'unità personale tra il Verbo eterno e Gesù di Nazareth, l'unità dell'economia del Verbo incarnato e dello Spirito Santo, l'unicità e l'universalità salvifica del mistero di Gesù Cristo, la mediazione salvifica universale della Chiesa, l'inseparabilità, pur nella distinzione, tra il Regno di Dio, Regno di Cristo e la Chiesa, la sussistenza nella Chiesa cattolica dell'unica Chiesa di Cristo". Per porre rimedio a questa mentalità relativistica, che si sta sempre più diffondendo, occorre ribadire anzitutto il carattere definitivo e completo della rivelazione di Gesù Cristo. Deve essere, infatti, fermamente creduta l'affermazione che nel mistero di Gesù Cristo, Figlio di Dio incarnato, il quale è "la via, la verità e la vita" (Gv 14,6), so dà la rivelazione della pienezza della verità divina: "Nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare" (Mt 11,27); "Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato" (Gv 1,18); "È in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità e voi avete in lui parte alla sua pienezza" (Col 2,9-10). Fedele alla parola di Dio, il Concilio Vaticano II insegna: "La profonda verità, poi, sia su Dio sulla salvezza dell'uomo, risplende a noi per mezzo di questa rivelazione nel Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta la rivelazione". E ribadisce: "Gesù Cristo dunque, Verbo fatto carne, mandato come 'uomo agli uomini', 'parla le parole di Dio' (Gv 3,34) e porta a compimento l'opera di salvezza affidatagli dal Padre (cf. Gv 5,36; 17,4). Perciò egli, vedendo il quale si vede il Padre (cf Gv 14,9), col fatto stesso della sua presenza e manifestazione di Sè, con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e con la gloriosa risurrezione dai morti, e infine, con l'invio dello Spirito di verità compie e completa la rivelazione e la conferma con la testimonianza divina [...]. L'Economia cristiana, dunque, in quanto è l'alleanza nuova e definitiva, non passerà mai, e non si dovrà attendere alcuna nuova rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo" (cf 1 Tm 6,14 e Tt 2,13). Per questo l'enciclica Redemptoris missio ripropone alla Chiesa il compito di proclamare il Vangelo, come pienezza della verità: "In questa Parola definitiva della sua rivelazione, Dio si è fatto conoscere nel modo più pieno: egli ha detto all'umanità chi è. E questa autorivelazione definitiva di Dio è il motivo fondamentale per cui la Chiesa è per sua natura missionaria. Essa non può non proclamare il Vangelo, cioè la pienezza della verità che Dio ci ha fatto conoscere intorno a se stesso". Solo la rivelazione di Gesù Cristo quindi "immette nella nostra storia una verità universale e ultima, che provoca la mente dell'uomo a non fermarsi mai". Antonio Socci

Non scappano: ci invadono! Scrive Nino Spirlì su “Il Giornale” Giovedì 1 settembre 2016. Ci siamo distratti con l’apocalittica tragedia di casa nostra, il drammatico terremoto del Centro Italia, e loro, farabutti, ne hanno approfittato! Quasi quindicimila sbarcati in quattro giorni. In verità, siamo andati a prenderli fin sul bagnasciuga libico e li abbiamo portati, sani e salvi fin dentro le nostre viscere. Altri quindicimila (quasi, per gli amanti della precisione) vagabondi, mantenuti e viziati. Tutti armati di smartphone e agenda di indirizzi dei migliori hotel disponibili sul suolo italico. Quelli dove si dorme e si mangia bene, dove le piscine sono piene e funzionanti, le SPA attive anche nella sala massaggi, la vista è confortevole e romantica. Quelli collegati con la navetta col Centro città o che hanno vicino le villette da svuotare, gli anziani da violare e rapinare, magari uccidere. Quelli buoni, dove c’è il wifi che funziona. Noi ci dedichiamo ai nostri Italiani morti sotto le macerie dell’ira di Dio, facciamo quadrato sui loro bisogni mettendo mano al portafogli, e lo Stato e l’UE, tartassando noi, si occupa dei clandestini: li coccolano e li vezzeggiano come fossero graziadiddio! Non può andare avanti così! Non può essere che questa Italia, questa Europa, vengano invase senza colpo ferire da interi popoli di furbastri con la fedina penale incerta… Forse sporca. Magari sporchissima. La maggior parte di questi codardi non scappa da Paesi in guerra. Non lascia madre, sorelle, mogli e figlie, in pericolo di stupro, schiavitù e morte. E se lo fa, è merda umana! La maggior parte di questa teppa è chiamata a cancellare secoli di lotte operaie, contadine, sociali. Viene a rompere il mercato del lavoro, l’organizzazione sociale, i progetti per l’avvenire. Viene a radere al suolo tutta l’emancipazione femminile, fino a riportarla al medioevo della sua storia. La maggior parte di questi carichi di carne umana non sa nemmeno perché deve venirci, in Occidente. Sa solo che deve venire a pisciare per strada, cagare ai giardinetti, spacciare droga, sfruttare la prostituzione, fare da cane da guardia per la mafia. O ci rendiamo conto che dobbiamo scendere in piazza e cominciare a fare barricate, oppure è finita. La nostra Civiltà è finita…Fra me e me. 

«C’è un disegno, che lacera, scoraggia e divide e quindi è demoniaco, al quale non dobbiamo cedere nonostante esempi e condotte disoneste, che approfittano del denaro, del potere, della fiducia della gente, perfino della debolezza e delle paure. E’ quello di dipingere il nostro Paese come una palude fangosa dove tutto è insidia, sospetto, raggiro e corruzione. - Aprendo i lavori del parlamentino dei vescovi italiani del 27-30 gennaio 2014, il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, rassicura sulla tenuta morale del paese e chiede a tutti – di reagire ad una visione esasperata e interessata che vorrebbe accrescere lo smarrimento generale e spingerci a non fidarci più di nessuno. L’Italia non è così - afferma il cardinale - nulla – scandisce – deve rubarci la speranza nelle nostre forze se le mettiamo insieme con sincerità. Come Pastori – rileva il porporato – non possiamo esimerci dal dire una parola sul contesto sociale che viviamo, consapevoli di dover dare voce a tanti che non hanno voce e volto, ma che sono il tessuto connettivo del Paese con il loro lavoro, la dedizione, l’onestà.»

Siamo un Paese in ostaggio degli scioperati. Se vogliono ci fanno tornare al Medioevo. 

Mario Cervi il 13 luglio 1979 tuona contro le serrate selvagge che cancellano luce, acqua e trasporti, (pubblicato su “Il Giornale” il 28/08/2016) per dimostrare che mai nulla cambia. Gli italiani possono ancora nutrirsi, dissetarsi, viaggiare sia pure irregolarmente in treno e in aereo, ricevere sporadicamente la posta, telefonare, solo perché gli scioperanti di questa o quella categoria, nella loro autonoma valutazione, decidono di consentirglielo: non perché esiste uno Stato che sappia o voglia garantire ai cittadini i beni e gli strumenti essenziali alla vita di ogni giorno. Quando i dipendenti degli acquedotti lo deliberassero mancherebbe l'acqua, così come è mancata l'energia elettrica perché l'hanno deliberato i dipendenti dell'Enel. II precedente delle luci tolte alle piste di Fiumicino ha fatto scuola. Non abbiamo più addetti ai servizi pubblici. Abbiamo i proprietari dei servizi pubblici, che possono disporne come di «cosa loro». Una categoria malcontenta si sente autorizzata a sequestrare il Paese, per ottenere soddisfazione. Quando non le pare sufficiente la sua pressione diretta sulla controparte - nella quale sta l'essenza dello sciopero - dilaga, blocca strade, ponti, stazioni: preannunciando queste azioni, che sono reati, con appositi comunicati, e facendole seguire da dichiarazioni sindacali che si assumono la «responsabilità politica» del sopruso. Se ancora non basta si ricorre al contagio, ossia agli scioperi di solidarietà, i lavoratori della Malpensa hanno interrotto il traffico per un'ora e mezzo, in segno di simpatia per i compagni metalmeccanici. Non hanno voluto infierire. Potevano interromperlo, se gli pareva, per un giorno o per una settimana. Questa tecnica schiude possibilità infinite. Il buio degli elettrici non metterà subito in ginocchio l'Enel? Potranno intervenire allora i dipendenti delle poste e dei telefoni, per aggiungere al buio l'isolamento totale, e costringerci a comunicare con messaggi recapitati magari a piedi o in bicicletta se per avventura si associassero al grande ricatto i ferrovieri e i benzinai. Una volta stabilito che l'Italia, priva di una legge che regolamenti lo sciopero, ha un codice penale caduto in desuetudine perché polizia e magistratura rinunciano ad applicarlo, senza il previo consenso dei sindacati; una volta stabilito che il governo, di fronte a questi avvenimenti, non vede (forse per il black-out) non sente e non parla, cos'altro resta da fare se non affidarsi alla benevolenza degli scioperanti? Siano magnanimi. Lascino un po' di energia elettrica e qualche strada transitabile a questo popolo di ostaggi. 13 luglio 1979

Dopo la maturità i figli non trovano lavoro? Cari genitori, mandateli a fare i politici. L'ironia di Marchi sul "mestiere migliore del mondo": l'unico senza responsabilità, scrive Cesare Marchi l'8 agosto 1981 (Pubblicato su “Il Giornale” il 26/08/2016). L'estate è tempo di vacanze ma anche di importanti decisioni familiari. II ragazzo ha finito le scuole, superato la maturità. Che mestiere gli faremo fare? Se mi è permesso dare un consiglio, suggerirei ai genitori incerti: carriera politica. È il più bel mestiere del mondo. L'unico dove non esista la responsabilità personale; dove, se le cose vanno bene, ci si impadronisce del merito, se vanno male, si scarica la colpa sugli altri. Il politico bocciato alle elezioni non resta disoccupato, non entra in cassa di integrazione, tutt'al più in una delle tante Casse di risparmio, come presidente o vice. Non viene mai silurato, bensì «promosso ad altro incarico», perché la politica è la sola branca dell'attività umana esente dalle ferree leggi della logica. Per esempio, in Francia i comunisti hanno preso una sonora batosta alle elezioni, perciò sono entrati nel governo con ben quattro ministri. In Italia i repubblicani, alle amministrative, non hanno guadagnato punti, perciò hanno ottenuto la presidenza del Consiglio. Il politico è sottratto alle leggi del tempo. Durante un incendio, un vigile del fuoco aziona immediatamente le pompe, un chirurgo, se gli presentano una gamba cancerosa, la amputa prima che sia troppo tardi. Un politico, davanti all'Italia che va in malora, chiede una «pausa di riflessione». In questo mestiere non esistono problemi di mobilità. I politici sono mobilissimi, pronti a balzare da un ministero all'altro, da un ente a una banca, spinti soltanto dal desiderio di impratichirsi nei molteplici e delicati settori dell'amministrazione pubblica. Grazie alla brevità dei governi e alla acrobatica rotazione dei portafogli, nessun Paese vanta dei politici specializzati, come i nostri, in tutto. Passando dalla Marina alle Poste, dai Trasporti ai Beni culturali, dall'Agricoltura alla Sanità, essi, in pochi mesi, sanno tutto sugli incrociatori e sulle raccomandate, sui Tir e sui bronzi di Riace, sui pomodori e sulle endovenose. Certo, per dare stabilità all'esecutivo, bisognerebbe creare dei governi composti di duecento ministri e ottocento sottosegretari, così tutti i mille parlamentari di Montecitorio e Palazzo Madama entrerebbero nel gabinetto ed avremmo non un governo di legislatura, bensì di vita natural durante, perché nessuno dei mille voterebbe la sfiducia contro se stesso. Sento l'obiezione di un genitore: mio figlio non sa parlare, come può tenere comizi? A parte il fatto che i comizi non usano più, per parlare in pubblico basta il foglietto preparato dallo zelante segretario. La stragrande maggioranza, senza foglietto, non arrischia due parole in croce. Meglio così, sarebbe una crocifissione straziante. Ad ogni modo, per fronteggiare qualunque emergenza orale, l'aspirante politico tenga presente questo prontuario di «ministrese» ottimo, come lo specifico di Dulcamara per tutti gli usi. Se non sa che cosa dire, tiri fuori il modello partecipativo che presuppone l'accorpamento delle funzioni e il decentramento decisionale, in una visione totalizzante, enucleando, nel quadro di una tematica differenziata, l'annullamento di ogni ghettizzazione stratificante. Oppure per risolvere i problemi prioritari, porti avanti un approccio programmatorio, in una impostazione organica delle strutture verticistiche che privilegi, non senza il consenso della base, un modello di sviluppo, a monte e a valle della situazione contingente, in un contesto, beninteso, di iniziative cogestite e, al limite, autogestite. Chiaro? Il politico gode anche l'impagabile beneficio dell'incoerenza. Vota l'istituzione delle Saub ma se ha bisogno di cure si fa ricoverare in clinica privata. Vota anche la liberalizzazione degli accessi universitari, ma appena si accorge di quanto sia declassata, anche per colpa sua, la scuola italiana, manda il figlio a studiare all'estero. Insomma egli può, legittimamente, predicar bene e razzolar male. Raramente rispetta le leggi approvate da lui. Un commerciante, se dice al fornitore, scadutogli un pagamento: non ho soldi, torna fra sei mesi, perde la faccia. Il governo può rinviare il pagamento degli arretrati già pattuiti con gli insegnanti e non perde la faccia. Forse perché non ne ha mai avuta una. Ultimo vantaggio. Per ottenere un diploma alla fine delle scuole medie superiori, 350mila studenti hanno sudato l'anima. I politici non sono sottoposti a nessun esame di maturità politica. E dove li troveremmo, del resto, adeguati esaminatori? L'aspirante geometra deve dimostrare alla commissione di saper disegnare il progetto di una casa, calcolare la resistenza di un pavimento. I politici, sanno calcolare la resistenza degli italiani? In sfiduciosa attesa di una risposta, mi piace immaginarli, per un attimo, seduti in aula, per la prova di italiano, si può scegliere fra alcuni temi. Uno di questi dice, pressappoco «esponete i maggiori avvenimenti politici e sociali che hanno caratterizzato il periodo fra le due guerre mondiali». Non so come lo svolgerebbero gli altri, ma quello di Giovanni Spadolini comincerebbe sicuramente così: «Tra le due guerre mondiali sono nato io». Cesare Marchi 8 agosto 1981

Catastrofi naturali e salute. Fatalismo e prevenzione.

La demagogia degli scienziati e la sicurezza impossibile.

Prevenzione. Costi e burocrazia: la protezione irrealizzabile.

Inchiesta del Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Nelle tv salottiere e sui giornali gli “Esperti” si cimentano a dare le loro opinioni. "Ormai abbiamo osservato che ogni 4 o 5 anni c'è un sisma che colpisce la dorsale appenninica. Eppure gli amministratori non fanno prevenzione. Il risultato è che l'Italia è arretrata come il Medio Oriente: in un paese avanzato una scossa di magnitudo 6 non provoca crolli e vittime". Mario Tozzi, geologo e noto divulgatore scientifico in tv, non usa giri di parole contro la politica che a sette anni dal tragico terremoto dell'Aquila non ha fatto quasi nulla per prevenire il disastro di questo 24 agosto 2016 ad Amatrice e dintorni.

Scrive Maurizio Ribechini il 25 agosto 2016: “Un interessante studio su questo circa un anno e mezzo fa è stato effettuato dal "Consiglio Nazionale degli Ingegneri", il quale con una precisa valutazione dei costi economici, ha calcolato che, fino al novembre 2014, ammontavano a più di 120 miliardi di euro gli stanziamenti dello Stato per i terremoti verificatisi in Italia negli ultimi 50 anni: da quello siciliano del Belice nel 1968, all’ultimo del maggio 2012 in Emilia Romagna, passando per quello del Friuli del 1976, quello dell'Irpinia del 1980, il primo avvenuto in Umbria e Marche del 1997, quello del Molise del 2002 e quello dell'Aquila nel 2009. Per una spesa media annua di circa 2,5 miliardi di euro. Cifre ancora più elevate sono quelle che fornivano, ormai quattro anni fa (quindi senza considerare i costi del sisma del 2012 in Emilia) Silvio Casucci e Paolo Liberatore nel saggio dal titolo "Una valutazione economica dei danni causati dai disastri naturali", dove hanno stimato un costo di ben 147 miliardi di euro, per una spesa media annua di 3,6 miliardi. Tale stima arrivava da un dossier sul rischio sismico redatto dal Dipartimento della Protezione Civile che recitava "i terremoti che hanno colpito la Penisola hanno causato danni economici valutati per gli ultimi quaranta anni in circa 135 miliardi di euro (a prezzi 2005), che sono stati impiegati per il ripristino e la ricostruzione post-evento. A ciò si devono aggiungere le conseguenze non traducibili in valore economico sul patrimonio storico, artistico, monumentale".  Attualizzando tale valore al 2012, si otteneva un totale complessivo pari a circa 147 miliardi. Ma appunto tale cifra non considerava i costi della ricostruzione in Emilia. Se vogliamo contare anche questi, possiamo prendere dei dati ufficiali diffusi dalla Regione Emilia Romagna nel maggio 2015, che parlavano di 1 miliardo e 770 mila euro di contributi concessi. Ecco pertanto che la somma complessiva dei costi per i terremoti lievita a circa 149 miliardi complessivi. Ma quanto sarebbe costato mettere in sicurezza il territorio? L’ex capo della Protezione Civile, Guido Bertolaso, nei mesi scorsi aveva dichiarato che per mettere in sicurezza tutto il nostro paese occorrerebbero tra i 20 e i 25 miliardi di euro. Mentre proprio ieri, l’ex ministro dell’Ambiente Corrado Clini ha dichiarato: "Nel 2012 presentai un piano da 40 miliardi per la prevenzione, oltre all'assicurazione obbligatoria per il rischio sismico. Non se ne fece nulla, ma quegli interventi sono la grande opera di cui abbiamo bisogno". Numerose altre stime tecniche ed economiche parlano tutte di cifre che oscillano appunto fra i 25 e i 40 miliardi di euro. Ovvero fra circa 1/3 e 1/4 di quanto abbiamo speso in 50 anni per ricostruire dopo i terremoti.”

Detto questo gli esperti omettono di dire che il costo della prevenzione va quasi tutto a carico del privato, salvo quella minima parte a carico del pubblico, secondo la sua pertinenza, mentre la ricostruzione, con tutte le sue deficienze, è tutta a carico del pubblico. Bene. Si dimenticano i cosiddetti esperti che i cittadini italiani non sono come i profughi, ospitati negli alberghi a 5 stelle e con vitto gratis. I cittadini italiani hanno bisogno di un tetto sulla testa, anche abusivo e prevedibilmente pericolante. Abusivo, stante l’incapacità degli amministratori locali di prevedere un Piano Urbanistico Generale. I soldi son pochi e non ci sono per lussi, burocrati e prevenzione. L'alternativa al tetto insicuro sono le arcate dei ponti. Spesso i cittadini italiani, se non ci fossero i morti a corredo, sarebbero contenti dei terremoti, in quanto gioverebbero della ricostruzione delle loro vecchie case. Lo stesso vale per le alluvioni ed altri eventi naturali.

Ed ancora in tema di prevenzione non bisogna dimenticare poi gli esperti sanitari che ci propinano consigli sulla prevenzione delle malattie, specie tumori ed infarti. Impossibile da seguire. E non stiamo parlando delle vecchie ed annose liste di attesa o dell'impedimento al ricorso del pronto soccorso ormai solo aperto ai casi pre-morte.

Il 21 gennaio 2016 è entrato in vigore il cosiddetto “decreto Lorenzin” sull’appropriatezza delle prescrizioni approvato il 9 dicembre 2015. Il decreto che porterà alla stretta sulle prescrizioni di visite mediche ed esami a rischio di inappropriatezza ed il giro di vite riguarderà oltre 200 prestazioni di specialistica ambulatoriale, scrive Rai News. E' stato infatti pubblicato in Gazzetta ufficiale il 20 gennaio il decreto "Condizioni di erogabilità e indicazioni di appropriatezza prescrittiva delle prestazioni di assistenza ambulatoriale erogabili nell'ambito del Servizio sanitario nazionale". Si tratta di prestazioni di Odontoiatria, Genetica, Radiologia diagnostica, Esami di laboratorio, Dermatologia allergologica, Medicina nucleare. Il decreto Enti locali da cui scaturisce il DM appropriatezza, prevede che le 203 prestazioni se prescritte AL DI FUORI DELLE CONDIZIONI DI EROGABILITA' contemplate dal DM saranno poste A TOTALE CARICO DEL PAZIENTE. Esempio. "Ai fini dell’applicazione delle condizioni di erogabilità nella prescrizione delle prestazioni di radiologia diagnostica di cui al presente decreto, per la definizione del «sospetto oncologico» di cui all’allegato 1, note n. 32, 34, 36, 38 e 40 devono essere considerati i seguenti fattori: 1) anamnesi positiva per tumori; 2) perdita di peso; 3) assenza di miglioramento con la terapia dopo 4-6 settimane; 4) età sopra 50 e sotto 18 anni; 5) dolore ingravescente, continuo anche a riposo e con persistenza notturna.  Altro esempio. L'esame del colesterolo totale: le condizioni di erogabilità dell'esame a carico del Ssn prevedono che sia da eseguire come screening in tutti i soggetti di età superiore a 40 anni e nei soggetti con fattori di rischio cardiovascolare o familiarità per dislipidemia o eventi cardiovascolari precoci. Ma in assenza di valori elevati, modifiche dello stile di vita o interventi terapeutici, si precisa, l'esame è da ripete a distanza di 5 anni. Per quanto riguarda poi le condizioni di erogabilità delle prestazioni odontoiatriche, si valuteranno le condizioni di "vulnerabilità sanitaria" (condizioni sanitarie che rendono indispensabili le cure odontoiatriche) o di "vulnerabilità sociale" (ovvero di svantaggio sociale ed economico). Anche per l'erogazione delle dentiere sono previsti gli stessi criteri. Secondo Costantino Troise, segretario del maggiore dei sindacati dei medici dirigenti, l'Anaao-Assomed, "da oggi, per sapere come curare, i medici dovranno leggere la gazzetta ufficiale e non più i testi scientifici".

E dulcis in fundo ci sono gli esperti dei sinistri stradali. Quelli che dicono è sempre colpa dell'insobrietà, della disattenzione e della velocità dell’autista. Questi signori probabilmente non conoscono le cause dei sinistri:

riconducibili al conduttore (inabilità alla guida permanente o temporanea);

riconducibili al mezzo (malfunzionamento delle componenti tecniche per tutti i veicoli o bloccaggio del motore per le moto);

riconducibili alla strada (sconnessione o ostacoli improvvisi o non segnalati);

riconducibili ad eventi atmosferici che limitano visibilità o aderenza.

In conclusione la prevenzione spesso e volentieri è impossibile attuarla per l’imprevedibilità degli eventi, ma ancor di più per i costi e per la burocrazia esosa ed assillante ed è inutile che in tv gli esperti ce la menano sulla prevenzione: la realtà la impedisce.

Figli di...La pancia della politica, scrive Cristina Cucciniello il 22 ago 2016 su “L’Espresso”. Da molti anni, trovo ridicola la reverenza del contro sinistra italiano verso uno sparuto gruppo di famiglie ritenute portatrici sane del gene dell'ortodossia sinistroide. Cognomi, famiglie, alberi genealogici che - per un motivo o l'altro - vengono ritenuti i capisaldi dell'aristocrazia della sinistra italiana, perché alla loro origine ci sono personaggi che - mi ripeto - per un motivo o l'altro hanno contribuito alla storia stessa della sinistra italiana: partigiani, intellettuali, giornalisti, scrittori, membri delle Camere durante le prime legislature repubblicane. Perché trovo ridicola la reverenza, perfino il sussiego, con i quali - tutt'oggi - vengono trattati i discendenti, gli eredi di cotanti pedigree? Beh, perché la sinistra in Europa nasce come un anelito all'eguaglianza - sociale, civile. Nasce come il superamento dei privilegi delle elite, che in altri secoli hanno coinciso con i privilegi di nascita: noi sappiamo che la nostra società, quella occidentale, ha vissuto secoli in cui nascere nobile o nascere figlio di contadino, servo della gleba, comportava un bel po' di differenze nel successivo svolgimento della propria esistenza. Sappiamo che, in altre epoche, nascere nobile - e benestante - significava poter accedere all'istruzione, alla cultura, alla possibilità di viaggiare ed ai diritti politici. Ma la sinistra nasce proprio dal bisogno, dal desiderio, dalla speranza di consentire a chiunque l'accesso ai diritti fondamentali della persona. Nasce come un atto rivoluzionario: dal riconoscimento che siamo eguali e che non importa il cognome che portiamo, la famiglia dalla quale proveniamo, il censo della nostra cerchia familiare. E questo spiega la profonda ridicolaggine - oggi, nel 2016, nel XXI secolo - del riverire totem, del provare reverenza verso l'aristocrazia che ha preso il posto di quella di origine feudale, nel pantheon dei riferimenti culturali della sinistra italiana. Abbattuti i troni, spodestati re, principi e principesse, la sinistra italiana ha ancora bisogno dei suoi aristocratici, probabilmente perché orfana di figure carismatiche contemporanee. Non mi provoca stupore vedere i vari fronti del Partito Democratico rincorrersi nella gara a chi ha in squadra il "figlio di" più famoso, nella battaglia referendaria. Posso soltanto ridere dei renziani che si appuntano sul petto la medaglia dell'endorsement della figlia di Palmiro Togliatti e dei componenti della minoranza del partito che cercano una papessa straniera nei molti rami della discendenza Berlinguer. Posso riderne perché io - che, se scorro il mio albero genealogico, posso vantare di discendere da Costanza di Chiaromonte, che da regina di Napoli si ritrovò dapprima a dover lavorare, perché ripudiata, e poi sposa, come nella migliore delle favole, di un vero principe azzurro - dicevo, io oggi, grazie alle rivoluzioni dei secoli scorsi, posso vantare di essere eguale fra gli eguali, cittadina di una repubblica democratica, parlamentare. Posso vantare di non aver privilegi di nascita e di essere elettore di uno schieramento che - in barba alla logica, al raziocinio, alla sua stessa origine e natura - ancora osanna chi, per banale casualità, porta un cognome particolare.

Berlinguer papessa del Pd? Soltanto un fuoco d'estate, scrive Francesco Damato il 21 ago 2016 su “Il Dubbio”. Bianca, il giornalismo è il suo mestiere. Prima di andare in ferie Bianca Berlinguer ha avuto la conferma del vecchio adagio popolare col quale siamo sempre stati invitati a guardarci più dagli amici che dai nemici, dai quali ultimi già cerca di proteggerci il Signore. Già difesa troppo pelosamente da giornali e giornalisti di area di centrodestra che da una parte ne hanno lamentata la sostituzione al vertice del Tg3 e dall'altra Le hanno praticamente rinfacciato il cognome che porta, come per dire che a suo tempo arrivò alla Rai perché figlia di un certo papà, si è trovata per un po' di giorni candidata addirittura a segretaria del Pd: per sostituire al prossimo congresso, ordinario o anticipato che sarà, l'odiato Matteo Renzi. Al quale si è attribuita, a torto o a ragione, la responsabilità politica della sua sostituzione alla direzione del telegiornale della terza rete della Rai. Una ritorsione alla grande, diciamo così. L'idea di una simile candidatura, per quanto Bianca Berlinguer fosse stata già prenotata pubblicamente dall'azienda per altri programmi d'impegno e di visibilità sulla stessa rete televisiva, è stata lanciata per primo da Il Fatto Quotidiano con un articolo di Fabrizio d'Esposito. Che si è spinto a prospettare una disponibilità dell'ex capogruppo della Camera Roberto Speranza, in verità mai esplicitata davvero, a non candidarsi più al congresso contro Renzi nel caso di una corsa dell'ex direttrice del Tg3. Poi sono arrivate interviste dell'ex presidente del Pd Gianni Cuperlo, a La Stampa e ad altri giornali, su una "Papessa straniera", con esplicito riferimento proprio a Bianca Berlinguer, capace di rivitalizzare il maggiore partito italiano. Dove la sinistra non sarebbe riuscita a trovare ancora la personalità giusta da contrapporre a Renzi. Contemporaneamente un incontenibile, come al solito, Carlo Freccero, consigliere d'amministrazione della Rai indicato dai grillini, in una intervista a Il Foglio ha teorizzato il diritto di "strumentalizzare" tutto nella lotta al segretario del Pd: anche la vicenda della "rimozione" della Berlinguer dalla direzione del Tg3, pur essendo - ha riconosciuto Freccero - l'avvicendamento previsto, e direi fisiologico dopo una direzione durata sette anni. Strumentalizzazione per strumentalizzazione - ha fatto capire Freccero - starebbe bene anche una candidatura, a questo punto, della Berlinguer alla guida del partito di cui probabilmente è elettrice, forse anche iscritta. L'interessata ha sapientemente resistito ad ogni tentazione di commentare le cose che si scrivevano e di dicevano di lei, limitandosi a ricordare a chi l'assillava di domande di avere sempre considerato il giornalismo "il suo mestiere". Il silenzio di Bianca Berlinguer ha probabilmente, e opportunamente, contribuito a spegnere il dibattito, spiaggiato sulle cronache ferragostane di tutt'altro segno e contenuto. Ne ha in qualche modo tratto le somme su la Repubblica Claudio Tito liquidando la discussione su Papi e Papesse "straniere" per il Pd come l'ennesimo diversivo di una sinistra interna al Pd in cerca d'autore e d'identità. Un modo come un altro - ha scritto forse non a torto Tito prendendosela, in particolare, con Gianni Cuperlo - per cercare di segare le gambe al povero Roberto Speranza. Che probabilmente è troppo amico di Pier Luigi Bersani per piacere alle altre componenti della minoranza antirenziana del partito. È stato insomma un fuoco d'estate. Estinto per fortuna da una giornalista che anche sotto questo aspetto non meritava e non merita di vedere strumentalizzati il proprio cognome e la propria vicenda professionale.

Capalbio e non solo, ex comunisti snobbano immigrati e metalmeccanici, scrive il 18 agosto 2016 Laura Naka Antonelli su “Wallstreetitalia”. Su Twitter viene lanciato anche un hashtag ad hoc per commentare il caso: l’hashtag è #capalbioforrefugees e l’ultimo caso tutto italiano, esploso qualche giorno fa, è quello di Capalbio. Un caso che coinvolge e travolge lasinistra italiana, e quella roccaforte della stessa, almeno fino a qualche tempo fa, che si chiama Regione Toscana. Le offese contro questa sinistra sempre più non pervenuta tra la gente comune si sprecano: si parla di ex comunisti radical chic che non vogliono gli immigrati. Tutto parte di fatto proprio dalla questione spinosa dell’immigrazione, dal momento che sono ben due i ricorsi che sono stati presentati al Tar dagli abitanti del centro storico di Capalbio, alla notizia dell’arrivo di 50 immigrati. “Non siamo affatto contro l’accoglienza”, precisa il sindaco del Pd Luigi Bellumori, dopo la bomba mediatica esplosa con le dichiarazioni rilasciate dal presidente della Regione Toscana Enrico Rossi (prima PCI, ora Pd) che, dal suo profilo Facebook, nel giorno di Ferragosto, ha stroncato la sinistra di Capalbio. “A Capalbio nobili ambientalisti, boiardi di Stato e intellettuali ex comunisti non vogliono i profughi, non vogliono la strada, non vogliono nulla, perché le loro vacanze non possono essere disturbate”. Esulta ovviamente la destra, con Matteo Salvini, leader della Lega, che usa le parole del governatore Rossi per perorare la propria causa: “Sono 50 profughi, ma la sinistra radical chic non li vuole vicino ai campi da golf, alle piscine, ai giardini, ai villini e ai villoni di questa sinistra che i campi rom li pensa sempre in periferia». E poi: «Non li metterete davvero qui, hanno detto in coro. Loro si sono ribellati. Ecco la sinistra”. Il sindaco di Capalbio Bellumori difende se stesso e la comunità di Capalbio: “Questa non è accoglienza, è ghettizzazione. Non è integrazione calare 50 migranti in un borgo di 130 residenti. Perché Capalbio è sì, molto più esteso perché ha frazioni e ville sparse, ma qui si parla del centro medievale”. E sulle accuse di razzismo: “Capalbio ha accolto i braccianti del Sud negli Anni ’50, e i migranti dell’Est negli Anni ’90”. Promettendo infine: “Convocheremo un tavolo con prefettura e Regione, sono convinto che troveremo una soluzione. Noi non diciamo no agli immigrati, diciamo no a 50 in quel posto, siamo disposti ad accoglierne una quindicina”. Certo il caso rimanda a quella intervista a IO Donna (Corriere della Sera) rilasciata ormai un bel po’ di anni fa, nel 2009, da Giovanna Nuvoletti, giornalista e fotografa, moglie di Claudio Petruccioli, ex presidente della Rai. Nel commentare il suo romanzo L’era del cinghiale rosso, Nuvoletti aveva parlato proprio della sua Capalbio. “L’unico ricco comunista che abbia mai conosciuto, Giangiacomo Feltrinelli, a Capalbio non ci veniva. I comunisti che negli anni Settanta andavano in Maremma erano squattrinati. Chi poteva se ne andava a Porto Ercole”. E’ una pessima estate, quella di quest’anno, per la sinistra italiana. Non si può dimenticare neanche l’altro grande triste protagonista dei cosiddetti ex comunisti, Arcangelo Sannicandro, 73 anni, avvocato e parlamentare “comunista”, che ha un reddito da 400mila euro l’anno (dato relativo al 2014) e che si è opposto in modo piuttosto plateale, lo scorso 4 agosto, alla Camera, alla proposta del M5S relativa alla riduzione delle indennità di carica da 10.000 a 5.000 euro (tra l’altro richiesta non passata). “Non siamo lavoratori subordinati dell’ultima categoria dei metalmeccanici! Da uno a dieci noi chi siamo?”. E lui, anche, viene da Pci e da Rifondazione.

Capalbio, arrivo dei migranti: gli spocchiosi radical chic tolleranti col sedere degli altri, scrive il 17 agosto 2016 Emanuele Ricucci su “Il Giornale”. Arrivo migranti. A Capalbio è dramma collettivo. Bruciati i tricolori, interrotte le proiezioni della Trilogia dei colori di Krzysztof Kieślowski e le serate di degustazione delle mandorle bio dell’Uzbekistan in tutta la città; per protesta, i vip locali chiedono più diritti. C’è già chi grida “Fascisti!”. In queste ore caldissime, l’ANSiA riporta le ultime dichiarazioni ed iniziative per fronteggiare il dramma: ANSiA: Emergenza migranti a Capalbio. Arrivati i viaggiatori del mare. Distribuite ai poveri fuggiaschi dalla disperazione, pashmine colorate, occhialetti tondi, copie di Pasolini e Saviano. Ristabilito l’ordine. Un gesto umanitario necessario dopo il lungo viaggio, dopo stress alto e paura. A Capalbio i migranti arrivati sono cinquanta e sono stati destinati solo profughi poeti che narrano delle danze tipiche del loro Paese e che sono emarginati dalla dittatura tribale a cui si sono ribellati non potendosi più barbaramente permettere un nuovo Mercedes o di non poter presentare il nuovo libro in giro per il mondo. Altrove in Italia, tutti gli altri. Il sindaco di Lampedusa, ex perla del mediterraneo, si unisce al coro dei colleghi di tutta Italia – che senza battere ciglio hanno ricevuto ordine dalla Prefettura di ospitare i poveri fuggiaschi dalle guerre -, dal centro al Sud, fino al Nord, dai paesini più poveri e isolati a quelli più espressivi a livello architettonico e storico, fino alle grandi città d’arte, in un appello: “Ha ragione il collega toscano. L’arrivo dei 50 (cinquanta) migranti nella sua città, potrebbe essere una “una catastrofe lesiva dell’appeal di Capalbio” – parola del sindaco PD Luigi Bellumori -. Fa bene a dirlo; fa bene a difendere la sua realtà e chi se ne frega delle nostre città, del nostro turismo, della nostra arte e della nostra capacità di fare cultura. Del decoro delle nostre comunità”. Proprio in seguito a quanto si apprende dall’agenzia ANSiA, abbiamo raccolto alcuni pareri. “Appena ricevuta la notizia dell’arrivo di questi poveri viaggiatori sono corso a casa, ho preso mia moglie per un braccio e mio figlio Ubaldo Jonah e gli ho detto: “dobbiamo lasciare casa. Dobbiamo andarcene ora!”. Non credevamo che questo problema potesse toccare anche a noi in Italia. Pensavamo fosse una cosa da Sud, da isole di prossimità, da paesini sperduti del centro o del nord Italia, quelli devastati dalle politiche governative; la nostra Capalbio e chi poteva immaginarlo. Che ne sarà dei nostri reading? E delle sedi delle nostre associazioni umanitarie, deserte? E delle degustazioni di Tofu, del teatro sperimentale? – ci racconta ancora atterrito Gian Maria Ipocriti, stimato medico del luogo -. “Abbiamo riflettuto sulle parole del sindaco. È da fascisti, suvvia, non accogliere, da figli del terzo Reich, quelli a cui toglierei il diritto di voto e di vita; ma noi qui non possiamo proprio permettercelo. Non possiamo!”, ci racconta Guidobaldo Pace. C’è anche chi, come Luigi Colpavostra, addossa le colpe di un simile problema alla politica e alla storia: “La colpa dell’arrivo di cinquanta migranti? Di Salvini, oggi, e delle politiche di Mussolini, ieri. Se non avesse bonificato le paludi pontine, con il conseguente arrivo di operai veneti, del nord Italia, di altre regioni, insomma, venuti a lavorare per vivere, tutto questo non ci sarebbe stato!”. Duilio Demo Crazia, conte capalbiese, dopo due aver dato due corpose boccate di pipa ci risponde: “Chi l’ha detto che immigrazione faccia rima con sicurezza, sostenibilità, assistenzialismo. Roba da fascisti! Prendete le parole (reali) del sindaco. La sicurezza? “Non potrà essere garantita dalla polizia municipale che conta un solo agente a tempo indeterminato e due vigili estivi con il sindaco che ha il ruolo di comandante”. Integrazione e sostenibilità? “Ho delle perplessità che una comunità possa accettare che per un cittadino di Capalbio vengono spesi 31,28 euro l’anno in spesa sociale e per i richiedenti asilo 32,50 euro al giorno”. Vedete? L’immigrazione non ha nulla a che fare con la sicurezza, la sostenibilità, non porta problemi! Prima gli italiani? Fascisti!”. “SulGiornale, quello dei nazimaoistiklingoniani, sì, proprio quello, addirittura si legge: “Tra i moventi del lamento capalbiese, c’è il fatto che i profughi siano sistemati in «ville di gran lusso» vicine «all’area più residenziale». «In 19mila ettari bisognava metterli proprio là?», ha chiosato il primo cittadino. Altra equazione «profughi-decoro». Morale: l’unico immigrato buono per Capalbio è la colf”. Ma vi rendete conto dove siamo arrivati?”, così Patrizio Pierre Libertà. Nel frattempo, il DCSAGdAdPC, il Dipartimento Centro Studi Associazione Gruppo di Amici del Politicamente Corretto, ente freschissimo, istituito nella notte tra il 14 e il 15 agosto, approfittando delle partenze intelligenti degli italiani, si esprime, in una nota, sull’annosa questione di Capalbio: “Quello dei migranti è un dramma. Eppure a Capalbio il mare è bello, le menti sono belle. Crediamo sia un peccato rovinare questa cartolina d’Italia con l’arrivo di un contingente di poveri viaggiatori del mare, ben 50, che pensiamo di destinare altrove, verso un’Italia più povera, in cui non ci saranno le principali basi strutturali per l’accoglienza ma ci sono maggiori spazi territoriali. Ribadiamo il nostro sdegno verso chi ritiene l’immigrazione un problema, verso quelle comunità che si lamentano di non riuscire ad integrare, di non averne gli strumenti per farlo. Una barbarie proprio nel corso del giubileo della Misericordia. Questi sono i nemici della modernità, della democrazia, del nuovo modo di stare al mondo e di essere più che fratelli: coinquilini”.

Brutti, sporchi e cattivi, scrive Giovedì 18 agosto 2016 Nino Spirlì su “Il Giornale”. Ebbene, ora che anche la sinistra radicale di Capalbio ha ricevuto la sgraditissima visita di questi clandestini puzzolenti, che scappano dalle loro bidonville, per venire a bivaccare in Italia, possiamo dire che la misura sia colma. Finché hanno rotto i coglioni ai poveracci italiani, quelli che non arrivano alla prima settimana, quelli che stanno duellando con equitalia da anni, quelli che stanno ancora pagando a rate di sangue il finto benessere post DriveIn e AsFidanken, quelli che hanno recuperato i nonni a casa e magnano con le loro pensioni sicure (per ora), quelli che non sanno più per chi votare dopo aver fatto tutto il giro delle setteliste, finché, dicevamo, i coglioni triturati erano i loro, c’era, ad ogni lamentela,  l’islamofobia, il razzismo, l’accoglienza necessaria, la fratellanza cattolica di parata di Francesco il gaucho, la xenofobia, il volemosebbenismo. I giornali addomesticati avevano scancellato (è italiano, è italiano: significa fare le cancella tipo ####### sulla parola sbagliata e si usava sulle pergamene. NdA) tutti i termini tipo negro, zingaro, beduino… Certo pretame da politburo, certo vescovame unto di compromesso massomafioso e grasso di soldi facili da finta fratellanza, certo papame da fotoromanzo l’hanno avuta facile. Perché il cuore del governo, non ancora in ferie, era dalla loro parte. “Seicento negri al 15! N’acqua minerale lisca al 23! 387 siriani al 19! Na pajiata ar 5! Na camionata de regazzini ar grand hotel! Ahò, portaje na cinquantina de mignotte nigeriane ar privé!…” Sembrava una comanda continua. Poi, il piede in fallo! Venti negretti, docciati, sanati e vestiti alla marinara vanno sistemati in un cinquestelle a Capalbio! Col Cazzo! Ma che stamo a scherzà??? Qua c’abbiamo in ferie milionarie tutta a nomenclatura der piddì!!!! Politisci, imprenditori, zozzone rifatte, gente che conta… Robba da villona de millemetriquadri! Che, fra l’altro, i loro stranieri ce l’hanno già: filippini per i tappeti e i mobili, moldave per i nonni, svizzere per i bambini, capoverdiani per le siepi, giamaicani per le signore (e i signori, diciamolo)… Che gli mandi, i negri d’Africa????? Quelli sdentati, che gli puzza il fiato di carie e hanno le pulci fra i ricci? Quelli che te ribartano i cassonetti e bruciano i materassi? Quelli che se credono sto par de ciufoli e parlano di uguaglianza e diritti umani????? Brutti sporchi e cattivi! Ecco cosa sono! Un ammasso di straccioni che non possono pretendere di venire ad abitare in un paradiso terrestre destinato solo a pochi, pochissimi, (non)eletti che hanno il diritto di rilassarsi prima delle fatiche autunnali: shopping stagionale, party referendari, riaperture di canottieri, palestre eterofrocie, discotroieche di vecchio conio e nuova stampa…No, ragazzi, non si può! Sti clandestini vanno freesbati da n’artra parte! Mò chiamo io a Roma… Pronto, ma che, state a scherzà??? … E viene fuori che, “Stai tranquillo: tutto sotto controllo! Mò basta lo diciamo noi, compagno! Mò bombardiamo pure noi! Non ve lo volevamo dire, per evitare il clamore, ma, sì ragazzi: in Libia je stamo a fa un culo così! Gli abbiamo mandato quelli dei Servizi. E pure qualche bombetta. E mica se fermamo! No, no. Mò li sterminiamo tutti. Intanto, abbiamo controllato i gommoni e, toh!, Ci abbiamo trovato un tunisino che voleva venire in Italia, diononvoglia a Capalbio, per fare l’attentato. Dunque, c’est fini! Che crociata sia! Questi pur di distruggere Capalbio, sarebbero capaci di venirci a pisciare pure davanti al portone del palazzo a Roma. Magari a defecare nel parchetto sotto casa. E senza raccogliere con la paletta e la bustina, come fanno i nostri filippini coi nostri bassotti… No, No, No! Vanno rimandati tutti a casaccia loro.” Ma pensa te: invadere Capalbio! Che idea malsana! Considerazioni agostane, a qualche metro dalla vergognosa tendopoli di San Ferdinando, Area Industriale Porto di Gioia Tauro, piena fino al vomito. Anzi, con la nuova, più accogliente, in fase di montaggio proprio di fronte…Puah! Tra me e me…

I profughi a Capalbio: l'ultima spiaggia della sinistra. Le villette destinate ai profughi a Capalbio. Il luogo simbolo dell'Italia radical chic doveva dare una risposta diversa, avrebbe dovuto aprire le porte, scrive Roberto Saviano il 19 agosto 2016 su "La Repubblica". Capalbio non è solo Capalbio. Ci sono luoghi che trascendono ciò che sono, smettono di essere definiti dalle piazze e dagli affreschi, non sono descritti nemmeno dai volti, dai palazzi o dalle scalinate ma diventano simbolo creato dall'immaginazione. Capalbio è uno di questi luoghi. Non è per la grazia del suo meraviglioso borgo, per la dolcezza della sua costa, o quantomeno non è più solo per la sua bellezza armoniosa che Capalbio campeggia nel nostro immaginario. Capalbio è la storia delle estati della nostra Repubblica: della prima, della seconda e adesso di questa indecifrabile terza. La piccola Atene - definizione romantica in cui Capalbio con un po' di civetteria si riconosce - dove nel tempo delle ferie si sono incontrati da sempre intellettuali, dirigenti di partito, imprenditori, giornalisti e artisti progressisti e di sinistra. Capalbio è divenuta - forse persino suo malgrado - il dolce ritrovo degli intellettuali. Parola che nel tempo della rabbia, che è il nostro tempo, sta subendo sui social network lo stesso destino semantico di "parlamentare" o "consigliere comunale" - per non parlare di "assessore": troppo spesso sinonimi, per le nuove generazioni, di élite. E quindi, immancabilmente, di corruzione. E che cosa ti combina l'"intellighenzia" di Capalbio? Che cosa si fa per spegnere la rabbia e il qualunquismo? I fatti sono noti. Profughi in fuga dalla guerra o semplici poveri cristi in cerca di un futuro migliore. Certo, come in ogni emigrazione da qualche parte si nasconderà anche qualche brutto ceffo (non siamo stati noi a regalare agli americani Al Capone e Lucky Luciano?). Certo, in questi giorni c'è l'allarme per le infiltrazioni jihadiste. Ma qui stiamo parlando di immigrati a cui è stato già riconosciuto appunto lo stato di profughi. A Capalbio, come a tanti altri comuni d'Italia, è stato chiesto di esserci, nel tentativo di arginare l'emergenza. Quindi ospitarne, nel caso, cinquanta. E che è successo? Capalbio ha fatto le barricate. Sì, il sindaco (per la cronaca, il piddino Luigi Bellumori) sarà anche stato inopportuno, comportandosi come qualsiasi sindaco di un piccolo centro turistico, protestando per la decisione del prefetto: terrorizzato magari che i migranti allontanino le famiglie, che i ristoranti si svuotino, che la spesa turistica diminuisca. Ma Capalbio non è solo Capalbio: non è un piccolo centro turistico come un altro. E proprio per questo la piccola Atene doveva rispondere diversamente: in nome della sua storia. Il flusso di migranti, ben poco a dire il vero, avrebbe dovuto essere al centro di una risposta intelligente come i suoi villeggianti. Di fronte all'emergenza, Capalbio avrebbe dovuto rispondere in tutt'altro modo: focalizzando la sua estate su questo tema, essendo questa terra di dibattiti e incontri. Il che non avrebbe voluto dire trasformare una legittima vacanza in penitenza. Né tanto meno ospitare i migranti nelle proprie case (richiesta subdolamente razzista che si diffonde come un morbo online a chiunque sostenga politiche d'accoglienza "portateli a casa tua"). Invece, col loro silenzio, gli intellettuali di Capalbio non hanno fatto che fornire munizioni ai soliti fustigatori dei Radical Chic. Ecco: Radical Chic l'espressione mutuata da Tom Wolfe è una accusa sempreverde al di là di qualsiasi riflessione seria sul caso. Si sa da dove deriva: ma è bene fare una veloce sintesi. Se potete, rifiondatevi su quel libro di Wolfe, Radical Chic, pubblicato in Italia da Castelvecchi (meraviglioso). È il reportage di una serata particolare. A New York. In casa di Leonard Bernstein: il grande direttore d'orchestra nonché autore di West Side Story. Tra gli ospiti, il regista da Oscar Otto Preminger e i leader dei Black Panthers. Il libro racconta come la moglie di Bernstein, in una casa lussuosissima, raccogliesse fondi per i combattenti delle Pantere Nere. Wolfe fa capire come in quella casa si respirasse quasi l'eccitazione per qualcosa di esotico, lontano e proibito. Il tutto sapeva di impostura: il gioco puramente intellettuale di chi, da lontano, prende parti che nella vita reale non è costretto a sostenere, di chi insomma nella propria posizione può permettersi di giocare con le idee, senza doverne pagare mai il prezzo. Questo e molto altro si conserva dunque in quelle pagine e nella definizione di Radical Chic. Ma da allora - era il 1970 - quel titolo viene ormai usato come uno slogan dispregiativo. Chiunque decida di vivere del proprio lavoro culturale e abbia posizioni progressiste e democratiche diventa "radical chic". Provare a ragionare su certi temi, provare a cercare la mediazione, subito viene etichettato come furbesco e ipocrita. Radical Chic oggi è uno slogan qualunquista. Un insulto generico. Il fatto è che questa volta Capalbio ha risposto esattamente come nelle pagine di Tom Wolfe si muovono gli intellettuali americani alle prese con i "pericolosi" ribelli: attraenti da lontano, disgustosi da vicino. Ora, i migranti destinati a Capalbio non saranno certo i nuovi Black Panters. E nelle villette sul mare in Toscana non svernano certo i nuovi Bernstein (o i nuovi Preminger). Ma non ci voleva neppure l'intelligenza di Tom Wolfe per comportarsi con più buonsenso. Non lo sanno, nella piccola Atene, che il disgusto più grande, nella gente, nasce proprio quando si vede il problema migrazione scaricato lontano dalle loro case e quindi piombato nelle periferie? I loro figli, nelle scuole che frequentano, forse non si imbattono in quelle classi formate per la maggior parte da bambini immigrati. Le spiagge che frequentano - come la ormai mitica "Ultima spiaggia" - non sono come le spiagge libere e popolari piene di famiglie d'ogni cultura. Molto più facile - dicono i delusi dalla risposta di Capalbio - parlare di integrazione quando i problemi sono lontani. Non la vivono, i sostenitori dell'integrazione, la difficoltà dell'integrazione. Ecco perché da Capalbio ci si sarebbe aspettati una reazione diversa. Avete presente l'immagine dei migranti che entrano nella stazione di Monaco accolti dalla gente? Ricordate il milione di euro raccolti, sempre a Monaco, non dai circoli intellettuali (che pure tanto si sono impegnati e schierati) ma dagli ultras del Bayern? Certo: Capalbio non è Monaco. Ma tanto più dopo questa brutta storia non è più solo Capalbio. La piccola Atene avrebbe potuto fare la differenza. Che delusione invece questo silenzio di tutti gli intellettuali - quasi tutti: Asor Rosa è stata una delle pochissime eccezioni. Che vergogna vedere non "l'intellighenzia" ma l'intelligenza andare in vacanza. E nascondersi.

Quel "poverino" del colonnello dell'Isis. Così i compagni italiani lo difendevano, scrive “Libero Quotidiano” il 19 agosto 2016. C'è un filo nero che collega l'estremismo islamico e i militanti anarchici e neobrigatisti italiani. Un collegamento raccontato anche dalle lettere che il colonnello dell'Isis arrestato in Libia, Fezzani Moez Ben Abdelkader, detto anche Abu Nassim, scriveva agli "amici", i compagni anarchici attivi a Milano. Abu Nassim era stato arrestato a maggio 2010 e detenuto nel carcere di Rossano Calabro, in provincia di Cosenza. Il destinatario delle sue lettere era l'associazione Ampi orizzonti, che ha inserito le carte nel dossier "è Ora di Liberarsi dalle Galere", con il quale gli anarchici milanese fanno controinformazione sullo stato delle carceri. I punti in comune tra le rinascenti Br e i terroristi islamici stanno tutti nella lotta all'imperialismo americano e contro la misura dell'isolamento nelle carceri. Per i compagni italiani, gli estremisti islamici sono "prigionieri di guerra arabi". Nel dossier "Guantanamo italiane - Dalle sezioni speciali per araboislamici" del 2014 c'è la rappresentazione plastica del legame tra i due mondi, considerando che il dossier porta le firme dei principali "prigionieri politici" rossi come Alfredo Davanzo e Claudio Latino. Dal carcere di Siano, in provincia di Catanzaro, scrivono: "Siamo solidali con la loro lotta contro il carcere dello Stato imperialista italiano". Per far breccia nei cuori dei compagni italiani, Abu Nassim aveva raccontato il suo curriculum carcerario. Quegli ultimi sette anni passati a Bagram, in Afghanistan, prigioniero dell'esercito americano, lo hanno reso praticamente un martire: "Ero legato al muro con i ferri - racconta in una lettera agli amici italiani - come i gladiatori romani, ricoperto dal suono della musica rock 24 ore su 24... Non dovrei trovarmi in carcere perché ho diritto all'asilo politico, perché dopo 7 anni nell'inferno di Bagram sono stato considerato innocente". Quando è tornato in Italia, Abu Nassim è stato espulso nel 2013, prima della condanna. In Tunisia ha fatto carriera tra le fila dell'esercito del Califatto, fino a toccarne i vertici.

Quegli strani rapporti tra jihad, Br e criminalità. Una lettera di Abu Nassim su una rivista rossa. Solidarietà ai detenuti islamici dai brigatisti, scrive Luca Fazzo, Sabato 20/08/2016, su "Il Giornale". L'emersione del cosiddetto «fondamentalismo islamico è solo una spia della rinascita di una civiltà di antiche e inestirpabili radici, dove la religione è etica, diritto, prassi politica»: bisogna partire da questa analisi, ospitata da uno dei siti di punta della sinistra antagonista italiana, per capire dove appoggi uno dei fenomeni più inverosimili della emergenza terrorismo in Italia: la saldatura tra gli ambienti dell'integralismo islamico e l'universo antagonista e insurrezionalista. Nelle carceri e fuori dalle carceri, i fanatici della jihad intrecciano legami con i fanatici della lotta armata made in Italy, dagli ultimi avanzi delle Brigate Rosse al magma anarchico e autonomo. Una intesa saldata da alcune parole d'ordine comuni: la battaglia contro il capitalismo occidentale e l'odio verso Israele, spesso tracimante in antisemitismo. In nome della lotta ai nemici comuni, i rivoluzionari nostrani non disdegnano il dialogo con chi decapita omosessuali e adulteri. A rilanciare l'allarme su un fenomeno già noto alle forze di polizia sono le lettere pubblicate ieri sul Corriere della sera scambiate in carcere tra Moez Fezzani, il terrorista espulso dall'Italia dopo una assoluzione campata per aria e ora catturato in Libia, e ambienti estremisti italiani. In particolare il quotidiano milanese cita una missiva inviata da Fezzani (alias Abu Nassim) e pubblicata da Altri orizzonti, la rivista anarchica dedicata al mondo delle carceri. La lettera viene inviata dall'islamico alla rivista nel 2010, dopo che Fezzani - a lungo rinchiuso nel carcere americano di Bagram - era stato consegnato all'Italia. Interessante il luogo di provenienza: Fezzani scrive da Rossano, il carcere calabrese di alta sicurezza dove il ministero concentra tutti i detenuti islamici considerati a maggiore rischio di militanza jihadista. In teoria, la corrispondenza degli estremisti detenuti a Rossano dovrebbe essere soggetta a censura preventiva. Ma la lettera in cui Abu Nassim denuncia presunte torture riesce a superare i varchi di censura e viene ricevuta e pubblicata da Altri orizzonti insieme a quelle di altri detenuti politici. Di rimando, nel 2014 dal carcere di Siano dove sono detenuti i capi delle «nuove Br» arriva il documento di solidarietà ai detenuti islamici, un dossier intitolato Le Guantanamo italiane in cui i terroristi rossi denunciano le condizioni in cui sarebbero detenuti i terroristi islamici. Nel documento, i Br sentono il dovere di prendere in parte le distanze dagli aspetti più integralisti della ideologia islamica. Ma si tratta di dettagli su cui i rivoluzionari italiani sono pronti a sorvolare senza fatica in nome della comune battaglia antimperialista: come sintetizza un titolo di un documento della Organizzazione comunista internazionalista, Dalla bandiera rossa alla bandiera verde per stato di necessità. Ad approfondire le basi ideologiche di questa alleanza basta leggere quanto il leader dei «Comunisti-marxisti leninisti» Giovanni Scudieri: «Il nostro posto attuale è al fianco di chi combatte l'imperialismo che è il nemico comune di tutti i popoli del mondo. Lo Stato islamico non vuole che l'imperialismo sia il padrone dell'Irak, della Siria, del Medioriente. Nemmeno noi lo vogliamo, quindi non possiamo non appoggiarlo». E sul sito campoantimperialista.it troneggia il titolo Rivolta islamica: un 11 settembre di massa, sotto cui si legge addirittura: «Il salafismo combattente, ancorché sconfitto, come l'araba fenice risorgerà dalle sue ceneri. Sempre risorgerà, fino a quando l'imperialismo dominerà il mondo». Insomma: privi di prospettive, davanti alla disarmante sordità delle masse popolari italiane ai loro proclami, i rivoluzionari di casa nostra cercano interlocutori più attivi nella galassia islamica. E a quanto pare, come dimostrerebbe la lettera di Fezzani, trovano disponibilità al dialogo. Un'alleanza potenzialmente assai pericolosa, che lo diverrebbe ancora di più se dai messaggi da una cella all'altra e dai ponderosi documenti ideologici si passasse ad una contiguità operativa. Di questa per ora non c'è traccia. A differenza di quanto emerso in alcuni casi di dialogo tra organizzazioni islamiche e ambienti legati alla criminalità organizzata: ma questo è un altro film. 

Il detenuto Moez era il «povero amico» di anarchici e brigatisti. Lettere dal carcere italiano del reclutatore Abu Nassim. Islamisti e «compagni» uniti nella lotta antimperialista. «Mi sveglio sempre alle 2 per parlare da solo come un pazzo a causa delle torture subite», scrive Gianni Santucci il 19 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera". Rivolgendosi ai nuovi «compagni», anarchici e neobrigatisti, si firma così: «Il vostro povero amico Moez, che si sveglia sempre alle 2 per parlare da solo come un pazzo a causa delle torture subite». La lettera viene spedita dal carcere di Rossano Calabro (Cosenza). È datata 30 maggio 2010 e arriva a Milano poco dopo. Il «povero amico» è Fezzani Moez Ben Abdelkader (detto Abu Nassim): oggi colonnello dell’Isis in fuga dalla Libia. Secondo alcune fonti, non confermate, Fezzani sarebbe stato arrestato qualche giorno fa, ma è interessante sapere chi sono gli «amici» a cui scriveva prima della condanna e l’espulsione dall’Italia (nel 2013). Abu Nassim indirizzò la sua lettera all’associazione «Ampi orizzonti», che l’ha inserita in un ampio dossier «OLGa» («è Ora di Liberarsi dalle Galere»): il bollettino anti carcerario degli anarchici milanesi. Quel fascicolo racconta l’abbraccio solidale che, da un decennio, lega i «neri» e le nuove Br ai terroristi islamisti (definiti «prigionieri di guerra arabi»). Si sono ritrovati «compagni di strada» su un terreno comune: contro «l’imperialismo americano» e i reparti di isolamento nei penitenziari italiani. La testimonianza più profonda di questo legame sta in un’altra lettera di solidarietà ai condannati islamisti, anch’essa contenuta nel dossier «Guantanamo italiane - Dalle sezioni speciali per arabo-islamici» (2014), che porta la firma dei maggiori «prigionieri politici» delle Nuove Brigate Rosse (tra cui Alfredo Davanzo e Claudio Latino). Pur chiarendo che «ci distingue la concezione del mondo», dal carcere di Siano (Catanzaro) affermano: «Siamo solidali con la loro lotta contro il carcere dello Stato imperialista italiano». L’isolamento dei condannati islamisti ha un obiettivo primario: contenere il reclutamento in carcere dei detenuti per reati «comuni». Abu Nassim si radicalizzò nella moschea di viale Jenner nel 1993. Partì come mujaheddin per la guerra in Bosnia. Tornato a Milano, divenne un reclutatore per l’invio di combattenti di Al Qaeda in Afghanistan. Poi si spostò a fare lo stesso «mestiere» in Pakistan, dove venne fermato dagli americani e tenuto per 7 anni a Bagram. Ai «compagni» anarchici e comunisti raccontava questa esperienza: «Ero legato al muro con i ferri, come i gladiatori romani, ricoperto dal suono della musica rock 24 ore su 24... Non dovrei trovarmi in carcere perché ho diritto all’asilo politico, perché dopo 7 anni nell’inferno di Bagram sono stato considerato innocente». Riconsegnato all’Italia ed espulso prima della condanna, dalla Tunisia Abu Nassim ha scalato le gerarchie dell’Isis. L’abbraccio con gli estremisti italiani è stato politico, mai «operativo». Nell’ambiente anarchico e neobrigatista c’è stato un duro dibattito interno sull’amicizia con i «compagni (islamisti) che sbagliano».

I centri sociali sono un cancro da estirpare con la forza, scrive il 19 agosto 2016 Andrea Pasini su “Il Giornale”. Centri sociali. Centri a-sociali, una piaga di questo paese figlia della borghesia dello status quo, sono da iscrivere al novero dei nemici della nazione. Quindici anni fa era la torrida estate del 2001, quando il 20 luglio morì, per mano del carabiniere ausiliario Mario Placanica, Carlo Giuliani. Il fondale Piazza Alimonda, protagonista la berretta del militare dell’Arma che esplose due colpi. Due colpi misero fine alla generazione “ingenua” dell’antifascismo scriteriato e intriso d’odio perorato da cobas, pacifisti, antagonisti, black bloc e c.s. assortiti. La Superba sconvolta dalla furia distruttiva di chi ha poco sale in zucca e come unico fine politico quello di spaccare vetrine ed incendiare auto, quelle di normali lavoratori, di cittadini italiani lontani anni luce dalle dinamiche del G8. Anch’essi vittime delle scelte dei pochi potenti che ci opprimono attraverso il loro cappio. Qual è il vero scopo di queste persone? Nei loro comunicati, nelle loro parole, nei loro gesti di fondo notiamo un astio viscerale verso l’Italia. Sputano sulle nostre città, si isolano in contesti lontani dalla legalità per tendere la mano agli extracomunitari a cui già l’UE e le Boldrini varie pensano in maniera ossessiva. Il brodo culturale da cui sono partoriti è un ammasso di Mtv e cantanti sbiaditi, in cerca di autore, che rispondono al nome di Banda Bassotti, Punkreas, 99 posse e Assalti Frontali. Si potrebbe citarne altri, ma sono spariti dai radar insieme alle loro battaglie di retroguardia. In quel luglio l’intento era di mostrare i muscoli contro le Forze dell’ordine, gettarsi in una battaglia per distruggere Genova, l’Italia e se stessi. La morte celebrale di individui che sputano sul seno della madre che li ha allevati. Serpi contro Roma. In quel contesto, tra i manifestanti, erano presenti alcuni dei governanti d’oggi, Alexis Tsipras, leader di Syriza e primo ministro greco, e Pablo Iglesias, segretario del partito spagnolo Podemos. Quelli che per una vita si sono dipinti come vittime del sistema, oggi sono i boia a guardia della struttura, a guardia dell’Europa di Bruxelles quella che schiaccia il loro tanto “amato” proletariato. Da Genova migriamo a Parma, anno 2010. Una giovane, allora ventenne, mantovana venne attratta nei locali della Rete Antifascista Parmigiana, centro sociale della città ducale, e dopo essere stata drogata venne ripetutamente violentata da più persone. Per questo fatto quattro persone sono agli arresti domiciliari, oltre a questo orrendo misfatto, molti antifascisti locali hanno cercato tramite sms e messaggi su Facebook di tappare la bocca alla ragazza. Tappargli la bocca per non far rilevare agli inquirenti nuovi dettagli arrivando, addirittura, a cercare di far ritrattare completamente la sua versione dei fatti. Il pm Giuseppe Amara ha aperto un nuovo corridoio all’interno dell’inchiesta facendo comparire in aula altre quattro persone con le accuse di estorsione e favoreggiamento. Una modalità d’azione cara a mafiosi, con pratiche di ricatto bieche e vergognose. Uno dei loro ispiratori Peppino Impastato, fondatore di Radio Aut, morto colpito dalla mano di Cosa Nostra per le sue denunce al sistema mafioso italiano, costretto a rigirarsi nella tomba. Come dimenticare la vile aggressione perorata ai danni di un banchetto elettorale di CasaPound, durante le scorse elezioni comunali tenutesi a Roma, quando un gruppo di cinquanta antifascisti armati di caschi e bastoni aggredì sei militanti del movimento della tartaruga frecciata. Nel corso dell’aggressione restarono feriti un invalido ed una donna. Il ragazzo disabile subì la rottura dello zigomo e venne operato d’urgenza. Il senso di fare politica dei centri sociali è quello di aggredire chi non la pensa come loro, coperti da certe istituzioni che li coccolano e ne chiedono i voti durante le campagne elettorali. Impossibile non citare il caso del sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, pappa e ciccia con i militanti di Controllo Popolare. Anche Roberto Saviano ha dovuto ammetterlo via mezzo stampa: “Nel suo comizio riferendosi alle scorse elezioni nel capoluogo campano ha addirittura utilizzato l’immaginario preunitario, ‘Napoli capitale, Gran Ducato di Toscana dietro’. A tutti è sembrata un’ingenuità. Invece de Magitris in questo modo ha parlato ai tifosi, agli ultrà, perché è questo che ha costruito intorno a sé: un appoggio strappato agli ultimi residuali centri sociali, sfruttati come cinghia di trasmissione per il consenso sui social e come perenne propaganda ideologica”. Per accompagnarvi facendovi immergere nell’ideologia della radicale di sinistra, quella distante mille miglia dai lavoratori, basta ascoltare le parole pronunciate in questi giorni dal deputato di Sel, Arcangelo Sannicandro, inerenti ai tagli degli stipendi dei politici. L’onorevole è arrivato ad affermare “non siamo mica metalmeccanici”. Questo è il quadro. Il loro specchio riflette l’immagine del capitalismo più sfrenato, dell’uomo come numero a difesa dei propri privilegi, capitanati da un individualismo completamente dissoluto. Del resto basta prendere Milano per capire. Un articolo, apparso lo scorso anno, su MilanoPost ci aiuta a farci un’idea su cosa siano realmente i centri sociali: “Frutta agli occupanti riferendosi al Leoncavallo un rispettabile introito, valutato circa 20.000 euro a week-end, rigorosamente in nero, tra pranzi, chupito, aperitivi, concerti, ristorazione e alloggio. Perché il giovane emarginato, il rappomane sfigato, il “ggiovane tatuatissimo”, il clandestino, lo studente fuori corso, il giramondo no global consumano. Niente Siae, niente biglietti, niente fatture: si entra con una “offerta libera”. Tutto è low cost, ma gli incassi sono da capogiro. Ne sanno qualcosa gli imprenditori della notte del Cantiere, la nave scuola del vandalismo e dell’antagonismo dei black bloc chic, che girano ormai in Mercedes e ostentano Rolex da Costa Smeralda”. In tutto questo quante attività commerciali distrutte, quanti beni di comuni cittadini dati alle fiamme, da Milano a Palermo, da Roma a Cremona, un via vai di inutilità atte solo alla rovina del patrimonio altrui. Ma alla fine questa gente paga i danni che combina? Quasi mai, le istituzioni soprassiedono, si voltano dall’altra parte chiudendo gli occhi. Chi rompe paga, mi hanno insegnato da bambino, eppure con queste persone non succede mai. Sono una sorta di ente sovranazionale che si muove con logiche astruse, il solo fine quello di punire quelli che i loro padri gli hanno indicato di difendere. Tra sfratti evitati ai clandestini, aggressioni, stile malavitoso nel modo di relazionarsi con il mondo, i centri sociali sono diventati teatranti nel gioco della parti. Non servono a nulla e ci ricordiamo di loro solo quando spaccato tutto, in preda all’isterismo. Per non parlare di quando affrontano incappucciati, come veri codardi, armati di caschi e bastoni le Forze dell’ordine. Quest’ultimi devono essere umiliati, presi a sputi e a botte da gli omuncoli dei centri sociali, nient’altro che figli viziati di papà senza attributi per affrontare una vita onesta e senza conoscere cosa sia il sacrificio. I veri eroi, in tutto questo, sono i carabinieri, i poliziotti e i finanzieri a cui lo Stato non dice nemmeno grazie. Anzi vuole cucirgli sulla divisa un numero identificativo, così da poter essere riconosciuti durante le spietate aggressioni che subiscono e qualora ferissero uno di questi delinquenti, dovrebbero essere riconosciuti e magari puniti o addirittura risarcire il criminale di turno ferito nella colluttazione. Ma vi rendete conto come siamo caduti in basso? Questa gente deve pagare quando viene arrestata, pagare i danni che ha combinato e deve marcire in galera, imparando in maniera dura ed irreprensibile cosa vuole dire distruggere i beni altrui. Qualcosa che con sacrificio e rinunce la gente per bene ha acquistato e che questi criminali da strapazzo, lo fanno solo per hobby, distruggono senza motivo. Offendono e sputano contro questo Stato che ai livelli più bassi cerca disperatamente di combatterli con le poche forze e i mezzi che ha a disposizione, per inciso Forze dell’ordine e magistratura. Ma ai livelli più alti, in Parlamento, esprime la precisa volontà di non punirli. Dunque mi chiedo perché nessuno ha mai, fino ad ora, varato delle leggi ad hoc per fermare, con il pugno di ferro, questi veri e propri criminali da strapazzo? In troppi sono collusi con gli antifascisti che si credono intoccabili.  

Quei tossici che hanno in mano la nostra vita. Medici, piloti e manager al lavoro sotto l'effetto di sostanze stupefacenti o alcol. Ecco i pericoli che nessuno racconta, scrive Cristina Bassi, Lunedì 22/08/2016, su "Il Giornale". Un'operazione a cuore aperto, i comandi di un volo di linea, il futuro di centinaia di lavoratori: affidarli a una persona drogata o ubriaca equivale a un suicidio collettivo. Eppure ci sono categorie professionali più a rischio di altre per l'abuso di alcol e l'uso di sostanze stupefacenti. Sono medici, piloti, manager. Ma anche infermieri, controllori di volo, gruisti, conducenti di camion, autobus e treni. Cos'hanno in comune? Fanno lavori molto stressanti e hanno in mano la vita di altre persone. Non se ne parla. Si tratta di argomenti tabù, anche all'interno delle stesse categorie. E non ci sono, almeno in Italia, statistiche ufficiali sul fenomeno. Il velo sta appena cominciando ad alzarsi da ospedali e sale operatorie, rivelando che le professioni mediche sono tra quelle più colpite. Studi internazionali, negli Stati Uniti ma anche in Paesi europei come Spagna, Germania e Inghilterra, parlano del 12 per cento circa di operatori sanitari che hanno problemi - abuso oppure vere e proprie dipendenze - con alcol, droghe, farmaci, gioco d'azzardo. Nel nostro Paese una ricerca di Dianova International (del 2012) stima un dottore su dieci. Numeri, comunque, preoccupanti. Nasce da qui il Progetto Helper di Torino, un centro per la disintossicazione e la cura di medici affetti da dipendenze. L'idea è partita da don Paolo Fini, che da anni si occupa di recupero dei tossicodipendenti nel Centro torinese di solidarietà, e dal professor Augusto Consoli, capo del Dipartimento dipendenze della Asl Torino 2, in collaborazione con l'Ordine provinciale dei medici. Ma perché serve una clinica «speciale» per dottori? «Medici e infermieri - spiega la dottoressa Tiziana Borsatti, consigliera dell'Ordine e referente del progetto - sono pazienti difficili da gestire. Prima di tutto perché sono convinti di potersi autocurare. Poi perché hanno bisogno di un luogo dove isolarsi e dove ci sia privacy assoluta e l'anonimato sia garantito. Non possono permettersi che si sappia del loro problema o che qualcuno li riconosca al Sert. Diventerebbe uno stigma». La dottoressa, anestesista rianimatrice, ha incontrato colleghi che abusavano di sostanze. «Mi chiedevano aiuto - dice -, ma soprattutto di mantenere il segreto. È un fenomeno negato per anni. Helper oggi è un servizio indispensabile». I più colpiti sono chirurghi, anestesisti, psichiatri, medici di pronto soccorso, ginecologi. Con i cali di organico hanno turni sempre più duri. Non possono sbagliare nulla, sono sotto pressione continua, a contatto quotidiano con la sofferenza e la morte ma anche con le sostanze «proibite». Un dottore si prepara da solo la dose e crede di poterne gestire gli effetti. I veleni più utilizzati sono alcol, cocaina e psicofarmaci. Le conseguenze sono errori e conflittualità nelle équipe. I medici devono poi fare i conti con il rischio burn-out, la sindrome da «esaurimento emotivo» che colpisce chi lavora con il pubblico. Tra i dottori (il dato è nordamericano) c'è un tasso di suicidi doppio rispetto al resto della popolazione. Tra le donne medico, che spesso sopportano anche il peso della famiglia, il tasso è addirittura quadruplo se confrontato con la popolazione femminile. Aggiunge Borsatti: «Per il nostro centro, la cui apertura è prevista per il 2017, c'è già una lista d'attesa di persone interessate. Mi hanno contattato medici da altre regioni, sono gli stessi che oggi sarebbero costretti a farsi assistere all'estero». La struttura fornirà all'inizio un servizio ambulatoriale, poi anche di ricovero. Sono pronti la sede (l'indirizzo è segreto) e lo staff formato da medico internista, psichiatra, psicologo, infermieri. Mancano i fondi per partire. «La Regione Piemonte - conclude la consigliera dell'Ordine - è l'unica realtà a livello nazionale ad aver approvato un progetto come questo. Ed è pronta a creare le condizioni e le sinergie con le altre istituzioni per accompagnarlo e sostenerlo». Gabriele Gallone, medico del lavoro, ha l'incarico di svolgere i controlli tra i colleghi. «I professionisti della sanità - ammette - sono più esposti al bere problematico e all'assunzione di droghe. Il lavoro che fanno è uno dei fattori scatenanti dell'abuso di sostanze. Per questo occorre uno sforzo maggiore per aiutarli». La normativa che regola le verifiche sui dottori è diversa per ogni regione. «In alcune - continua Gallone -, come Veneto, Toscana, Lombardia, Piemonte i controlli sono frequenti. In Piemonte facciamo test anti alcol a campione direttamente nei reparti, a sorpresa. Ci presentiamo con l'etilometro e il tasso alcolemico deve risultare pari a zero. È quasi sempre così: gli accertamenti hanno un effetto deterrente. Alcuni medici segnalati subiscono anche esami del capello e del sangue». Se qualcuno risulta positivo, viene preso in cura dal Sert e ha diritto a sei mesi di astensione retribuita dal lavoro per curarsi. «Per le droghe - sottolinea l'esperto - è molto diverso. Non sono previsti controlli di questo tipo». Le legge elenca le categorie per cui i test anti droga sono obbligatori. Ci sono tra gli altri piloti, addetti a fabbriche di esplosivi, manovratori di muletti, conducenti di mezzi pubblici. «Non ci sono i sanitari - conclude il medico -. Si tratta di una lacuna da sanare. Anche se a mio avviso negli ospedali gli stupefacenti sono meno diffusi dell'alcol. In 12 anni di servizio non ho incontrato alcun caso di uso conclamato». Per i piloti, in Italia i test anti alcol e anti droga sono severi. Semmai c'è disparità tra le nostre regole e quelle degli altri Stati, pure europei. Anche se dopo il disastro Germanwings del marzo 2015 l'Agenzia europea per la sicurezza aerea lavora a un giro di vite. «La responsabilità dei controlli è della compagnia, che li affida a un medico competente spiega Antonello Furia, responsabile Funzione medica aeronautica dell'Enac. Vengono prelevati campioni di urine e rilevato il tasso alcolemico, con un preavviso molto breve, entro le 24 ore». Al pilota positivo l'Enac blocca l'idoneità al volo in attesa di accertamenti. Questo però avviene solo per le compagnie italiane, ogni Paese ha le proprie regole. Ma un pilota impiegato dove i test non si fanno può mettere a rischio passeggeri, scali e cieli italiani. «L'Agenzia europea continua Furia pensa di introdurre verifiche obbligatorie alla prima visita di idoneità e dopo ogni incidente grave o minore». Il lavoro di pilota comporta enormi carichi di stress e fatica. «Tuttavia sottolinea Ivan Viglietti, responsabile di categoria della Uil da noi la normativa è molto più severa che altrove, gli accertamenti sono rigidi e funzionano. Piuttosto mi preoccuperei della quantità e della qualità del riposo che oggi viene lasciato ai piloti». Non ci sono statistiche sui manager che fanno uso di droghe. Solo ricerche sulle sostanze più usate contro lo stress da chi guida un'azienda. In testa cocaina, alcol, antidepressivi, benzodiazepine come Tavor e Valium per la loro proprietà calmante, anfetamine e Ritalin, che aumentano le capacità cognitive. Tutte a elevato rischio di dipendenza e condannate dalle associazioni di categoria: «In particolare dichiara Isabella Covili Faggioli, presidente nazionale dell'Associazione per la direzione del personale chi si occupa di risorse umane è un punto di riferimento per gli altri manager. Da qui la condanna di tutte le dipendenze per chi deve gestire persone e tutelare il loro benessere sul posto di lavoro».

Poi, per questi addirittura, non è previsto il testo psico-attitudinale. (Adnkronos 1 dic. 1997) - ''Buon senso ed equilibrio sono per un magistrato qualità più importanti della preparazione giuridica, perchè quando alla preparazione si unisce la mancanza di equilibrio i guasti possono essere devastanti''. Così il giudice di Cassazione Ferdinando Imposimato a Torino per presentare il volume del presidente del deputati del Ccd Carlo Giovanardi ''Storie di straordinaria ingiustizia'', interviene sulla proposta di sottoporre i giudici a visita medica obbligatoria. ''Credo - ha aggiunto il giudice di Cassazione - che sia giusto, senza nessuna offesa per i magistrati, prevedere che l'ingresso in magistratura di una persona sia preceduto da un esame psico-attitudinale che del resto si fa per chi vuole entrare in Polizia, nei Carabinieri e nella Finanza. Poi -ha concluso Imposimato - c'è il problema della verifica ricorrente, poichè bisogna verificare le capacità di intendere e di volere di una persona che deve essere dotata di equilibrio prima ancora che di preparazione giuridica''. Di diversa opinione il procuratore aggiunto di Torino Marcello Maddalena che, a margine di un convegno organizzato dalla Sinistra giovanile torinese per discutere sulla bozza Boato, ha osservato: “il magistrato è un uomo, non un superuomo e io non sono dell'opinione che bisogna criminalizzare una categoria. Debbo dire che nell'ambito del pubblico impiego, dall'insegnamento alla sanità, è opportuno avere la sicurezza dell'equilibrio delle persone. Credo però che non si possa fare, all'interno del pubblico impiego, una differenziazione tra una categoria e l'altra anche se ci devono essere dei meccanismi che siano in grado di rimediare situazioni che si dovessero creare come per esempio maggiori tipi di controllo”.

Cossiga: «Test psichico per i magistrati». È polemica. Protesta Oscar Luigi Scalfaro: «Viviamo in un'epoca di continui attacchi ai giudici», scrive “Il Tempo” il 07/12/2003.  E si scontra con un altro presidente della Repubblica, il suo successore Oscar Luigi Scalfaro. Materia del contendere: i magistrati. Cossiga propone di sottoporre i candidati al concorso in magistratura ad un preventivo «esame psichiatrico e psico-attitudinale». Il senatore a vota ha anche presentato un disegno di legge in base al quale anche i magistrati già in servizio potrebbero essere sottoposti allo stesso tipo di esame medico. «L'esercizio delle funzioni di magistrato dell'ordine giudiziario, giudice e pubblico ministero - scrive il Cossiga nella relazione al ddl - incide così profondamente e talvolta irreversibilmente sui diritti della persona e sulla sua stessa vita psichico-fisica che particolare equilibrio mentale e specifiche attitudini psichiche debbono essere richieste per la assunzione della qualità di magistrato e per la permanenza nella carriera». Dunque, chi venga dichiarato inabile psichiatricamente o non idoneo psico-attitudinalmente non sarebbe ammesso al concorso. Inoltre, in qualunque momento il Csm, «di sua iniziativa o su richiesta del Ministro della Giustizia, del Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione o di un Procuratore Generale della Repubblica presso una Corte d'Appello, può sottoporre qualunque magistrato all'esame psichiatrico e psico-attitudinale». Sarebbero nominato dal Csm i componenti di questa commissione medico-psicologica, il cui giudizio «deve esser valutato, e respinto o approvato, dallo stesso Consiglio Superiore della Magistratura». Chi venga giudicato inabile psichiatricamente o non idoneo psico-attitudinalmente è dichiarato decaduto e collocato in pensione o sospeso dall'esercizio delle funzioni e collocato in aspettativa, al termine della quale è di nuovo sottoposto a visita medico-psicologica». Un paio d'ore dopo aver presentato la proposta ha riferito di aver ricevuto una telefonata anonima da parte di un sedicente magistrato «dopo la trasmissione della relazione del testo del disegno di legge sul modo di risolvere i problemi della capacità mentale e dell'attitudine psichica di coloro che aspirano a diventare magistrati o di coloro che già fanno parte dell'ordine giudiziario». Arriva poi la la protesta di Scalfaro: «È un'epoca di attacchi continui a giudici e magistrati», afferma l'ex Capo dello stato anche lui magistrato. «È un'epoca di sortite con valutazioni antropologiche dissennate. E poi c'è un'ansia, servendosi della forza di una maggioranza che conosce sono l'ubbidienza cieca, una volontà ferrea di sottrarsi ad ogni costo al giudizio del magistrato, a cui un cittadino comune non può invece sottrarsi», dichiara ancora Scalfaro che, pur senza far riferimenti precisi, ha fatto chiare allusioni alle vicende giudiziarie di Silvio Berlusconi e di Cesare Previti. L'ex presidente della Repubblica ha parlato anche di «una maggioranza in certi momenti decisamente servile, che vota con entusiasmo una legge che serve a uno solo, non ad altri...». Scalfaro ha partecipato ad un convegno in ricordo dell'ex capo del pool di Palermo Antonino Caponnetto, morto un anno fa. Alla manifestazione c'erano anche altri magistrati tra i quali Gian Carlo Caselli, Piero Luigi Vigna, Gherardo Colombo, Piero Grasso.

Si drogava in tribunale. Per il magistrato solo una sospensione, scrive Qelsi Quotidiano il 12 novembre 2015. In qualsiasi altro luogo di lavoro, lo avrebbero licenziato. Lui, però, nonostante si drogasse in servizio, e all’interno di un Tribunale, ha avuto come pena un anno di collocamento fuori ruolo dalla magistratura. L’incredibile vicenda è stata raccontata dal sito Calabria Web Oggi: Si è concluso con la sanzione della sospensione per un anno, con collocamento fuori ruolo organico della magistratura, il processo disciplinare ad un magistrato finito davanti al tribunale delle toghe per aver assunto droga prima del servizio. Una delle sanzioni più gravi, comminata però come “chance” di recupero, considerato che il giovane magistrato, F.S., è stato riconosciuto responsabile delle pesanti accuse che gli venivano rivolte e per le quali la procura generale della Cassazione aveva chiesto la sanzione ben più grave delle rimozione. All’epoca dei fatti in servizio al tribunale di Palmi (Rc) e sospeso all’esito di un altro procedimento disciplinare per un fatto analogo, il magistrato era accusato di “aver violato l’obbligo di esercitare le proprie funzioni con correttezza ed equilibrio”, poiché nel 2012 dopo aver assunto cocaina e anfetamine aveva avuto una crisi ed era stato trovato dai colleghi nel bagno del palazzo di giustizia “riverso a terra in preda a convulsioni ed in evidente stato confusionale” al punto che, si legge nel capo d’incolpazione, “continuava a dimenarsi e a farneticare”, facendo anche resistenza al medico chiamato per soccorrerlo. Altra accusa rivoltagli riguarda le ripetute assenze che avrebbero compromesso il “regolare svolgimento del servizio”. Il sostituto pg di Cassazione Renato Finocchi Ghersi, nel sostenere l’accusa, ha sottolineato la necessità di valutare il caso a prescindere dal quadro medico del magistrato, che si è poi disintossicato, vista la “rilevante recidività” e l’esclation della gravità di comportamenti che mettono a rischio la funzione giudiziaria”.

Il caso del magistrato ubriaco in bici fa giurisprudenza. Scrive Manuela D’Alessandro su “Giustiziami” l'11 maggio 2015. Fa giurisprudenza la sentenza di condanna inflitta dalla Corte di Cassazione a un magistrato milanese sorpreso a guidare ubriaco la sua bicicletta. La Suprema Corte ha confermato a febbraio la pena a due mesi e venti giorni di arresto e a un’ammenda di 800 euro per il ciclista togato, verdetto che da giorni viene commentato sui principali siti specializzati in diritto. Il reato di guida in stato di ebbrezza – questo è il cuore della pronuncia – può essere commesso anche sulle due ruote.  Per la Corte “ciò che conta è l’effettiva idoneità del mezzo ad interferire con il regolare e sicuro andamento della circolazione stradale, con la conseguente creazione di un obiettivo e concreto pericolo per la sicurezza e l’integrità del pubblico degli utenti della strada”.  Fermato e sottoposto all’etilometro che aveva accertato un tasso alcolemico pari a 1,97 grammi per litro, il magistrato ha provato in tutti i modi a convincere i colleghi ad annullare le precedenti condanne che gli erano state inflitte a Brescia nei primi due gradi di giudizio. Implacabili gli ‘ermellini’: non solo hanno confermato le sentenze, ma si sono rivelati molto severi nel distruggere tutti i motivi d’appello, a cominciare dalla “pretesa inapplicabilità della disciplina penalistica della guida in stato di ebbrezza alla conduzione di veicoli non motorizzati (e segnatamente della bicicletta)”. L’imputato aveva sostenuto inoltre di essere montato in sella alla bici “spinto dalla “necessità di sottrarsi al pericolo di una danno grave alla persona” perché aveva fretta di tornare a casa per curare una fastidiosa “cefalea a grappolo”. Un argomento definito dalla Cassazione “congetturale”. Respinta, infine, la richiesta del ricorrente di riconoscere la tenuità del fatto. Non si può dire che al povero magistrato, cui va la nostra umana simpatia, sia stato riservato un trattamento di favore. Magistrato mangia magistrato, a volte.

La carriera serena dei pm, paghe alte e scatti automatici, scrive “Il Dubbio” il 17 ago 2016. Gli scatti di anzianità sono automatici per tutti, a parità di anni di servizio non c'è differenza tra un procuratore capo e un suo sostituto. Un primario non va oltre i 4.200 euro netti. «Non faccio beneficenza, sono un giudice, ho diritto a quei soldi. Chi critica il mio stipendio conduce una battaglia contro tutta la magistratura e dovrà vedersela con l'Anm!». Queste dichiarazioni di fuoco, rilasciate da Carla Romana Raineri, neo capo di gabinetto del sindaco di Roma, a proposito del suo compenso da 193mila euro l'anno, suscitano fra i comuni mortali la curiosità di conoscere quanto guadagnano effettivamente i magistrati italiani. Diciamo subito che lo stipendio di un giovane magistrato vincitore di concorso, quello che un tempo si chiamava uditore e adesso invece magistrato ordinario in tirocinio, è di circa 2.400 euro netti al mese. Per tredici mensilità. Gli aumenti sono ogni quattro anni, coincidenti con la valutazione di professionalità. Cioè il momento valutativo sull'operato del magistrato compiuto dal Csm. Dopo i primi quattro anni si raggiungono circa 3.600 euro. All'ultima valutazione di professionalità, la settima, quindi dopo 28 anni dalla nomina, si arriva a 6.900 euro netti. Il massimo si raggiunge dopo i 35 anni, con 7.500 euro. Discorso a parte per il primo presidente della Cassazione che ha un emolumento a sé. Cifre importanti, che dovrebbero garantire l'indipendenza del giudice dai condizionamenti esterni. Insomma, non farsi corrompere. Fra i dirigenti pubblici i magistrati sono, dunque, quelli con la busta paga più alta. Più dei prefetti o dei professori universitari, tanto per fare qualche esempio. Il problema, però, non è tanto l'importo in sé dell'emolumento delle toghe, che per i motivi sopra esposti è anche giustificato, ma il criterio con cui questo stipendio viene erogato. Come si è visto, il passaggio da una classe economica a un'altra avviene in maniera automatica. In forza del solo trascorrere del tempo. Le valutazioni di professionalità, infatti, sono positive per il 99,6 per cento delle toghe. Praticamente tutte. Lo stipendio del magistrato rappresenta dunque un importo fisso e invariabile. Non essendo legato in alcun modo alla quantità e qualità delle funzioni svolte o al tempo impiegato a svolgerle. Non contempla neppure lo straordinario, non avendo il magistrato vincoli di orario. Considerando, poi, che i magistrati si differenziano fra loro solo per funzioni, lo stipendio di un giudice del dibattimento è identico a quello del pm, sempre a parità di anzianità e valutazione di professionalità. Ma c'è di più. Lo stipendio, per citare un magistrato conosciuto, del procuratore di Roma Giuseppe Pignatone è uguale a quello di un suo sostituto con la sua stessa anzianità di servizio e la medesima valutazione di professionalità. Quindi il dirigente dell'ufficio non ha, come gli altri dirigenti della pubblica amministrazione, un riconoscimento per la particolare funzione svolta. E non ha neppure delle indennità legate al raggiungimento di determinati risultati, ad esempio se ha diminuito l'arretrato o ha pianificato una best practice che permetta un miglior funzionamento dell'ufficio. Trattandosi di un argomento assai delicato, ovviamente, nessuno ha pensato di mettere all'ordine del giorno una riforma di questo meccanismo retributivo. Che andava però bene il secolo scorso. Nell'attuale società, in cui con la riforma Madia del pubblico impiego è previsto anche il licenziamento per i dirigenti che non raggiungono gli obiettivi, una riflessione sul punto sarebbe opportuna. Anche per valorizzare concretamente chi merita. Può essere comunque utile un raffronto con i medici ospedalieri e la loro retribuzione. Che, per un camice bianco appena assunto, è di circa 2.200, di poco inferiore dunque a quella di un giudice fresco vincitore di concorso. Ma ai 3.600 euro spettanti a un magistrato già dopo i primi 4 anni, un medico Asl ci arriva a stento a metà carriera. E un primario non supererà mai i 4.200 euro netti al mese, neppure col massimo dell'anzianità. Si ferma dunque poco oltre la metà di una toga arrivata al top della retribuzione. Entrambi dipendenti pubblici, entrambi con enormi responsabilità, entrambi con una professionalità molto alta (forse quella di alcuni medici è la più alta professionalità tra tutte le possibili professionalità), ma con regimi stipendiali che sembrano appartenere a due Stati diversi. Forse dipende anche dal fatto che è diverso, molto diverso, il potere che possiedono.

"Io magistrato, le banche e i mutui concessi ai criminali". Nelle indagini sui patrimoni mafiosi, sempre ambiguo il ruolo degli Istituti di Credito, grandi e piccoli, scrive Marco Patarnello il 5 agosto 2016 su “La Repubblica”. In magistratura dal 1989, è stato vicesegretario del Csm. Ora si occupa al Tribunale di Roma di misure di prevenzione antimafia, sequestro e confisca di patrimoni illeciti. "Caro direttore, l'opinione pubblica sembra stanca di interventi in favore delle banche e ci chiediamo perché. La deflagrazione che il fallimento di una banca, magari dell'importanza di Mps, creerebbe nel tessuto economico costringe lo Stato ad un intervento. Ma quale? Faccio il magistrato al Tribunale di Roma e ho dedicato gli ultimi tre anni della mia vita professionale alle misure di prevenzione patrimoniali: sequestro e confisca di patrimoni mafiosi o costruiti illecitamente, un'attività svolta mettendo sotto la lente di ingrandimento gli ultimi venti o trent'anni di vita imprenditoriale, economica, lecita e illecita di malavitosi, corrotti e criminali. Patrimoni di decine o centinaia di milioni di euro accumulati illecitamente. In ognuno di questi processi abbiamo sempre trovato un grosso mutuo, un finanziamento o un prestito concesso da istituti bancari. Prestiti spesso concessi in evidente malafede, senza le garanzie minime, in situazioni in cui nessun cittadino "normale" avrebbe avuto accesso al credito. Con la conseguenza che spesso il Tribunale esclude tali crediti delle banche dal novero di quelli che devono essere soddisfatti con il denaro confiscato ai malavitosi. Una mole di attività bancaria svolta chiaramente facendo affari spregiudicati, prestando denaro a chi non dava nessuna garanzia, se non quella di entrate illecite. Negando, invece, i prestiti a chi non aveva garanzie fantasmagoriche, come ha potuto constatare chiunque, da persona comune, abbia chiesto un finanziamento o un mutuo in questi anni. E, si badi, questo non da parte delle sole banche di serie B o di provincia. Non sono in condizione di fare un'analisi statistica o completa, ma poche banche mi sono parse estranee a questo modo spregiudicato e rischioso di fare impresa. Ora che la situazione economica è più difficile si scopre che i crediti di molte banche sono in sofferenza, non sono garantiti e si prende in considerazione di risolvere il grave pericolo insito nel fallimento di queste imprese mettendo denaro pubblico. Quando si guadagna ci si ricorda di essere un'impresa, quando si perde si socializzano le perdite. Non può funzionare così. Il fallimento di una banca è senza dubbio un rischio grosso per l'economia di un territorio o anche dell'intero paese, se la banca è grande. È ragionevole impedire che ciò accada. Ma non a qualsiasi costo e non regalando, sostanzialmente, il denaro ad un'impresa, anche se si trattasse di denaro dell'Europa o parzialmente dello stesso sistema bancario. Perché il patto sociale regga, investire denaro pubblico non può essere un regalo. Se una banca non ce la fa con le sue forze si nazionalizza, si risana e si rivende. Questo ha un senso per la collettività. E non è una bestemmia anticapitalista e antimoderna più di quanto non lo sia regalare denaro pubblico ad un imprenditore, che per di più ha dimostrato di farne cattivo uso".

Crac bancari, giustizia non è fatta: quelle indagini fra sospetti e conflitti di interesse. I processi ai banchieri hanno tempi lunghi. E rischiano la prescrizione. Ma il problema non sono solo i tempi. Ci sono episodi più gravi. Negli atti spuntano infatti rapporti con magistrati che gettano ombre sulle attività giudiziarie. Assunzioni, favori, regali. Da Vicenza e Treviso, per arrivare a Palermo. Ecco i nomi, scrive Vittorio Malaguti il 17 agosto 2016 su "L'Espresso". Il processo? Non si può fare. Ad Ancona, i pm della Procura cittadina vagano da tre anni nel labirinto del crac di Banca Marche, un disastro da un miliardo di euro che ha travolto i risparmi di 50 mila famiglie. La lista degli indagati è lunga, 36 nomi, ma le accuse più pesanti riguardano l’ex direttore generale Massimo Bianconi, al vertice dell’istituto dal 2004 al 2012. È lui, secondo la ricostruzione dei commissari inviati da Bankitalia, l’uomo che ha dato le carte al tavolo di un poker affollato di bari e truffatori. Ebbene, poche settimane fa, per la prima volta dall’inizio delle indagini, un magistrato è stato chiamato a decidere se mandare alla sbarra Bianconi. Niente da fare. Il 9 giugno, l’udienza sul rinvio a giudizio del manager si è conclusa con un nulla di fatto. Motivo: nel fascicolo del procedimento depositato dalla Procura mancavano alcuni documenti. Il caso di Ancona non è un’eccezione. Nell’anno nero del risparmio, le polemiche sulla giustizia lenta si sommano a quelle sui controllori distratti, Bankitalia e Consob, capaci di intervenire solo per raccogliere i cocci. Nelle Marche come in Veneto, da Vicenza a Treviso, e poi ad Arezzo e a Genova, le indagini sui banchieri rischiano di affondare nelle sabbie mobili dei sospetti e dei veleni. I magistrati sono chiamati a esplorare una zona grigia di favori e complicità. Le inchieste delle procure tentano di smontare sistemi di potere consolidati nel tempo. Sistemi di cui spesso, come risulta dalle carte, gli stessi magistrati erano parte integrante. Ad Ancona il rinvio deciso a giugno riguarda un filone di indagine marginale. Una storia di presunte mazzette che l’ex direttore generale avrebbe incassato per dare via libera ai finanziamenti richiesti da due imprenditori, Vittorio Casale e Davide Degennaro, anche loro indagati. Il danno stimato si aggira sui 15 milioni: poca cosa nel calderone di Banca Marche, affondata in un mare di affari sballati. Se ne riparla a ottobre. Solo che, nel frattempo, i reati contestati a Bianconi rischiano di andare in prescrizione prima di approdare in tribunale. Intanto, il popolo degli sbancati, migliaia di famiglie che hanno perso i loro soldi nel tritacarne gestito da Bianconi, assiste rassegnato alla corsa a ostacoli della giustizia. Sono passati più di tre anni da quando, nella primavera del 2013, la Procura di Ancona aprì un fascicolo sulla disastrosa gestione dell’istituto marchigiano. A ben guardare, però, si scopre che già nel 2010 e nel 2011 gli ispettori della Vigilanza avevano segnalato ai magistrati irregolarità e omissioni nella gestione dell’istituto marchigiano. Nulla si mosse, all’epoca. Fino a quando, dopo il ribaltone al vertice e l’uscita di scena di Bianconi (con tanto di buonuscita milionaria e lettera di encomio), i pm scesero finalmente in campo. Ad Arezzo, epicentro del terremoto Banca Etruria, l’inchiesta della procura si è frantumata in cinque filoni. Quello principale per bancarotta, aperto dopo la formale dichiarazione d’insolvenza dell’istituto nel febbraio scorso, è alle prime battute. E gli altri riguardano aspetti secondari nella complicata vicenda di un crac da 1,1 miliardi di euro. A ottobre potrebbe arrivare il primo verdetto, ma solo perché Giuseppe Fornasari, ex presidente dell’istituto aretino, insieme a Luca Bronchi, già direttore generale, e all’ex dirigente Davide Canestri, saranno processati con il rito abbreviato per ostacolo alla Vigilanza su uno specifico affare immobiliare. Ben altri saranno i tempi dell’indagine che punta ad accertare le responsabilità del fallimento della banca. Un’indagine che vede tra gli indagati anche l’ex vicepresidente Pierluigi Boschi, padre del ministro Maria Elena. Proprio gli incroci pericolosi con il governo hanno finito per creare nuovi intralci in un’inchiesta già di per sé complicata. Nei mesi scorsi, Roberto Rossi, procuratore capo di Arezzo e titolare delle indagini sul dissesto della banca cittadina, è stato costretto a difendersi davanti al Csm (l’organo di autogoverno della magistratura) per gli incarichi di consulenza ricevuti dalla presidenza del Consiglio ai tempi di Enrico Letta e mantenuti anche quando a Palazzo Chigi è approdato Matteo Renzi. Il verdetto è di fine luglio. «Tutto regolare: non c’è incompatibilità». Il pm potrà continuare a indagare sul padre di un ministro del governo di cui è stato consulente. Intanto, sono trascorsi più di tre anni da quando, nel 2013, gli ispettori di Bankitalia avevano formulato i primi pesanti rilievi sulla gestione dell’istituto. Nel novembre scorso, con l’azzeramento di Banca Etruria deciso dal governo, migliaia di azionisti e obbligazionisti hanno perso per intero il loro investimento. Le proteste e le manifestazioni di quei giorni sono un ricordo. Quel che resta sono centinaia di esposti dei risparmiatori che attendono giustizia. A Treviso e dintorni invece, decine di cittadini sono tornati in piazza il 2 agosto per brindare all’arresto di Vincenzo Consoli, un tempo riverito gran capo di Veneto Banca. Sui social network è partito il tormentone: «Perché Consoli sì e Zonin no?». Una storia parallela, quella dei due banchieri, ex potenti finiti nella polvere. Anche Gianni Zonin, già presidente della Popolare di Vicenza, è sotto inchiesta per aggiotaggio e ostacolo alla Vigilanza, gli stessi reati che al suo ex collega di Veneto Banca sono costati un’ordinanza di custodia cautelare. Nella città del Palladio, il capo della locale Procura si è fatto scudo di un’ovvietà: «Ogni inchiesta fa storia a sé», ha scandito il magistrato Antonio Cappelleri. Difficile affermare il contrario, in effetti. Intanto però i pm di Vicenza si sono tenuti ben stretto il fascicolo che riguarda la Popolare. Treviso invece, competente per territorio su Veneto Banca, ha ceduto il passo a Roma, con la motivazione che il reato di ostacolo alla Vigilanza della Banca d’Italia si è consumato nella capitale. Una rinuncia, quella di Treviso, disseminata di imbarazzi. Soprattutto da quando, nei mesi scorsi, sono emersi i rapporti tra Consoli e il colonnello Giuseppe De Maio, comandante della Guardia di Finanza trevigiana fotografato in Brasile, all’epoca dei mondiali 2014, mentre brinda con il banchiere. Al vaglio del Csm è finita anche la posizione di Michele Dalla Costa, il magistrato che dal 2013 guida la procura di Treviso. Sua moglie si chiama Ippolita Ghedini e lavora nello studio di famiglia insieme al fratello Niccolò, parlamentare di Forza Italia e difensore di Silvio Berlusconi in tanti processi. Gli accertamenti su Dalla Costa riguardano incarichi professionali che la signora Ghedini avrebbe ottenuto dal gruppo Veneto Banca. Del resto anche Giuseppe Schiavon, fino al 2012 presidente del tribunale di Treviso, era in rapporti più che cordiali con Consoli. Amicizia a parte, nelle settimane scorse Schiavon si è trovato nella spiacevole situazione di dover giustificare i regali ricevuti nel 2009 e nel 2010 dall’istituto con base a Montebelluna. Regali da migliaia di euro: una mountain bike, un orologio in oro bianco. «Non ho mai chiesto o ricevuto alcun compenso da Veneto Banca», ha tagliato corso il magistrato quando gli è stato chiesto di questi omaggi. Polemiche, veleni, sospetti: questo è il clima che circonda l’inchiesta su Consoli. Non è una sorpresa, allora, che la procura di Treviso abbia deciso di farsi da parte. A Vicenza, invece, Zonin continua a giocare in casa. In passato, i procedimenti a suo carico si sono invariabilmente chiusi con un nulla di fatto, mentre il banchiere vignaiolo, forte di una rete impressionante di relazioni nel mondo della politica, dell’alta burocrazia, della finanza e dei giornali, si è costruito la fama dell’intoccabile. Solo ora che il suo regno è finito, qualcosa si muove. Il Csm ha aperto un’indagine per chiarire le motivazioni che hanno portato all’archiviazione di due inchieste giudiziarie, che risalgono al 2001 e al 2008, a carico dell’allora presidente della Popolare. Sono già stati chiamati a deporre il presidente del Tribunale di Vicenza, Alberto Rizzo, e il procuratore capo Cappelleri. Dei pm che all’epoca si occuparono di quei casi, solo uno, Stefano Furlani, è ancora al lavoro nella città berica e adesso rischia il trasferimento. Tutti gli altri hanno cambiato sede o sono andati in pensione. E qualcuno, chiusa la carriera in magistratura, ha trovato una sistemazione a libro paga della banca vicentina. “L’Espresso”, nel febbraio 2015, ha rivelato il caso dell’ex pm Antonio Fojadelli, che nel 2014 è entrato nel consiglio di amministrazione di Nordest sgr, una società di gestione del risparmio controllata dalla Popolare di Vicenza. Nel 2002 l’allora procuratore Fojadelli chiese, e alla fine ottenne, l’archiviazione di un’inchiesta su Zonin. A distanza di anni il magistrato, da tempo in pensione, si è accomodato su una poltrona offerta dal banchiere su cui aveva indagato. Caso vuole che lo stesso Fojadelli, una volta lasciato l’incarico a Vicenza, sia approdato nel 2003 a Treviso, dove all’epoca regnava Vincenzo Consoli, patron di Veneto Banca. Dopo otto anni nella nuova sede, arriva la pensione e, nel 2014, Fojadelli accetta l’offerta della Popolare di Vicenza. Si ignora quali siano le sue competenze in materia di risparmio. Sta di fatto che anche adesso che la stella di Zonin è tramontata, l’ex pm risulta ancora amministratore di Nordest sgr. Stesso discorso per un altro magistrato come Manuela Romei Pasetti, che nel 2012 è entrata nel consiglio di Banca Nuova, controllata palermitana della Popolare Vicenza. Pochi mesi prima della nomina, Romei Pasetti aveva lasciato la toga come presidente della corte d’Appello di Venezia, competente anche su Vicenza. In quegli anni l’istituto palermitano, all’epoca guidato dal direttore generale Francesco Maiolini, aveva arruolato una schiera di dipendenti dai cognomi eccellenti: parenti di politici e di alti burocrati locali. Una lista in cui non mancavano figli e consorti di magistrati. Tra questi anche il figlio di Francesco Messineo, fino al luglio 2014 capo della procura di Palermo. E poi Germana Cupido, moglie di Ignazio De Francisci, già procuratore aggiunto nel capoluogo siciliano, e Margherita Milone, nuora di Leonardo Guarnotta, che nel 2015 ha lasciato l’incarico di presidente del tribunale palermitano. Nessun reato, salvo prova contraria, ma talvolta gli intrecci tra finanza e giustizia alimentano i peggiori sospetti. È successo a Genova, dove nel 2014 è stato arrestato Giovanni Berneschi, fino all’anno prima dominus assoluto di Carige, un’altra banca di provincia finita nei guai. Nelle carte dell’inchiesta sono emersi i rapporti tra Berneschi e alcuni magistrati, come l’ex procuratore capo Francesco Lalla e il giudice Roberto Fucigna. Entrambi, risulta dagli atti, avevano bussato alla porta del banchiere per ottenere favori di vario tipo. Proprio in quegli anni diverse indagini sul sistema Carige erano state archiviate. Una proprio da Fucigna. Solo nel 2013 comincia l’inchiesta che porterà alla caduta di Berneschi. A capo della procura però non c’era più Lalla, ma Michele Di Lecce, un magistrato venuto da fuori.

Popolare di Vicenza, Gianni Zonin arruola il pm che aveva indagato su di lui. Il magistrato in pensione Antonio Fojadelli è ora consigliere di una controllata dell'istituto, la Nordest sgr. E non è l'unica ex toga nel gruppo, scrive Vittorio Malaguti il 23 febbraio 2015 su "L'Espresso". All'epoca, correva l'anno 2002, la vicenda fece grande scalpore a Vicenza. L'uomo più potente della città, il banchiere Gianni Zonin, sotto inchiesta per falso in bilancio e conflitto d'interessi. E un giudice, il gip Cecilia Carreri, che ordina l'imputazione coatta dell'indagato eccellente sconfessando apertamente l'operato del pm Antonio Fojadelli, che invece aveva chiesto l'archiviazione. La vicenda giudiziaria, assai intricata, è arrivata al capolinea solo nel 2005 con una sentenza di non luogo a procedere nei confronti del presidente della Popolare di Vicenza. A distanza di un decennio, però, le strade di Zonin e del pm che indagò su di lui sono tornate a incrociarsi. Alcuni mesi fa, infatti, Fojadelli, classe 1939, è stato nominato amministratore di Nordest sgr, una società che gestisce alcuni fondi d'investimento controllata al 100 per cento dalla Popolare di Vicenza. Nel frattempo il magistrato è andato in pensione, chiudendo la carriera a fine 2011 con i gradi di procuratore capo a Treviso. L'anno successivo l'ex sostituto procuratore vicentino aveva tentato lo sbarco in politica candidandosi senza successo a sindaco di Conegliano Veneto in una lista di centro sinistra appoggiata dal Pd. Nel 2014 è arrivata la chiamata della banca presieduta da Zonin. Fojadelli, peraltro, non è l'unica toga arruolata dal gruppo creditizio veneto. Nel consiglio di Banca Nuova, l'istituto con base a Palermo controllato dalla Popolare di Vicenza, siede da più di due anni Manuela Romei Pasetti. Ovvero l'ex giudice, già presidente della Corte d'Appello di Venezia, coinvolta nell'inchiesta sulla gestione di Finmeccanica dell'ex amministratore delegato Giuseppe Orsi. Secondo l'accusa, Romei Pasetti, che era presidente dell'organo di vigilanza del gruppo pubblico, avrebbe fatto pressioni sul Csm per ostacolare le indagini del pm milanese Eugenio Fusco, distaccato a Busto Arsizio per condurre l'indagine su Finmeccanica. Da qui il coinvolgimento nell'inchiesta. Il nome di Romei Pasetti (questa volta non indagata) è tornato alla ribalta delle cronache l'anno scorso con l'inchiesta veneziana sul Mose, per le sue telefonate (intercettate dagli investigatori) con l'ex numero due della Guardia di Finanza, il generale Emilio Spaziante, che ha già patteggiato una pena di quattro anni.

Concordia, la rabbia dei naufraghi francesi: "Rubati i nostri beni di valore". "Soldi e gioielli mai restituiti. Sparite le casseforti". La compagnia replica: "Il relitto era sotto sequestro giudiziario", scrive Anais Ginori il 5 settembre 2016 su “La Repubblica”. Alcuni dei sopravvissuti francesi al naufragio della Costa Concordia denunciano il furto dei loro beni di valore, gioielli, soldi e apparecchi elettronici lasciati nelle casseforti delle cabine nella fuga precipitosa la sera del 13 gennaio 2012. Secondo Anne Decré, responsabile del collettivo che rappresenta 390 dei 450 naufraghi francesi della Concordia, le casseforti presenti in ogni cabina e il loro contenuto sono "misteriosamente spariti". Quattro anni e mezzo dopo, al termine del lungo percorso di smantellamento della nave, la Costa Crociere ha finalmente rispedito ad alcuni passeggeri gli oggetti ritrovati e consegnati all'armatore dalla Guardia costiera. Ma secondo i naufraghi francesi mancano all'appello molte cose. L'accusa del collettivo è che qualcuno se ne sia impossessato durante le operazioni di recupero o di smantellamento del relitto. "Nelle cabine sul ponte superiore stranamente sono sparite tutte le casseforti", nota la responsabile del collettivo francese che ha lanciato la polemica con un'intervista al Parisien, intitolata Saccheggi a bordo della Concordia. Negli anni passati ci sono già state diverse denunce per segnalare intrusioni non autorizzate a bordo della nave. Costa Crociere respinge ogni responsabilità, argomentando che, nei due anni in cui la nave è rimasta incagliata all'isola del Giglio, il relitto era sotto sequestro giudiziario e poi è stato venduto a un consorzio per lo smantellamento a Genova. "Tutte le operazioni di recupero dei portavalori sulla nave sono state effettuate dalla Guardia costiera italiana, sotto la vigilanza del tribunale di Grosseto", aggiunge Costa Crociere in un comunicato. Inoltre, secondo l'armatore, le strutture del ponte 6 "sono state disperse in mare, comprese le casseforti". Una società è stata incaricata di ritrovarle, ma finora "solo qualcuna è stata recuperata". La maggior parte dei passeggeri francesi ha già accettato un risarcimento danni per la perdita di oggetti durante il naufragio: il valore forfettario offerto dalla compagnia è stato di circa 11mila euro. "È una somma che prevedeva però la restituzione dei beni presenti nella cassaforte", sottolinea Decré, che denuncia anche una certa confusione nell'invio dei beni, con errori di destinatari, e il mancato ritrovamento delle valigie dei passeggeri che pure si vedevano nelle immagini all'interno del relitto. Al di là del valore economico, aggiunge, c'è anche un valore affettivo. Una passeggera sostiene di aver visto tre anelli appartenuti alla nonna nelle fotografie presentate da Costa Crociere tra gli oggetti ritrovati, senza averli poi mai riavuti indietro. Un altro francese che era a bordo della Concordia ha raccontato di aver riavuto la macchina fotografica, ma non la collana di perle e gli orecchini di brillanti lasciati in cabina. "L'incompetenza di Costa è pari a quella del suo comandante", accusa la titolare del collettivo francese, chiedendo un nuovo risarcimento pari ai beni scomparsi.

GLI ITALIANI DI OGGI. TRA LADROCINIO E MALEDUCAZIONE. Galateo? Le buone maniere non sono più di moda. Oggi sei un cafone se non dici parolacce. Il galateo alla rovescia di Cesare Marchi irride i costumi scostumati del tempo, Scrive Cesare Marchi il 2 luglio 1980 (Pubblicato da "Il Giornale" il 10/08/2016). "Cambia il mondo e con esso il galateo. In tram non si cede più il posto alle signore, avendo esse ottenuto, assieme ai diritti dell'uomo, anche i doveri, compreso quello di stare in piedi. Nemmeno ai vecchi si cede più il posto, essendo per costoro ingiurioso affronto l'essere considerati tali, anzi ci sono dei vegliardi che vestono abiti giovanili, a tinte sgargianti, per camuffare l'inesorabile carta d'identità, mentre a loro volta i giovani, per distinguersi da questi pseudo coetanei, si invecchiano artificialmente con zazzere beethoveniane e barbe mosaiche. Ci si dà subito del tu. Chissà come esulterà nella tomba l'anima di Achille Starace apprendendo che è stato finalmente abolito il «lei», traguardo che una volta si raggiungeva solo dopo anni di guardinga, reciproca conoscenza, e reciproche, discrete indagini, presso i carabinieri o il parroco, l'uno all'insaputa dell'altro, per scoprire eventuali macchie del reciproco passato. E il fatto che dopo trent'anni di matrimonio i nostri nonni, i nostri genitori, usassero anche nell'intimità il lei, era la prova che quegli accertamenti non si erano ancora conclusi. Per abituare i ragazzi a mangiare composti, senza appoggiare i gomiti al tavolo, si infilavano sotto le loro ascelle due monetine. Se alla fine del pranzo non erano cadute, diventavano loro proprietà. I bambini parlavano solo se interrogati. I grandi avevano sempre ragione. Nei collegi-bene certi vocaboli erano proibiti, una educanda fu punita per aver scritto, nel tema, che il cavallo rinculò. Frequenti cartelli intimavano vietata la bestemmia e il turpiloquio, cose oggi tollerate se non addirittura incoraggiate. Un teologo ha scritto che la bestemmia è una, sia pur rabbiosa, invocazione al cielo, una sorta di «preghiera capovolta» (alla stessa stregua si potrebbe affermare che quel teologo è «ateo travestito»). Abbattuti i tabù puritani, il turpiloquio è entrato nella conversazione di tutti i giorni, e le signore nei salotti gli hanno spalancato le braccia, con l'entusiasmo dei neofiti, e le parolacce da trivio, fino allora costrette a rifugiarsi nei cessi, quasi non volevano credere ai loro occhi vedendo correre verso di sé, e accoglierle da pari a pari, letterati, intellettuali, poetesse, capintesta Cesare Zavattini, quello che si firma con due zeta. Una volta chi diceva le parolacce era un anticonformista, oggi lo è chi non le dice. Ma, ancora una volta, l'inflazione ha rovinato tutto. Pessimi amministratori del nostro patrimonio turpiloquente, lo abbiamo dilapidato col dissennato abuso; le parolacce che, ai tempi del proibizionismo, avevano lo stordente e raro profumo dei fiori del male, si sono svuotate di significato. Si sono, come dicono i semiologi, desemantizzati. Tornasse a vivere il grande Cambronne, visto lo spreco che si è fatto del suo vocabolo, al nemico che intima di arrendersi griderebbe «ciclamino». Queste considerazioni (stavo per dire preambolo, altro vocabolo inflazionato) mi sono state suggerite dalla lettura del libro di Giovanni Mosca «Il nuovo galateo», scritto dall'inesauribile umorista per colmare una lacuna, diventata negli ultimi tempi sempre più preoccupante. Infatti per quattro secoli funzionò quale indiscusso manuale di comportamento il famoso Galateo, trattato di buone maniere dedicato da monsignor Giovanni Della Casa all'amico Galeazzo Florimonte. Ma dopo l'ultimo dopoguerra le cose sono cambiate, la società ha subito tali mutazioni che quel codice non serve più. Anzi, è pericoloso seguirlo. Della Casa, per esempio, esorta ad evitare l'esagerata adulazione, la affettata umiltà, condanna il servilismo, il conformismo. Ma chi vuol fare carriera, difficilmente rinuncia a queste scorciatoie, tanto deplorevoli moralmente quanto redditizie professionalmente. A tempi nuovi, galateo nuovo. E qui la fantasia dell'umorista si scatena ondeggiando tra la satira graffiante, la serena ironia contemplativa e l'umorismo astratto, funambolico del vecchio Bertoldo. Ecco qualche perla. Il nudo, oggi tanto di moda, è espressione di libertà? «Niente di più falso. Abramo Lincoln, che della libertà fu uno dei più grandi campioni, abolì la schiavitù rimanendo sempre completamente vestito». Desiderate combinare qualche scherzo telefonico? «Mai telefonare a personaggi universalmente stimati probi e onesti, fingendosi carabinieri che li accusano di peculato e concussione: tali scherzi possono riuscire mortali, perché sono proprio gli uomini che reputiamo al di sopra di ogni sospetto, quelli che maggiormente si dedicano al peculato e alla concussione». In salotto non dite mai «non c'è denaro che possa comprarmi», «io dico pane al pane e vino al vino, sono un uomo tutto d'un pezzo», bensì «sono disposto a farmi corrompere anche per una modica somma», «quello che debbo dire mi guardo bene dal dirlo», «ho sempre cambiato idea», «se vado a testa alta è solo per l'artrosi». Così guadagnerete la stima e le fiducia da tutti, e tutto il mondo dirà «è uno dei nostri». Alle mostre di pittura, mai domandare che cosa il quadro rappresenti, e se per caso non sia stato appeso per il rovescio. Quanto agli omosessuali, non giudicateli anormali: «Sono semplicemente una minoranza che domani, diventando maggioranza, potrebbe capovolgere la situazione e gettare noi nel ghetto della minoranza, inducendoci a organizzare manifestazioni per ottenere la parità dei diritti». 2 luglio 1980".

Il bello è che gli ipocriti lestofanti sono i maestri del Politically correct. L'espressione angloamericana politically correct (in ital. politicamente corretto) designa un orientamento ideologico e culturale di estremo rispetto verso tutti, nel quale cioè si evita ogni potenziale offesa verso determinate categorie di persone.

LA MANCANZA DEL POLITICAMENTE CORRETTO.

CAPITALE MORALE: PER LADY DENTIERA DIRE “TERRONI” NON È REATO. MA LA SECONDINA..., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016. «Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Ormai, le retate delle forze dell'ordine portano in galera i moralisti meneghini a lotti di decine. E anche questa volta, è finito dentro il potente leghista Fabio Rizzi, “braccio destro” di Roberto Maroni, presidente della Regione. Regione Lombardia: il che spiega perché è ancora al suo posto e non si e dimesso, come i boati a mezzo stampa avrebbero preteso se presidente e Regione fossero stati da Roma in giù (mica si tratta di due chili di cozze pelose!). Già nell'altra retata di moralisti a mazzetta incorporata, appena qualche mese fa, finì in galera un altro “braccio destro” di Maroni, il suo vice alla Regione, e sempre per appalti nella Sanità. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l'intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un'ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a 'sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita». Il che mostra che lady Dentiera cercava già una scusa per darsi latitante all'estero. Ci ha pensato troppo e ora ha tempo per continuare a pensarci in galera. Toc, toc...! Milady... Indovini di dov'è la secondina? Non lo sa, glielo ha detto e non lo capisce? Ha detto qualcosa, tipo: «Chini cazzu sugnu eu?». Glielo traduco, è calabrese, significa: «Chi cazzo sono io?». Quindi lei adesso le risponde, educatamente e civilmente: «Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia». Vedrà che lei avvia un dialogo sull'etimo del termine, che favorirà la crescita culturale di entrambi. Toc, toc...! Milady... Indovini di dov'è la cuoca? Non lo sa, glielo ha detto e non lo capisce? Ha detto qualcosa, tipo: «Chi cazz song'ije?». Glielo traduco, non è proprio napoletano, ma siamo sempre in Campania, significa: «Chi cazzo sono io?». Quindi lei adesso le risponde, educatamente e civilmente: «Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia». E poi, buon appetito. Tanto, i denti o la dentiera, non le mancano.

Altro che disgrazia, Marcinelle fu un crimine! Scrive Ilario Ammendolia il 9 ago 2016 su “Il Dubbio”. Sessant'anni fa la strage dei minatori italiani emigrati in Belgio. I soccorsi furono ritardati: non si volevano far vedere l'inferno delle miniere e le baracche dei migranti. Nel mese di giugno del 1946 il governo italiano firmava con il Belgio l'accordo di scambio tra uomini e carbone. Per ogni italiano che scendeva in miniera, l'Italia riceveva 200 chili di carbone al giorno. In tutti gli uffici di collocamento furono affissi dei manifestini di color rosa pallido che invitavano gli aspiranti ed improvvisati minatori a trasferirsi in Belgio. Per ricevere il visto di ingresso in quel Paese, avrebbero dovuto però sottoporsi a visita medica e, a tal fine, fu creato un centro nei sotterranei della stazione centrale di Milano. Da paesi del Sud (ma anche dal Veneto) partirono in migliaia e molti fecero ritorno con i bronchi distrutti dalla silicosi. L'8 agosto di sessanta anni fa la tragedia di Marcinelle! La miniera si trasforma in un inferno e 262 uomini bruciano come torce umane. La maggioranza sono meridionali. Dalla fine della guerra al 1956 i paesi del Sud vedono ridursi la popolazione di oltre un terzo dei propri abitanti. Ho un nitido ricordo delle famiglie del mio paese che aspettavano con trepidante attesa notizie dei loro cari residenti in Belgio. Le lacrime silenziose di quanti con compostezza si recavano quotidianamente in caserma nella speranza di conoscere la sorte dei loro familiari. Il carbone è servito per alimentare le industrie del "triangolo" industriale. Le rimesse degli emigranti furono utilizzate dalle banche per finanziare il "miracolo economico" italiano. Era l'Italia del 1956! Marcinelle non fu una disgrazia, fu un crimine. I soccorsi furono ritardati per non mostrare al mondo le condizioni impossibili nei quali i minatori erano costretti a lavorare. Non si volevano far vedere le miniere dove tutto era inadeguato e neanche le baracche dei migranti privi di servizi igienici. I padroni delle miniere risparmiavano sulle attrezzature e finanche sui mezzi di prevenzione e di soccorso, puntando ad aumentare i profitti sullo sfruttamento inumano dei minatori costretti a scendere a mille metri di profondità senza tutela alcuna. La tragedia fu circondata da un muro di omertà e finanche di crudeltà. Si pensi che i familiari delle vittime e dei feriti furono fermati per giorni alle frontiera perché non avevano il visto di ingresso in Belgio. Tuttavia c'era anche una diversa sensibilità rispetto al mondo del lavoro, tanto in Italia che in Europa. Quando ancora si scavava nella miniera di Marcinelle per raggiungere quota 835 alla ricerca di impossibili sopravvissuti, ovunque, lavoratori del Nord e del Sud scendevano in lotta in un moto di spontanea solidarietà alle famiglie delle vittime. Manifestazioni di solidarietà ai minatori furono indetti dai sindacati del Belgio ed in Francia. Il governo italiano fu costretto a denunciare l'infame accordo "uomo- carbone". Sulla stampa, in Parlamento e nel Paese, la strage di Marcinelle venne interpretata come l'ennesimo tributo di sangue imposto ai lavoratori, soprattutto meridionali, per consentire alla industria "padana" di potersi sviluppare. Negli stessi giorni si rivendicò con forza la centralità dell'uomo rispetto alle leggi del mercato. Fu riproposta la necessità di un "piano nazionale", capace di incentivare insediamenti industriali nei luoghi di residenza dei lavoratori disoccupati piuttosto che sradicare la gente del Sud e farla dormire nelle soffitte di Torino e di Milano ed, ancor peggio, nelle baracche belghe costruite per i prigionieri di guerra. Oggi la solidarietà tra gli uomini è messa a dura prova. Mentre, la stessa industria "padana" cresciuta sul sangue dei lavoratori meridionali (e settentrionali) in nome della comune Patria trasferisce i propri impianti all'estero inseguendo la sola legge del massimo profitto. Altro che ndrangheta! Nessuno pagò per il crimine di Marcinelle quasi che provocare la morte di minatori non dovesse esser considerato un reato! A sessant'anni di distanza il tasso di disoccupazione giovanile al Sud è maggiore rispetto al 1956. La forbice si è allargata ed oggi la distanza tra Calabria e Lombardia è maggiore rispetto a quella tra Germania e Grecia. Gli ospedali calabresi sono molto più vicini a quelli dell'Egitto rispetto a quelli del Veneto! Nonostante ciò, la questione meridionale è stata ridotta a mera questione criminale. Nei giorni scorsi il Senato della Repubblica ha dedicato sette ore del suo tempo per decidere l'arresto del senatore Caridi, considerato un "invisibile" di una "cupola" occulta, secondo quanto ipotizzato nell'inchiesta della procura di Reggio Calabria denominata "Mammasantissima". E' stata l'unica occasione, in tutti questi anni, in cui in un'aula parlamentare si è speso così tanto tempo a parlare, sia pure di riflesso, di una vicenda calabrese. E' successo a sessanta anni esatti di Marcinelle. Un unico filo rosso collega e fa da sfondo ad avvenimenti così diversi e così distanti: la grande disperazione del Sud che le classi dirigenti nazionali non hanno mai affrontato e che ieri veniva camuffata come logica conseguenza di una «naturale depressione economica» mentre oggi viene derubricata a mera questione criminale.

GLI ECCESSI DEL POLITICAMENTE CORRETTO.

Cicciottelle non di può dire, ma panciuti sì, scrive Giordano Tedoldi su “Libero Quotidiano" il 9 agosto 2016. Che la faccenda del politicamente corretto sia del tutto fuori controllo, e abbia prodotto l' esatto opposto di ciò che voleva prevenire, e cioè livore, aggressività, pretesto per giudicare sommariamente il «nemico» e inchiodarlo a una parola diventata oscuramente impronunciabile, lo dice la furibonda polemica sulle tre azzurre del tiro con l' arco, bravissime, ma che non sono riuscite a guadagnare il podio alle Olimpiadi di Rio, cedendo alle russe, e le cui gesta il Resto del Carlino, nelle sue pagine sportive, ha raccontato con il titolo «il trio delle cicciottelle sfiora il miracolo olimpico». Ora, poiché viviamo al tempo della pussy generation, come dice Clint Eastwood che ha coniato l' espressione in una sua recente intervista a Esquire (scandalizzando tutti perché, sai che scoperta, il vecchio Clint mostrava interesse per Donald Trump, ma dai, e noi che pensavamo fosse kennediano tendenza Veltroni…) cioè «la generazione delle femminucce» - e non staremo a spiegare o a difendere l' uso dell' espressione, attendendo pazientemente i soliti geni, che ci diranno che offende le donne anzi «il corpo delle donne» - allora ne consegue che «cicciottelle», riferito alle tiratrici olimpiche, è «una vergogna», e che i giornalisti che hanno così titolato sono responsabili della «morte di una professione», e che «sono da pestare» perché «fanno schifo». Questi commenti, così civili, indice di elevato pensiero e nobili sentimenti, sono alcuni nella nauseante marea di analoghi insulti, partoriti dagli indignati del politicamente corretto, presi a casaccio dalla rete, che ieri ne traboccava. E tutto perché l'anonimo giornalista - di cui ora la rete pretende il nome, ché si deve pubblicamente umiliarlo, e pretenderne scuse solenni, e casomai ottenerne anche la radiazione dall' ordine professionale, provvedimento che gli indignati del web sollecitano ogni ora per gli episodi più vari e contraddittori - ha detto che tre atlete sono «cicciottelle». Occorre rammentare alla scatenata pussy generation, quella per la quale, come dice Clint, «questo non si può fare, quello non si può dire, quell' altro nemmeno» (tutti divieti stabiliti da loro, beninteso) che quattro anni fa la rete non si scatenò affatto, per i «Robin Hood con la pancetta», come vennero chiamati dai giornali i tre arcieri italiani, non propriamente smilzi, che vinsero l'oro alle Olimpiadi di Londra. Allora, il fatto che i nostri tiratori fossero «cicciottelli», com' è del resto abbastanza normale in una disciplina dove non è richiesto il peso forma, semmai occhi di lince e grande capacità di concentrazione, non destò scandalo alcuno. Soprattutto non destò scandalo per gli arcieri, così come nulla hanno commentato, stavolta, le tiratrici italiane. Allora, nessun giornalista fece schifo, né venne indicato per essere pestato, né sotterrò la professione, né venne minacciato di radiazione, né se ne pretese con voce stentorea il nome come fosse un nazista imboscato da decenni. Come mai? Ma perché erano tre uomini. La pussy generation ha questa idea che esistano delle categorie di «diversi», più sensibili, più vulnerabili, che vanno curati come piantine stentate, anche malgrado i propositi e le volontà delle stesse presunte «vittime». Sappiamo quali siano tali categorie: gli omosessuali, i neri, i «migranti», le donne, in parte anche gli islamici. Di questi non si può che dire e scrivere ogni bene. Qualunque epiteto dal significato meno che esaltante, sia anche l'infantile «cicciottello» (ma seriamente: chi può dirsi offeso, essendo adulto, perché viene definito così?) mette subito colui che lo usa nei pasticci. E nel dire nei «pasticci» siamo politicamente corretti, perché ciò che in realtà accade è che viene coperto da una valanga di merda, escreta da loro, i buoni, i giusti, i politicamente corretti, la parte avanzata della società, insomma, la pussy generation, che si gonfia di boria grazie all' esibizionistica amplificazione e risonanza dei social. Fortunatamente, c' è ancora chi non ha perso il senno, e per criticare un titolo, criticabilissimo, ci mancherebbe, ricorre all' ironia, sottolineando che ci vuol coraggio a definire «cicciotelle» tre donne che sanno scoccare frecce con tanta precisione. Ma la media delle reazioni è l'insulto, la messa alla berlina, la gogna virale, tutte procedure che il politicamente corretto usa immancabilmente. E dunque ci chiediamo: come mai un esercizio critico così barbarico, che usa sempre questi metodi di aggressione, il vile tutti contro uno, viene tollerato? Perché accettiamo che il controllo sul linguaggio, nella discussione pubblica, venga affidato all' isteria del «popolo della rete» in quotidiana caccia di un capro espiatorio? Il quale popolo, altro che ricorrere a un «cicciottello», quando parte all' attacco, pretende la testa del nemico. Giordano Tedoldi.

Le "cicciottelle" divorano il direttore. Ecco come l'hanno rovinato, scrive “Libero Quotidiano” il 9 agosto 2016. Ha vinto il politicamente corretto, ha perso il buonsenso a favore della boria che tracimava dai profili Facebook per tutto ieri, dopo che era stato messo in giro il titolo del Quotidiano sportivo, supplemento sportivo del Resto del Carlino, sulle tre atlete italiane del tiro con l'arco, le "cicciottelle" che hanno portato a casa una medaglia di bronzo. Con una nota da parte dell'editore del quotidiano, Andrea Riffeser Monti, arriva il licenziamento in tronco del direttore del Qs, Giuseppe Tassi: "L'editore - si legge - si scusa con le atlete olimpiche del tiro con l'arco e con i lettori del Qs Quotidiano sportivo, per il titolo comparso sulle proprie testate relativo alla bellissima finale per il bronzo persa con Taipei. Lo stesso editore a seguito di tale episodio ha deciso di sollevare dall'incarico, con effetto immediato, il direttore del Qs Giuseppe Tassi". L'atteggiamento più dignitoso lo hanno avuto le tre atlete che non si sono volute intromettere nel carnaio di polemiche sterili. Da parte degli indignati di professione un coro di proteste sulla trita e ritrita questione del rispetto del corpo femminile, portata a bandiera quando conviene, dimenticata solo in casi di avversari politici da disintegrare. Chissà dove erano questi paladini del rispetto in quota rosa quando si faceva carne da macello delle ragazze coinvolte nei processi contro Silvio Berlusconi, giusto per citare un trascurabile caso fenomenologico degli ultimi anni. A poco è bastata la nota di scuse con la quale lo stesso direttore questa mattina aveva giustificato quel titolo, apparso tra le altre cose nell'edizione di prima battuta, poi corretto in un'altra forma nella successiva edizione. Ormai la palla di neve era diventata valanga, con un il carico da novanta aggiunto dal presidente della Federazione italiana Tiro con l'Arco, Mario Scarzella, che rivolgendosi proprio al direttore aveva drammatizzato fino all'inverosimile: "Dopo le lacrime che queste ragazze hanno versato per tutta la notte - aveva scritto Scarzella - questa mattina, invece di trovare il sostegno della stampa italiana per un'impresa sfiorata, hanno dovuto subire anche questa umiliazione". E l'umiliazione doveva essere lavata con un colpevole da lanciare alla folla assetata di sangue. Di sicuro quel licenziamento "con effetto immediato" avrà ridato dignità a tutto il genere femminile.

Le «cicciottelle» e noi ostaggi dell’ossessione dell’estetica, scrive Beppe Severgnini su “Il Corriere della Sera” il 9 agosto 2016. «Il trio delle cicciotelle sfiora il miracolo olimpico» era un titolo sbagliato. Anzi, peggio: era un brutto titolo. Ma se licenziassero tutti i giornalisti che hanno fatto un brutto titolo, o un commento inopportuno, le redazioni sarebbero deserte. Di certo, il sottoscritto non ci sarebbe. Anni fa, dopo averla incontrata, ho definito «cicciottina» Scarlett Johansson (su Sette): ai miei occhi era un complimento, la ragazza era uno splendido manifesto contro l’ossessione della magrezza. Oggi non lo scriverei. Anche per questo a Giuseppe Tassi, l’autore di quel titolo, rimosso dalla direzione del Quotidiano Sportivo, concederei l’attenuante della buona fede: l’impressione è che, in modo un po’ datato, volesse vezzeggiare le ragazze dell’arco dopo la bella prova di Rio. In fondo, molte testate hanno applaudito Teresa Almeida, portiere della squadra di pallamano dell’Angola, 170 centimetri per 98 kg («Fortissima, simpatica e portavoce dei “cicciottelli” di tutto il mondo», Huffington Post, 7 agosto 2016). Domanda: non sono più offensive le esternazioni di Matteo Salvini su Laura Boldrini, paragonata a una bambola gonfiabile? Non sono più indelicati i giudizi di Marco Travaglio su Maria Elena Boschi («Si occupi di cellulite, non di riforme»). Non sono più spiacevoli i commenti di Vincenzo De Luca su Virginia Raggi («Bambolina imbambolata»)? Eppure non risulta che sia partito il linciaggio virtuale. Meglio così, sia chiaro. I titoli giocati sull’aspetto fisico sono figli di questo clima. E di certe abitudini. Siamo onesti: dall’inizio delle Olimpiadi molte testate pubblicano, e molti tra noi guardano, le scollature delle atlete e gli addominali degli atleti. È un’estensione dell’insopportabile ossessione estetica che domina la pubblicità, i media e la società; e tiene in ostaggio le nostre vite. I social — gli stessi che oggi invocano la gogna per l’autore del titolo sulle «cicciottelle» — godono a umiliare ogni personaggio per qualsiasi imperfezione: dalla pelle di un’anziana cantante a Sanremo alla pancetta di Higuain all’esordio con la Juve. Riassumendo. È inopportuno giocare sull’aspetto: il collega Tassi ha sbagliato. Ma fra disapprovazione e linciaggio c’è un confine. E ogni giorno viene superato, con euforica ipocrisia.

MALEDUCAZIONE? COLPA DI QUESTA DISCULTURA. Scuola, proteste insegnanti. Rondolino: "Perché la polizia non li riempie di botte?". Il tweet del giornalista ed ex spin doctor di Massimo D'Alema attacca i docenti che il 24 giugno sono scesi in piazza contro l'approvazione del ddl Renzi-Giannini al Senato. E, visti i disagi alla circolazione, chiede che le forze dell'ordine, dopo averli colpiti, liberino "il centro storico di Roma". A ilfattoquotidiano.it dice: "E' una provocazione, ma la città non può essere ostaggio di ultragarantiti che lavorano poco e male", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 26 giugno 2015. Rivendica la “libertà d’espressione e il diritto di essere provocatorio”, anche se ammette che avrebbe “dovuto scrivere semplicemente che le strade andavano sgomberate”. Ma non si pente di quanto ha scritto, perché una città non può essere “ostaggio” dalla protesta di “ultragarantiti che lavorano poco e male e che accusano Renzi di avere ucciso la scuola pubblica, quando in realtà sono loro i responsabili”. Fabrizio Rondolino, ex spin doctor di Massimo D’Alema, contattato da ilfattoquotidiano.it, spiega il significato del suo tweet pubblicato il 25 giugno in occasione delle proteste di migliaia di docenti contro il ddl scuola, approvato con la fiducia al Senato.” Ma perché la polizia non riempie di botte sti insegnanti e libera il centro storico di Roma?”, ha scritto Rondolino online. Dalle 17 migliaia di manifestanti hanno attraversato la Capitale, partendo dalla Bocca della verità e si è fermato, bloccato dalla polizia, a piazza Sant’Andrea della Valle, poco prima del Senato. In corso Rinascimento, di fronte all’accesso principale del Senato, si sono verificati momenti di tensione e la strada per precauzione è stata chiusa al traffico. “Si può protestare – prosegue il giornalista – ma non è possibile che una città rimanga paralizzata come è successo ieri a Roma. Sono uscito di casa alle 21.30 e alle 22 Roma era ancora bloccata. Una situazione inaccettabile. Ora, non dico di mandare gli insegnanti a manifestare sul raccordo”. Ma suggerisce: “Bastano 10, 50 docenti che vanno fuori dal Senato, così possono dire le loro cose. Davanti alla città presa in ostaggio, però, mi aspetto che le forze dell’ordine reagiscano. Si sa, quando c’è una piazza da sgomberare, ci possono essere anche cariche di alleggerimento”. Quindi i docenti in piazza dovevano essere caricati dalla polizia? “No, è una provocazione. Ma sindaco e prefetto non possono consentire che la città sia totalmente paralizzata”. Tanti i commenti al tweet di Rondolino, che in passato aveva insultato anche il direttore della Stampa e suo ex datore di lavoro, Mario Calabresi, definendolo “orfanello”. “Deve essere evidentemente una battuta. Di pessimo gusto ma una battuta”, spera Cassandra. E c’è chi ironizza: “Perché non fucilarli o gettarli da un aereo?”, “un bel rogo in piazza e via?”, “Dov’è la candid camera Fabrizio?”. Poi c’è chi spera che Rondolino non fosse “capace di intendere e di volere” e chi si augura che dopo questo messaggio La7 lo escluda “definitivamente dai palinsensti”. E ancora: “Perché non vai a dirglielo di persona agli insegnanti quello che scrivi qua?”, “Non hai le palle per dire in faccia queste cose!”. Rondolino, però, replica anche ad un attacco che arriva nei commenti sulla piattaforma di microblogging. “Se questo è un uomo”, scrive la cronista della Stampa Antonella Rampino, riportando poi il tweet sugli insegnanti. “Beh, se tu sei una donna…”, è la risposta del giornalista che a ilfattoquotidiano.it minimizza: “E’ semplicemente una risposta speculare a quanto ha scritto lei. Piuttosto dovremmo chiederci per quale motivo abbia abusato del titolo di un libro di Primo Levi”. I motivi della protesta – Dopo l’approvazione del Senato, il sindacato Anief ha ricordato i motivi della protesta di piazza: “Si fa un bel passo indietro sulla libertà all’insegnamento, si trasformano gli istituti scolastici in prototipi di aziende, i presidi sceglieranno il personale pescando dagli albi territoriali, scegliendo i 50mila docenti e i vincitori del nuovo concorso – ha spiegato il presidente Marcello Pacifico – Gli altri 50mila immessi in ruolo saranno assunti ad anno scolastico iniziato, con almeno altri 70mila insegnanti non assunti che chiederanno risarcimenti al tribunale civile di Roma”. Inoltre, ha aggiunto, “a settembre nelle scuole si creerà un caos senza precedenti, per il ritorno in classe dei vicepresidi e migliaia di dirigenti sguarniti dell’organico dell’autonomia. Vengono poi beffati tutti gli abilitati laureati, che per i prossimi cinque anni non potranno fare concorsi, né insegnare. Arriva, infine, il comitato di valutazione dei docenti, con i fondi del merito distribuiti dal preside-manager, sulla base delle indicazioni fornite anche dagli studenti 15enni”.

La sinistra e i professori non si vogliono più bene, scrive Francesco Boezi l’8 agosto 2016 su “Il Giornale”. Si erano tanto amati, la sinistra ed i docenti. Incontratisi per la prima volta sulle scale dell’università, si fusero nell’enfasi marxista; quindi la sinistra con tono impositorio disse: “Ora, se vorrete guadagnare la vera libertà, leggerete Marcuse tre volte, sovvertirete il sistema borghese, brucerete jeep, appiccherete roghi, occuperete facoltà e predicherete la fine dei costumi dei padri. Solo così diverrete veramente liberi!” Fu colpo di fulmine. I docenti, che allora erano solo degli studentelli sbarbati, credettero. Era il 1968’. “Ricordi? Sbocciavan le molotov.” Lei seduceva con l’inchiostro. Loro, in fin dei conti, erano solo i figli di quella borghesia da distruggere: la leva ideologica di un ventennio. Pier Paolo Pasolini pensava fossero vittime di un gigantesco equivoco: non sono rivoluzioni quelle fatte con i soldi di papà. L’esito? Un po’ l’inconsistenza, la finzione e la disperazione del terrazzo radical chic di Jep Gambardella, un po’ la “spada de’ foco” di Carlo Verdone nel salotto di Mario Brega. Vennero i governi e le riforme, la fantasia al potere, in televisione ed in cattedra. Gad Lerner e Michele Santoro, Marco Boato e Massimo Cacciari. Il sentimento tenne. Dalle aule delle università, vennero occupati i conti correnti: dicono i grafici di Bankitalia che il reddito medio di quella generazione crebbe molto di più rispetto quello delle successive. Sinistra progressista e classe docente, unite per la vita. “Encore!”, dice Lacan, è la domanda dell’amore. Ancora! Senza soluzione di continuità. Dal 18 politico con l’eskimo, al modello 730 con la barca a vela. A braccetto, nella buona e nella buonissima sorte. Anche gli insegnanti malpagati gridarono: “Encore!” Nei momenti di crisi si sparò a zero contro l’avversario politico, fatto qualche girotondo, andati al cinema insieme. Una passione filtrata dai decenni e mai interrotta. Neppure “La Cosa” di Achille Occhetto poté farci nulla. Persino il Partito Democratico andò giù liscio come l’olio. Ci voleva un algoritmo impazzito per distruggere un amore. Un nemico difficile contro cui girotondare perché, alla fine, è solo un numeretto. Che rende la vita precaria ancor prima del lavoro. Che ti spara dal sud al nord come la pallina di un flipper: docenti con punteggi altissimi costretti a lasciare la famiglia per trasferirsi a 700 km di distanza, altri con punteggi minori che possono insegnare sotto casa. L’evoluzione neoliberista della sinistra governativa europea. In Italia lo hanno fatto quelli che dicevano di voler visitare una scuola ogni settimana ed aumentare gli stipendi dei professori. Ve la ricordate la prima Leopolda sì? Senza famiglia a due passi, però, diventano tutti irascibili. Persino le truppe dell’egemonia gramsciana. La voglia di instabilità relazionale millantata nel 68’ era pura propaganda. L’idea di Marx per cui la borghesia avrebbe ridotto tutte le libertà a quella della mercificazione, meno. La sinistra e i professori no, non si vogliono più bene. 

L’80 per cento dei nuovi prof del Sud. Perché trasferirli non è un complotto. I dati di «Tuttoscuola»: nel Meridione c’è soltanto un terzo delle cattedre disponibili. Non potendo muovere scuole e studenti sono i docenti a doversi spostare al Nord, scrive Gian Antonio Stella il 10 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera". Allora: spostiamo gli studenti al Sud? A leggere certi strilli sulla «deportazione» dei docenti meridionali al Nord cadono le braccia. Certo, è possibile che il famigerato «algoritmo» che ha smistato maestri e professori abbia commesso errori. E vanno corretti. Ma i numeri sono implacabili: 8 insegnanti su 10 sono del Mezzogiorno però lì c’è solo un terzo delle cattedre disponibili. Non per un oscuro complotto anti meridionalista: perché gli alunni delle «primarie» e delle scuole di I° grado sono oggi mezzo milione in meno di vent’anni fa. Lo studio capillare che spazza via certi slogan urlati in questi giorni è di Tuttoscuola. Che grazie a un monitoraggio capillare, nome per nome, regione per regione, dimostra: «Solo il 37% degli studenti italiani risiede al Sud, Isole incluse (18 anni fa era il 47%); mentre ben il 78% dei docenti coinvolti in questa tornata di trasferimenti è nato nel Meridione». Risultato: la scuola italiana è come una «grande nave con un carico molto più pesante a prua (il Nord del Paese), che fa scivolare gradualmente verso quella prua una quota crescente del personale, collocato in misura preponderante a poppa (al Sud)». E non c’è algoritmo che, quella nave, possa raddrizzarla. Almeno in tempi brevi. Il guaio è che, prima ancora della frana 2013/2015, con più morti che nascite come non accadeva dalla influenza spagnola del 1918, il Sud subisce da tempo un’emorragia demografica. Conseguenza: «Meno studenti, meno classi attivate, meno personale docente. Confrontando i dati degli alunni iscritti nelle scuole del primo ciclo nel 1997-98 con quelli degli anni successivi, risulta una flessione costante». Nel ‘97-‘98, ad esempio, gli iscritti meridionali alle materne, alle elementari e alle medie erano 2.032.338 cioè il 46,6% del totale nazionale. Quest’anno 1.586.589, pari al 37,5%. Quasi mezzo milione, come dicevamo, in meno. Contro un aumento parallelo di 320.809 alunni al Nord. Di qua +14%, di là -22%. Va da sé che l’equilibrio domanda e offerta ne è uscito stravolto. E questo «squilibrio», prevede la rivista diretta da Giovanni Vinciguerra, sarà registrato «per altre migliaia di professori della secondaria di II grado». È la conferma che «il Mezzogiorno, da decenni avaro di posti di lavoro, privilegia come valvola di sfogo occupazionale l’insegnamento, mentre i giovani delle altre aree territoriali sembrano non prioritariamente interessati a questa professione, grazie forse a più favorevoli offerte di lavoro locali». Problema: non c’è bicchiere capace di contenere un litro d’acqua. I docenti meridionali sono 30.692 ma i posti a disposizione al Sud sono 14.192: «Come possono 14.192 sedi accogliere 30.692 insegnanti? Neanche Einstein avrebbe potuto inventare un algoritmo in grado di risolvere un’equazione simile». Maestri e professori «in eccedenza» nel Mezzogiorno sono complessivamente 16.500, quelli che mancano al Centro-Nord 17.628. Di qua quasi il 67% in meno, di là quasi il 54% di troppo. Con addirittura un picco del 64,3% di insegnanti in eccesso in Sicilia. La quale copre da sola oltre un terzo dei docenti costretti ad andarsene dalla propria regione. Capiamoci: come dicevamo, e come sono stati costretti ad ammettere la stessa Stefania Giannini o Davide Faraone, l’algoritmo usato per distribuir le cattedre in base a vari parametri (anzianità di servizio, titoli, specifiche esigenze familiari...) «incrociati» con l’ordine delle province preferite (ogni docente poteva metterne in fila cento, dalla propria a quella più lontana o più scomoda da raggiungere) può aver commesso errori. Anzi, vere e proprie ingiustizie che hanno premiato qualcuno a danni di altri. E quelle ingiustizie, come dicevamo, vanno riparate. Partendo dalla massima trasparenza chiesta a gran voce da chi contesta le graduatorie. Mediamente, spiega Tuttoscuola, «soltanto il 38% di docenti meridionali ha trovato sede nella propria regione, mentre il 62% è rimasto fuori. Al contrario, il 74% dei docenti nati nel Centro-Nord è rimasto nella propria regione». Colpa di quella nave sbilanciata a prua. Ma se un pugliese finisce in Sicilia e un siciliano in Puglia, dato che non pesava il merito professionale ma solo l’algoritmo, poteva probabilmente esser fatto di meglio. Ed è vero che, in cambio del posto fisso, viene chiesto a molte persone non più giovani, dopo anni di supplenza, con figli e famiglie radicate, un sacrificio pesante. A volte pesantissimo. Detto questo, le urla contro «la deportazione coatta», i lamenti per «una misura indecente e inaccettabile», le denunce degli «esiti nefasti della mobilità nella scuola», gli appelli contro «l’esodo biblico», sono esasperazioni che si rifiutano di tener conto di un dato di fatto: non potendo spostare scuole e studenti, devono spostarsi i docenti. Come accettò di andare a insegnare in un liceo dell’allora lontanissima Matera Giovanni Pascoli. O dell’ancor più lontana Nuoro Sestilio Montanelli, che si portò dietro tutta la famiglia, a partire dal nostro Indro. E centinaia di migliaia di altri docenti. Consapevole oggi dei disagi, dei problemi, dei drammi familiari, però, il governo potrebbe cogliere l’occasione, come invita Tuttoscuola, per dare una svolta alla scuola meridionale, marcata dall’altissima dispersione e da «scadenti risultati nei test Invalsi e Pisa». Alla larga dall’assistenzialismo, ma vale davvero la pena di tener aperte le scuole meridionali, incentivare il tempo pieno, puntare sull’istruzione. Soprattutto nelle aree a rischio.

LADROCINIO? COLPA DI QUESTA DISCULTURA. Politica e manette: numeri da record. In Parlamento una richiesta d'arresto ogni 5 mesi. In tre anni e mezzo sono arrivate otto istanze di custodia cautelare nei confronti di onorevoli. Di questo passo potrebbe essere eguagliato il massimo della Seconda Repubblica. Con accuse che vanno dalla mafia al riciclaggio, dalla corruzione alla bancarotta, scrive Paolo Fantauzzi il 10 agosto 2016 su “L’Espresso”. Non sarà il “tintinnare” evocato nel 1997 da Oscar Luigi Scalfaro nel suo messaggio di fine anno, di certo le manette continuano a essere una presenza costante nella vita politica. E la legislatura in corso non fa eccezione. Anzi. Con Antonio Caridi, accusato di essere organico alla 'ndrangheta , sale a otto il numero di onorevoli per i quali è stato chiesto l’arresto. In media, uno ogni cinque mesi. E il parlamentare calabrese è il terzo a finire dietro le sbarre come è già capitato a due deputati: il democratico e adesso forzista Francantonio Genovese e l'ex ministro Giancarlo Galan, pure lui berlusconiano. Nella Seconda Repubblica solo la scorsa legislatura (2008-2013) ha fatto di “meglio”, con 12 richieste: anche in quel caso, in media una ogni cinque mesi. Continuando di questo passo e salvo elezioni anticipate, insomma, l'attuale legislatura rischia seriamente di eguagliare il record. Dimostrando che lo slogan "cambia verso" non sembra affatto riguardare tutti gli aspetti della vita pubblica. Va detto che degli arresti piovuti nell’ultimo triennio in Parlamento, tre sono stati in seguito annullati dal Riesame o dalla Cassazione. Altrettanti sono stati invece negati col voto segreto da deputati e senatori, convinti che dietro le richieste di custodia cautelare avanzate dai magistrati ci fosse il fumo della persecuzione. Anche senza autorizzazione a procedere gli onorevoli restano comunque indagati e a scorrere i capi d'imputazione vengono i brividi: 'ndrangheta, concorso esterno in associazione mafiosa, bancarotta, corruzione, riciclaggio, truffa aggravata, solo per citare i più gravi. Galan, ad esempio, accusato di aver ricevuto tangenti da un milione l’anno per circa un decennio, dopo aver passato appena 78 giorni in carcere è stato mandato ai domiciliari. Poi ha già patteggiato una pena a 2 anni e 10 mesi con l’impegno a restituire 2,6 milioni. Intanto fino a tre mesi fa, quando è decaduto dalla carica, ha continuato a ricevere l'indennità parlamentare e la maggiorazione quale presidente della commissione Cultura: circa 13 mila euro lordi al mese. Poco più di quanto percepisce tuttora Genovese, che è ancora in carica essendo un “semplice” imputato: per lui la Procura di Messina ha appena chiesto una condanna a 11 anni di carcere per una presunta frode alla Regione Sicilia sulla formazione professionale (associazione per delinquere, riciclaggio, peculato, false fatturazioni e truffa, i reati contestati). Niente carcere invece per il forzista Luigi Cesaro: prima che Montecitorio si pronunciasse, il tribunale del Riesame ha detto che non c’erano i gravi indizi di colpevolezza necessari. Ma l’ex presidente della Provincia di Napoli resta indagato per concorso esterno in associazione mafiosa con l’accusa di aver favorito alcune a ditte legate a clan della camorra. Mentre un’altra inchiesta sull’affidamento della raccolta dei rifiuti nell’isola d’Ischia lo vede inquisito per turbativa d’asta e corruzione: la Camera ha appena negato l’uso di alcune sue intercettazioni indirette, sostenendo non fossero affatto casuali. La stessa indagine è valsa una richiesta d’arresto pure per un altro deputato, anche lui forzista e partenopeo: Domenico De Siano, accusato di concorso in corruzione. Mail Senato lo ha salvato appigliandosi a un cavillo, malgrado il Tribunale della libertà avesse respinto il ricorso dell'onorevole e confermato che meritasse i domiciliari. Turbativa d’asta è l’accusa rivolta a Carlo Sarro, pure lui di Forza Italia, per un appalto riguardante alcuni lavori in reti fognarie e idriche nella zona vesuviana: avrebbe fatto in modo da farli ottenere a una ditta vicina alla camorra. Riesame e Cassazione hanno annullato i domiciliari disposti dal gip ma l’indagine va avanti e la posizione del deputato azzurro non risulta essere stata archiviata. Infine ci sono i due senatori alfaniani che tanto hanno dato da fare, soprattutto all’alleato di governo del Pd, per evitarne l’arresto: Giovanni Bilardi e Antonio Azzollini. Quest’ultimo ha prima beneficiato del generoso “no” all’uso di alcune sue intercettazioni captate casualmente nell’inchiesta sui lavori al porto di Molfetta (truffa, l’addebito nei suoi confronti) e tre settimane dopo è stato salvato dai domiciliari coi voti determinanti e l’apparente pentimento del Pd: era accusato di associazione a delinquere e concorso in bancarotta fraudolenta per il crac di una casa di cura. Per la cronaca, l’arresto è stato annullato dal tribunale del Riesame, che però ha confermato la sussistenza di due episodi di bancarotta. Ancora più complessa la figura di Bilardi: accusato di peculato per la Rimborsopoli in Calabria (si sarebbe appropriato illecitamente di oltre 350 mila euro di fondi consiliari), il Senato ci ha messo così tanto prima di votare che alla fine, essendo passati quattro anni dai fatti contestati, il Riesame ha revocato il provvedimento, dopo che la Cassazione aveva annullato con rinvio la richiesta di arresto. Salvato dai domiciliari, adesso il nome di Bilardi è spuntato pure dalle carte dell'inchiesta Mammasantissima, nell’ambito della quale è stato chiesto il carcere per Caridi. Benché non indagato, secondo i magistrati anche il senatore alfaniano risulta essersi speso a favore della ‘ndrangheta.

I nostri politici? Erano già ridicoli nell'800. Burocrati incapaci, politici imbroglioni, intellettuali ignoranti. Carlo Dossi raccontò le miserie del Regno. Peggior delle nostre, scrive Vittorio Feltri, Giovedì 15/10/2015, su "Il Giornale". Il suo nome era Carlo Alberto Pisani Dossi. Troppo lungo per tenerlo a mente. Abbondante anche la sua produzione letteraria: poemi, romanzi, riflessioni eccetera. Poi i taccuini, una moltitudine, riempiti di appunti, e sono questi di cui discettiamo. Adelphi ha provveduto a pubblicarne a chili nelle Note azzurre. Ora a selezionare i passi più significativi allo scopo di dimostrare che l'Italia ottocentesca era identica a quella di oggi, ci si è messo anche Giorgio Dell'Arti, giornalista di spessore e ricercatore indefesso di curiosità culturali. Ha compilato una raccolta di note caustiche del suddetto Dossi (accorcio per semplificare) e le ha pubblicate per Edizioni Clichy in un volume dal titolo esplicito: Corruzioni. Chi comincia a leggerle non cessa più: rimane sbalordito nel verificare che i bei tempi andati sono rimpianti perché esistono solo nella fantasia dei contemporanei. I quali pensano erroneamente di essere peggiori degli antenati mentre, probabilmente, sono addirittura migliori. Non molto, però. L'epoca raccontata a spizzichi e bocconi dallo scapigliato milanese in quaranta anni di attività va dalla fine dell'Ottocento all'inizio del Novecento. È passato un secolo e sostanzialmente nulla è cambiato: gli italiani erano italianucci e tali sono rimasti. Credo che nessuno abbia fotografato i personaggi di quel periodo con la stessa bravura e raffinatezza di Dossi, dotato di un talento sorprendente per chi, come me, lo ha scoperto da poco. La prosa scorre liscia e dilettevole e, talvolta, incanta per la sua modernità. Si ha l'impressione di essere alle prese con cronache della scorsa settimana. Tanto è attuale la materia che le ispira, cioè un Paese la cui prerogativa è la sciatteria più deprimente. Fornisco una prova pescando un brano. «Secondo i bigotti ignoranti la letteratura così detta invereconda od immonda sarebbe un'invenzione dei nostri giorni... Eppure è tutto il contrario. A paragone della letteratura de' tempi passati non ce n'è una più casta, più corretta della presente. Leggete i greci, i latini, i cinquecentisti... quale sconcezza nelle espressioni, che turpiloquio!». È vero. Dossi ha ragione da vendere. È radicata la convinzione che il linguaggio odierno si sia involgarito, zeppo di parolacce ed espressioni da trivio. Sciocchezze. Il lessico semmai si è addolcito, essendo stato tra l'altro introdotto l'obbligo di osservare il «politicamente corretto», che ha reso il nostro frasario abbastanza ridicolo. Alcuni esempi. Lo spazzino siamo costretti, per rispettare la moda, a definirlo operatore ecologico; il sordo, audioleso; l'orbo, ipovedente; il cieco, non vedente. Mi domando come dovremmo chiamare, per coerenza, lo stitico. A parte questa freddura, va da sé che l'umanità non è mai stata elegante. E gli scrittori, anche i più lodati, hanno attinto a piene mani dal vocabolario grassoccio delle bettole. Lo stile triviale ha caratterizzato la storia di alcuni millenni e non è un dato precipuo di quella degli ultimi anni.

Trascurando le questioni estetiche, importanti ma non decisive, affrontiamo un tema che per l'Italia è una costante: il malgoverno e quanto ne consegue. Annota Dossi: «Quando Luigi Luzzatti - altra fama usurpata - è incaricato di missioni dal governo per l'estero, usa farsele pagare da due o tre ministeri. Approfitta della missione per rimontare di vesti e d'oggetti sé e tutta la sua famiglia. Ogni volta, compera nuove sacche e bauli, sempre a conto dello Stato, poi, giunto sul luogo della missione, acquista parapioggia, orologi, abiti ecc. per tutti quelli di casa, sempre a conto, come sopra. Gode di forti diarie e con tutto ciò lascia la nota dell'albergo a carico dello Stato. Il Luzzatti, inoltre, è vanitosissimo. Per un articolo di giornale leccherebbe le scarpe del giornalista laudatore. Ed è per gli articoli di gazzetta, che nonostante la sua avarizia giudaica, cede a ricatti d'ogni genere». Giova rammentare che costui fu ministro di vari esecutivi e perfino presidente del Consiglio. Se ciò che gli è stato attribuito dallo scapigliato risponde a verità, bisogna concludere che la casta imperante nel Terzo Millennio non è figlia di nessuno, ma discende da illustri genitori e anche da nonni che si impegnarono per campare a sbafo. In sintesi, nulla di nuovo sotto il cielo romano nell'anno corrente. Si dice e si ripete che il personale politico precedente a quello in carica fosse culturalmente più provveduto di quello che ci tocca. Ne eravamo persuasi. Ma Dossi ci apre gli occhi. Ecco la sua opinione sul punto: «La Sinistra monarchica al potere (1876-1881) è un partito quasi illetterato. Né Cairoli, né Depretis, né Crispi, né Zanardelli, né Nicotera lasciano alcun libro nel quale il pubblico possa leggere come la pensino. I soli in tutto il partito che sappiano tanto leggere quanto scrivere sono De Sanctis e Marselli... Al contrario, la Destra ha una letteratura, Minghetti, Maiani, Bonghi...». L'accusa di analfabetismo, oggidì è stata rovesciata: i nostri progressisti si autoproclamano intellettualmente più evoluti dell'opposizione. Forse non è così. È un fatto che nella classe dirigente pullulano numerosi cretini dinamici che menano il torrone provocando danni irreparabili. Anche la vituperata burocrazia che ci affligge con la dittatura del timbro ha origini antiche. Un secolo e mezzo fa, sottolinea Dossi, tutti i giovani, «sieno di zappa o di penna, ambiscono un impiego governativo. Basta che un impiegato dello Stato non assassini, non assalti una diligenza... è sicuro di non essere mai licenziato e di arrivare pacificamente alla pensione». Come il decreto di ammissione in carriera viene firmato, il giovine burocrate va sul liscio. E la scena muta. «Cominciano le pretese del nuovo impiegato. Egli ha genitori vecchi, madre inferma, padre imbecille eccetera che vogliono la sua assistenza, quindi chiede un cambiamento di residenza... Lavora meno che può». Più chiaro di così... È una testimonianza profetica, giacché siamo tutti in grado di confermare che, a distanza di tanti decenni, non si è alterata una virgola nel comportamento dei funzionari (di varia levatura) ai quali ci rivolgiamo per il disbrigo di pratiche amministrative. Gli appetiti sessuali dei potenti (e non solo) contemporanei non sono superiori a quelli dei loro avi. Lo garantisce l'autore di cui trattiamo, che ci narra le prodezze sul materasso di Vittorio Emanuele II, «che fu uno dei più instancabili chiavatori. Il suo budget segnava nella rubrica donne circa un milione e mezzo di lire all'anno (una fortuna)» mentre alla voce cibo risultano «non più di 600 lirette al mese». La sproporzione è enorme. Non entro nei dettagli delle regali performance che, comunque, meriterebbero di figurare nel Guinness dei primati. Qualcosa di sconvolgente a confronto del quale il bunga bunga è un esercizio spirituale. Tutto questo, converrà il lettore, è utile per comprendere che gli italiani, a prescindere dalla data in cui sono venuti alla luce, sono ciò che sono sempre stati, gli stessi vizi e le stesse debolezze. Se è consolante apprendere che non siamo caduti più in basso dei nostri padri, non lo è affatto supporre (ragionevolmente) che non guariremo mai. Rassegniamoci a constatare la realtà in cui non ci troviamo poi tanto male, altrimenti l'avremmo modificata.

Indagati, rovinati e assolti. La crociata dei pm contro la politica, scrive Simona Musco il 27 luglio 2016 su "Il Dubbio". L'archivio degli errori giudiziari è in costante aggiornamento. E tra comuni cittadini, abbandonati al proprio destino, ci sono molti politici che devono subire il peso della gogna mediatica. E il caso di Graziano, ex presidente campano del Pd, è solo l'ultimo. Lo diceva perfino la pm di ferro Ilda Boccassini: alcuni magistrati «hanno usato le inchieste per "altro", per scopi diversi dalla giustizia». Una giustizia "politicizzata", che a volte colpisce e annichilisce chi, alla fine, riesce ad uscirne pulito. Ma solo alla fine. Certo, non sempre l'errore è strumentale. Ma a volte, lo ammette tra le righe anche la pm più agguerrita d'Italia, è così. L'archivio degli errori giudiziari è in costante aggiornamento. E tra comuni cittadini, abbandonati al proprio destino, ci sono molti politici. Che, seppure hanno forze diverse, devono subire il peso della gogna mediatica e politica. E Stefano Graziano, ex presidente campano del Pd, è solo l'ultimo della lista. Certo, sulla sua testa rimane ancora un'accusa pesante dalla quale difendersi: voto di scambio. Ma per i pm non c'è più agevolazione della camorra, non c'è, cioè, il patto scellerato con la malavita, accusa che ad aprile lo aveva portato ad autosospendersi dalla carica di presidente, uscendo dal gruppo e mandando in crisi il Pd in Campania, che alle amministrative di Napoli ha fatto cilecca. Ma Graziano è solo l'ultimo caso in ordine di tempo. Il caso Emilia - «C'è da chiedersi: che la golosità della preda abbia alterato le regole della caccia?», diceva al Dubbio, a giugno, Alessandro Gamberini, difensore dell'ex governatore dell'Emilia, Vasco Errani, assolto perché il fatto non sussiste, dopo un calvario lungo 7 anni, dallo scandalo "Terremerse". Uno scandalo che aveva trascinato l'Emilia-Romagna alle elezioni anticipate, con le dimissioni dell'ex governatore dopo la condanna nel primo appello del processo. Subito dopo, nel 2014, alla vigilia delle regionali, un altro scandalo: il deputato Pd Matteo Richetti, accusato di peculato, rinunciò alle primarie, diversamente dal suo sfidante, Stefano Bonaccini, in seguito prosciolto dalle accuse e poi eletto presidente della Regione. Primarie ed elezioni indette a causa di dimissioni evitabili. Così come la gogna, che invece fu implacabile. "Why not" - Dieci anni e tutti assolti per non aver commesso il fatto. Si è concluso così un troncone dell'inchiesta dell'allora pm di Catanzaro Luigi De Magistris sui politici calabresi imputati in un processo per associazione a delinquere nell'ambito di un'inchiesta sui presunti illeciti nella gestione dei fondi pubblici in Calabria aperta nel 2006. Un'indagine molto più ampia, che coinvolse circa 150 persone e che portò alle dimissioni dell'allora Guardasigilli Clemente Mastella, alla caduta del governo Prodi e allo scontro fra le procure di Salerno e Catanzaro. Significative, però, sono le parole scritte dal gup Abigail Mellace nelle motivazioni della sentenza in abbreviato: quell'indagine, secondo il giudice, era il risultato di «un'operazione dal grande risalto mediatico». Per i politici e i manager coinvolti la condanna fu immediata: gogna mediatica e pubblico ludibrio. L'impresentabile De Luca - Un passo indietro di qualche mese ci porta a Vincenzo De Luca, governatore Pd della Campania. Su di lui si era scatenata la falce della presidente della commissione parlamentare antimafia, Rosy Bindi, che lo aveva inserito nella lista degli "impresentabili" alle scorse regionali per la vicenda "Sea Park", il parco acquatico mai realizzato nell'area industriale di Salerno, dove aveva da poco chiuso l'Ideal Standard, che lasciò a casa 200 lavoratori. De Luca, all'epoca deputato, intervenne per accelerare i tempi per la cassa integrazione di quei lavoratori. L'inchiesta è partita ben 18 anni fa e il pm, dopo otto anni di dibattimento, ha chiesto l'assoluzione dall'accusa di associazione per delinquere, abuso d'ufficio e falso perché «i fatti non sono sussistiti e non sussistono». Per lui, però, ci furono «anni di pesante aggressione politica e mediatica». Il "Sistema Sesto" - Altra vicenda clamorosa è quella che ha visto coinvolto l'ex presidente della provincia di Milano ed ex sindaco di Sesto San Giovanni, Filippo Penati, assolto in primo grado dal tribunale di Monza perché il fatto non sussiste dalle accuse di corruzione sulla gestione dell'ex Area Falck di Sesto San Giovanni e finanziamento illecito dei partiti. Ma quando il suo nome finì su tutti i giornali, riempiendo pagine e pagine con parole altisonanti, rimase solo. «A suo tempo il Pd mi cancellò in fretta e furia - dichiarò dopo l'assoluzione -. Ma è sbagliato cedere alla gogna invocata dalla pubblica piazza. È ora che la politica si riprenda il suo primato, e stabilisca regole certe contro i furori di chi strumentalizza le inchieste». Tre anni di processi che hanno portato alla fine della sua carriera politica, terminati con un'assoluzione. Che non gli ha ridato ciò che gli è stato tolto. I grillini contro Venafro - Nell'inchiesta "Mafia Capitale" era comparso anche il suo nome. Maurizio Venafro, capo di gabinetto di Nicola Zingaretti, governatore del Lazio, era stato accusato di turbativa d'asta e rivelazione di segreto d'ufficio per aver favorito un imprenditore per la gara Recup (centralino unico prenotazioni). Lui si era subito dimesso dall'incarico, dichiarando la sua totale estraneità ai fatti. Ma il M5S ne aveva approfittato subito per lanciare la propria invettiva, ipotizzando un coinvolgimento della Regione Lazio nell'inchiesta. Qualche giorno fa, però, il tribunale penale di Roma ha assolto Venafro con formula piena. Il Pm aveva chiesto 2 anni e 6 mesi di carcere. «Ha combattuto nel processo, non ha mai concesso nulla alla polemica. Abbiamo avuto fiducia nella magistratura, meno nel mix tra una certa cattiva stampa e molta cattiva politica», ha commentato Zingaretti. Che per circa un anno si è sentito chiedere le dimissioni da tutti, dal M5S alla destra di Storace, passando per il Fatto Quotidiano. Oggi, però, quel castello di insinuazioni sulla corruzione all'interno del palazzo crolla. E anche le ricostruzioni fantasiose. Ma la gogna, nel frattempo, ha fatto il suo corso. Lo sceriffo Cioni - Hanno provato a chiedergli scusa. Ma non basta. Graziano Cioni, ex assessore Pd al Comune di Firenze, è stato assolto definitivamente dall'accusa di corruzione sulla trasformazione urbanistica dell'area di Castello. Il suo nome era stato inserito nel grafico della "piovra" che campeggia sul blog di Beppe Grillo. Un grafico preventivo, per il quale non vale il principio del "fino a prova contraria". Che ora c'è. Cioni «esce a testa alta da questi processi dopo otto anni di sofferenza», ha commentato l'avvocato Pasquale De Luca. Ma tre giorni dopo la sentenza del 6 maggio scorso, quel nome era ancora lì, alle spalle del deputato Alessandro Di Battista, intervenuto nel corso di una trasmissione su La7. Da qui la denuncia per diffamazione e la richiesta di un risarcimento di un milione. E le scuse. Tardive.

Mafia Capitale, l'arma persa per sempre dai grillini, scrive Errico Novi il 9 ago 2016 su "Il Dubbio". Il caso Muraro cambia lo schema del malaffare tutto in capo ai dem. Il direttorio M5S resta a difesa dell'assessora finita nella bufera, ma il maxiprocesso non potrà più essere bandito come una clava. Non sarà mai più la stessa Mafia Capitale. Non per i cinquestelle, che non solo governano Roma e sono dunque destinati a "sporcarsi le mani" per destino istituzionale, ma hanno anche un'assessora, Paola Muraro, in odore di rapporti con Salvatore Buzzi. La donna scelta da Virginia Raggi per occuparsi di Ambiente e per farsi carico, nell'amministrazione a cinque stelle, della grana rifiuti, è nel mirino dei media e soprattutto dei pm. In uno dei quattro filone d'indagine aperti da sostituto della Procura di Roma Alberto Galanti, Muraro rischia di entrare con tutti e due i piedi come figura coinvolta nelle commesse fuorilegge assegnate da Ama, la municipalizzata al centro del maxi processo a Buzzi e compagni. Al momento Muraro non rischia l'avviso di garanzia solo perché siamo nel pieno della sospensione dei termini feriali. Il dottor Galanti non si muoverebbe in ogni caso sotto Ferragosto, né il procuratore aggiunto Paolo Ieolo e il capo dell'ufficio Giuseppe Pignatone lo solleciteranno ad accelerare i tempi. Eppure l'iscrizione della Muraro al registro degli indagati pare inevitabile. Intanto perché l'ex amministratore delegato dell'Ama Daniele Forini ha presentato a piazzale Clodio una vera e propria collezione di esposti sull'epopea della gestione dei rifiuti a Roma, e nei dossier Muraro è chiamata più o meno direttamente in causa. Inoltre le carte sulla presunta cupola romana relative all'ex ad di Ama Franco Panzironi riferiscono del ruolo di Muraro in una commessa su un impianto di rifiuti a Trento. Nell'ordinanza ripresa ieri da Repubblica si profila addirittura un impegno preso da Panzironi con Muraro per assumerla come «tecnico» nella società che avrebbe dovuto gestire lo stabilimento. Panzironi è un imputato "top" del maxiprocesso: nelle carte, certo, non emerge alcunché di penalmente rilevante a carico della Muraro, ma basta la parola stessa, "Mafia Capitale", per determinare il contagio. Contagio mediatico, ovvio: fatto sta che d'ora in poi i cinquestelle faranno grande fatica a scaraventare la maxi inchiesta contro chi li ha preceduti in Campidiglio, ovvero il Pd. La situazione è di vera emergenza per il Movimento di Beppe Grillo. Ieri Luigi Di Maio, Alessandro Di Battista e altri esponenti di primo piano hanno riferito a Casaleggio junior sullo stato dei fatti. Ferma la linea di fare quadrato contro gli attacchi all'assessora. Ma c'è anche consapevolezza che il caso cambia per sempre il valore simbolico del processo su Mafia Capitale: non avrà mai più lo stesso significato proprio perché "una di loro", un'assessora di Virginia Raggi, è lambita da quelle vicende. E anzi, la materia sarà suscettibilissima di manipolazioni a danno dei grillini. Che la vedranno usata per dimostrare la loro "omogeneità" al resto della politica. Una macchia forse indelebile. Lo sanno bene gli altri assessori della giunta Raggi, che domani probabilmente neppure si presenteranno al Consiglio comunale. La seduta è convocata in via straordinaria per consentire a sindaca e assessora di rispondere a una raffica di interrogazioni su rifiuti e consulenze pagate più o meno a peso d'oro. Di sostanza, almeno in termini penali, praticamente non ce n'è. Ma del bommerang mediatico si vedono tutti i segni.

«Scusi lei è garantista?» «Oggi no: forse domani sera...», scrive Piero Sansonetti il 5 ago 2016 su "Il Dubbio".  Scusi, ma le oggi è garantista? «No, mi spiace, oggi son forcaiolo, ripassi domani, per favore». E’ esattamente così, nella politica italiana. Se escludiamo un minuscolo drappello di garantisti veri (in Parlamento saranno quattro o cinque tra destra e sinistra...) tutti gli altri vanno “a ore”. Garantisti granitici a favore dei propri amici, distributori di manette e gogne per gli avversari. Il cambio di casacca può avvenire anche nel giro di 24 ore e in casi eccezionali persino nella stessa giornata. Non solo l’aula del parlamento pullula di parlamentari pronti a votare a favore dell’arresto di qualunque collega dello schieramento opposto - senza neppure un briciolo di senso dell’umanità, né, naturalmente, della legalità - non solo trovi centinaia di esponenti politici che tuonano contro la giustizia spettacolo e poi chiedono abbondanti retate di piccoli spacciatori o immigrati illegali, o ladruncoli; ma ormai succede anche il contrario: forcaioli d’acciaio scattano come un sol uomo a difesa dei politici forcaioli, e gridano al complotto. L’altro ieri persino l’integerrimo Marco Travaglio ha speso un intero, lungo editoriale, furioso col “Corriere della Sera”, il quale aveva osato parlare di conflitto di interessi per l’assessora romana a 5 Stelle (la Muraro) che ha un contenzioso di svariate decine di miglia di euro (che lei vorrebbe riscuotere) con l’Ama, e cioè con l’azienda che ora entra sotto il suo controllo politico. Travaglio ha abbandonato anche lui la tradizionale intransigenza, e ha iniziato a chiedere “prove”. Un colpo di fulmine: la odiata e vituperata presunzione di innocenza - negata a tutti, specialmente a quelli del Pd - è tornata con baldanza alla ribalta a difesa della Muraro, oggetto del complotto della sinistra. Qualche settimana fa il dottor Graziano, segretario del Pd campano, per “il Fatto” era un camorrista (è stato prosciolto recentemente, con tante scuse: giusto il tempo di far tenere le elezioni regionali e mettere il Pd fuorigioco). Oggi invece il conflitto della Muraro non esiste e chi dice il contrario è un farabutto. Un tempo Travaglio scriveva che un politico deve dimettersi dinnanzi anche al più esile sospetto; oggi - intendiamoci: giustamente - chiede rispetto dell’innocenza presunta dell’assessora Muraro, anche in presenza delle registrazioni delle sue telefonate con Salvatore Buzzi, che fin qui i giornali hanno descritto come il capo della mafia romana. Bene: Travaglio ha ragione. E’ chiaro che ha ragione: la Muraro, a quanto ne sappiamo, è chiaramente in conflitto di interessi (ma questo si sapeva prima che fosse nominata) ma non ha commesso nessun reato, o almeno non risulta, e non è un reato aver parlato al telefono con Buzzi, che era semplicemente il capo di una cooperativa, e non risultava imputato di niente, tantomeno di associazione mafiosa (peraltro va detto che questa accusa è chiaramente assurda, anche se non bisogna dirlo). Travaglio ha ragione, e hanno ragione i grillini a difendere il diritto della Muraro a non dimettersi. Hanno torto quelli del Pd a chiederne le dimissioni. Così come ebbero torto i giornali romani, il “Corriere”, i grillini, Travaglio e tutta la santa alleanza che cacciò Marino dal Campidoglio per ragioni che non avevano nulla a che fare né con l’etica, né col diritto. Però questa splendida alternanza tra garantismo e forche - che dimostra la fragilità, o forse l’inesistenza dei principi, e la strumentalità di tutte le battaglie - mette una grande tristezza. La stessa tristezza che ci ha colto l’altra sera, quando abbiamo visto e sentito manipoli di mazzieri accanirsi contro Antonio Caridi in lacrime.

Giustizialisti, curatevi col cinema! Scrive Andrea Camaiora il 09/08/2016 su "Il Giornale". Moderati alla ricerca dell’unità. Si tormentano da mesi alla ricerca di una ricetta in grado di rimettere un’area politica in competizione con una sinistra resa forte dall’effetto Renzi. Ebbene, l’unità dei moderati passa attraverso la riscoperta del proprio dna. Prendete il garantismo, bandiera storica di Forza Italia e del centro destra in generale, finito prima col perdere smalto ed essere addirittura da qualcuno rinnegato, emulando una certa  sinistra a cinque stelle. Alla classe politica italiana servirebbe insomma un corso di cineforum di quelli che fino a qualche tempo fa organizzavano con successo le parrocchie.  Primo suggerimento: il film “Le vite degli altri” (2006), scritto e diretto da Florian Henckel von Donnersmarck, vincitore del Premio Oscar per il miglior film straniero. Il grande attore tedesco oggi scomparso¸ Ulrich Mühe, interpreta il capitano della Stasi Gerd Wiesler che viene incaricato di spiare Georg Dreyman, famoso scrittore teatrale ed intellettuale della Germania orientale. Una grande lezione: attraverso un sistema di intercettazioni si poteva (e si può) giungere a devastare la vita anche di cittadini comuni.  Il secondo consiglio è “Tutti dentro”, dimenticato film del 1984 con Alberto Sordi, Joe Pesci e Dalila Di Lazzaro. Il nostro amato Albertone è Annibale Salvemini, magistrato noto per il proprio carattere “zelante”. All’inizio del film Salvemini è vice di un collega anziano che sta indagando su fatti di corruzione relativi a personaggi dello spettacolo, della finanza e della politica. Il consigliere Vanzetti, collega ormai prossimo alla pensione, non è certo della piena fondatezza delle proprie indagini, dell’effettivo coinvolgimento di molti indagati e dunque della responsabilità di tutte le persone coinvolte nell’inchiesta e pertanto non se la sente di spiccare un considerevole numero di mandati di cattura e decide così di affidare il fascicolo a Salvemini, raccomandandogli di esaminare tutta la documentazione e le varie informative con la massima cura e attenzione e di non agire avventatamente. Salvemini agirà con assai poca attenzione e firmerà centinaia di ordini di cattura, tra gli altri ai danni di un apprezzato (e poi innocente) conduttore del Tg2, Enrico Patellaro, nella cui storia e nelle cui sembianze non è difficile rinvenire la volontà di Sordi di spezzare una lancia in favore di Enzo Tortora (il cui caso risale al 1983). Terza pellicola, emblematica, è “In nome del popolo italiano” (1971), diretta da Dino Risi, nella quale il giudice istruttore Mariano Bonifazi (Ugo Tognazzi), indagando sulla morte di una giovane prostituta, prende di mira l’imprenditore Renzo Santenocito (Vittorio Gassmann), imprenditore spregiudicato, che gode di influenti amicizie e che fa soldi corrompendo funzionari pubblici, inquinando e deturpando il paesaggio con veri e propri scempi edilizi. Il film di Risi – pietra miliare della cinematografia italiana – con disarmante lungimiranza, vede Santenocito che viene prelevato dalla polizia giudiziaria mentre partecipa a una festa vestito da antico romano. Immagini che riportano alla festa in maschera “Olympus”, organizzata da esponenti del Pdl di Roma nel 2010. In un crescendo drammatico, Bonifazi, quando pensa ormai di dover incriminare per omicidio Santenocito, entra in possesso del diario della giovane morta che annuncia il suicidio. Caso risolto? Non proprio. Bonifazi si trova a leggere il diario per strada proprio nel momento in cui l’Italia vince ai mondiali contro il Regno Unito. Tra le urla e gli atti di teppismo dei tifosi festanti, Bonifazi intravede i peggiori vizi comportamentali dell’italiano cialtrone e poco di buono da lui identificato in Santenocito. Disgustato proprio da quel «popolo italiano», il magistrato getta tra le fiamme di un’automobile inglese incendiatasi dopo essere stata ribaltata dai tifosi italiani la prova dell’innocenza dell’avversario. Quarto, indimenticabile prodotto del cinema italiano sulla malagiustizia, sugli effetti della carcerazione preventiva e le lentezze del nostro sistema giudiziario, infine, un capolavoro di Nanni Loy, “Detenuto in attesa di giudizio” (1971), che ha ancora una volta per protagonista il nostro amato Sordi. Il povero geometra romano Giuseppe Di Noi, accusato della mirabolante (e infondata) accusa di «omicidio colposo preterintenzionale», verrà arrestato non appena giunto alla frontiera italiana. Il lungo periodo in carcere, appunto “in attesa di giudizio”, lo vedrà vittima di umiliazioni e brutalità che lo segneranno irrimediabilmente sul piano fisico e psicologico. La “Cinecittà moderata” che ha reso grande il nostro cinema aveva le idee più chiare di giornalisti, politici e registi del giorno d’oggi. Garantismo, giustizia giusta e tempestiva, condizioni carcerarie umane, certezza della pena, indipendenza della magistratura e terzietà del giudice devono ancora passare dal grande schermo alla vita reale. * autore de “Il brutto anatroccolo. Moderati: senza identità non c’è futuro” (ed. Lindau).

Quelle vite spezzate dagli errori giudiziari, scrive Agostina Di Mare il 09/08/2016 su "Il Giornale". Avete mai pensato che una notte potrebbe suonare il campanello e che la vostra vita possa essere segnata per sempre? Detta così risulterebbe surreale; assistendo alla visione di “Non voltarti indietro” di Francesco Del Grosso, invece, quest’ipotesi diventa concreta e palpabile. Si avverte sulla propria pelle quella sensazione di comunanza con i cinque casi scelti e l’angoscia che lo spettatore prova sta proprio nella percezione tangibile che possa capitare a chiunque e in qualsiasi momento. La macchina da presa del documentarista cattura i volti e le parole di tre uomini e due donne: una commercialista, un impiegato delle Poste, un designer di moda, un assessore comunale e una dipendente pubblica. Persone accusate ingiustamente di reati ma i commessi. «Il docu-film si articola in tre macro blocchi, ciascuno chiamato a rappresentare i punti cardine tipici dell’architettura narrativa della tragedia classica. Passaggi che segnano e simboleggiano a loro volta le tappe fondamentali nel destino del personaggio che solitamente la anima: ascesa, caduta e rinascita. […] Questa esperienza che li ha segnati nel profondo passa proprio attraverso le tre fasi: arresto, detenzione, riconoscimento dell’innocenza» (dalle note di regia). Man mano che l’opera si dipana, si entra con loro al di là di quelle sbarre che di lì a poco si chiuderanno senza comprendere il motivo di quella reclusione. Del Grosso non cerca la lacrima facile, anzi la rifugge, ma siamo sicuri che, in modo particolare le spettatrici, saranno toccate dalla rievocazione delle fasi che precedono l’ingresso in cella (ci si deve denudare e viene chiesto di fare delle flessioni per i controlli anali). Si prova, con loro, la claustrofobia di essere in una gabbia 2×3, dormendo con estranei. Innegabilmente, per chi non l’ha provato direttamente, non è semplice immedesimarsi, eppure “Non voltarti indietro” riesce a traghettare la platea in un vortice di emozioni che va dallo spaesamento alla rabbia, dall’aggrapparsi al barlume di speranza alla paura di non vedere più la luce. Il merito va non solo alla sincerità e al trasporto dei racconti, ma anche all’intuizione registica di avvalersi dei disegni, foto realistici e in bianco e nero (realizzati a mano, a matita, dal giovane Luca Esposito), che aiutano a visualizzare ciò che i protagonisti narrano. A corollario, nota di merito va alle musiche di Emanuele Arnone e al montaggio del suono curato da Daniele Guarnera. Durante tutti i 75′ del docu-film si coglie costantemente il lavoro certosino fatto sul sonoro e non ci riferiamo soltanto alle chiavi del carcere, ma è un mix che avvolge lo spettatore continuando a farsi sentire anche a visione conclusa. Risuonano le gocce delle docce così come un eco (per fortuna lontano) delle voci nell’ora d’aria. Del Grosso, dopo diversi documentari tra cui “Negli occhi” dedicato a Vittorio Mezzogiorno, “11 metri” su Agostino Di Bartolomei e “Fuoco amico – La storia di Davide Cervia”, decide con quest’ultimo di puntare l’obiettivo su vite ferite per errori giudiziari. L’intento è quello di dar loro spazio, parola e dignità in un percorso di cicatrizzazione del dolore provocato dall’ingiusta detenzione. Si entra in empatia con i calvari di questi uomini e donne, restando attoniti di fronte all’idea che la realtà possa superare la fantasia. A partire dal 1992 ci sono stati 1000 casi di errori giudiziari e quindi 24.000 casi in 24 anni, per una spesa complessiva di 630 milioni di euro. Ovviamente vale il detto “errare humanum est” e, come in altre storie, sarebbe scorretto prendersela con il singolo giudice. Se i numeri sono così elevati c’è qualcosa che non va e questa considerazione non può che sorgere spontanea. Per fortuna il cinema, in questo caso reale, sceglie di non chiudere gli occhi. Non voltarti indietro nasce da un’idea, sposata dal regista, di due giornalisti, Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone (i quali hanno dato vita a “Errorigiudiziari.com”, il primo archivio italiano sugli errori giudiziari e le ingiuste detenzioni), e un avvocato, Stefano Oliva. I tre hanno voluto produrre con le proprie risorse, con il supporto della produzione esecutiva di Own Air, il documentario pensando anche che la Settima Arte possa arrivare in meandri impensabili. Il regista ha già ricevuto dei riconoscimenti importanti per questo lavoro: il Premio Speciale “Gold Elephant World Festival” e il Premio SAFITER alla 14esima edizione del Salento Finibus Terrae. Recentemente, all’“Ariano International Film Festival”, “Non voltarti indietro” è stato decretato il vincitore della sezione Documentari. Post visione e prendendo atto dell’impegno civile e artistico di regista, produttori e troupe, non possiamo che dirci: non voltiamoci dall’altra parte.

Enzo Tortora, una ferita italiana, scrive Edoardo Sylos Labini il 09/08/2016 su "Il Giornale". A 30 anni dall’arresto di Enzo Tortora e dall’infame passerella mediatica che fu costretto a subire, questo film, come dice il titolo, riapre una ferita su un tema che in Italia non si affronta mai in modo adeguato: la malagiustizia. Con la politica in mezzo sempre pronta a strumentalizzare questa o quella battaglia, sembra non si riesca a fare una riforma che riequilibri quello che è diventato, nel nostro Paese, un problema molto serio. Chi risarcisce la vita e la reputazione di tutti quegli innocenti che ancora prima di subire un processo vengono puniti con feroce cinismo dalla gogna mediatica? Che fine fanno le famiglie di tutti questi presunti colpevoli’, che futuro hanno e come vengono visti in questa sempre più superficiale società dell’apparire? L’arte, il cinema servono anche a questo, a denunciare le ingiustizie, ad essere opere civili, oltre che di intrattenimento. E se il direttore del Festival di Roma ha reputato questo prodotto non interessante per il programma di una kermesse così prestigiosa, al contrario ilgiornaleoff.it – che nasce con l’intento di dare visibilità a chi viene oscurato o escluso dai grandi circuiti – vi offre in anteprima, grazie al regista Ambrogio Crespi, le prime immagini del film. Enzo Tortora, una ferita italiana andrebbe proiettato non solo nei Festival, ma in tutte le sale d’Italia, affinché insegni a ognuno di noi dove può arrivare l’ingiustizia italiana. Dunque, dove eravamo rimasti? Buona visione.

Ballata della giustizia ingiusta, scrive Andrea Piersanti il 09/08/2016 su "Il Giornale". “Prigioniero della mia libertà”, un film racconta gli innocenti vittime di errori giudiziari. “Ogni tanto me lo domando ancora: ma non poteva uccidermi e basta”. Si conclude così una dellesette testimonianze delle vittime degli errori giudiziari che sono raccolte nel libro “Prigioniero della mia libertà” di Rosario Errico, Stefano Pomilia e Michela Turchetta. Il volume è curato da Gabriele Magno (avvocato, fondatore e presidente dell’Associazione Nazionale Vittime Errori Giudiziari) e da Luisa Badolato. Nella prima parte è stata pubblicata la sceneggiatura integrale del film omonimo diretto da Errico e interpretato, fra gli altri, anche da Giancarlo Giannini. La storia di fantasia raccontata nel film (la cui uscita è prevista per il prossimo autunno) prende spunto dalla realtà. Sono infatti quasi cinquantamila gli italiani innocenti che, dal 1989 ad oggi, sono finiti in carcere per errori giudiziari. Il caso di Enzo Tortora è solo la punta di un iceberg immenso. “Ogni anno vengono riconosciute dai tribunali, con l’assoluzione, circa 2.500 ingiuste detenzioni frutto in parte di errori giudiziari – ha spiegato l’avvocato Magno -. Ma solo un terzo, circa 800 vengono risarcite. Spesso, infatti, anche se riconosciuto innocente, l’ex detenuto viene considerato responsabile, per colpa grave o dolo, di aver indotto la pubblica accusa a ritenerlo colpevole. Un’altra causa delle celle strapiene è la lentezza dei processi, poiché molti detenuti sono in attesa di giudizio. Qualche mese fa il 40 per cento aspettava il primo grado”. Un fenomeno impressionante che ha spinto il regista (e attore) Rosario Errico ad impegnarsi in prima persona nella realizzazione del film. “Comincio dalla fine di “Detenuto in attesa di giudizio”, ha detto Errico. Il protagonista del film è un architetto che cade nella trappola di un sedicente amico. E’ la vittima di una truffa ma si ritrova ad essere accusato di estorsione. Un apologo dell’orrore che stravolge completamente la serenità personale e familiare del protagonista.

Quando Garibaldi rubò i soldi al Banco di Sicilia e al Banco di Napoli, scrive su "Time Sicilia" Ignazio Coppola. Sulla gloriosa spedizione dei Mille in Sicilia ci hanno raccontato un sacco di menzogne. Non solo non ci fu nulla di eroico, ma Garibaldi svuotò le casse del Banco di Sicilia (depredando 5 milioni di ducati corrispondente a 82 milioni di Euro dei nostri giorni) e poi le casse del Banco di Napoli (depredando 6 milioni di ducati equivalenti a 90 milioni degli attuali Euro). Tutti soldi portati ai Savoia. E noi ancora oggi ricordiamo questo bandito di passo! 11 Maggio 1860, esattamente 156 anni fa, con lo sbarco di Garibaldi a Marsala inizia la invasione del Sud e la sistematica colonizzazione della Sicilia. Uno sbarco che come tutto il resto della spedizione dei Mille, da Calatafimi alla presa di Palermo, sarà un’indegna sceneggiata caratterizzata da squallidi episodi che in termini militari si usano definire di “intelligenza con il nemico”. E di intelligenza con il nemico, a differenza di quanto da sempre ci è stato propinato dalla storiografia ufficiale, è macchiato ed inficiato lo sbarco dei garibaldini a Marsala. Basta rivisitare obbiettivamente le cronache dello sbarco indisturbato della camice rosse di quel lontano giorno alle ore 13,00 del 11 maggio 1861 per rendersi conto dell’accordo sottobanco tra Garibaldini e gli ufficiali della marina borbonica che avrebbero dovuto ostacolare e non lo fecero, se non in ritardo ed a sbarco avvenuto, e tutto questo con la complicità degli inglesi che avevano un forte radicamento economico a Marsala con una notevole presenza di loro bastimenti ancorati in quel porto. Non a caso, da parte di Garibaldi, essendo tutto, con chiare complicità, preparato a dovere, si scelse di sbarcare a Marsala. Le due navi il Piemonte ed il Lombardo – precedentemente prese a Genova non requisendole manu militari (come falsamente viene raccontato dalla storiografia ufficiale), ma pagate attraverso una fidejussione di 500 mila lire (una somma enorme per quei tempi) dagli industriali fratelli Antongini alla società Rubattino – entrano senza colpo ferire nel porto di Marsala, come anzidetto, alle ore 13,00 iniziando, indisturbate, a sbarcare il loro contingentamento mentre le navi della marina borbonica, la corvetta a vapore Stromboli e la fregata a vela Partenope, al comando del capitano Guglielmo Acton che si erano lanciate, con colpevole e sospetto ritardo, all’inseguimento del Piemonte e del Lombardo giungendo in vista del porto di Marsala alle ore 14 pomeridiane rimanevano, restando a guardare, inattive ed assistendo allo sbarco. Restare a guardare Un bel modo davvero per impedire un ‘aggressione armata al territorio sovrano delle Due Sicilie Tutto andava svolgendosi secondo il programma da parte del comandante Acton ossia di dichiarata e manifesta complicità ed “intelligenza con il nemico”. Guglielmo Acton, successivamente ricompensato da tale vergognoso comportamento e tradimento, diverrà ufficiale di grado superiore della marina-italo piemontese. Il tradimento alla fine paga. Ecco quanto scrive al proposito il capitano Marryat, ufficiale della marina inglese, presente e testimone degli avvenimenti di quel giorno, in un suo rapporto che lo si può considerare un vero e proprio atto di accusa nei confronti dell’incomprensibile atteggiamento di Acton: “L’altro vapore era però arenato (si tratta del Lombardo che Bixio aveva mandato a schiantarsi contro il molo) quando i legni napoletani furono a portata con i loro cannoni. I parapetti erano già calati ed i legni a posto. Noi aspettavamo e seguivamo – prosegue Marryat nel suo rapporto – con ansietà per vedere il risultato della prima scarica (che ovviamente non ci fu). Invece di cominciare il fuoco, abbassarono un battello e lo mandarono verso i vapori sardi, ma – a nostra sorpresa – ecco che il vapore napoletano spinge la sua macchina verso l’Intrepido (una nave inglese), anziché impedire più oltre lo sbarco della spedizione”. Di una chiarezza disarmante il rapporto di Murryat sulla espressa volontà di Acton – che ritardò il suo intervento – di non volere ostacolare lo sbarco dei garibaldini giunti sani e salvi a terra e senza un graffio. Solo alcune ore dopo, a sbarco avvenuto e dopo che l’ultimo garibaldino avrà messo piede sul molo di Marsala ed assicuratosi che non vi fossero più ostacoli di sorta allo sbarco degli invasori, Guglielmo Acton si deciderà – troppo tardi, bontà sua – a fare fuoco. Risultato, molti dei colpi finirono in mare, uno uccise un cane che fu l’unica e sola povera vittima di quella giornata e altri ferirono di striscio due garibaldini. A dimostrazione della sua intelligenza e complicità con il nemico dopo il finto cannoneggiamento, il comandante Acton non si preoccupò minimamente di fare sbarcare gli equipaggi delle sue navi per combattere ed inseguire i garibaldini che poterono così entrare a Marsala indisturbati. Con questo atto di ignavia e di tradimento iniziava in Sicilia l’impresa dei Mille. Le battaglie-farsa caratterizzate da tradimenti e corruzioni si ripeteranno poi a Calatafimi e più avanti nella presa di Palermo. Protagonisti, i generali Landi a Calatafimi e Lanza a Palermo. Entrato a Marsala, Garibaldi troverà, tranne il console inglese Collins e qualche rappresentante della stessa colonia inglese presente in quella città, una popolazione ostile ed avversa alla sua venuta. Altro che accoglienze trionfali che falsamente riportano i testi della storiografia ufficiale e scolastica. Ecco quanto scrive Giuseppe Bandi, uno dei maggiori protagonisti dell’impresa garibaldina nel suo libro I Mille a proposito della fredda accoglienza ricevuta dalle camice rosse a Marsala da parte della popolazione locale: “Appena entrato in città, qualche curioso mi si fè incontro, che udendomi gridare: ‘Viva l’Italia e Vittorio Emanuele’, spalancò tanto d’occhi e tanto di bocca e poi tirò di lungo. Le strade erano quasi deserte. Finestre ed usci cominciavano a serrarsi in gran fretta, come suole nei momenti di scompiglio, quando la gente perde la tramontana. Tre o quattro poveracci mi si accostarono stendendo la mano e chiamandomi eccellenza, non altrimenti che io fossi giunto in città, per mio diporto, ed avessi la borsa piena per le opere di misericordia. Si sarebbe detto che quella gente, colta così di sorpresa, non avesse capito un’acca del grande avvenimento che si compiva in quel giorno”. (Purtroppo i siciliani e i meridionali lo capiranno molto bene sulla loro pelle negli anni a venire e sino ai nostri giorni). Questa l’autorevole è testimonianza dello scrittore e ufficiale dell’esercito garibaldino, Giuseppe Bandi, sulle “entusiastiche” accoglienze dei cittadini di Marsala all’ingresso di Garibaldi nella loro città. Garibaldi, nella sua breve sosta a Marsala, incontrandosi poi con il Sindaco ed i decurioni della città non perderà tempo a pretendere che gli consegnassero il denaro contenuto nelle casse comunali. La stessa cosa farà poi depredando ed appropriandosi indebitamente del denaro contenuto nelle casse del Banco di Sicilia a Palermo: 5 milioni di ducati (corrispondente a 82 milioni di Euro dei nostri giorni). Giunto a Napoli fece altrettanto con il Banco di Napoli, impossessandosi di 6 milioni di ducati (equivalenti a 90 milioni degli attuali Euro) depositati nella capitale del Regno delle Due Sicilie. Così, con questi atti di pirateria e con il saccheggio e la spoliazione sistematica del Sud iniziava la predatoria spedizione dei Mille tanta cara e tanto celebrata dalle menzogne dei nostri storiografi e dai nostri risorgimentalisti.

Quando Garibaldi, i garibaldini e l’Unità d’Italia legittimarono mafia e camorra, scrive il 26 agosto 2016 Ignazio Coppola su "Time Sicilia". Ieri, nella quarta puntata della Controstoria dell’impresa dei Mille, abbiamo sottolineato il ruolo di Garibaldi e dei garibaldini in quella che, alla fine, è stata la prima trattativa tra Stato italiano allora nascente e mafia. Oggi approfondiamo l’argomento avvalendoci della testimonianza di storici e valenti magistrati che si sono occupati di mafia e di rapporti tra la stessa mafia e lo Stato. Quando oggi parliamo di trattativa “Stato-mafia”, non possiamo non andare indietro nel tempo e riferire questo vituperato ed aborrito binomio alle origini del nostro Paese inteso nella sua accezione unitaria. In parole povere, questo sodale rapporto tra la mafia e lo Stato nasce con l’Unità d’Italia o, peggio ancora, con la mala unità d’Italia e sin dai tempi dell’invasione garibaldina che si servì per le sue discusse e dubbie vittorie del contributo determinante della mafia in Sicilia e della camorra a Napoli. In Sicilia in quel lontano maggio del 1860 infatti accorsero, con i loro “famosi picciotti” in soccorso di Garibaldi i più autorevoli capi-mafia dell’epoca come Giuseppe Coppola, di Erice; i fratelli Sant’Anna di Alcamo; i Miceli di Monreale; il famigerato Santo Mele così bene descritto da Cesare Abba, Giovanni Corrao, referente delle consorterie mafiose che operavano a Palermo nel quartiere del Borgo vecchio e che poi addirittura diverrà generale garibaldino e che verrà ucciso 3 anni dopo nell’agosto del 1863 nelle campagne di Brancaccio in un misterioso ed enigmatico agguato a fosche tinte mafiose. Un apporto determinante degli “uomini d’onore” di allora che farà dire allo storico Giuseppe Carlo Marino, nel suo libro” Storia della mafia”, che Garibaldi senza l’aiuto determinante dei mafiosi in Sicilia non avrebbe potuto assolutamente fare molta strada. Come, del resto, lo stesso Garibaldi sarebbe incorso in grandi difficoltà logistiche se, quando giunto Napoli, nel settembre del 1860, non avesse avuto l’aiuto determinante dei camorristi in divisa e la coccarda tricolore che, schierandosi apertamente al suo fianco, gli assicurarono il mantenimento dell’ordine pubblico con i loro capi bastone Tore De Crescenzo, Michele “o chiazziere”, Nicola Jossa, Ferdinando Mele, Nicola Capuano e tanti altri. Aiuti determinanti e fondamentali che, a ragion veduta, piaccia o no, a Giorgio Napolitano in testa e ai risorgimentalisti di maniera, ci autorizzerebbero a dire che la mafia e la camorra diedero, per loro convenienze, il proprio peculiare e determinante contributo all’Unità d’Italia. Un vergognoso e riprovevole contributo puntualmente e volutamente ignorato, per amor di patria, dai libri di scuola e dalla storiografia ufficiale. Che la mafia ebbe convenienza a schierarsi con Garibaldi ce ne dà significativa ed ampia testimonianza il mafioso italo-americano originario di Castellammare del Golfo,  Giuseppe Bonanno, meglio conosciuto in gergo come Joeph Banana, che nel suo libro autobiografico Uomo d’onore, a cura di Sergio Lalli a proposito della storia della sua famiglia, a pagina 35 del libro in questione, così testualmente descrive l’apporto dato dalla mafia all’impresa garibaldina: “Mi raccontava mio nonno che quando Garibaldi venne in Sicilia gli uomini della nostra “tradizione” (= mafia) si schierarono con  le camicie rosse perché erano funzionali ai nostri obbiettivi e ai nostri interessi”. Più esplicito di così, a proposito dell’aiuto determinante dato dalla mafia a Garibaldi, il vecchio boss non poteva essere. Con l’Unità d’Italia e con il determinante contributo dato all’impresa dei Mille la mafia esce dall’anonimato e dallo stato embrionale cui era stata relegata nella Sicilia dell’Italia pre-unitaria e si legittima a tutti gli effetti, effettuando un notevole salto di qualità. Da quel momento diverrà, di fatto, una macchia nera indelebile e un cancro inestirpabile nella travagliata storia della Sicilia e del nostro Paese.  E di questa metamorfosi della mafia, dall’Italia pre-unitaria a quella unitaria, ne era profondamente convinto Rocco Chinnici, l’ideatore del pool antimafia dei primi anni ’80 del secolo passato, una delle più alte e prestigiose figure della magistratura siciliana, ucciso il 29 luglio 1983 davanti la sua abitazione in un sanguinoso attentato in via Pipitone Federico a Palermo. Rocco Chinnici, oltre che valente magistrato, in qualità di capo dell’ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo – ed ideatore come anzidetto del pool antimafia di cui allora fecero parte, tra gli altri, gli allora giovani magistrati come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello – fu anche un profondo studioso e conoscitore del fenomeno mafioso e delle sue criminali dinamiche storiche. Da studioso fu relatore e partecipò a numerosi convegni organizzati in materia di mafia. In uno di questi, promosso a Grottaferrata il 3 luglio 1978 dal Consiglio Superiore della Magistratura così, a proposito dell’evolversi della mafia in Sicilia, ebbe testualmente a pronunciarsi: “Riprendendo le fila del nostro discorso prima di occuparci della mafia del periodo che va dall’unificazione del Regno d’Italia alla prima guerra mondiale e all’avvento del fascismo, dobbiamo brevemente, ma necessariamente premettere che essa come associazione e con tale denominazione, non era mai esistita in Sicilia. La mafia nasce e si sviluppa in Sicilia – affermò Chinnici in quell’occasione, a conforto da quanto da noi sostenuto – non prima, ma subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia”. Ed ancora, in una successiva intervista rilasciata ad alcuni organi di stampa a proposito della mafia legittimatasi con la venuta e con l’aiuto determinante dato a Garibaldi e, successivamente, con l’Unità d’Italia, Rocco Chinnici ebbe a dire: “La mafia è stata sempre reazione, conservazione, difesa e quindi accumulazione di risorse con la sua tragica, forsennata, crudele vocazione alla ricchezza. La mafia stessa è un modo di fare politica mediante la violenza, è fatale quindi che cerchi una complicità, un riscontro, un’alleanza con la politica pura, cioè praticamente con il potere”. Ed è questo “patto scellerato” tra mafia, potere politico e istituzioni, tenuto a battesimo prima dall’impresa garibaldina e poi, come sosteneva Rocco Chinnici, dall’Unità d’Italia che dura, tra trattative, connivenze e papelli di ogni genere, senza soluzione di continuità, sino ai nostri giorni. Una lunga sequela di tragici avvenimenti che, sin dagli albori dell’Unità d’Italia, ha insanguinato la nostra terra per iniziare con  la stessa uccisione del generale Giovanni Corrao a Brancaccio, poi i tragici e misteriosi avvenimenti dei pugnalatori di Palermo, il delitto Notarbartolo e il caso Palazzolo, la sanguinosa repressione dei Fasci Siciliani in cui la mafia recitò il proprio ruolo, la strage di Portella della Ginestra, le stragi di Ciaculli e di Via Lazio, le uccisioni di Carlo Alberto Dalla Chiesa e di tanti servitori dello Stato e di tanti magistrati che della lotta alla mafia ne hanno fatto una ragione di vita e, purtroppo, anche di estremo sacrificio, sino alla morte. Per arrivare alle stragi di Capaci e di Via D’Amelio dove persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e gli uomini e le donne delle rispettive scorte. Su Paolo Borsellino le nuove risultanze processuali hanno fatto giustizia di ignobili e criminali depistaggi. Così abbiamo appreso che si era opposto con tutte le sue forze ad ogni ipotesi di trattativa tra “Stato e mafia”. Per essersi opposto alle connivenze tra mafia, servizi segreti deviati e omertà di Stato ha pagato con la vita il suo atto di coraggio. Una lunga scia di sangue e di turpitudini che ha visto da sempre protagonisti, in una sconvolgente continuità storica, un mix di soggetti: Stato, mafia, banditismo (nel caso di Salvatore Giuliano), potere politico, servizi segreti, massoneria deviata e quant’altro. Connivenze criminali che hanno ammorbato e continuano ad ammorbare, da 153 anni a questa parte, in un percorso caratterizzato, troppo spesso, da una criminale politica eversiva, la vita dei siciliani onesti. Quando ce ne potremo liberare? Con l’aria che tira sarà difficile.

LA PIU' FORTE DELLE MAFIE. Rapporti tra 'ndrangheta e altre organizzazioni criminali. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. «La 'ndrangheta è un'organizzazione che non ha problemi a fare affari con gente di ogni razza e nazione.» (Saverio Morabito, pentito.) La 'ndrangheta rispetto alle altre realtà criminali si è sviluppata più tardi, ma nonostante ciò con le altre mafie si è avuto in generale un rapporto di reciproco rispetto e di parità, anche ora che viene considerata una delle più potenti organizzazioni criminali in Europa e nel mondo e la più potente in Italia. Non si è mai schierata nelle guerre di altre organizzazioni. Vi è stato nel corso della storia invece una forte collaborazione per i traffici di sigarette, droga e tutte le varie attività illecite.

Il rapporto con Cosa Nostra è stato molto stretto tanto che capibastone di spicco come Antonio Macrì, Giuseppe Piromalli, Mico Tripodo (compare d'anello di Totò Riina) si affiliarono a Cosa Nostra e viceversa, capi della mafia siciliana si affiliano alle ndrine. Quindi vi erano persone che possedevano due affiliazioni come per esempio il messinese Rosario Saporito, personaggio di spicco della cosca dei Mazzaferro o Calogero Marcenò, capo locale della cosca calabrese Zagari. La mafia messinese inoltre nacque con l'appoggio della 'ndrangheta, dalla quale apprese i riti e le usanze. Vennero sottomesse tutte le cosche messinesi grazie all'operato di un certo Gaetano Costa. A Messina inoltre la cosca di Mangialupi che opererebbe in città quasi completamente da sola ha strettissimi rapporti con le cosche dell'area jonica, tale da custodire loro arsenali.

La 'ndrangheta e la Camorra. Si è a conoscenza di doppie affiliazioni anche con la Camorra napoletana: per esempio i calabresi De Stefano e Raffaele Cutolo. I Cutolo uccisero addirittura Mico Tripodo per piacere dei De Stefano. Ci sono esempi di camorristi come Antonio Schettini affiliato ai Flachi e viceversa lo 'ndranghetista Trovato Coco affiliato alla famiglia di Carmine Alfieri.

La 'ndrangheta e la mafia lucana. I Basilischi sono una organizzazione criminale nata nel 1994 a Potenza, e poi estesasi nel resto della Basilicata. Questa organizzazione ha assunto un ruolo di controllo delle attività illecite della Regione. I Basilischi nascono come una 'ndrina della 'ndrangheta calabrese e da essa dipendono, sono protetti e aiutati. Per nascere ha ottenuto il nulla osta dalla 'ndrina dei Pesce di Rosarno. La criminalità organizzata delle zone del materano, la Val d'Agri e del Melfese è controllata, dunque dalle cosche che fanno capo alla 'ndrangheta di Rosarno[8]. Sembra abbiano avuto contatti con essa anche con i Morabito.

La 'ndrangheta e la mafia pugliese. La 'ndrangheta con la mafia pugliese e nella fattispecie con la Sacra Corona Unita ha un rapporto ancora più influente e fondamentale che con Cosa Nostra o la Camorra, poiché né è addirittura l'artefice in parte della sua nascita. Dal rapporto del ROS dei carabinieri. Dal 1993 si è a conoscenza che la Sacra Corona Unita fu fondata da Giuseppe Rogoli, per volere di Umberto Bellocco (capobastone dell'omonima 'ndrina di Rosarno), e che inoltre all'interno della SCU vi fossero altri elementi appartenenti alla cosca calabresi come: Giuseppe Iannelli, Giosuè Rizzi, Cosio Cappellari,Antonio e Riccardo Modeo. La 'ndrangheta fu d'aiuto anche alla creazione della Rosa dei Venti, altra organizzazione criminale mafiosa che opera nel territorio pugliese, e precisamente aLecce. Fu fondata da Giovanni De Tomasi e Vincenzo Stranieri col volere e il permesso delle cosche calabresi. Praticamente Bari, Brindisi e Lecce erano sotto il controllo ndranghetista, e Taranto, tramite un accordo, fu lasciata alla Camorra.  Il 18 ottobre 2012 si conclude l'operazione Revolution che porta all'arresto 29 persone affiliate alle cosche di Bovalino, Africo e San Luca accusate di associazione mafiosa e traffico internazionale di cocaina e altri reati tra cui l'introduzione di un titolo di stato statunitense falso del valore di 500.000.000 di dollari. Da questa operazioni, oltre ad essere evidenziati i legami con narcotrafficanti sudamericano si registrano contatti con esponenti della Sacra Corona Unita sin dal 2010. Le basi logistiche europee per il traffico internazionale erano: Anversa in Belgio, Amsterdam nei Paesi Bassi, Duisburg, Oberhausen e Düsseldorf in Germania.

La 'ndrangheta e le organizzazioni criminali sarde. Dall'indagine Santa Barbara del 2005[11] si è scoperta un'alleanza fra la potente ndrina dei Nirta di San Luca e la criminalità sarda di Cagliari, Nuoro e Oristano per il traffico di cocaina ed eroina. I carabinieri sospettano anche che i proventi della droga potessero servire per investire nel settore immobiliare turistico sardo.

La 'ndrangheta e la Banda della Magliana. Durante l'operatività della Banda della Magliana alcune 'ndrine hanno avuto contatti con essa. In particolare i De Stefano di Reggio Calabria e i Facchineri di Cittanova.

La 'ndrangheta e il clan dei Casamonica. Il 25 marzo 2010 viene scoperto un sodalizio tra Pietro D'Ardes, Rocco Casamonica e affiliati alla 'ndrangheta dei Piromalli-Molè e Alvaro per il riciclaggio dei proventi illeciti e costituzione di società (15 sequestrate) per la partecipazione ad appalti pubblici.

La 'ndrangheta e le organizzazioni criminali internazionali.

'ndrangheta e mafia albanese. La Ndrangheta con le organizzazioni criminali albanesi ha rapporti basati sul traffico di esseri umani, prostituzioni e armi da come si evince dall'ANSA del 13 dicembre del 2005 e dall'operazione Harem. Con il beneplacito della mafia calabrese gli albanesi potevano agire in varie regioni d'Italia portando prostitute albanesi, moldave, ucraine e romene in cambio di droga ed armi. Sono state arrestate nell'operazione 80 persone di cui la metà albanesi le altre italiane legate alle 'ndrine dei paesi di Corigliano Calabro e di Cassano all'Ionio. In Lombardia commerciano anche in droga, durante l'operazione Crimine 3 sono stati scoperti in alleanza con il Locale di Erba, capeggiato da Pasquale Varca, e legato ai Nicoscia-Arena in un traffico di cocaina con i colombiani e dove i Pesce-Oppedisano che dovevano recuperarla al porto di Gioia Tauro se ne impossessarono mettendo nei guai il locale con gli stessi albanesi (i cui capi risiedono in Nord Europa) e i colombiani da cui era stata comprata. Nei Paesi Bassi per il controllo del porto di Rotterdam. Il 9 luglio 2015 si conclude l'operazione Overting, iniziata nel 2005 ha portato all'arresto di 44 persone tra cui persone legate ai Mancuso, in collaborazione con un gruppo criminale albanese di Fiano Romano per traffico internazionale di cocaina. La droga proveniva dal Cile, Venezuela e Colombia e grazie anche al broker ndranghetista Domenico Trimboli pentito dal 19 marzo 2015. L'incontro con i narcos per l'accordo sullo scambio avveniva invece in Spagna. In Calabria, a Spilinga c'era la raffineria per recupera la cocaina liquida impregnata in partite di vestiti o allo stato solido in piastrelle per pavimenti. Gli albanesi almeno una volta hanno tenuto in ostaggio un vibonese come garanzia del traffico.

'ndrangheta narcos colombiani e Autodefensas Unidas de Colombia. La collaborazione con i narcos colombiani nasce dal crescente mercato della cocaina che soprattutto in anni recenti si è sostituita all'eroina proveniente dall'Asia per i continui conflitti presenti nell'area. Portando così questa droga dei "ricchi" a diventare droga comune e diffusa. Uno dei tanti protagonisti di spicco in questi traffici è Roberto Pannunzi, un broker di origine calabrese internazionale che faceva da mediatore fra i cartelli e i gruppi calabresi dei: Morabito, Coluccio-Aquino, Romeo, Bruzzaniti, Sergi, Trimboli e Papalia. Hanno avuto contatti anche col movimento paramilitare Autodefensas Unidas de Colombia tramite uno dei capi Salvatore Mancuso Gómez sempre per motivi legati al traffico di droga. Il 29 aprile 2013 viene arrestato in Colombia dal ROS dei Carabinieri e dalla Policia Nacional Grupo Siu il latitante, dal 2006, Santo Scipione (1933) detto papi accusato di gestire un vasto traffico di cocaina tra la Autodefensas Unidas de Colombia e i Mancuso per cui è stato condannato nel 2012 a 15 anni di carcere. Grazie alla stretta collaborazione con i colombiani la ndrangheta dal 2000 in poi è riuscita a ottenere il monopolio della cocaina in Europa raggiungendo cifre da capogiro. A poco a poco si è sostituita a Cosa Nostra tanto che succede a volte che per i clan siciliani e camorristici faccia da garante in caso di mancati pagamenti e addirittura convenga alle altre mafia italiane comprare la cocaina direttamente in Italia dai calabresi.

'ndrangheta e FARC. Il 17 giugno 2015 si conclude un'operazione della Dda di Reggio Calabria e del Gico di Catanzaro con il contributo della DEA statunitense e della Guardia Civilspagnola che blocca un traffico internazionale di droga tra gli Alvaro, i Pesce e i Coluccio-Aquino insieme ad un comandante delle FARC colombiane. L'organizzazione aveva basi in Brasile, Argentina, Repubblica Dominicana, Colombia, Spagna e Montenegro. Durante l'operazione è stato sequestrato un carico di cocaina presente nell'imbarcazione Pandora Lys a largo di Viana do Castelo tra Spagna e Portogallo.

'ndrangheta e Cartello del Golfo. Il 14 luglio 2011 vengono arrestate oltre 40 persone nell'ambito dell'operazione internazionale dei carabinieri Crimine 3. Le persone sono accusate di traffico di droga internazionale e associazione mafiosa e sono state arrestate per lo più in Italia, alcune in Spagna, Paesi Bassi e negli Stati Uniti. Il traffico veniva gestito insieme al Cartello del Golfo e ai cartelli colombiani, per la 'ndrangheta c'erano presunti affiliati agli Ierinò, Commisso, Coluccio, Aquino e Pesce. A ottobre 2013 viene arrestato a Roma il venezuelano Edmundo Josè Salazar Cermeno detto Il chimico, latitante dal 2011 (conclusione dell'operazione Solare 2) e presunto broker tra le cosche Aquino-Coluccio e il cartello del Golfo e i Los Zetas per traffici di cocaina, metanfetamine e cannabis proveniente dall'America del Sud. Era incaricato di gestire tutta la logistica del traffico che coinvolgeva anche criminali dei cartelli presenti a New York, la droga in Europa invece approdava in Spagna che giungeva anche attraverso idrovolanti.

'ndrangheta e Los Zetas. Il 17 settembre 2008 in un'operazione dell'FBI e della DEA americana, dell'ICE messicana a cui hanno partecipato anche i carabinieri del ROS sono state arrestate 200 persone appartenenti al cartello messicano dei Los Zetas e ad altre organizzazioni criminali a cui vendevano la droga, tra cui la 'Ndrangheta, nella fattispecie sono stati arrestati Vincenzo e Giulio Schirripa appartenenti all'omonima 'ndrina,la quale faceva parte di un'alleanza con i Coluccio, gli Aquino e i Macrì e con i quali avrebbero importato ogni volta 1000 chili di cocaina. I contatti fra le due organizzazioni venivano prese tramite elementi del cartello messicano a New York. Sono stati arrestati anche 16 esponenti dei Coluccio e degli Aquino tra New York e la Calabria. L'accordo con i Los Zetas è avvenuto dopo l'arresto dell'ecuadoriano Luis Calderon, principale fornitore per queste 'ndrine. Durante l'operazione Crimine 3, si scopre che il trafficante di droga calabrese Vincenzo Roccisano faceva da tramite con i Los Zetas e le 'ndrine calabresi e le cosche siciliane. A ottobre 2013 viene arrestato a Roma il venezuelano Edmundo Josè Salazar Cermeno detto Il chimico, latitante dal 2011 (conclusione dell'operazione Solare 2) e presunto broker tra le cosche Aquino-Coluccio e il cartello del Golfo e i Los Zetas per traffici di cocaina, metanfetamine e cannabis proveniente dall'America del Sud. Era incaricato di gestire tutta la logistica del traffico che coinvolgeva anche criminali dei cartelli presenti a New York, la droga in Europa invece approdava in Spagna che giungeva anche attraverso idrovolanti.

'ndrangheta e Mafia serba e criminalità montenegrina. Secondo Michele Altamura dell'Osservatorio Italiano la mafia serba con l'aiuto della 'ndrangheta la mafia serba è riuscita ad entrare nei traffici internazionali di stupefacenti. Negli anni '90, dai serbi acquistò armi (tra cui bazooka ed esplosivi) costruite in Serbia.

'ndrangheta e mafia russa. Dagli anni '90 la 'ndrangheta è in relazione con la mafia russa per quanto riguarda il traffico di droga e di armi.

'ndrangheta e Big Circle Boys. Sempre negli anni '90 questa organizzazione criminale era alleata anche con i Big Circle Boys per la gestione del traffico di droga in Canada.

'ndrangheta e Cosa Nostra americana. L'11 febbraio 2014 termina un'operazione della Polizia e dell'FBI statunitense contro elementi presunti affiliati agli Ursino e ai Simonetta e ed esponenti vicino ai Gambino di Cosa nostra statunitense, accusati di traffico internazionale di droga. Tra gli arrestati anche Francesco Ursino, presunto attuale capo della cosca e figlio di Antonio (in carcere) e Giovanni Morabito, nipote di Giuseppe Morabito. Il 7 maggio 2015 durante l'operazione Columbus vengono arrestate 16 persone per traffico internazionale di droga proveniente dal Costa Rica. Fu coinvolto anche il titolare della pizzeria "Cucino a modo mio" nel Queens a New York. Il proprietario della pizzera Gregorio Gigliotti, originario di Pianopoli (CZ) ma residente da 30 anni a Whitestone (New York) sarebbe stato in contatto anche con Anthony Federici, vicecapo della famiglia Genovese di cosa nostra statunitense. In Calabria era invece in contatto a Francesco e Carmine Violi vicini agli Alvaro di Sinopoli. Gigliotti avrebbe occupato nel narcotraffico il posto di Giulio Schirripa dopo il suo arresto nel 2008, il quale già doveva dei soldi allo stesso Gigliotti.

'ndrangheta e Primeiro Comando da Capital. Nel 2016 una denuncia del Ministero pubblico federale del Brasile afferma dell'esistenza di relazioni tra il gruppo criminale brasiliano del Primeiro Comando da Capital con l'organizzazione calabrese, e viene citata nel 2014 nell'operazione Oversea, la più grande operazione contro il traffico di droga in Brasile. La droga veniva importata dalla Bolivia, passava per il Brasile per giungere in Italia nel porto di Napoli...

GUERRA DEI BOSS, VINCE LA 'NDRANGHETA. Da New York all'Australia, le inchieste delle polizie di mezzo mondo ci dicono che i clan calabresi hanno sconfitto Cosa Nostra nella lotta per il controllo delle rotte mondiali del narcotraffico. Ecco come i nuovi padroni del crimine hanno messo fuori gioco i vecchi padrini, scrivono Giuliano Foschini, Marco Mensurati e Fabio Tonacci l'8 agosto 2016 su “La Repubblica”. Laval, sobborgo a nord di Montreal, Canada. Primo marzo. Lorenzo Giordano ferma il Suv Kia blu sull’asfalto innevato del parcheggio del Carrefour Multisport, vicino alla highway 440. Spegne il motore, il crocifisso legato allo specchietto retrovisore sta dondolando. Sono le 8.45, la mattinata è gelida. Un killer sbuca a lato della macchina e gli spara alla testa e alla gola, frantumando il vetro del finestrino. Lorenzo “Skunk” Giordano, 52 anni, muore poco dopo, in ospedale. Carlton, quartiere italiano di Melbourne, Australia. 15 marzo. Un signore abbronzato con i capelli ben pettinati esce dal Gelobar, la sua gelateria. Sta camminando, è da poco passata la mezzanotte. È solo, e la strada è buia. Lo freddano alle spalle sparandogli da un’auto in corsa, senza neanche fermarsi. Tre ore dopo un netturbino scende dal camioncino e si avvicina al cassonetto. Accanto c’è il cadavere di Joseph “Pino” Acquaro, 50 anni, famoso avvocato. Ancora Laval, 27 maggio. Alla fermata dell’autobus su boulevard St. Elzéar è seduto un uomo, sui trent’anni, vestito completamente di nero. Scarpe nere, pantaloni neri, giacca nera, occhiali neri. Sono le 8.30. La Bmw bianca di Rocco Sollecito, come previsto, passa sul boulevard. Il semaforo è rosso, si ferma. L’uomo nero si alza, e punta la pistola contro il finestrino della macchina. Rocco “Sauce” Sollecito, 62 anni, scivola sul sedile imbrattato del suo sangue, colpito a morte. Italiani che parlano inglese e sparano. Altri italiani che parlano inglese e muoiono. Canada, Australia, Stati Uniti. Reggio Calabria. Il terremoto di sangue ha un epicentro silente, New York. E nuovi clan emergenti che hanno preso troppo potere, come gli Ursino, ‘ndranghetisti di Gioiosa Ionica. L’onda d’urto si è propagata su tutto il pianeta. Le vite affogate nel piombo di “Skunk”, “Pino” e “Sauce” sono scosse di assestamento. La chiamano la "guerra mondiale della mafia". New York, quindi. Niente è come prima. Le cinque grandi famiglie di Cosa Nostra, Gambino, Bonanno, Lucchese, Genovese e Colombo non sono più quelle che erano. Lo documentano le ultime inchieste del Federal bureau of investigation (Fbi), condotte insieme agli investigatori del Servizio centrale operativo (Sco) della polizia italiana. Giovedì scorso l’Fbi ne ha catturati altri 46, tra la Florida, il Massachusetts, il New Jersey, New York e il Connecticut: capi, mezzi capi e paranza dei Gambino, dei Genovese, dei Bonanno. È finito dentro anche il 23enne John Gotti jr, nipote dell’ultimo grande boss di Cosa Nostra americana. Assediati dalle indagini e indebolite da un ricambio generazionale difficoltoso, i siciliani stanno cedendo spazio, in maniera apparentemente quasi del tutto incruenta, alla mafia calabrese. Nella Grande Mela i clan dei Commisso e degli Aquino-Coluccio si sono insediati da anni, ma chi sta rivendicando per sé il ruolo di “sesta famiglia” sono gli Ursino di Gioiosa Ionica. E questo è un problema, per tutti. Una sesta famiglia, infatti, c’è già. Pur non ammessa nel gotha criminale di New York, i Rizzuto di Montreal, in Canada, hanno storicamente un legame stretto con i Bonanno. Se c’è da mettere in piedi un affare di un certo peso - partite di cocaina, armi clandestine, riciclaggio - i referenti sono loro. Un rapporto che da un po’ di tempo non è più così solido. Tra il 2012 e il 2013 una fonte confidenziale dell’Fbi rivela che Francesco Ursino, il boss della omonima cosca storica alleata dei Cataldo di Locri, ha chiesto ai Gambino di poter lavorare sulla piazza di New York "proprio come una sesta famiglia". Chiesto per modo di dire. A questo giro sono i siciliani di Cosa Nostra a trovarsi di fronte a un’offerta che non si può rifiutare, perché quando ha bussato alla porta dei Gambino, Francesco Ursino in realtà si era già preso tutto: le rotte del narcotraffico, i contatti con i cartelli messicani e colombiani, il controllo dei porti e dei cargo. Il boss parlava a nome non di una famiglia sola, ma di quello che gli investigatori nell’indagine New Bridge (che porterà alla cattura del capoclan) definiscono "un consorzio" di clan della Locride. Rifiutare avrebbe voluto dire per i Gambino ingaggiare una guerra senza senso, e dall’esito incerto. Meglio mettersi d’accordo e accettare il dato di fatto. Sul mercato mondiale della cocaina, ‘ndrangheta rules, comanda. Da anni i calabresi lavorano nell’ombra a New York, negli scantinati delle loro pizzerie e nei retrobottega dei loro “italian restaurant”. Volano a Bogotà e San José nel weekend, fingendosi turisti. "Se volete sapere cosa succede a New York, cercate in Centro America; se volete sapere cosa succede tra i Cartelli del Golfo guardate chi comanda a New York", spiega Anna Sergi, criminologa dell’Università dell’Essex, studiosa delle proiezioni dell’’ndrangheta all’estero. E in Centro-Sud America succede che i calabresi comandano. Marcano il territorio. Agganciano intermediari. Sparano il meno possibile. Più finanza meno casini. La gola profonda che ha spiegato alla Dea e all’Fbi cosa si stava muovendo nel ventre criminale della Grande Mela si chiama Cristopher Castellano. È proprietario di una discoteca nel Queens, il Kristal’s, che usa per nascondere quello che in realtà è: un broker dei Los Zetas, il pericolosissimo cartello messicano paramilitare dei disertori dell’esercito che si avvale di lui per commerciare stupefacenti negli States e in Europa. Con i narcotrafficanti, Cristopher ha fatto una montagna di soldi. La festa dura poco, però. Lo arrestano nel 2008, e lui, pur di uscire dalla galera, canta. Si vende ai poliziotti due calabresi: Giulio Schirripa e tale “Greg”. Racconta di questi due italiani che, usando le pizzerie come copertura e i soldi della ‘ndrangheta come garanzia, stanno muovendo tonnellate di cocaina nascosta nei barattoli di frutta trasportati dalle navi portacontainer. "Hanno una pipeline attraverso gli oceani", sostiene Castellano. Se girano grosse partite di polvere bianca che dal Costarica raggiungono gli Usa, il Canada, il Vecchio Continente e l’Australia, è roba loro. Distribuiscono, smistano, organizzano i viaggi delle navi, aprono società fittizie di import-export, corrompono doganieri. A New York vanno a cena con i Genovese. A San José si incontrano con gli uomini di Arnoldo de Jesus Guzman Rojas, il capo del cartello di Alajuela. A Reggio Calabria riferiscono al clan Alvaro. Sono dei “facilitatori”, insospettabili perché incensurati: creano le condizioni per portare la polvere bianca dai laboratori nella giungla del Costarica al naso dei consumatori. Schirripa, arrestato insieme a Castellano, è l’archetipo dell’emigrato calabrese alla conquista di New York. Gregorio “Greg” Gigliotti, l’epigono. Cristopher Castellano è diventato carne morta nel momento stesso in cui ha aperto bocca con gli agenti federali. Quattro luglio del 2010, negli Stati Uniti si festeggia il giorno dell’Indipendenza. Ad Howard Beach, nel Queens, lo spettacolo di fuochi d’artificio è iniziato poco prima di mezzanotte. Castellano però non ha gli occhi al cielo, sta frugandosi le tasche per cercare le chiavi della macchina. Un colpo solo, alla nuca. Nessuno si accorge di niente. Castellano non soffierà più all’orecchio dell’Fbi. Intanto, però, gli investigatori hanno messo sotto controllo i telefonini e riempito di cimici i ristoranti di Gigliotti nel Queens, tra cui il famoso 'Cucino a modo mio' citato nelle riviste specializzate di tendenza. "Non c’è un grammo di cocaina in Europa che non sia passata tra le mani di Gregorio", ripetono spesso i complici dell’italiano, terrorizzati dalle escandescenze di Gigliotti. Quando si arrabbia, col suo dialetto calabrese impastato di slang americano può dire cose terribili: "Una volta mi sono mangiato un pezzo di rene e un pezzo di cuore", sbraita con la moglie, irritato da un altro calabrese che sta provando a inserirsi nel suo business. Il centro dei suoi affari è il Costa Rica, dove ha contatti diretti con i narcotrafficanti grazie a una fitta rete di broker e fiduciari. "E digli che non facciano troppo i furbi…", ripete loro, quando li spedisce a trattare in Sudamerica. Lui accumula denaro, i poliziotti dello Sco e dell’Fbi ascoltano e anticipano qualcuna delle sue mosse. Porto di Anversa, 16 chili di cocaina sequestrati. Porto di Valencia 40 chili, Wilmington 44 chili. Porto di Rotterdam 3 tonnellate. Poi l’8 maggio scorso lo arrestano. Finisce dentro anche suo figlio, Angelo. Ma poche settimane dopo torna in libertà grazie a una cauzione da cinque milioni di dollari. Pagata in contanti. Fuori gioco i referenti degli Alvaro, New York se la sono presa gli Ursino. Compresi i contatti con i sudamericani. Le scosse del terremoto si riverberano in Canada, dove le gerarchie si sgretolano. E con esse la pax mafiosa. Dagli anni Ottanta i criminali italiani emigrati lì si erano divisi gli affari, tra Toronto e Montreal. Ai siciliani del clan Rizzuto la droga, ai calabresi arrivati da Siderno il gambling, il gioco d’azzardo, e l’usura. La mappa l’hanno disegnata nel 2010 gli investigatori italiani che hanno lavorato alla maxi inchiesta ‘Crimine’ (che per la prima volta individuò i vertici dell’’ndrangheta) ed è ancora valida. Tre anni fa Vito Rizzuto, il capo, muore di tumore. Nei mesi successivi, in coincidenza con l’ascesa degli Ursino nel quadrante nordamericano, quattro dei sei membri del “Consiglio” dei Rizzuto vengono uccisi. Gli altri due si salvano soltanto perché sono in galera. L’ultimo a cadere è stato Rocco “Sauce” Sollecito. Poche settimane fa a Montreal stava per finire in una bara Marco Pizzi, 46 anni, importatore di cocaina per il clan secondo la polizia, sfuggito per un soffio ai suoi sicari che lo avevano tamponato con una macchina rubata. Erano mascherati e armati. "I calabresi hanno attaccato i vecchi poteri", ragiona un investigatore. "È ‘ndrangheta contro mafia". La guerra mondiale, quindi. La scia di sangue si allunga fino all’Australia, dove il golpe calabrese sulle rotte della cocaina ha destabilizzato equilibri che si reggevano dalla fine degli anni Settanta. La famiglia Barbaro sembra aver perso il passo, e i contatti con i nuovi importatori sarebbero passati nelle mani di Tony e Frank Madafferi. A Melbourne i calabresi combattono contro i calabresi. Frank Madafferi e Pasquale “Pat” Barbaro furono indagati nel 2008 nel processo per il più grande carico di metanfetamine mai intercettato nella storia della lotta al narcotraffico: 4,4 tonnellate di ecstasy, per un controvalore di 500 milioni di dollari australiani (340 milioni di euro) in pasticche stivate in una nave che trasportava lattine di pomodori pelati. Ma quel processo non è l’unica cosa che Tony Madafferi e Pat Barbaro, poi condannato all’ergastolo, hanno in comune. A unirli, come spesso accade, anche la scelta dell’avvocato: il professionista italo- americano Joseph Acquaro. L’uomo trovato morto dal netturbino davanti alla gelateria, lo scorso marzo. Le indagini sono ferme al palo anche se un paio di elementi hanno attirato l’attenzione su Madafferi: in particolare alcune intercettazioni in cui si dichiara proprietario di Melbourne ("È mia, non di Pasquale") e si dice pronto ad uccidere il rivale ("gli mangio la gola"). Ma soprattutto il racconto di un pentito che ha spiegato alla polizia come nel sottobosco malavitoso di Melbourne tutti sapessero della taglia che Tony aveva da poco messo sulla testa dell’avvocato, colpevole a quanto pare di aver cominciato a parlare un po’ troppo con giornalisti e investigatori: 200mila dollari australiani. Chi li abbia incassati non si sa. Quello che si sa è che pochi giorni prima di quell’omicidio, all’aeroporto di Fiumicino i carabinieri di Locri avevano arrestato Antonio Vottari, 31 anni, accusato di gestire i traffici di droga tra il Sudamerica e l’Europa per conto delle cosche di San Luca. Rientrava da Melbourne, dove da anni trascorreva la sua latitanza, con un visto da studente. Le sorti della guerra mondiale della mafia le decidono in Calabria. Tutto parte da là. E tutto, prima o poi, là ritorna.

Inchiesta: i boss di Cosa nostra al servizio della ‘ndrangheta, scrive Alberto Di Pisa su “Sicilia Informazioni” il 28 giugno 2016. Intervenendo qualche giorno fa ad un convegno organizzato “In memoria di Cesare Terranova” il Procuratore della Repubblica di Roma, Giuseppe Pignatone ha affermato che la mafia siciliana è in crisi e in difficoltà ed è subalterna alla mafia campana e calabrese. Ed ha aggiunto: “Dal mio osservatorio di Roma, quando sento di tentativi di ricostruzione di mandamenti o della vecchia Cupola, penso subito che, comunque, si tratta di tentativi non riusciti e che la situazione rispetto al passato è molto diversa, rispetto ai tempi degli omicidi eccellenti”. Questa supremazia di altre organizzazione criminali quali la Ndrangheta o la camorra, sulla mafia siciliana, sembra trovare un riscontro in quanto dichiarato dal Procuratore aggiunto di Palermo, Teresa Principato la quale ha detto: “Possiamo affermare dalle nostre indagini che la ‘ndrangheta ha sostenuto la latitanza di Matteo Messina Denaro….Ed ancora: “I rapporti tra malavita organizzata calabrese e Matteo Messina Denaro sono basati su punti incontrovertibili, contatti con la ‘ndrangheta ci sono dai tempi di Riina, non c’è niente di nuovo”. Ed ha spiegato che “la leadership della ‘ndrangheta è dovuta al fatto che non c’è stato obiettivamente lo stesso lavoro se non da cinque sei anni, da quando è arrivato a Reggio Calabria il dottor Pignatone e adesso De Raho. Ma prima c’erano molto pochi risultati”. Lo stesso Nicola Gratteri, ex Procuratore aggiunto di Reggio Calabria, oggi Procuratore della Repubblica di Catanzaro, aveva già in passato sottolineato come si fossero ormai invertiti i rapporti di forza tra calabresi e siciliani. Aveva infatti detto: “Ora è Cosa Nostra che chiede alla ‘ndrangheta la droga, si rifornisce dalla criminalità calabrese, che ha preso le redini di questo traffico a tutti gli effetti (….) Adesso la mafia americana si affida ai calabresi per spaccio e traffico soprattutto di cocaina”. E’ proprio quindi in virtù della potenza economica e criminale che deriva alla ‘ndrangheta dal traffico di droga a livello mondiale che Matteo Messina Denaro ha deciso di affidarsi, per la propria latitanza, agli esponenti di tale organizzazione criminale. Va poi sottolineato che fin dagli anni settanta la ‘ndrangheta è riuscita a favorire l’ingresso di propri uomini nei partiti di governo, nelle istituzioni in occasione delle competizioni elettorali. Ma a parte questa caratteristica, la ‘ndrangheta ha assunto un vero e proprio ruolo imprenditoriale per ciò che riguarda il traffico di armi e di droga, attività che, come evidenziato da Gratteri, si è estesa al di fuori dell’ambito della propria regione, così soppiantando quelle che era state alcune delle principali attività criminali della mafia siciliana che oggi ha finito con l’assumere un ruolo subalterno rispetto alla ’ndrangheta e alla camorra. Va ricordato, per quanto riguarda l’infiltrazione della ‘ndrangheta nelle istituzioni, come, in conseguenza della elezione di ‘ndranghetisti negli organi rappresentativi comunali si verificò, negli anni 80-90 lo scioglimento di diversi consigli comunali calabresi tra cui quelli di Taurianova e Lamezia Terme. Si legge in proposito nella relazione Cabras: “L’ex sindaco di Reggio Calabria, Agatino Licandro, che ha svolto davanti al Procuratore della Repubblica una dettagliata confessione sulla corruzione politico-amministrativa della città, già nel luglio del 1991 affermava: “(….) a proposito dei consiglieri comunali: ce ne sono almeno 10-15 per cento eletti consapevolmente con voti della mafia” (relazione cit., pag. 34). Per quanto riguarda il narcotraffico, mentre negli anni 60 la ‘ndrangheta era legata da un rapporto organico con la mafia siciliana per cui trafficanti calabresi e siciliani operavano su un piano di parità, oggi, proprio grazie al notevole potere economico e criminale raggiunto dalla ‘ndrangheta insieme alla situazione di difficoltà in cui versa la mafia siciliana, è quest’ultima che è costretta a rivolgersi, per rifornirsi di droga, alla ‘ndrangheta che ormai detiene il monopolio delle sostanze stupefacenti. È appena il caso di ricordare che negli anni 70- 80 il traffico di droga era monopolio della mafia palermitana che aveva realizzato, proprio a Palermo, dei laboratori dove, con l’intervento di esperti chimici francesi, veniva raffinata e trasformata in eroina la morfina base proveniente dal medio oriente, eroina che poi veniva inviata negli USA dove, attraverso le pizzerie facenti capo a mafiosi siciliani, veniva spacciata al minuto. La mafia americana, quale pagamento della droga ricevuta, inviava in Italia valige contenenti migliaia di dollari. Un pagamento di droga fu certamente il rinvenimento, da parte del Dirigente della Squadra mobile di Palermo, Boris Giuliano, all’aeroporto di Punta Raisi, di una valigia proveniente dagli Usa e contenente 500mila dollari. Una dimostrazione del ruolo determinante della ‘ndrangeta nel traffico di stupefacenti è dato dalla maxi operazione che, nel settembre del 2015, portò all’arresto di 48 persone con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso e traffico internazionale di stupefacenti. In questa operazione vennero colpite le famiglie potenti della fascia jonica-reggina. In occasione di tale operazione Nicola Gratteri ebbe a dichiarare: “Oggi è Cosa Nostra che chiede alla ‘ndrangheta la droga, si rifornisce dalla criminalità calabrese, che ha preso le redini di questo traffico a tutti gli effetti”. Questa operazione ha inoltre accertato come la ‘ndrangheta abbia estromesso Cosa Nostra dai contatti con la mafia americana nel traffico di droga indebolendo il legame che tradizionalmente esisteva, come si è visto, con quest’ultima. In occasione di altra operazione antidroga relativa ad un traffico internazionale di stupefacenti che ha visto coinvolti esponenti di Cosa Nostra e della ‘ndrangheta, il comandante dei ROS ha affermato: “Il ruolo centrale ce l’hanno le cosche della ‘ndrangheta che hanno confermato ancora una volta lo straordinario livello raggiunto nel traffico internazionale di cocaina, grazie anche alla solidità di rapporti instaurata nel tempo con i broker sudamericani”. Si trattò di una operazione condotta dalla Direzione distrettuale antimafia di Milano che nell ‘ottobre del 2012 portò all’arresto di più di 50 persone. L’indagine accertò che gli esponenti delle cosche calabresi avevano creato “un cartello” con la mafia siciliana per il commercio della cocaina che avrebbe dovuto essere smistata tra Italia, Belgio, Germania, Olanda e Austria. La droga arrivava dall’Ecuador e dalla Colombia ed entrava in aereo o nei container della navi commerciali, occultata tra gamberi e banane. Ma la potenza acquisita dalla ‘ndrangheta non deriva soltanto dal traffico di droga ma anche dal fatto che ha raggiunto, in vaste aree, il controllo militare del territorio, eliminando dal mercato numerose imprese, e, come è stato scritto “ha conquistato quasi il monopolio del movimento terra, negli inerti, nell’edilizia e ha costruito un fisco parallelo a quello dello Stato imponendo un pizzo generalizzato”. La ‘ndrangheta dispone poi di killer altamente professionali e temuti che uccidono le persone designate in qualunque luogo esse si trovino anche nelle piazze dei paesi o delle città, sia di giorno che di notte. Basta ricordare l’omicidio di Francesco Fortugno, consigliere comunale e vice presidente della Regione, ucciso a Locri il 16 ottobre 2005 nel giorno delle primarie dell’Unione, all’interno del seggio, da un killer a volto coperto con cinque colpi di pistola. La DIA ha inoltre evidenziato come la ‘ndrangheta abbia parzialmente ma visibilmente, messo da parte i metodi criminali aggressivi per creare “vere e proprie Holding imprenditoriali”. Ciò, sempre secondo la DIA, avrebbe determinato una vera e propria fusione con l’economia regionale grazie alla quale i clan sono “in grado di aggiudicarsi gli appalti ed acquisire le concessioni”. La Dia ha inoltre segnalato come sia stata accertata la presenza di esponenti delle ‘ndrine in Liguria, Piemonte, Veneto, Lombardia, Toscana Lazio, Molise, esponenti attraverso i quali i clan calabresi gestiscono le loro attività illecite. In particolare, per quanto riguarda il Piemonte la DIA ha evidenziato come la ‘ndrangheta “interagisce con gli ambienti imprenditoriali lombardi (…..) e c’è il coinvolgimento di alcuni personaggi rappresentati da pubblici amministratori locali e tecnici del settore (…) che hanno agevolato l’assegnazione di appalti e assestato oblique vicende amministrative” La stessa DIA aveva chiesto un razionale programma di prevenzione al fine di bloccare le possibili infiltrazioni della ‘ndrangheta in previsione delle opere previste per l’Expo 2015. Dal rapporto della DIA emerge poi come la ‘ndrangheta sia tra le organizzazioni criminali quella “meno visibile sul territorio ma la meglio strutturata e la più diffusa sia a livello nazionale che internazionale”. E si trae sempre dalla relazione della DIA come la “ndrangheta si caratterizzi, più delle altre organizzazioni criminali, per la sua straordinaria rapidità nell’adeguare valori arcaici alle esigenze del cambiamento tanto che le sue ‘ndrine hanno dimostrato una elevata abilità nell’utilizzare gli strumenti delle innovazioni tecnologiche”. Gli investigatori della Direzione Investigativa Antimafia non trascurano poi di evidenziare la crescente pericolosità della ‘ndrangheta “nel panorama criminale nazionale ed internazionale” nonché la sua “grande determinazione nel volere accreditare maggiormente la propria influenza nell’area del grande crimine mafioso”. Le indagini quindi ci presentano una organizzazione criminale particolarmente viva ed attiva nel circuito della finanza internazionale e per questo estremamente pericolosa. La relazione della Commissione parlamentare antimafia parla di rapporti tra la mafia calabrese ed “esponenti del mondo bancario ed istituzionale di Milano” che è risultata essere la città di riferimento più importante per la ‘ndrangheta e la più inquinata. E sempre la suddetta Commissione, parla di “sistematica omissione di controlli da parte degli amministratori pubblici”. Si diceva dell’utilizzo, da parte della ‘ndrangheta degli strumenti delle innovazioni tecnologiche. Ebbene la ‘ndrangheta ha tentato, fortunatamente senza successo, di inserirsi nella posta elettronica della Deutsche Bank di Milano per clonare i titoli al portatore e rinegoziarli presso altre banche, tentando quindi di attuare un sofisticato sistema di riciclaggio. Per dare un idea del salto di qualità compiuto dalla ‘ndrangheta e di come la stessa si sia, a differenza di Cosa nostra, adeguata ai tempi, basta leggere quanto dichiarato da un ufficiale della Guardia di finanza il quale ha detto di avere accertato l’esistenza di 120 tonnellate metriche di oro o diamanti, o valuta libica, oppure dollari kuwaitiani scambiati contro dollari e tutto con procedure bancarie telematiche che consentono di spostare milioni di dollari senza che materialmente un euro esca dalle tasche. La Guardia di Finanza ha anche individuato conti correnti all’estero, nella Bahamas, in Russia, nella ex Jugoslavia, in Austria. Sono state inoltre accertate presenze, in alcune logge massoniche, di personaggi collegati alla ‘ndrangheta in rapporto e connivenza con uomini delle istituzioni, professionisti, avvocati, notai, imprenditori, magistrati. La ‘ndragheta ha inoltre adottato un diverso sistema di impiego degli enormi profitti che provengono dal traffico di cocaina. Questi proventi infatti non vengono più impiegati, come avveniva tradizionalmente, ripartendo il denaro tra i diversi prestanome ma inviandolo direttamente all’estero. Alcuni anni fa infatti, un commercialista milanese trasferì il capitale di 26 società della ‘ndranheta con una triangolazione Milano-Lussemburgo-Lugano avvenuta in soli 15 giorni. Le mani della ‘ndrangheta arrivarono anche al palazzo di giustizia di Milano come testimoniato dall’arresto per mafia, qualche anno fa, di un alto magistrato in pensione che era riuscito a pilotare sentenze anche dopo il pensionamento e di un legale che dopo l’omicidio del collega Raffaele Ponzio sarebbe diventato il nuovo collettore delle mazzette giudiziarie. Entrambi sono stati accusati di corruzione e di associazione mafiosa. Secondo l’accusa sarebbero stati complici esterni ma anche organici di due potenti famiglie della ‘ndrangheta. In cambio di mazzette (da un milione a un miliardo) avrebbero aggiustato processi, garantendo assoluzioni, irrogando condanne tenui, assicurando scarcerazioni. Una pentita della ’ndrangheta, Rita Di Giovine ha parlato dell’ingresso del giudice di cui sopra in una camera di consiglio tenuta da altri giudici con una bustarella consegnatagli dal boss Emilio. Ha riferito anche della scarcerazione di Antonio Morabito per la quale il giudice avrebbe ricevuto un assegno di venti milioni e dell’annullamento, in appello, delle condanne di Francesco Sergi, Antonio Parisi e Saverio Morabito, tutti affiliati alla ‘ndrangheta, che nel 1993 erano stati condannati per traffico di droga. Diverso il comportamento della ‘ndrangheta nei confronti dei magistrati incorruttibili. In questo caso si fa ricorso alle intimidazioni, agli attentati, alle bombe in ufficio. Alla luce di quanto fin qui detto la ‘ndrangheta che è sempre stata considerata la parente povera e rozza di Cosa Nostra ha compiuto un salto di qualità che ha fatto si di ridurre Cosa Nostra ad una posizione subalterna non più in posizione di preminenza tra le associazioni criminali mafiose. Nessuno oggi potrebbe più dire che la ‘ndrangheta è un residuo arcaico. Alberto Di Pisa

La 'Ndrangheta si aprì la strada al primato, dicendo no al terrorismo anti Stato di Riina, scrive Giuseppe Baldessarro su “La Repubblica” il 13 gennaio 2013. Già nel 1993 le 'ndrine si potevano permettere di rifiutare gli inviti dei corleonesi. Poi in vent'anni sono cresciute, arrivando a vantare il primato di essere l'unica mafia al mondo presente in tutti e cinque i continenti. Che con i soldi della cocaina possono comprare tutto, soprattutto in un periodo di crisi economica. Quando gli emissari di Totò Riina chiesero alla 'Ndrangheta di entrare in guerra contro lo Stato, i calabresi risposero che loro i magistrati "non li ammazzano", ma che "se li comprano, o li distruggono minandone la credibilità". Era il 1993 e già allora la 'ndrangheta poteva dire di no ai corleonesi.  Erano potenti e avevano capito tutto. Loro avevano i soldi della cocaina e lo Stato era concentrato sulla Sicilia. Con Cosa nostra fuori gioco, per i clan dell'Aspromonte si apriva una prateria sterminata.  Territori criminali da conquistare. E in vent'anni i boss reggini hanno occupato militarmente il mercato di mezza Europa, arrivando a vantare il primato di essere l'unica mafia al mondo presente in tutti e cinque i continenti. L'episodio chiave dell'ascesa dei calabresi è stato raccontato anche di recente. A luglio scorso, durante il maxi processo "Meta" che si sta celebrando nell'aula bunker di Reggio Calabria, in aula c'era Nino Fiume, killer di fiducia della famiglia De Stefano del quartiere Archi, pentitosi all'inizio degli anni 2000. Fiume racconta dell'assassinio del giudice Antonino Scopelliti, ucciso a Campo Calabro (pochi chilometri da Reggio), su commissione dei siciliani. Era il giudice di Cassazione che doveva gestire il Maxi processo di Palermo e Riina lo voleva morto. Un favore in nome della vecchia amicizia tra siciliani e calabresi. Non è un caso che don Mico Tripodo, capo indiscusso della 'Ndrangheta reggina (assassinato a Poggioreale, su ordine di Raffaele Cutolo e richiesta dei De Stefano), qualche anno prima era stato ospite d'onore al matrimonio di Totò u curtu e compare d'anello degli sposi. Nel '91 gli "amici" furono accontentati. Due anni dopo no. Cosa Nostra tentò di coinvolgere la 'Ndrangheta calabrese nella strategia della tensione che Fiume definisce di "attacco allo Stato".  Furono anche convocate diverse riunioni, una a Milano e due in Calabria. "Era il periodo delle stragi di Roma, Firenze, Falcone e Borsellino erano stati uccisi", ha spiegato Fiume. La prima riunione, quella di Rosarno, avvenne all'hotel Vittoria. "In quella occasione -  ricorda - c'erano i siciliani. Per i calabresi c'erano Carmine e Giuseppe De Stefano, Franco Coco, il suo braccio destro, Nino Pesce. Forse qualcuno dei Bellocco. Pietro Cacciola, che frequentava Coco Trovato a Milano". La seconda riunione, di poco successiva: "Eravamo al residence Blue Paradise di Parghelia (in provincia di Vibo Valentia). Franco Coco voleva stringere il cerchio attorno a Pasquale Condello, bisognava chiarire il progetto dei siciliani e c'era anche un traffico di droga da definire. C'erano presenti Luigi Mancuso, Peppe De Stefano, Peppe Piromalli, Pino Pesce, e Coco Trovato. Tenete presente -  spiega Fiume - che a queste riunioni si partecipa non come famiglia, ma come rappresentanti di un territorio più vasto". Ai siciliani, all'epoca, fu detto di no. Solo Franco Coco Trovato era possibilista.  Per Peppe De Stefano invece, la strategia dei siciliani era controproducente. Diceva - riferisce Fiume -che era più facile avvicinare un magistrato o al massimo distruggerlo con campagne denigratorie". Quella scelta fece la fortuna della 'Ndrangheta. Con i siciliani impegnati a fare la guerra con lo Stato, le 'ndrine si consolidarono al nord Italia e all'estero, dove furono creati dei "locali" di mafia identici, per struttura e regole, a quelli della casa madre. I broker si stabilirono direttamente in Colombia a trattare con i cartelli della "coca" che iniziò ad arrivare in Europa a tonnellate. La "droga dei ricchi non uccide", dicevano. "E noi la facciamo diventare la droga di tutti". I calabresi sono affidabili, non hanno pentiti e pagano puntuali. Per questo ottengono il monopolio. Oggi sono in grado di mettere sul mercato un grammo di cocaina tagliata a meno di 40 euro. Robaccia, ma i "poveri non guardano alla qualità". Gestendo il 70% dei carichi che arrivano in Europa, secondo la Commissione parlamentare antimafia, contano su capitali spaventosi. Con la droga sono arrivati i soldi e i soldi vanno reinvestiti. Comprano tutto e comprano da tempo. C'è un'intercettazione tra un boss della 'Ndrangheta e un suo contatto al nord, cui impartisce ordini negli anni dopo la caduta del Muro di Berlino: "Vai all'Est e compra tutto, non mi interessa cosa, compra case, ristoranti, negozi, compra quello che vuoi basta che compri". Ed è così ovunque. Tanto più con la crisi di liquidità degli ultimi anni. Sono gli unici ad avere contante, utile ad entrare nelle aziende con partecipazioni, per fare prestiti o per rilevare aziende decotte. Secondo la recente relazione della Dia che fa riferimento ai primi sei mesi del 2012, se da un lato c'è Cosa Nostra che, forse per la prima volta, "inizia a confrontarsi con un'apprezzabile perdita di consenso", dall'altro si registra un'ulteriore salto in avanti della 'Ndrangheta, che consolida la sua "evoluzione affaristico imprenditoriale". I calabresi si stanno allargando in un contesto "in cui la crisi economica e la contrazione del credito producono un effetto moltiplicatore dei fattori di rischio".  Entra nell'economia la 'ndrangheta calabrese, ma dilaga anche nella politica. "La corruzione -  scrive la Dia -  rappresenta un punto di forza delle mafie. I gruppi criminali sono adusi a coltivare cointeressenze con la cosiddetta "zona grigia" dell'imprenditoria, della pubblica amministrazione e della politica, al fine di ottenere agevolazioni e condividere gli illeciti profitti". I numeri sono solo una spia. In sei mesi le persone denunciate per scambio elettorale politico mafioso sono solo sette, ma ciò "non corrisponde alla diffusione dei fenomeni corruttivi e concussivi". Soldi amicizie importanti sono la chiave della 'ndrangheta. Gli emissari dei boss entrano dalla porta principale della politica e dell'economia. E, quando è possibile, lo fanno senza mettere bombe.

E ora la ’ndrangheta supera cosa nostra.  Intervista a cura di Sebastiano Gulisano del dicembre 2007. La struttura familiare e “orizzontale” dell’organizzazione criminale calabrese la rende meno vulnerabile, consentendole un più stretto controllo del territorio e l’espansione di traffici e affari in altre Regioni italiane, in Europa, Stati Uniti, Canada, Australia, America Latina. La strage di Duisburg, il suicidio del pentito del caso Fortugno, Bruno Piccolo, le inchieste del pm di Catazaro Luigi De Magistris e, infine, il pentimento di Angela Donato, la prima donna a tradire la ’ndrangheta, hanno, anche se a intermittenza, riacceso i riflettori su quella che viene ormai considerata la più potente organizzazione criminale italiana, con radici in Calabria e diramazioni in tutta Europa e in buona parte del mondo. Una holding criminale con un giro d’affari illegali da 30 miliardi di euro l’anno, che diventano quasi il doppio se si considerano le attività legali. La ’ndrangheta è stata a lungo la meno indagata, la più sottovalutata delle mafie italiane, anche se non meno pericolosa della camorra o di cosa nostra. A differenza delle altre organizzazioni criminali meridionali, è fortemente incentrata sulla famiglia di sangue, e ciò, da sempre, favorisce la segretezza e provoca pochissimi pentimenti. Un controllo del territorio ferreo, asfissiante, l’imposizione del pizzo a commercianti e imprenditori con una pervasività simile a quella di cosa nostra a Palermo e Catania, il controllo dei grandi lavori pubblici, come la Salerno-Reggio Calabria, “l’autostrada della ’ndrangheta”. Il recente rapporto annuale di Sos Impresa, l’associazione della Confesercenti che si occupa di racket e usura, a tal proposito, riporta una frase di Nicola Gratteri, pm della Direzione distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, che non lascia dubbi: “Qui né le imprese né la politica hanno la forza di imporsi, perché la ’ndrangheta ha un potere più asfissiante di cosa nostra. Controllano le loro zone come i cani quando fanno pipì e da lì non si passa”. La Commissione parlamentare Antimafia, presieduta da Francesco Forgiane, calabrese di Rifondazione comunista, ha deciso di concentrarsi sulla ’ndrangheta, con l’obiettivo di arrivare alla prima relazione su questa potentissima organizzazione criminale. (Sempre che la legislatura non finisca prima.) Sarebbe un fatto storico. In passato, la Commissione ha fatto relazioni sulla Calabria, ma mai sull’organizzazione in quanto tale e, dunque, su tutte le sue ramificazioni anche fuori dalla regione originaria. Per capire cos’è ’ndrangheta, quale evoluzione storica ha avuto, in cosa differisce dalle altre mafie italiane, abbiamo intervistato Enzo Ciconte, storico della ’Ndrangheta, docente presso l’Università di Roma Tre, autore di numerosi saggi sull’organizzazione criminale calabrese, sulle altre mafie, sul traffico di esseri umani. E’ consulente della Commissione Antimafia.

Dottor Ciconte, don Masino Buscetta, storico pentito di mafia, raccontò al giudice Falcone che i boss di ’ndrangheta e camorra erano affiliati a Cosa Nostra, aggiungendo che non esistevano tre organizzazioni mafiose, ma una sola, quella siciliana. Tanto che quando c’era guerra in Sicilia, questa si propagava nelle altre regioni. Cos’è cambiato da allora?

«Si dà per scontato che Buscetta dicesse il vero, invece non lo diceva o non sapeva. È vero, all’epoca c’era la pratica di affiliare a cosa nostra i boss delle altre organizzazioni criminali del sud. Ma era una pratica reciproca. Il discorso di Buscetta può valere per la camorra, che allora era pulviscolare e viveva di contrabbando, dopo che all’inizio del Novecento era stata sbriciolata dal procuratore Cuoco. E ciò fino all’avvento di Cutolo…»

Dopo il terremoto dell’80 e gli affari conseguenti.

«Cutolo fonda la nuova camorra organizzata, federando i clan, e apre una polemica politica con coloro che non ci stanno, che definisce “asserviti ai siciliani”. Politica criminale, ovviamente. Il rapporto di cosa nostra con la ’ndrangheta, che ha un pedigree più solido della camorra, era invece paritario. E ci sono fatti che lo dimostrano. Negli anni Cinquanta, il dottor Michele Navarra, capomafia di Corleone, viene confinato a Gioiosa Marina dove, come racconta il collaboratore Giacomo Lauro, aveva “rapporti di affetto, amicizia e ‘rispetto’ con don Antonio Macrì”. Mico Tripodo, all’epoca capobastone di Reggio Calabria, è compare d’anello di Totò Riina: ciò non sarebbe stato possibile senza un rapporto paritario. In realtà, c’era la doppia affiliazione, una pratica che durante gli anni Novanta è andata diffondendosi fra mafiosi siciliani, calabresi, campani e pugliesi».

La pratica della doppia affiliazione ricorda la leggenda dei tre fratelli spagnoli che, nel Seicento, si stabilirono in Sicilia, Calabria e Campania dove avrebbero fondato le tre organizzazioni mafiose.

«Osso, Mastrosso e Scarcagnosso: una leggenda che ha un suo fondamento. Non dimentichiamo che, dopo le stragi, il pentito siciliano Leonardo Messina venne in Commissione Antimafia e parlò di una “mafia mondiale”. E, a proposito delle stragi, ricordiamoci che, prima, Riina e gli altri boss convocarono i capibastone della ’ndrangheta chiedendo un sostegno che non ebbero. Le organizzazioni di base sono uguali, mentre è diversa quella dei vertici; tutte hanno relazioni con la politica, la Chiesa, il padronato. I luoghi degli incontri, degli accordi, storicamente sono le carceri, le fiere e il Parlamento, ché i diversi referenti politici delle mafie si conoscono, si parlano».

Oggi è ancora così?

«Il rapporto è cambiato, oggi la ’ndrangheta è più forte: cosa nostra ha subito la forte repressione dello Stato successiva alle stragi, è stata scompaginata da tantissimi collaboratori di giustizia; la ’ndrangheta, invece, è stata meno investigata, la sua struttura familiare la rende meno vulnerabile, rende più difficile il pentitismo e, sotto l’aspetto criminale, la fa essere più affidabile di cosa nostra».

In cosa consiste l’“orizzontalità” della ’ndrangheta? Come funziona un’organizzazione criminale non verticistica?

«Nel ’91, con la “pace di Reggio Calabria”, che chiude la sanguinosa guerra degli anni precedenti, si crea una federazione tra le famiglie della Piana, della Locride e di Reggio i cui rappresentanti si riuniscono per decidere la spartizione degli affari e, quando questi riguardano l’intera regione, partecipano anche i rappresentanti delle famiglie delle altre province. A differenza di cosa nostra, dove la Cupola decideva tutto, qui ci si riunisce solo per gli interessi comuni e i grandi affari. La pace di Reggio, fra l’altro, sancisce la chiusura di tutte le faide. Per i figli di Giuseppe Grimaldi la pace è dura da digerire, il padre era stato ucciso, decapitato e la testa presa a fucilate e fatta rotolare in strada. I Grimaldi preferiscono emigrare a Genova e, dopo qualche anno, si pentono e mandano in galera i propri nemici»

La strage di Duisburg farebbe pensare alla fine della pace. O una strage all’estero – con quell’impatto mediatico – è ammissibile?

«Duisburg non è poi così lontana, “confina” con S. Luca. È a nordest di S. Luca. No, la pace non è finita. Però è vero che la Locride è il punto di maggiore sofferenza, dimostra l’incapacità della famiglia di S. Luca di governare il territorio, ed è un problema per tutta la ’ndrangheta.  Negli ultimi anni, abbiamo assistito a due fatti clamorosi che riguardano la Locride: l’omicidio di Francesco Fortugno e la strage di Duisburg. In entrambi i casi, una scelta diversa avrebbe dato significato diverso ai delitti: la strage di Duisburg non è frutto di necessità, potevano ucciderli uno alla volta, in momenti diversi; Fortugno, invece, se l’avessero ucciso un giorno prima o un giorno dopo, non sarebbe stata la stessa cosa. Assassinarlo il giorno delle primarie dell’Unione è una scelta politica. L’omicidio non è stato deciso a Locri, ma dalla cupola, saldando gli interessi della ’ndrangheta con quelli di ambienti della sanità, pubblica e privata, ma anche con ambienti e legami storici della “Santa”».

Cos’è la Santa?

«A metà degli anni Settanta la ’ndrangheta decise il suo ingresso nella massoneria. O meglio, lo decise in modo organizzato poiché pare che alcuni capibastone fossero già massoni. La decisione si accompagnò a una modificazione nella struttura di comando delle varie ’ndrine, utilizzata per creare una nuova denominazione, nuovi capi, nuove gerarchie: chi raggiungeva il grado di dantista era autorizzato a entrare nelle leggi massoniche. La ’ndrangheta, che prima era subalterna alla massoneria, decise di affrancarsi e di entrare in contatto diretto col mondo delle professioni e con gli interessi che erano direttamente rappresentati dalle logge. Per tre motivi: gli affari economici, la rappresentanza politica diretta, il rapporto coi magistrati».

Ovviamente, parliamo di logge massoniche riservate, coperte, non quelle ufficiali. Logge come la P2 di Licio Gelli.

«Un vero e proprio cambio di pelle, insomma; un cambio di ragione sociale che porta l’organizzazione ad avere rapporti diretti con la politica. E, storicamente, la ’ndrangheta ha una “colorazione” diversa da cosa nostra. La ’ndrangheta è sempre stata vicina alla destra, specie alla destra eversiva. Basti pensare ai moti di Reggio, alla partecipazione al golpe Borghese, alla protezione di Franco Freda, fuggito dopo il processo di Catanzaro per la strage di piazza Fontana; ma anche al coinvolgimento nel caso Moro o ai rapporti con la banda della Magliana. Nella Locride, dove la povertà era maggiore e forte il senso di abbandono da parte dello Stato, c’era una vicinanza al Pci, che però finì durante secondo dopoguerra. Da allora, i referenti politici della ’ndrangheta sono stati nella Dc e nel Psi e, dopo, in Forza Italia».

Facciamo un passo indietro. Che vuol dire che Duisburg confina con S. Luca?

«Semplice, vuol dire che dagli anni Sessanta in poi, oltre alla normale emigrazione, la ’ndrangheta ha spostato pezzi di cosche dalla Calabria alle città italiane e all’estero. E ormai le più importanti famiglie hanno due sedi».

Come Cutro e “Cutro due”, cioè Reggio Emilia?

«Esatto. Ma ciò accade in tante altre città, in Italia e all’estero. In tal senso Duisburg confina con S. Luca.»

Si spiega così il fatto che i due soli Consigli comunali sciolti per infiltrazioni mafiose, fuori dalle cosiddette aree tradizionali – Bardonecchia, in Piemonte, nel ’95; Nettuno, nel basso Lazio, nel 2005 – è coinvolta la ’ndrangheta?

«È la riprova della capacità di infiltrazione e di condizionamento dell’organizzazione».

E le sue proiezioni internazionali? Oggi la ’ndrangheta viene riconosciuta come l’organizzazione leader in Europa nel traffico di cocaina. In quali nazioni è radicata?

«La ’ndrangheta è presente in tutti i Paesi europei. Ma anche in Australia, Stati Uniti, Canada, America Latina».

E con le altre mafie, con quelle non italiane, che tipo di rapporti intrattiene?

«Solo rapporti finalizzati al traffico di droga. Niente che possa lontanamente somigliare a quello con cosa nostra di cui si parlava prima».

Nel ’93 un rapporto della Dia sosteneva che il 27 per cento della popolazione calabrese sarebbe in qualche modo coinvolta con la ’ndrangheta. Una percentuale abnorme, più di un quarto della popolazione. E poi c’è il fatto che la Calabria, per la sua conformazione, è fatta di Comuni piccoli e piccolissimi, molti dei quali sotto i mille abitanti. Ciò facilita la capacità di condizionamento?

«Che significa “coinvolta”? E poi, come si fa a quantizzare? A me sembra una percentuale spropositata. Però, al di là delle dispute numeriche, c’è l’altro aspetto che è fondamentale: la più grande città calabrese è Cosenza, 120mila abitanti, cioè quanto un quartiere di Palermo. Nei piccoli centri, cioè nella maggior parte dei Comuni calabresi, basta una decina di mafiosi per esercitare un controllo fisico, visivo delle persone, per condizionargli la vita».

Come succedeva a Calanna, mille abitanti, dove il boss locale, Giuseppe Greco, imponeva una sorta di jus primae noctis, prendendosi tutte le donne che gli piacevano. Greco, in una telefonata intercettata, si vantava anche di potere controllare come votava ogni cittadino, di potere “mettere le mani nelle urne”. Avviene così in ogni Comune?

«Be’, il controllo del voto non è una sua prerogativa e nemmeno della sola ’ndrangheta. Con la preferenza multipla lo facevano anche i partiti. Ma anche con la singola preferenza lo si può fare, trovando altri tipi di combinazioni: Mario Rossi, dottor Mario Rossi, Rossi dottor Mario e così via. E poi c’è la “scheda matta”. Ci si impossessa di una scheda elettorale, si esprime il voto di preferenza, la si dà all’elettore, che la deposita nell’urna e riporta la scheda cianca che gli è stata consegnata nel seggio, in modo che il mafioso possa votarla e consegnarla a un altro elettore…»

Sembra la sorte dei comunisti di oggi…

Vogliamo fare la storia e non subirla: al lavoro! Un milione di voti comincia ad essere un carico pesante per un Partito come il nostro, scrive Benito Mussolini, pubblicata Martedì 02/08/2016 “Il Giornale”. Bando alle illusioni e parliamoci chiaro, ora che il momento è opportuno. Che il Partito Socialista abbia condotto una buona battaglia e che i suoi sforzi siano stati coronati dal più lusinghiero successo, nessuno contesta più. È un fatto. Sono cifre. Ma... son dolori se il Partito crede o s'illude di aver compiuta l'opera spazzando via dalla scena politica parecchi rappresentanti della reazione dernier cri, e i dolori aumenteranno se la elezione di 53 deputati sembrerà a taluno giustificazione sufficiente per ricadere nell'inerzia fatalistica che ha seguito sempre ogni agitazione elettorale. Diciamo la verità, noi, prima degli stessi avversari: un milione di voti comincia ad essere un carico alquanto pesante per un Partito come il nostro. Noi abbiamo vinto un po' per virtù nostra, ma moltissimo per la debolezza dei Partiti che ci stavano di fronte, e per un complesso di circostanze a noi propizie. Sulle quali si potrà - a tempo opportuno - ragionare. Noi non sappiamo se in un'altra «congiuntura» per dirla con un tedeschismo, riusciremo a strappare una così brillante vittoria. E poiché i Partiti si organizzeranno come noi, formando gruppi e federazioni; poiché la storia - checché si possa dire in contrario - non si ripete, ma presenta sempre nuove situazioni di fatto e nuovi problemi, è necessario non abbandonarci ai facili entusiasmi cui seguono immancabilmente le dolorose sorprese. È necessario agguerrirci. È necessario agguerrire il Partito che è l'organo delle nostre conquiste politiche. Questo diciamo ai deputati vecchi e nuovi, i quali hanno dispiegato un'attività veramente encomiabile durante il periodo elettorale; questo diciamo ai propagandisti - illustri o no - del Partito che hanno corso in lungo e in largo l'Italia portando la parola del socialismo dalle città ai borghi, alle campagne; questo diciamo ai quarantamila inscritti del Partito che leggono, o dovrebbero leggere, le nostre parole. Noi diciamo che paragonato a ciò che resta da fare, il già fatto è poco. Noi sappiamo una cosa sola: che la piattaforma elettorale del Partito Socialista ha trovato quello che si direbbe un ambiente «simpatico», ma niente ci autorizza a ritenere che questo ambiente sarà lo stesso domani o non sarà invece indifferente o refrattario. Noi non possiamo fare eccessivo calcolo sulla massa elettorale e per ragioni intuitive: la nostra milizia è il Partito. Ora, riflettano bene i socialisti italiani, il pericolo che si delinea è uno solo: quello, cioè, che il Partito resti schiacciato sotto il pondo inaspettato delle sue stesse vittorie elettorali. Il caso non è nuovo nella storia e nella vita. Si può cadere toccando una meta, si può morire nell'atto di dare la vita, si può essere dei vinti vincendo. Dinanzi a tali eventualità, noi, come si vede, non indugiamo molto a lanciare il nostro grido d'allarme. Prima del suffragio universale accadeva spesso di udire tra i socialisti italiani frasi di questo genere: Ah se noi avessimo un milione di voti!...Ecco: il milione di voti c'è; e, forse, abbondante. Questa enorme massa elettorale ci ha creduto, ha riposto fiducia in noi e...aspetta. Ma noi saremo incapaci di realizzare uno solo dei postulati del nostro programma elettorale, se il Partito non raddoppierà almeno i suoi contingenti; se i quarantamila inscritti non diventeranno ottanta o centomila; se questo giornale non circolerà sempre più diffusamente fra le moltitudini che l'esperimento del 26 ottobre ha lanciato nel girone della vita politica. Un Partito come il socialista, non può rassegnarsi ad avere un'influenza meramente elettorale. Prima di tutto perché le elezioni non sono che un episodio preliminare di una più vasta attività politica; in secondo luogo perché nella vita dei popoli moderni ci sono avvenimenti dai quali - pena il suicidio - il Partito non può essere dominato o travolto. Il milione di voti che noi volevamo toccare e abbiamo toccato, è cagione di legittimo orgoglio, ma è anche di gravissima preoccupazione e responsabilità. Noi non possiamo più retrocedere, e nemmeno sostare. Alle prossime elezioni politiche - diciamo prossime perché è convincimento generale che la nuova legislatura non avrà lunga vita - se noi non aumenteremo ancora il numero dei voti, gli avversari ritorneranno a cantarci più noioso e insistente l'elogio funebre. E se i nostri voti diminuissero che cosa diventerebbero - nel ricordo - i funerali simbolici che noi abbiamo fatto nei giorni scorsi agli altri? Questi interrogativi ci dicono tutta la portata e l'«urgenza» del compito che il Partito è chiamato ad assolvere. Avanzare! questa è la parola d'ordine. Gli uomini moderni vanno in fretta più che i morti della ballata di Burger e noi socialisti abbiamo più fretta degli altri. Noi vogliamo vedere trasformarsi sotto ai nostri occhi la realtà e coll'opera delle nostre mani. Noi vogliamo «fare» la storia e non subirla. Incidere sulle istituzioni e sugli uomini che ci circondano sempre più profondo il segno della nostra volontà. Al lavoro! Al lavoro! La strada è aspra e la meta è lontana. 4 novembre 1913

I PROFESSIONISTI DELL'ANTIMAFIA

Una polemica scatenata dallo scrittore Leonardo Sciascia, scrive Giulia Grassi. Qualche anno prima di morire Paolo Borsellino, e tutto il pool antimafia di Palermo, sono stati coinvolti in una polemica nata da un articolo pubblicato sul "Corriere della Sera" del 10 gennaio 1987. L'articolo era intitolato "I professionisti dell'antimafia" e questa era la sua tesi di fondo: in Sicilia il modo migliore per fare carriera in politica e in magistratura è dichiararsi antimafioso, usare l'"antimafia come strumento di potere", come mezzo per diventare potenti ed intoccabili. Era firmato da Leonardo Sciascia, uno scrittore molto famoso per i suoi libri nei quali aveva parlato della violenza del potere mafioso, come il bellissimo "Il giorno della civetta". Tra gli esempi di professionisti dell'antimafia Sciascia citava proprio Paolo Borsellino, che qualche mese prima era diventato capo della Procura di Marsala al posto di un collega più anziano di età (evidentemente per la sua maggiore conoscenza del fenomeno mafioso). Probabilmente Sciascia voleva solo mettere in guardia contro il pericolo che qualche magistrato o politico disonesto potesse sfruttare la lotta alla mafia per i suoi interessi personali. Sicuramente lo scrittore era in buona fede ... ma citare Borsellino come "esempio attuale ed effettuale" di professionismo mafioso, insinuare il dubbio che il magistrato avesse fatto carriera grazie alla lotta alla mafia, è stato un errore, sfruttato abilmente dai nemici del pool. Anche i grandi intellettuali possono sbagliare. Per i 15 giorni successivi i giornali sono stati occupati da articoli contrari (pochi) e favorevoli (la maggior parte) allo scritto di Sciascia, che a sua volta ribadiva il suo pensiero in alcune interviste: "Ieri c'erano vantaggi a fingere d'ignorare che la mafia esistesse; oggi ci sono vantaggi a proclamare che la mafia esiste e che bisogna combatterla con tutti i mezzi" (Il Messaggero); il potere fondato sulla lotta alla mafia "è molto simile, tutto sommato, al potere mafioso e al potere fascista" (Il Giornale di Sicilia); "In nome dell'antimafia si esercita una specie di terrorismo, perché chi dissente da certi metodi o da certe cose è subito accusato di essere un mafioso o un simpatizzante" (Intervista al Tg2 - secondo canale TV). E Borsellino? Non ha mai replicato a Sciascia, mai. Giuseppe Ayala, un ex magistrato che ha lavorato con Falcone e Borsellino nel pool di Palermo, nel suo libro "La guerra dei giusti" (1993) cita una frase di Borsellino: "La risposta sarà il silenzio. Ho sempre ammirato Sciascia, e continuerò a farlo". Ma l'amarezza deve essere stata profonda. Un mese dopo l'assassinio di Falcone, e 23 giorni prima del proprio assassinio, Borsellino dichiarava: "Giovanni ha cominciato a morire tanto tempo fa. Questo paese, questo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciarono a farlo morire nel gennaio 1988, quando gli fu negata la guida dell'Ufficio Istruzione di Palermo. Anzi, forse cominciò a morire l'anno prima: quando Sciascia sul "Corriere" bollò me e l'amico Leoluca Orlando come professionisti dell'antimafia" (Palermo, 26 giugno 1992).

“Contro l’Antimafia”. Matteo Messina Denaro, l’invisibile, è il più potente boss di Cosa nostra ancora in libertà. È a lui che dalla radio della sua città, Marsala, si rivolge ogni giorno Giacomo Di Girolamo nella trasmissione Dove sei, Matteo?, ed è a lui che si rivolge in questo libro: stavolta, però, con un’agguerrita lettera di resa. Di Girolamo non ha mai avuto paura di schierarsi dalla parte di chi si oppone alla mafia. Ma adesso è proprio quella parte che gli fa paura. Ha ancora senso l’antimafia, per come è oggi? Ha avuto grandi meriti, ma a un certo punto è accaduto qualcosa. Si è ridotta alla reiterazione di riti e mitologie, di gesti e simboli svuotati di significato. In questo circuito autoreferenziale, che mette in mostra le sue icone – il prete coraggioso, il giornalista minacciato, il magistrato scortato – e non aiuta a cogliere le complesse trasformazioni del fenomeno mafioso, si insinuano impostori e speculatori. Intorno all’antimafia ci sono piccoli e grandi affari, dai finanziamenti pubblici ai «progetti per la legalità» alla gestione dei beni confiscati, e accanto ai tanti in buona fede c’è chi ne approfitta per arricchirsi, per fare carriera o per consolidare il proprio potere, in nome di un bene supremo che assolve tutto e tutti. Non è più questione di «professionisti dell’antimafia»: oggi comanda un’oligarchia dell’antimafia, e chiunque osi metterla in discussione viene accusato di complicità. Di Girolamo scrive allora a Matteo Messina Denaro. Scrivere al grande antagonista, al più cattivo dei cattivi, è come guardarsi allo specchio: ne emerge, riflessa, l’immagine di una generazione disorientata, che assiste inerme alla sconfitta di un intero movimento, alla banalità seriosa e inconcludente delle lezioni di legalità a scuola, alle derive di un giornalismo più impegnato a frequentare le stanze del potere, politico o giudiziario, che a raccontare il territorio. Contro l’antimafia è un libro iconoclasta, amaro, che coltiva l’atrocità del dubbio e giunge a una conclusione: per resistere alle mafie serve ripartire da zero, abbandonando la militanza settaria per abbracciare gli strumenti della cultura, della complessità, dell’onestà intellettuale, dell’impegno e della fatica.

Giacomo Di Girolamo, giornalista, si occupa di criminalità organizzata e corruzione per il portaleTp24.it e per la radio Rmc 101. Collabora con Il Mattino di Sicilia, la Repubblica e Il Sole 24 Ore. È autore della biografia del boss Matteo Messina Denaro L’invisibile (2010), di Cosa Grigia (il Saggiatore 2012, finalista al premio Piersanti Mattarella) e Dormono sulla collina (il Saggiatore 2014). Per le sue inchieste ha vinto nel 2014 il Premiolino.

L’atto d’accusa contro l’antimafia di Di Girolamo, scrive Antonino Cangemi il 23 febbraio 2016. La babele dell’antimafia –folta, eterogenea, ambigua, la carovana degli antimafiosi, e legata a centri di potere talvolta di per sé non cristallini, tal’altra insospettabili– impone riflessione e indignazione. Una riflessione indignata ce la offre Giacomo Di Girolamo nel suo ultimo libro, “Contro l’antimafia”, edito da Il Saggiatore. Giacomo Di Girolamo non è uno qualsiasi. E’ un giornalista che, da un’emittente del Trapanese, conduce da tempo, senza tanti compagni di ventura, un monologo dedicato a Matteo Messina Denaro, tuttora primula rossa di Cosa nostra, di cui pare essere divenuto il numero uno. Lo segue in tutti i suoi passi, ossessivamente, dalla sua radio. Lo interroga, gli chiede spiegazioni, lo tallona, lo incalza, ricordandogli le tappe della sua escalation criminale. D’altra parte, pochi, nel mondo della carta stampata, conoscono Messina Denaro come Giacomo Di Girolamo, che al boss di Castelvetrano ha dedicato una biografia, oggi, chissà perché, introvabile, ricca di dettagli e di particolari, “L’invisibile” (Editori Riuniti, 2010). In quella biografia, Di Girolamo si rivolgeva al capomafia dandogli del tu, senza alcuna remora. In “Contro l’antimafia” –che segue altri interessanti saggi, anch’essi editi da Il Saggiatore, “Cosa grigia”, “Dormono sulla collina, 1969-2014” – Di Girolamo continua a rivolgersi all’interlocutore di sempre, Matteo Messina Denaro, e ancora dandogli del tu. Ma questa volta il giornalista spavaldo, aggressivo, sprezzante, cede il passo –apparentemente- al cronista, vinto dalla malinconia, che ammette la propria sconfitta. Il cronista che, come tantissimi della sua generazione, dalle stragi di Falcone e Borsellino, aveva individuato un nemico terribile, malefico, diabolico –la mafia- e contro di esso aveva speso ogni energia, e che ora si rende conto che – Matteo Messina Denaro ancora libero e professionisti dell’antimafia, giorno dopo giorno, smascherati nelle loro pantomime- Cosa nostra è sempre più salda e il fronte antimafia sempre più contraddittorio e fumoso. “Contro l’antimafia” è un libro scomodo, dissacratorio, impertinente – come nello stile di Di Girolamo -, non fa sconti a nessuno, rivela verità palesi e occulte, punta i riflettori sul panorama, variegato e non di rado sinistro, dell’antimafia in doppiopetto, col piglio del giornalismo investigativo e con le lenti di un sociologismo accorto. Le denunce di Di Girolamo, tuttavia, per quanto accompagnate da un’accorata e dolorosa autocritica – che rinvia alle osservazioni profetiche di Sciascia- e da un lancinante e sofferto pessimismo, hanno in sé quella potenza reattiva che, lungi dall’invitare a demordere, esorta implicitamente, pur nella consapevolezza delle tante zone grigie dell’antimafia, a duplicare il proprio impegno. Esorta quelli che ci credono davvero, naturalmente; non altri.

CONTRO L’ANTIMAFIA. Recensione di Nino Fricano. Un libro rischioso, che provocherà durissime reazioni. Ci saranno tonnellate di mugugni “privati” contro questo libro, ci saranno incazzature, indignazioni, imprecazioni. Ci sarà poi una bolgia “pubblica” sui social network, ci saranno interventi sui giornali, probabilmente fioccheranno querele, e chissà cos’altro ancora. Ma il rischio maggiore è un altro, argomentano quelli che già hanno cominciato a scagliarsi contro questo libro (almeno quelli che argomentano, molti altri insultano e basta). Il rischio maggiore è quello di contribuire a delegittimare l’antimafia “per principio”, “a prescindere”, “fare di tutta l’erba un fascio”, “buttare via il bambino con l’acqua sporca”, “il cesto di mele e le mele marce”, “alimentare la macchina del fango”, e così via di luoghi comuni.

Non puoi denunciare così, senza concedere attenuanti, le tante piccole grandi magagne dell’antimafia. Le tante piccole grandi cose-che-non-vanno nell’antimafia, le sue vanità, i suoi egoismi, le sue idiozie, le sue vigliaccate, le sue furberie, le sue prese in giro, le sue arrampicate, i suoi affarismi, i suoi personaggi turpi e disonesti, le sue truffe allucinanti, incredibili. Roba che cadono le braccia a terra, che c’è da strapparsi i capelli, sbattersi la testa contro il muro. Non puoi farlo, dicevamo, perché la gente rischia di generalizzare. Non puoi attaccare così duramente l’antimafia perché questa rischia di perdere la sua credibilità e quindi la sua efficacia. Il problema però è che l’antimafia – o forse è meglio dire “il movimento antimafia”, o meglio ancora “la parte maggioritaria e più visibile e più arrivista del movimento antimafia” – ci è riuscita da sola, a perdere la propria credibilità e la propria efficacia. E l’autore lo dimostra offrendoci lo scorcio giusto, mettendo a fuoco il panorama, riunendo e collegando – cioè – le ultime notizie, gli ultimi scandali, le ultime oscenità, le ultime nostre amarissime sconfitte. È un tunnel dell’orrore. Ci sono dirigenti regionali che gestiscono beni sequestrati con logiche privatistiche e affaristiche, di sfruttamento e arricchimento personale. Ci sono amministratori delle aziende sequestrate che se ne fregano della buona gestione, che affamano il territorio, che fanno fallire le aziende sequestrate, che lasciano in mezzo alla strada 72mila lavoratori in tutta Italia. Ci sono sindaci e imprenditori che fanno proclami antimafia e poi vengono beccati a braccetto con i mafiosi. Ci sono soggetti che cavalcano le intimidazioni subite, vere o presunte, per fare affari spudoratamente, arrivando perfino a truffare sui finanziamenti ricevuti. C’è il business del progetto per la legalità. C’è il business del terreno confiscato. C’è il business della costituzione di parte civile. Ci sono i professionisti di questo grottesco business: presidi, insegnanti, ragionieri, avvocati, azzeccagarbugli, faccendieri, traffichini, intrallazzatori. E poi ci sono le cooperative antimafia, le associazioni antimafia, le manifestazioni antimafia, i comitati antimafia, i politici antimafia, i giornalisti antimafia, gli artisti antimafia. C’è l’utilizzo dell’etichetta di antimafia per portare avanti operazioni poco pulite e senza nessun controllo. C’è l’utilizzo dell’antimafia come un qualunque altro strumento della lotta politica e affaristica, e dunque una cosa come un’altra, una cosa qualunque, che può servire – come tutte le cose qualunque, in questa irrimediabile e irredimibile terra – a perseguire interessi più o meno leciti. E questi sono i furbi, i profittatori, che possono essere di grosso calibro e di piccolo calibro, spostandosi lungo l’asse che va dal semplice accattonaggio da miserabili fino alla delinquenza vera e propria, la delinquenza da delinquenti, il tutto condito da una evidente dose di sciacallaggio. Poi però ci sono i cretini, gli utili idioti. Ci sono anche loro, non mancano mai di questi tempi. Sono quelli che portano avanti un’antimafia fatta di vuote celebrazioni, manicheismo ottuso, cori da stadio, retorica, slogan. Nessuno spirito critico, nessun ragionamento, nessuna intelligenza, nessuna voglia di abbracciare la complessità del reale, nessun interrogarsi sul reale, nessuna voglia di comprendere il reale. Soltanto un insieme di dogmi, santini e ritualità. Un campo dove tutto diventa idolo, icona. E le icone, si sa, sono entità cristallizzate e iperuraniche, astrazioni incapaci di dialogare con il presente e con il concreto. Le icone sono soprammobili che si mettono su un ripiano che non dà fastidio a nessuno e sono destinate a riempirsi di polvere. Le icone sono inutili, e nel campo dell’antimafia ridurre a icone Falcone e Borsellino, Peppino Impastato e Libero Grassi, ad esempio, è più che inutile, è dannoso. Dunque, i profittatori e i cretini. Due facce della medaglia. E la medaglia è il fallimento dell’antimafia. Una cosa buona avevamo in Italia, verrebbe da dire, e abbiamo rovinato pure quella. Perché è avvenuto come uno sfasamento tra mafia e antimafia. Un processo che adesso è giunto a una fase cruciale. Se la mafia, dopo le stragi del ’92/’93 ha cambiato pelle (per l’ennesima volta nella sua storia), si è resa invisibile, liquida, meno radicata nel territorio, globalizzata e finanziaria, l’antimafia si è invece istituzionalizzata, è diventata tronfia, vuota e retorica, si è incancrenita, e molti suoi settori sono finiti in mano alla sconfortante fauna umana descritta in precedenza: sciacalli, furbi, profittatori, accattoni, delinquenti, cretini e utili idioti. Una fauna così ingombrante, chiacchierona, rumorosa – per motivi di interesse o per semplice idiozia – che rischia di seppellire definitivamente tutti i soggetti e le realtà associative che nell’antimafia avrebbero invece qualcosa di buono da dire e da fare, energie da spendere in modo utile, innovazioni e speranza da donare. Questo processo di sfasamento, di traiettorie inverse e intrecciate tra mafia e antimafia, conduce al paradosso di un’antimafia che lotta, o meglio finge di lottare, contro una mafia che non esiste più, con mille distorsioni di conseguenza. Questa la portata storica di questo libro qui. Un libro amarissimo, terribile. Un libro personalissimo, uno sfogo di uno che “c’è dentro”, una critica all’antimafia da parte di uno che fa antimafia e quindi, in qualche modo, anche una sorta di autocritica, ma anche un documento di rilevanza storica, che fotografa un ben preciso fenomeno collettivo.

Un libro che non è solo un’inchiesta giornalistica, però, che non parla soltanto di mafia, politica ed economia, ma che analizza anche un fenomeno “culturale” con passione e autorevolezza, un fenomeno che riguarda la semantica e la narrazione dell’antimafia, e più in generale la violenza e la disonestà intellettuale, la faziosità e l’intolleranza, la pigrizia e il dilettantismo che cova sotto i dibattiti pubblici dei giorni nostri. Un libro inoltre che presenta alcune tra le suggestioni più potenti in cui mi sia imbattuto negli ultimi anni (i Moai dell’Isola di Pasqua), racconti efficacissimi e strazianti (i dipendenti licenziati dal gruppo 6Gdo che emergono dal silenzio come fantasmi), pagine – insomma – di altissima letteratura. L’autore è Giacomo Di Girolamo, classe 1977, credo il migliore giornalista che ci sia in Sicilia. È uno che da vent’anni, tutti i giorni, si sporca le mani con l’informazione locale. Ha fondato e diretto un notiziario online in provincia di Trapani, conduce una trasmissione in radio (“Dove sei Matteo?”, sulle tracce di Messina Denaro), collabora con numerose testate tra cui Repubblica e Il Sole 24 Ore, ha scritto libri magnifici tra cui la prima autobiografia di (di nuovo) Matteo Messina Denaro. È un giornalista di provincia che non è mai provinciale, ha una visione chiara e luminosa delle cose, frutto di quasi vent’anni di informazione attenta, quotidiana, sul territorio. Cronache, interviste, opinioni, inchieste. Il suo “essere” antimafia è un “fare” antimafia. Il suo fare antimafia, il suo essere molto probabilmente il più grande esperto di Matteo Messina Denaro in Italia, è la logica conseguenza della sua quotidiana attività di informazione. È un giornalista che racconta la mafia e che quindi fa antimafia. E per questo può permettersi un libro come questo, sull’antimafia, contro l’antimafia. Un libro rischioso ma anche tremendamente coraggioso. E onesto. E importante. Di Girolamo, infine, è secondo me un personaggio emblematico anche per altre ragioni. È uno che vive sulla sua pelle i prezzi da pagare che ci sono per chi vuole raccontare la realtà che lo circonda in un contesto come quello della Sicilia e della provincia siciliana. E cioè, come ha scritto una volta su Facebook: “Ex amici che non ti salutano più, persone che ti odiano, tifosi di questo o quel politico che ti insultano; querele e citazioni ad ogni piè sospinto, via via sempre più pretestuose; minacce che arrivano a me, alla redazione, alle persone a me vicine, telefonate anonime, biglietti con le croci, incontri ravvicinati”. D’altronde Sciascia lo diceva tanti decenni fa, e le cose almeno da questo punto di vista non sono cambiate di tanto: “Lo scrittore in Sicilia è un delatore, un traditore, che racconta cose che l’opinione comune preferisce restino sotto un silenzio carico di commiserazione”.

Giacomo Di Girolamo il 20 maggio 2014 su “Facebook". Sono stanco di chi usa l'antimafia per conservare potere o per fare carriera. Non abbiamo bisogno di un'antimafia un tanto al chilo, fatta di simboli, di gestione di grandi e piccoli affari in nome del bene supremo che tutto assolve. Abbiamo bisogno di un'antimafia che semini dubbi, che ponga ragionamenti, dia contenuti. E siccome mi sono stancato davvero, ho deciso da un po' di tempo a questa parte che questa cosa l'andrò ripetendo ovunque ci sarà l'occasione, anche a costo di apparire più stronzo o più pazzo di quello che già sembro di mio. Non serve a cambiare le teste quadrate, perché le truppe dell'antimafia sono ben istruite dai leader di turno come una setta di Mamma Ebe e tutto assorbono senza colpo ferire e rispondendo a tono con qualche frase del vangelo di Falcone e Borsellino appena c'è un minimo di dissenso rispetto all'antimafioso pensiero dominante. Però serve, da giornalista e cittadino libero, ancora una volta, per dare un senso ad un mestiere. Parlate di mafia, parlatene ovunque, diceva lo stracitato Borsellino (del quale si conoscono i versetti principali, come Maometto...). Siccome tutti, dalle parti dell'antimafia, si divertono a completare l'assioma: ah, se Falcone fosse vivo, oggi..., ah, se Borsellino fosse vivo, oggi...Mi ci metto anch'io. Se Borsellino fosse vivo oggi, direbbe anche: parlate di antimafia, parlatene ovunque. Ecco perché lo faccio. E lo ripeto ancora una volta: oggi l'antimafia ha ragione d'essere se è antimafia di cultura, di saperi, di formazione, di studio, di analisi, di tutto ciò che richiede attenzione, tempo, fatica.

"Contro l’antimafia". Il nuovo libro di Giacomo Di Girolamo. Sia maledetta questa luce derisoria, che si prende gioco di noi: non ve lo meritate tutto questo – sembra dire – non ve lo meritate. Pubblichiamo il prologo del nuovo libro di Giacomo Di Girolamo, Contro l’antimafia, edito dal Saggiatore. Qui l’autore ne parla con Attilio Bolzoni.

Io non ho mai avuto paura. Adesso sì. Sia maledetto Goethe. Sia maledetto tutto, di quel suo viaggio in Sicilia, dalla nave che lo portò a Palermo al taccuino su cui prese appunti: «il posto più stupendo del mondo», «l’unità armonica del cielo con il mare», «la purezza dei contorni». Siano maledetti tutti i viaggiatori d’Occidente, che hanno parlato di «capolavoro della natura», «divino museo d’architettura», «nuvola di rosa sorta dal mare». Siano maledetti i paesaggi da cartolina. Le cartoline, no. Quelle non c’è bisogno di maledirle, già non esistono più. Siano maledette, però, tutte le immagini sui social, i paesaggi su Instagram, i gruppi su Facebook del tipo «Noi viviamo in paradiso». Siano maledetti i tramonti sul mare. Sia maledetta la bellezza. Sia maledetta la luce nella quale siamo immersi, che sembra una condanna. Sia maledetta questa luce derisoria, che si prende gioco di noi: non ve lo meritate tutto questo – sembra dire – non ve lo meritate. Sia maledetto tu, Matteo Messina Denaro. Ancora una volta: che tu sia maledetto. Perché tu e i mafiosi come te ci avete condannati a non poter godere di tutto questo, a non meritare davvero il paradiso nel quale viviamo. Troppa violenza, sotto questo cielo. Troppo dolore. A che serve avere il paradiso, se ogni giorno va in scena l’inferno? Sia maledetto Goethe. Non avrebbe dovuto scriverci il diario di viaggio, in Sicilia, ma ambientare la tragica storia del Dottor Faust, in questo proscenio di nebbie e di vapori invisibili. Tu sei il diavolo, Matteo, a te abbiamo venduto l’anima. Sia maledetta la mafia, che tu rappresenti come ultimo padrino ancora in circolazione, latitante dal 1993. Sia maledetta Cosa nostra, Totò Riina e chi ne ha eseguito gli ordini di morte, i Corleonesi e la tua famiglia, che dal piccolo borgo di Castelvetrano ha costruito un impero fondato sul sangue, che mi fa vergognare di essere tuo conterraneo. Io non ho paura di te, Matteo. Ti conosco ormai come un fratello maggiore. So tutto di te, tranne dove sei. Non mi ha mai fatto paura raccontare la tua violenza, gli omicidi, quelli commessi dalla tua gente, i vostri affari sporchi, dalle estorsioni agli appalti truccati… Questo di mestiere faccio: raccontare quello che vedo, e anche se sei invisibile ti vedo e ti vedo sempre, Matteo. Mi guardo intorno e scrivo. Guardo le persone negli occhi e poi racconto il loro sguardo alla radio. Seguo i tuoi passi e scrivo. E sorrido. Sorrido per prendermi gioco della luce che non mi merito, sorrido perché penso di essere anche io un tassello della tua storia; anche io faccio parte del tuo indotto. Come le famiglie dei carcerati: senza la distribuzione dei soldi delle estorsioni, come camperebbero? Per me vale un po’ la stessa cosa: senza di te, Matteo, di cosa mi occuperei? Io non ho mai avuto paura. Adesso sì. Senti, mi dicono, perché non fai una nuova edizione di quel tuo libro su Matteo Messina Denaro? Va ancora alla grande, lo leggono i ragazzini, lo adottano nelle scuole. Che coraggio che hai avuto, a scrivere quel libro, tu che ti rivolgi al boss, questa conversazione senza peli sulla lingua. Tanta ferocia messa nero su bianco. E allora perché non lo riprendi, questo bel libro, lo aggiorni, ci aggiungi altre quattro-cinque cose? Già, perché non lo faccio, Matteo? Quante cose so di te che ancora non ho scritto? Io sono quello che ti chiama ogni giorno, per nome, alla radio. C’è il jingle che fa «Dove sei, Matteo?», e poi la mia voce che dà un indizio, a volte un fatto di cronaca, a volte uno scoop, a volte un modo un po’ paraculo di arrivare comunque a te («Oggi comincia la scuola, e allora perché non ricordiamo gli studi di Matteo Messina Denaro…»). La nostra conversazione non si è mai interrotta, Matteo, continua ogni giorno. Solo che non ha più senso parlare di te, della tua stramaledettissima vita criminale. Qui voglio parlare d’altro. Della mia paura. E ho bisogno di capire. Ho bisogno di parlarti di quello che succede su un fronte che non è il tuo, in quella che chiamano antimafia. Di cosa è diventata la lotta alla mafia oggi, quali mostri ha generato, quali storture si nascondono sotto l’ombrello della legalità. Ti scrivo per raccontarti questa mia paura: che la parte che ho sempre creduto giusta alla fine si sia trasformata in qualcos’altro, un luogo di compromessi al ribasso, di piccole e grandi miserie, di accordi nell’ombra per spartirsi soldi e potere. E a volte mi sembra come una piccola mafia. Ho sempre lottato da una parte. Sono nato un sabato di maggio del 1992. Da allora ho sempre lottato da una parte. E adesso è proprio quella parte che mi fa paura. Ti scrivo per sapere magari da te, che sei il male, chi sono i buoni, dove sono i buoni. E per capire come mai, in questa fogna del potere che è la mia terra, quelli che dovrebbero essere i buoni, perché tali si proclamano, perché mi hanno insegnato così, perché da qualche parte sta scritto che è così, alla fine, sembrano assomigliarti davvero tanto, Matteo. Che differenza c’è tra la legalità e questa pantomima della legalità che abbiamo messo in scena? Devo rifare i conti con tutto. Prima di tutto con me stesso. I dannati siamo noi. Mi sento come un vampiro. Scappo dalla luce, evito gli specchi. Ho paura di vedermi, di non riconoscermi più. E allora questa è una lettera di resa. Tu hai vinto, Matteo. E non solo per la sfrontatezza della tua latitanza o per il nuovo patto criminale che hai orchestrato, e che oggi coinvolge interi settori della classe dirigente e della borghesia «impegnata» del nostro paese. Hai vinto perché, più o meno inconsapevolmente, hai fatto in modo che nasca un senso di nausea ogni volta che si parla di antimafia, il tarlo del sospetto: dov’è la fottuta? Dove i tradimenti, i rospi da ingoiare, in nome di «supreme ragioni»? Hai vinto per questo, Matteo, perché abbiamo fatto dell’Italia-Sicilia, e della Sicilia, un pantano. Perché in tanti ti hanno venduto l’anima, pur di ottenere un brandello di potere; ma ne conosco molti – più bestie di qualunque bestia – che te l’hanno addirittura regalata. E sempre più spesso non me li trovo di fronte, me li trovo accanto. Sia maledetta la mafia. Sia maledetta l’antimafia. Sia maledetto anche io.

Giampiero Mughini per Dagospia il 5 giugno 2016. Caro Dago, sarà perché non ho una grande opinione di tutto quanto attiene alla produzione editoriale fatta all’insegna dell’ “antimafia”, una vera e propria industria con le sue star e i suoi professionisti e i suoi occupati a pieno tempo, fatto è che appena l’ho visto citato su “Il”, il supplemento mensile de “Il Sole 24 ore” diretto da Christian Rocca, mi sono precipitato a leggere questo ultimo libro di Giacomo Di Girolamo (edito dal Saggiatore) che ha per titolo “Contro l’antimafia”. Un titolo leccornia per le mie orecchie. Un libro che sto leggendo con molto piacere e curiosità. Non conosco di persona Di Girolamo, che ha poco meno di quarant’anni, vive a Marsala e di mestiere fa il giornalista, il mestiere di chi va a vedere di persona, e cerca i dati e li mette assieme, e incontra le persone e le interroga con le domande giuste. A Marsala, in Sicilia, dove la mafia non è un’astrazione letteraria ed è di mafia che Di Girolamo si occupa da free lance. Lavora alla radio Rmc101, collabora ad alcuni quotidiani. Se capisco bene è uno che lavora alla maniera di Giancarlo Siani, il giornalista napoletano che si suicidò da quanto si reputava inerme nella sua lotta solitaria contro la camorra; alla maniera di Alessandro Bozzo, un giovane giornalista calabrese che si occupava di criminalità e che si suicidò nel 2013; alla maniera di Giuseppe Impastato macellato dalla mafia siciliana come ormai tutti voi sapete. Da quel che leggo Di Girolamo ne sa benissimo di mafia, e soprattutto di Matteo Messina Denaro, l’imprendibile primula rossa della mafia siciliana. Su di lui aveva scritto nel 2010 un libro pubblicato dagli Editori Riuniti che venne ristampato più volte e di cui non gli hanno mai pagato una sola copia. Per dire della sua vita a Marsala, i portinai del palazzo dove abita non lo salutano più da quando hanno saputo che Di Girolamo riceve continuamente minacce epistolari dai mafiosi. Non essendo una star dell’“antimafia” mi pare di capire che la vita professionale dell’ottimo Di Girolamo sia grama. A un quotidiano a tiratura nazionale cui aveva offerto la sua collaborazione, gli hanno risposto che gli avrebbero pagato un articolo lungo 11 euro e un articolo breve 6 euro. Da quanto leggo nella redazione di Rmc 101 dove Di Girolamo va tutti i giorni non c’è protezione alcuna, e chiunque potrebbe salir su in qualsiasi momento del giorno a fare quello che hanno fatto a “Charlie Hebdo”. Non mi pare, a meno che non abbia letto male, che Di Girolamo abbia la benché minima scorta. E perché mai del resto? Mica è una star, un’icona, un celebrato eroe televisivo dell’ “antimafia” 24 ore su 24? E adesso continuo a leggere il suo bel libro. Giampiero Mughini.

Senza dimenticare i misteri d'Italia.

4 agosto 1974: la strage del treno Italicus. Italicus: segreto di Stato? Fu apposto nel 1982, ma tolto nel 1985. Nell’anniversario della strage del treno si torna a parlare delle norme che tolgono il segreto di Stato. In realtà la lenta desecretazione incide poco sulla ricerca della verità, scrive Valeria Palumbo il 4 agosto 2016 su “Il Corriere della Sera.” Nella notte tra il 3 e il 4 agosto 1974 il treno espresso 1486 “Italicus” stava viaggiando da Roma a Monaco di Baviera. Alle ore 1.23 mentre attraversava la galleria di San Benedetto Val di Sambro, in provincia di Bologna, una bomba ad alto potenziale esplose nella quinta carrozza. I morti furono 12, i feriti 44. Tra le vittime anche un giovane ferroviere di 24 anni, Silver Sirotti, che era sopravvissuto alla bomba, ma morì cercando di salvare i passeggeri dal terribile rogo che si era sviluppato. A Sirotti, già medaglia d’oro al valor civile, il 4 agosto 2016, è stato intitolato un parco a Forlì, la sua città (in via Ribolle): il sindaco e i familiari hanno partecipato alla cerimonia commemorativa. I colpevoli della strage non sono stati mai individuati, ma la Commissione parlamentare sulla loggia P2 scrisse negli atti che: «La strage dell’Italicus è ascrivibile ad un organizzazione terroristica di ispirazione neofascista o neonazista operante in Toscana»; che «la loggia P2 è quindi gravemente coinvolta nella strage dell’Italicus e può ritenersene addirittura responsabile in termini non giudiziari ma storico-politici quale essenziale retroterra economico, organizzativo e morale». Il processo si concluse con l’assoluzione generale di tutti gli imputati. Ma soprattutto, a differenza di altre stragi (con cui condivide piste, depistaggi e inchieste infinite e mai conclusive), per quella dell’Italicus fu effettivamente posto il segreto di Stato: a proposito di Claudia Ajello, che fu sentita parlare della strage da una tabaccaia, e che lavorava per il Sid, l’allora servizio segreto italiano. Fu rinviata a giudizio per falsa testimonianza, prima condannata e poi assolta. Ma ciò che interessa è che l’informativa chiesta dal tribunale di Bologna ai Servizi segreti conteneva alcuni omissis. Il 14 maggio 1982 il tribunale chiese una copia integrale del testo; Nino Lugaresi, allora capo del Sismi (che nel 1977 aveva sostituito il Sid), rispose che le parti mancanti erano coperte dal segreto di Stato. La questione fu girata all’allora presidente del Consiglio, il repubblicano Giovanni Spadolini, che, in settembre, confermò il segreto. Nel 1985, però, come annunziò il Corriere della Sera in prima pagina il 5 febbraio (e richiamo in quarta), il premier Bettino Craxi fece togliere il segreto sugli omissis per l’Italicus e per Piazza Fontana. Emerse che l’Ajello era infiltrata negli ambienti degli esuli greci: proprio nel 1974, a seguito della guerra per la questione di Cipro, cadde la giunta dei colonnelli greci, che, come è emerso più volte, interessavano molto i nostri servizi segreti. Questo però risultò ininfluente per la strage dell’Italicus e la faccenda finì lì. Quindi oggi non dovrebbero esistere altri documenti inediti sull’attentato al treno, oscurati dal segreto di Stato. In realtà la relativa inutilità della rimozione anticipata del segreto di Stato, voluta dal premier Mateo Renzi nella primavera del 2014, era già stata sottolineata allora. Il segreto non era già opponibile ai magistrati sui fatti di strage, di mafia e di eversione dell’ordine democratico. Con la legge 124 del 2007, che segnava l’ennesima riforma dei servizi segreti, si stabiliva che il segreto sarebbe stato a tempo e ci sarebbe stata un progressivo slittamento dei livelli di classificazione (segretissimo-segreto-riservatissimo-riservato). In realtà non sono mai stati completati i regolamenti attuativi. Fu questo che, nel 2014, gli esperti chiesero al premier, oltre alla pubblicità di dove siano gli archivi.

Italicus: una strage, un treno, tanti binari, scrivono Paolo Rastelli e Silvia Morosi su “Il Corriere della Sera” tratto da “Poche Storie” il 4 agosto 2016. Agosto. Improvviso si sente un odore di brace. Qualcosa che brucia nel sangue e non ti lascia in pace, un pugno di rabbia che ha il suono tremendo di un vecchio boato: qualcosa che urla, che esplode, qualcosa che crolla. Un treno è saltato (Claudio Lolli, “Agosto”, 1976). Attorno all’una di notte del 4 agosto 1974, all’uscita dalla galleria degli Appennini, nei pressi della stazione di San Benedetto Val di Sambro (Bologna), un ordigno ad alto potenziale esplode nella quinta vettura del treno Espresso 1486 Italicus, diretto a Monaco di Baviera. Il punto, vale la pena ricordarlo, è lo stesso dove a distanza di dieci anni, il 23 dicembre 1984, si verificherà la strage del Rapido 904 o strage di Natale, ai danni del rapido proveniente da Napoli e diretto a Milano. L’attentato dell’Italicus, che provoca la morte di dodici viaggiatori e il ferimento di circa 50 persone (se la bomba fosse esplosa in galleria, la strage sarebbe stata ben peggiore), viene rivendicato con un volantino nel quale si legge: «Abbiamo voluto dimostrare alla nazione che siamo in grado di mettere le bombe dove vogliamo, in qualsiasi luogo, dove e come ci pare […] seppelliremo la democrazia sotto una montagna di morti». Una delle vittime, Silver Sirotti, ferroviere 25enne, era uscito incolume dall’esplosione, ma imbracciò un estintore e risalì sulla carrozza devastata salvando molte vite, prima di essere sopraffatto da fiamme e fumo. Racconta un testimone della strage: «Il vagone dilaniato dall’esplosione sembra friggere, gli spruzzi degli schiumogeni vi rimbalzano su. Su tutta la zona aleggia l’odore dolciastro e nauseabondo della morte». I due agenti di polizia che hanno assistito alla sciagura raccontano: «Improvvisamente il tunnel da cui doveva sbucare il treno si è illuminato a giorno, la montagna ha tremato, poi è arrivato un boato assordante. Il convoglio, per forza di inerzia, è arrivato fin davanti a noi. Le fiamme erano altissime e abbaglianti. Nella vettura incendiata c’era gente che si muoveva. Vedevamo le loro sagome e le loro espressioni terrorizzate, ma non potevamo fare niente poiché le lamiere esterne erano incandescenti. Dentro doveva già esserci una temperatura da forno crematorio. ‘Mettetevi in salvo’, abbiamo gridato, senza renderci conto che si trattava di un suggerimento ridicolo data la situazione. Qualcuno si è buttato dal finestrino con gli abiti in fiamme. Sembravano torce. Ritto al centro della vettura un ferroviere, la pelle nera cosparsa di orribili macchie rosse, cercava di spostare qualcosa. Sotto doveva esserci una persona impigliata. ‘Vieni via da lì’, gli abbiamo gridato, ma proprio in quel momento una vampata lo ha investito facendolo cadere accartocciato al suolo» (da “Gli anni del terrorismo” di Giorgio Bocca). Il 1974 è l’anno che molti storici identificano con l’inizio dei cosiddetti «anni di piombo», teatro, purtroppo, di omicidi mirati, attentati, stragi. Da Pasolini, a Moro, da Piazza della Loggia alla Stazione di Bologna. I processi instauratisi a seguito della strage sono stati caratterizzati da esiti diversi. Gli imputati, appartenenti a gruppi dell’estremismo di destra aretino, vengono dapprima assolti per insufficienza di prove, poi condannati in grado di appello e, infine, definitivamente assolti nel 1993. Uno degli imputati, Mario Tuti, si rende peraltro autore – durante le indagini sulla strage – degli omicidi del brigadiere Leonardo Falco e dell’appuntato Giovanni Ceravolo (che stavano procedendo a perquisizione nella sua casa) nonché, dopo l’arresto per tali delitti, dell’omicidio di uno degli imputati che in primo grado erano stati condannati per la strage di piazza della Loggia a Brescia, e che veniva ritenuto disposto a collaborare. Secondo la Relazione che il ministro degli Interni Paolo Emilio Taviani tenne durante la seduta parlamentare di lunedì, 5 agosto 1974: I primi rilievi tecnici eseguiti dal personale della direzione di artiglieria e dai vigili del fuoco, basati anche sul ritrovamento di un fondo di sveglia con applicati due contatti, lasciano supporre che si sia trattato di un ordigno a tempo, caricato con notevole dose (tra i tre e i quattro chilogrammi) di tritolo. La Cassazione, pur confermando l’assoluzione degli estremisti di Arezzo per la strage sul treno Italicus, ha peraltro stabilito che l’area alla quale poteva essere fatta risalire la matrice degli attentati era «da identificare in quella di gruppi eversivi della destra neofascista». A simile conclusione era pervenuta anche la relazione di maggioranza della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica “Propaganda 2″ (più nota come P2), richiamata anche in elaborati della Commissione parlamentare di inchiesta sulle stragi. In mezzo a tante supposte verità e spiegazioni, negli anni se ne è fatta avanti una dai tratti oscuri. La figlia di Aldo Moro (all’epoca Ministro degli Esteri del Governo Rumor), Maria Fidia Moro, ha detto che era il padre il vero obiettivo dell’attentato all’Italicus. Aldo Moro, infatti, era solito recarsi in villeggiatura a Bellamonte, in Val di Fiemme e pare avesse scelto proprio quel treno per recarvisi. Salito sul treno alla stazione Termini, venne fatto scendere da alcuni funzionari del Ministero, suoi collaboratori, a causa di alcune carte che avrebbe dovuto firmare. Ci misero un po’ e gli fecero perdere il treno. Lo scorso 22 aprile, il Governo Renzi ha tolto il segreto di Stato su tutte le stragi degli anni ’70 e ’80, Italicus compresa. 

27 GIUGNO 1980. Ustica. «Quella notte c’era una guerra. Chiedete alla Nato», scrive Giulia Merlo il 30 luglio 2016 su "Il Dubbio”. Quei fatti sono coperti dal segreto militare e ciò significa che, se gli ufficiali rivelassero ciò che è successo rischierebbero 23 anni di carcere. Sono passati 36 anni dalla notte di venerdì 27 giugno 1980, in cui l’aereo di linea DC-9 della compagnia italiana Itavia esplose e si inabissò nel braccio di mare tra le isole di Ustica e Ponza, nel mar Tirreno. Nel disastro persero la vita tutti e 81 i passeggeri, sulle cause della strage, invece, nessun tribunale ha ancora accertato la verità. Nel corso degli anni, le teorie più dibattute sono quella di un missile stranieri, contrapposta a quella dell’attentato terroristico, con un ordigno esplosivo piazzato nella toilette. Secondo la prima tesi, ad abbattere il DC-9 sarebbe stata una testata francese, destinata ad abbattere un aereo libico con a bordo Gheddafi. La seconda ricostruzione, invece, è quella avvalorata dai fantomatici documenti cui il senatore Carlo Giovanardi ha fatto più volte riferimento. Il giornalista Andrea Purgatori, che in quegli anni era inviato per il Corriere della Sera e che ha pubblicato numerose inchieste sulla strage, smentisce in modo secco la decisività di questo dossier».

Proviamo a fare chiarezza su queste carte coperte dal segreto di Stato?

«Partiamo da un dato incontrovertibile: sulla strage di Ustica non c’è mai stato il segreto di Stato. Quei fatti sono coperti dal segreto militare e ciò significa che, se gli ufficiali rivelassero ciò che è successo quella notte, rischierebbero 23 anni di carcere. Nei documenti che ha visto Giovanardi non c’è nulla che possa davvero chiarire cosa è successo».

E quindi lei cosa pensa che contengono?

«Probabilmente si tratta di dossier che ricostruiscono i rapporti opachi intercorsi in quegli anni tra l’Italia e la Libia, ma non sarebbe certo di una novità. Io penso che quelle carte siano più importanti per capire cosa è successo alla stazione di Bologna poco più di un mese dopo, sempre nel 1980».

Lei ha sempre sconfessato la tesi della bomba nella toilette. Come mai?

«Non sono io a sconfessarla, l’ordinanza di rinvio a giudizio del 1999 parla di aereo «esploso in scenario di guerra aerea». Inoltre le perizie a sostegno dell’ipotesi della bomba sono state scartate perchè i periti sono stati dichiarati infedeli dal tribunale, per connivenze con i periti dei generali coinvolti».

La pista della presenza di caccia stranieri, invece?

«Che quella notte nei cieli italiani volassero aerei non identificati è stato confermato dalla Nato. Attualmente non esiste una sentenza su quella strage, perchè l’inchiesta è ancora in corso. In sede civile, invece, la Cassazione ha condannato nel 2015 i ministeri dei Trasporti e della Difesa al risarcimento dei danni, per responsabilità nell’«abbattimento» del DC-9 e - cito testualmente - ha definito l’ipotesi del missile come causa «congruamente provata»».

C’è chi obietta che gli alti ufficiali coinvolti sono stati tutti assolti nel 2006...

«Attenzione, sono stati assolti in Cassazione dalla condanna per depistaggio, non nel processo sulle cause della strage, tuttora in corso».

2 AGOSTO 1980. Bologna, il buco nero della strage alla stazione. 36 anni dopo, Bologna si prepara ad accogliere i famigliari delle vittime e le commemorazioni. Per non dimenticare l'atto terroristico che provocò 85 vittime. La dinamica e i mandanti, nonostante i processi e le condanne, non sono mai stati chiariti, scrive Michele Sasso l'1 agosto 2016 su “L’Espresso”. La più grande strage italiana in tempo di pace. Ottantacinque morti, più di duecento feriti. Il 2 agosto 1980, un giorno d’estate di un Paese che esiste solo nella memoria, è diventato un tutt’uno con la strage di Bologna. È un sabato quel 2 agosto di 36 anni fa. Le ferie estive che svuotano le città del Nord sono appena iniziate. Chi ha scelto il treno deve passare necessariamente per Bologna, scalo-cerniera per raggiungere l’Adriatico o puntare verso Roma. La stazione è affollatissima dalle prime ore del mattino. I voli low cost arriveranno sono trent’anni dopo. Dopo la bomba alla stazione, che provocò 85 morti, il nostro settimanale preparò un numero speciale e mise in copertina la riproduzione di un quadro di Renato Guttuso, realizzato apposta per l'occasione. Guttuso dette all'opera lo stesso titolo dell'incisione di Francisco Goya Il sonno della ragione genera mostri ed aggiunse la data della strage, 2 agosto 1980, unico riferimento al fatto specifico, vicino alla firma dell'autore. La tavola originale è esposta nel Museo Guttuso. Raffigura un mostro con sembianze da uccello e corpo di uomo, denti aguzzi, occhi sbarrati e di fuoco, che tiene un pugnale nella mano destra e una bomba a mano nella sinistra, e colpisce alcuni corpi morti o morenti, sopra i quali sta a cavalcioni Alle 10 e 25 però il tempo si ferma: 23 chili di tritolo esplodono nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione ferroviaria. Le lancette del grande orologio, ancora oggi, segnano quel tempo e quella stagione di morte e misteri. Un boato, sentito in ogni angolo della la città, squarcia l'aria. Crolla l'ala sinistra dell'edificio: della sala d'aspetto di seconda classe, del ristorante, degli uffici del primo piano non resta più nulla. Una valanga di macerie si abbatte anche sul treno Ancona-Basilea, fermo sul primo binario. Pochi interminabili istanti: uomini, donne e bambini restano schiacciati. La polvere e il sangue si mischiano allo stupore, alla disperazione e alla rabbia. Tanta rabbia per quell’attentato così mostruoso e vile che prende di mira turisti, pendolari, ferrovieri. Perché nessuno anche in quei primi istanti ha mai dubitato sulla matrice terroristica della strage: l'odore dell'esplosivo era inconfondibile. Cominciò quel giorno una delle indagini più difficili della storia giudiziaria italiana. Un iter che ha portato a cinque gradi di giudizio, alla condanna all'ergastolo degli ex Nar Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, e a quella a trent'anni di Luigi Ciavardini. Con un corollario di smentite, depistaggi e disinformazione. Resta la verità giudiziaria della pista neofascista e la strategia della tensione ma rimangono senza nomi i mandanti. I responsabili dei depistaggi, invece, come stabilito dai processi, sono Licio Gelli, P2, e gli ex 007 del Sismi Francesco Pazienza, Pietro Musumeci, Giuseppe Belmonte. Il giorno dei funerali, il 6 agosto, «non era possibile determinare quante persone fossero presenti», come scrisse Torquato Secci, che quel giorno perse il figlio e poi diventò il presidente dell’associazione tra i familiari delle vittime della strage. Non tutte le vittime ebbero, però, il funerale di Stato: solo sette le bare presenti in chiesa in mezzo alle quali camminò il presidente della Repubblica Sandro Pertini, giunto insieme a Francesco Cossiga, presidente del Consiglio dei ministri. Fuori dalla chiesa, la gente in piazza iniziava a contestare le autorità. Solo Pertini e il sindaco di Bologna, Zangheri, ricevettero degli applausi. Ancora prima dei funerali si svolsero manifestazioni in Piazza Maggiore a testimonianza delle immediate reazioni della città. Un moto di indignazione e dolore scosse l’intero Paese. L'Espresso uscì la settimana successiva con un numero speciale: in copertina un quadro a cui Renato Guttuso ha dato lo stesso titolo che Francisco Goya aveva scelto per uno dei suoi 16 Capricci: «Il sonno della ragione genera mostri». Trentasei anni dopo, con l’eredità di ombre, depistaggi e la strategia della tensione per controllare il Paese, si rinnova il ricordo collettivo e personale della strage. Bologna si prepara a rinnovare l’impegno con la “giornata in memoria delle vittime di tutte le stragi”, organizzata dall’associazione dei familiari delle vittime del 2 agosto che tenne viva la memoria e la spinta civile durante l’intero processo.

Il grande vecchio, scrive Gianni Barbacetto il 15 novembre 2009. Sono passati 20 dalla caduta del muro di Berlino. A breve saranno 40 anni dalla bomba alla Banca dell'Agricoltura, a Piazza Fontana a Milano. In questi giorni dove si è celebrata la caduta del muro (e del regime comunista), mi chiedo quanti siano ancora interessati a conoscere la storia oscura del nostro paese. A dare una risposta ai tanti perché degli anni della strategia della tensione. Perché quelle morti, perché quelle bombe. Quale era la strategia che perseguivano, queste persone? Il libro di Barbacetto, che usa la metafora ancora attuale del "Grande vecchio" dà una risposta, a queste domande. “Ci avete sconfitto, ma oggi sappiamo chi siete” dice l'ex giudice che indagò sulla strage alla Stazione di Bologna Libero Mancuso “e andremo in giro a dire i vostri nomi a chiunque ce li chieda”. Compito degli storici o di quelli come me, con la passione per la storia, col vizio di voler coltivare la memoria di ciò che è stato è ricordare. E le pagine del libro, che mettono insieme i fatti di questa guerra che si è consumata, senza che nessuno (o quasi) se ne sia preso la colpa, storicamente e giuridicamente, hanno appunto questo fine: dare la parola ai magistrati che si sono occupati di queste inchieste. Sono loro, una volta tanto, a raccontare una storia di di attentati, stragi e bombe, e delle difficoltà che hanno dovuto affrontare: omertà, depistaggi e veri e propri attacchi sia da parte degli imputati (direttamente o tramite giornali “amici”), sia all'interno dello stato (come nel caso dell'ex presidente Cossiga, nella sua guerra personale contro il CSM). Per la strage di Piazza Fontana, i ricordi del giudice istruttore Giancarlo Stiz e del pm Pietro Calogero, che seguirono il filone Veneto delle indagini: i neofascisti di Ordine Nuovo Franco Freda, Giavanni Ventura, Carlo Maria Maggi, e Pino Rauti (esponente del MSI, tirato in ballo nell'inchiesta dalle confessioni del bidello Marco Pozzan) e Delfo Zorzi. Indagini riprese poi a Milano dal giudice istruttore Gerardo D'Ambrosio e dal pm Emilio Alessandrini: i primi a intravedere la pista nera sulla strage, mentre in Italia si sbatteva il mostro in prima pagina (l'anarchico Pietro Valpreda e il "suicida reo confesso" Giuseppe Pinelli). E in mezzo i servizi che invece che aiutare l'indagine, si occupavano di esfiltrare dei testimoni: Pozzam, lo stesso agente Guido Giannettini. Processo scippato ai giudici (una costante in tante altre inchieste sull'eversione nera, in Italia) e spostata dalla Cassazione a Palermo. La strage di Piazza della Loggia a Brescia: la bomba esplosa durante il comizio antifascista il 28 maggio 1974. Raccontata attraverso il lavoro dei primi giudici: Domenico Vino e Francesco Trovato; inchiesta riaperta poi dal g.i. Francesco Zorzi, sulle confessioni del pentito Sergio Latini e Guido Izzo. Fra tutti gli episodi raccontati, è l'unico ad avere un procedimento ancora aperto: il processo a Brescia iniziato nel novembre 2008 ha portato a giudizio tra gli altri, un ex politico come Pino Rauti e un generale dei carabinieri, Francesco Delfino. L'inchiesta di Padova sulla Rosa dei venti del giudice istruttore Giovanni Tamburino, che portò alla scoperta di questa organizzazione con finalità eversive che coinvolgeva industriali, ex fascisti, vertici militari (il colonnello dell'esercito Amos Spiazzi) e vertici dei servizi (il generale del Sid Vito Miceli). L'ultimo filone di indagini su Piazza Fontana, portato avanti dal giudice istruttore Guido Salvini a fine anni 80, che si è basato sugli archivi ritrovati in via Bligny (gli archivi di Avanguardia Operaia che contenevano dossier anche sul terrorismo nero, oltre che dossier sulle Br), le rivelazioni del pentito Nico Azzi e dell'artificiere di Ordine Nuovo Carlo Digilio, sul lavoro del capitano dei Ros Massimo Giraudo. Un lavoro che ha permesso una rilettura degli anni del golpe, sempre ventilato, mai attuato, "il golpe permanente". Il golpe Borghese della notte della Madonna del 1970, al golpe bianco di Edgardo Sogno nella primavera del 1974. E prima ancora il “tintinnar di sciabole" del Piano Solo. Un lavoro che permise di rileggere episodi di cronaca, attentati dell'anno nero che fu il 1973. "Alla fine e malgrado tutto, ribadisce Salvini, «un preciso giudizio si è radicato comunque nelle carte dei processi. La strage di piazza Fontana non è un mistero senza padri, paradigma dell’insondabile o, peggio, evento attribuibile a piacimento a chiunque, che può essere dipinto con qualsiasi colore se ciò serve per qualche contingente polemica politica. La strage fu opera della destra eversiva, anello finale di una serie di cerchi concentrici uniti – come disse nel 1995 alla Commissione stragi Corrado Guerzoni, stretto collaboratore di Aldo Moro – se non da un progetto, almeno da un clima comune». «La giustizia vuole più dolore che collera» scriveva Hannah Arendt nel 1961, all’apertura del processo al nazista Adolf Eichmann a Gerusalemme. Alla chiusura dei processi per le stragi, la banalità del male si presenta sotto forma di tentazione a dimenticare per sempre una vicenda con tanti morti, un’insanabile ferita alla democrazia che ha colpevoli, ma non condannati. La verità, nella sua interezza, è affidata ora agli storici. O consegnata ai capricci della memoria: che custodisce i ricordi nel tempo dell’indignazione, e poi li abbandona nel tempo della smemoratezza."

La bomba alla Questura nel 1973. L'inchiesta portata avanti dal giudice istruttore Antonio Lombardi sulla bomba alla Questura di Milano: in particolare, è questa vicenda svela bene quale fosse il disegno dietro tutti gli episodi stragistici. Ovvero addossare tutta la colpa della strage sulla sinistra: Gianfranco Bertoli, con un passato da informatore del Sifar e poi del Sid, doveva recitare la parte dell'anarchico solitario che uccide persone inermi (e il ministro Rumor, reo secondo Ordine Nuovo che aveva organizzato il teatro, di aver avviato l'iter per il loro scioglimento).

Le bombe sui treni in Italia centrale: l'Italicus (4 agosto 1974) e gli altri attentati (il fallito attentato a Vaiano, ad es.), avvenuti nella primavera estate del 1974, per mano dei neofascisti di Ordine Nero: i quattro colpi grossi (assieme alla bomba a Brescia) che avrebbero dovuto preparare il terreno l'ennesima reazione forte dello stato. Reazione che, come nel 1969, non avvenne, come non ci fu nemmeno il golpe solo minacciato dell'ex partigiano bianco Edgardo Sogno, su cui indagò il giudice Violante a Torino. Per l'Italicus, il giudice che ha indagato sulla strage si chiama Claudio Nunziata, che lavorò assieme a Rosario Minna. Ma stesso è lo scenario che si scopre, come per le precedenti inchieste: un organizzazione neofascista (Ordine Nero, di Mario Tuti e Augusto Cauchi), con coperture da parte dei carabinieri e finanziata da un imprenditore di Arezzo, tale Licio Gelli. Nunziata fu definito come un Torquemada dei treni, dai giornali della destra (come Il giornale di Indro Montanelli e di Guido Paglia, esponente di Avanguardia Nazionale). Perché era un magistrato zelante che non guardava in faccia a nessuno: nemmeno nella ricca Bologna massonica. Nunziata non si trattenne nemmeno dal criticare il comportamento della sua procura, per come venivano gestiti i carichi di lavoro e per come non venivano seguite le indagini che riguardavano l'eversione. Su di lui si concentrò un fuoco amico da parte del CSM e anche da parte dell'allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga: fu sospeso e lasciato senza stipendio, fino alla sua riabilitazione, avvenuta anni dopo. "in fondo mi è andata bene, altri hanno pagato con la vita" il suo amaro commento.

La strage alla stazione di Bologna. Libero Mancuso iniziò la sua carriera a Napoli: seguì il rapimento da parte delle Br di Ciro Cirillo e assistì alla trattativa di esponenti dello stato con la Camorra di Cutolo per la liberazione dell'assessore. Nauseato, alla fine della vicenda, chiese il trasferimento a Bologna, in cerca di una maggiore tranquillità. Ma il 2 agosto 1980 scoppiò la bomba alla stazione. E il suo capo alla procura gli assegnò un'indagine sull'ex colonnello Amos Spiazzi (un personaggio già emerso nell'inchiesta di Tamburino sulla Rosa dei Venti). Da qui l'inizio dell'inchiesta che lo portò fino alla strage, in cui emerse il ruolo di depistaggio dei vertici del Sismi e della Loggia P2 (nonostante questo l'avvocatura di Stato chiese l'archiviazione del reato di eversione per quanto riguarda la Loggia P2 e Gelli, al processo di Appello). I processo fu, uno tra pochi, ad arrivare a giudizio con una condanna per i responsabili della strage, individuati negli estremisti dei Nar (Fioravanti, Mambro e Ciavardini). Come per altri giudici, anche per Mancuso non mancarono polemiche, diffamazioni, attacchi da parte dei Giornali (Il giornale, Il sabato ..) e persino dal capo dello stato, allora Francesco Cossiga.

La loggia P2: lo stato nello stato. Di questa storia, ne ha parlato Blu Notte recentemente: a partire dai giudici istruttori Gherardo Colombo e Giuliano Turone che, nella primavera del 1983, seguendo una indagine sul finto rapimento di Michele Sindona, si imbattono in questo strano, all'apparenza sconosciuto ma potente imprenditore. Licio Gelli da Arezzo. Dalla perquisizione in uno dei suoi uffici emerge una struttura che comprende i vertici dei servizi, politici, magistrati, giornalisti, politici, industriali (tra cui l'attuale presidente del Consiglio) ... Uno stato dello stato: dalla storia della P2 si capisce meglio l'evoluzione della politica filoatlantica italiana, la guerra non ortodossa compiuta sugli italiani: se nella prima metà degli anni 70 si parlava di golpe e si usavano le bombe per destabilizzare, a partire dal 1974 si usò questa loggia massonica segreta, come camera di compensazione per i poteri forti del paese. Come struttura in qui selezionare la classe dirigente del paese: l'obbiettivo non era più abbattere o sostituire le istituzioni, ma occuparle. Silenziosamente. Nella politica, nei posti chiave della magistratura, nell'informazione, nell'industria. Con l'attuazione del piano di rinascita democratica: un disegno politico quanto mai attuale.

Gladio. L'inchiesta del giovane giudice Felice Casson, a Venezia, che partendo dalla strage di Peteano e dalle confessioni del pentito (con ritardo e con ancora tanti punti aperti sulla sua sincerità), arriva a scoprire Gladio, la struttura italiana dell'organizzazione Stay Behind. Una struttura misto civile militare, addirittura fuori dall'organizzazione Nato e di cui nemmeno tutti i presidenti del Consiglio ne furono a conoscenza (come ad esempio Amintore Fanfani). Una struttura di cui l'opinione pubblica non fu informata: fino all'ammissione della sua esistenza da parte del primo ministro Giulio Andreotti nel 1990, quando ormai l'inchiesta veneziana stava arrivando al termine. Casson partì da qui partì, dai legami tra Gladio e i gruppi della destra eversiva che negli anni 70 compirono attentati in Italia. Una indagine con gli stessi protagonisti delle altre: gli ordinovisti veneti (il medico Carlo Maria Maggi, Franco Freda, Carlo Digilio, l'artificiere-confidente dei servizi); i vertici dei servizi come l'ammiraglio Fulvio Martini, legato anche al Conto Protezione di Craxi/Martelli, che avrebbe portato fino a Gelli. Cosa è Gladio? Solo una storia di arsenali nascosti sui monti del Friuli e forse qualche campo di concentramento in Sardegna, che si sarebbe dovuto usare per gli enuclenandi del Piano Solo? O forse, come in una struttura a scatole cinesi, una dentro l'altra, Gladio era solo il guscio esterno, quelle più presentabile, di altre strutture (come il Noto Servizio o Anello), più nascoste, dalle finalità più ambigue, ai limiti (se non oltre) del codice. Campagne stampa diffamatorie contro esponenti politici o sindacali da togliere di mezzo; l'utilizzo della corruzione come normale sistema di trattativa politica; l'utilizzo della malavita (come la Banda della Magliana, per l'individuazione della prigionia di Aldo Moro da parte della BR) in funzione di braccio armato, che può essere sempre reciso alla bisogna, allo stragismo e terrorismo della cui incredibile durata e virulenza nel nostro paese non è stata data ancora una plausibile spiegazione. E soprattutto, la domanda più importante: siamo sicuri che queste siano solo storie del passato? Se qualcuno, nel passato, ha pensato di mettere una bomba per spostare il baricentro della politica italiana, depistando le indagini della polizia, insabbiandone altre grazie a Procure compiacenti (vi ricordate come veniva chiamata la Procura di Roma? Il porto delle nebbie), cosa sarebbe disposto a fare oggi, per evitare tutti cambiamenti in ambito sociale e politico? Siamo sicuri che i servizi deviati (che poi non è nemmeno giusto chiamarli così, essendo stati solo al servizio di quei poteri forti già attivi nei anni 70) oggi non siano più operativi?

Ma esiste un’altra verità che i sinistroidi tacciono.

L’ultimo segreto nelle carte di Moro: “La Libia dietro Ustica e Bologna”. Da Beirut i servizi segreti avvisarono: “Tripoli controlla i terroristi palestinesi”. I parlamentari della Commissione d’inchiesta: “Renzi renda pubblici i documenti”, scrive il 05/05/2016 Francesco Grignetti su “La Stampa”. Tutto nasce da una direttiva di Matteo Renzi, che ha fatto togliere il segreto a decine di migliaia di documenti sulle stragi italiane. Nel mucchio, i consulenti della commissione d’inchiesta sul caso Moro hanno trovato una pepita d’oro: un cablo del Sismi, da Beirut, che risale al febbraio 1978, ossia un mese prima della strage di via Fani, in cui si mettono per iscritto le modalità del Lodo Moro. Il Lodo Moro è quell’accordo informale tra italiani e palestinesi che risale al 1973 per cui noi sostenemmo in molti modi la loro lotta e in cambio l’Olp ma anche l’Fplp, i guerriglieri marxisti di George Habbash, avrebbero tenuto l’Italia al riparo da atti di terrorismo. Ebbene, partendo da quel cablo cifrato, alcuni parlamentari della commissione Moro hanno continuato a scavare. Loro e soltanto loro, che hanno i poteri dell’autorità giudiziaria, hanno potuto visionare l’intero carteggio di Beirut relativamente agli anni ’79 e ’80, ancora coperto dal timbro «segreto» o «segretissimo». E ora sono convinti di avere trovato qualcosa di esplosivo. Ma non lo possono raccontare perché c’è un assoluto divieto di divulgazione. Chi ha potuto leggere quei documenti, spera ardentemente che Renzi faccia un passo più in là e liberalizzi il resto del carteggio. Hanno presentato una prima interpellanza. «È davvero incomprensibile e scandaloso - scrivono i senatori Carlo Giovanardi, Luigi Compagna e Aldo Di Biagio - che, mentre continuano in Italia polemiche e dibattiti, con accuse pesantissime agli alleati francesi e statunitensi di essere responsabili dell’abbattimento del DC9 Itavia a Ustica nel giugno del 1980, l’opinione pubblica non sia messa a conoscenza di quanto chiaramente emerge dai documenti secretati in ordine a quella tragedia e più in generale degli attentati che insanguinarono l’Italia nel 1980, ivi compresa la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980». Ecco il messaggio destinato al ministro degli Interni, ai servizi italiani e a quelli alleati in cui si segnala che George Habbash, capo dei guerriglieri palestinesi del Fplp, indica l’Italia come possibile obiettivo di un’«operazione terroristica». Va raccontato innanzitutto l’antefatto: nelle settimane scorse, dopo un certo tira-e-molla con Palazzo Chigi, i commissari parlamentari sono stati ammessi tra mille cautele in una sede dei servizi segreti nel centro di Roma. Dagli archivi della sede centrale, a Forte Braschi, erano stati prelevati alcuni faldoni con il marchio «segretissimo» e portati, con adeguata scorta, in un ufficio attrezzato per l’occasione. Lì, finalmente, attorniati da 007, con divieto di fotocopiare, senza cellulari al seguito, ma solo una penna e qualche foglio di carta, hanno potuto prendere visione del carteggio tra Roma e Beirut che riporta al famoso colonnello Stefano Giovannone, il migliore uomo della nostra intelligence mai schierato in Medio Oriente. Il punto è che i commissari parlamentari hanno trovato molto di più di quello che cercavano. Volevano verificare se nel dossier ci fossero state notizie di fonte palestinese per il caso Moro, cioè documenti sul 1978. Sono incappati invece in documenti che sorreggono - non comprovano, ovvio - la cosiddetta pista araba per le stragi di Ustica e di Bologna. O meglio, a giudicare da quel che ormai è noto (si veda il recente libro «La strage dimenticata. Fiumicino 17 dicembre 1973» di Gabriele Paradisi e Rosario Priore) si dovrebbe parlare di una pista libico-araba, ché per molti anni c’è stato Gheddafi dietro alcune sigle del terrore. C’era la Libia dietro Abu Nidal, per dire, come dietro Carlos, o i terroristi dell’Armata rossa giapponese. Giovanardi e altri cinque senatori hanno presentato ieri una nuova interpellanza. Ricordando le fasi buie di quel periodo, in un crescendo che va dall’arresto di Daniele Pifano a Ortona con due lanciamissili dei palestinesi dell’Fplp, agli omicidi di dissidenti libici ad opera di sicari di Gheddafi, alla firma dell’accordo italo-maltese che subentrava a un precedente accordo tra Libia e Malta sia per l’assistenza militare che per lo sfruttamento di giacimenti di petrolio, concludono: «I membri della Commissione di inchiesta sulla morte dell’on. Aldo Moro hanno potuto consultare il carteggio di quel periodo tra la nostra ambasciata a Beirut e i servizi segreti a Roma, materiale non più coperto dal segreto di Stato ma che, essendo stato classificato come segreto e segretissimo, non può essere divulgato; il terribile e drammatico conflitto fra l’Italia e alcune organizzazioni palestinesi controllate dai libici registra il suo apice la mattina del 27 giugno 1980». Dice ora il senatore Giovanardi, che è fuoriuscito dal gruppo di Alfano e ha seguito Gaetano Quagliariello all’opposizione, ed è da sempre sostenitore della tesi di una bomba dietro la strage di Ustica: «Io capisco che ci debbano essere degli omissis sui rapporti con Paesi stranieri, ma spero che il governo renda immediatamente pubblici quei documenti».

Stragi, i palestinesi dietro Ustica e Bologna? Il centrodestra: fuori le carte, scrive giovedì 5 maggio 2016 “Il Secolo D’Italia”. Reazioni, polemiche ma anche approvazione dopo che in una interpellanza presentata in vista della celebrazione solenne il 9 maggio a Montecitorio della Giornata della memoria delle vittime delle stragi e del terrorismo, i senatori Giovanardi, Quagliariello, Compagna, Augello, Di Biagio e Gasparri, hanno chiesto al Presidente del Consiglio di rendere pubbliche le carte relative alle stragi di Ustica e della stazione di Bologna. Gli interpellanti – si legge in una nota – citano gli autorevoli interventi del 2014 e 2015, in occasione della giornata della memoria e dell’anniversario di Ustica, dei Presidenti della Repubblica Napolitano e Mattarella e dei presidenti di Camera e Senato nei quali si chiede di arrivare alla verità «pretendendo chiarezza oltre ogni convenienza» e l’intervista del 3 maggio ultimo scorso del Ministro degli esteri Gentiloni sul caso Regeni, dove afferma testualmente: «La nostra ricerca della verità è al primo posto, e non può essere cancellata da interessi e preoccupazioni geopolitiche». Gli interpellanti ricordano poi di aver potuto consultare il carteggio dell’epoca tra la nostra Ambasciata a Beirut e i Servizi segreti a Roma, relativo ai drammatici avvenimenti del 1979 e 1980, quando si sviluppò un drammatico confronto fra l’Italia da una parte e dall’altra le frange più estreme del Movimento per la liberazione della Palestina con dietro la Libia di Gheddafi ed ambienti dell’autonomia, materiale non più coperto dal segreto di Stato, ma che, essendo stato classificato come segretissimo, rende penalmente perseguibile anche dopo 36 anni la sua divulgazione. La figlia di una vittima chiede chiarezza sulle stragi: «Sconcertata, come figlia di una vittima dell’esplosione del DC9 Itavia, e come Presidente onorario dell’Associazione per la Verità sul disastro aereo di Ustica, nell’apprendere che dopo 36 anni da quella tragedia non sono ancora divulgabili documenti che potrebbero contribuire in maniera decisiva a far piena luce su quella strage», scrive Giuliana Cavazza, presidente onorario dell’associazione citata. «Lunedì sarà celebrata a Montecitorio la giornata della memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi: aggiungo la mia modesta voce a quella dei vertici istituzionali che hanno più volte sottolineato la necessità di cercare la verità al di là di ogni convenienza o calcolo politico. Mi auguro pertanto che per quella data il Presidente del Consiglio abbia già assunto la decisione di rendere noto il contenuto dei documenti che solo i membri della Commissione di inchiesta sulla morte di Aldo Moro hanno già potuto consultare». Di diverso avviso Bolognesi: «Ho letto le carte contenute nei faldoni messi a disposizione della Commissione Moro e posso affermare che su Ustica e Bologna non ci sono né segreti, né rivelazioni, né novità. I decenni passano ma i depistaggi sembrano resistere», ha detto infatti Paolo Bolognesi, deputato Pd, presidente dell’Associazione 2 agosto 1980, commentando le recenti notizie di possibili nuovi elementi sulle stragi di Ustica e Bologna contenuti nei documenti consultati dai componenti della Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro di cui Bolognesi fa parte. C’è poi la tesi di Zamberletti: «Torniamo indietro al 2 agosto 1980, data della strage di Bologna. Era il giorno in cui io, da sottosegretario, avrei firmato un accordo italo-maltese. L’accordo, che fu poi firmato regolarmente, prevedeva da parte italiana la garanzia militare sulla sovranità aerea e marittima di Malta. La notizia della bomba alla stazione di Bologna, che ci arrivò quando eravamo a La Valletta, mi diede subito la sensazione della vendetta contro l’Italia». È questa la verità sulle stragi di Bologna e Ustica secondo Giuseppe Zamberletti, all’epoca sottosegretario agli Esteri nel governo Cossiga, in un’intervista a La Stampa. «I libici – dice – esercitavano fino a quel momento un protettorato di fatto su Malta». Zamberletti afferma di essere stato avvertito anche dall’allora direttore del Sismi, il generale Santovito, che gli chiese di soprassedere, poiché Gheddafi considerava Malta “una cosa sua”, «il governo Cossiga però decise di andare avanti. E se oggi Malta è nella Unione europea e non in Africa, tutto cominciò quel giorno. Questi documenti che sono stati desecretati sono un punto di inizio e non di arrivo. È proprio il caso di andare avanti», dice in riferimenti all’interrogazione con cui alcuni parlamentari chiedono di rendere pubblici tutti i documenti: «Nel febbraio 1978 c’era dunque questo accordo tra italiani e palestinesi, ma che ci fossero rapporti tra Gheddafi e certe schegge palestinesi è una grande novità, di cui all’epoca non avevamo assolutamente contezza».

«Vi dico la verità su Ustica: è stata una bomba e veniva da Beirut», scrive Giulia Merlo il 2 ago 2016 su “Il Dubbio”. «Smettetela di chiedere a me di rivelare questi documenti: mi costerebbe 3 anni di carcere e la decadenza da senatore. È il governo Renzi ad avere il dovere morale di togliere il segreto sui dossier». «Il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha il dovere di togliere la dizione "segretissimo" da quelle carte in modo da poterle divulgare, solo così le verità nascoste per trentasei anni verranno finalmente svelate». Non ha dubbi, il senatore Carlo Giovanardi. In qualità di membro della commissione Moro, ha avuto modo di visionare dei documenti che getterebbero nuova luce sulla tragica vicenda del volo Itavia DC-9, inabissatosi nel braccio di Mar Tirreno tra Ustica e Ponza con a bordo 81 persone, il 27 giugno del 1980.

Cominciamo dal principio: cosa è successo a bordo di quell'aereo?

«Nella toilette è esplosa una bomba, che ha provocato la caduta del velivolo e la morte di tutti i passeggeri».

Eppure molte voci sostengono che, quella notte, nei cieli italiani fosse in corso una guerriglia aerea in cui erano coinvolti caccia da guerra francesi e libici e che il volo Itavia sia stato abbattuto da un missile.

«Io mi sono interessato della questione quando ero ministro e su questi fatti ho risposto in Parlamento, sulla base delle fonti ufficiali provenienti dalla Nato e dei dossier dei nostri servizi di intelligence. Ciò che sostengo è suffragato non solo da questo, ma anche da 4000 pagine di perizie, svolte dai maggiori esperti internazionali di aereonautica. Aggiungo anche che ho letto in aula le missive personali indirizzate all'allora premier Giuliano Amato dal presidente americano Bill Clinton e da quello francese Jaques Chirac, in cui entrambi giurano sul loro onore che, durante la notte della strage, nei cieli di Ustica non volavano né aerei americani né francesi».

Gli scettici hanno sostenuto che la bomba nella toilette sia smentita dal fatto che il lavandino è stato ritrovato intatto nel relitto.

«Gli americani, in un documentario prodotto dal National Geographic, hanno preso un vecchio DC-9 e riprodotto l'esplosione, verificando che è ben possibile che il lavello non si sia rotto».

E quindi il mistero riguarda quale mano abbia piazzato la bomba. La risposta sta nelle carte da lei visionate?

«Esattamente. Si tratta di documenti che nessun magistrato ha mai potuto esaminare, su cui da due anni è caduto il segreto di Stato ma che rimangono bollati come "segretissimi" e dunque sono non divulgabili. Il carteggio fa riferimento ai rapporti tra il governo italiano e la nostra ambasciata a Beirut negli anni 1979 e 1980. Io ho potuto esaminarlo in presenza dei membri dei servizi e con la possibilità di prendere appunti, ma quei dossier contengono messaggi dalla capitale libica, alcuni datati anche 27 giugno, che annunciano vittime innocenti e parlano anche di un aereo come obiettivo del Fronte nazionale per la liberazione della Palestina, organizzazione controllata dai libici».

In questi dossier ritorna la teoria del cosiddetto "lodo Moro", ovvero il patto segreto tra Italia e filopalestinesi, che permetteva ai gruppi palestinesi di trasportare e stoccare armi nel nostro territorio a patto di non commettere attentati?

«Certo che quei documenti riguardano il "lodo Moro". E' chiaro che quell'accordo non era stato siglato in carta bollata, ma la sua esistenza è chiara e dalle carte emerge anche come Il Fronte popolare per la liberazione della Palestina lo considerasse violato nel 1979, quando il governo italiano sequestrò i missili trovati a Ortona e arrestò il militante del Fplp Abu Anzeh Saleh, poi detenuto nel carcere di Trani. Per questo minacciavano ritorsioni contro l'Italia. Tornando a Ustica, ricordo che l'unico governo a non rispondere alle rogatorie italiane è stato quello di Gheddafi».

Ustica è stata una rappresaglia libica, dunque?

«E' stato l'allora ministro Zamberletti a definirla così. Lo stesso che, proprio il 2 agosto (data della strage alla stazione di Bologna) firmava un accordo italo-maltese di assistenza militare e di estrazione petrolifera, che di fatto subentrava a quello tra Malta e la Libia. Secondo Zamberletti, Bologna e Ustica sono state entrambe un avvertimento dei libici al governo italiano e le due stragi sono legate da un filo rosso arabo-palestinese».

Rivelare questi documenti, dunque, fugherebbe qualsiasi ulteriore dubbio sull'ipotesi del missile sul volo Itavia?

«Certo. Eppure faccio notare che, ora che queste carte sono state lette e che io ne chiedo la desecretazione, la presidente dell'associazione delle vittime di Ustica, durante le commemorazioni delle stragi di quest'anno, non ha più chiesto che i dossier vengano pubblicati».

E questo che cosa significa?

«La senatrice Daria Bonfietti (che ha perso un fratello nella strage di Ustica ndr) sostiene che io abbia in mano un due di picche, invece io credo di avere un poker d'assi. I dossier che ho letto svelano la verità su quegli attentati ma, evidentemente, renderli pubblici potrebbe in qualche modo mettere in discussione i risarcimenti che si aggiungono ai 62 milioni di euro già percepiti. La Cassazione in sede civile, infatti, ha riconosciuto un risarcimento del danno di centinaia di milioni di euro all'Itavia, agli eredi Davanzali (ex presidente dell'Itavia) e alle famiglie delle vittime. Ciò nasce da una sciagurata sentenza civile di primo grado, scritta dal giudice onorario aggiunto Francesco Betticani, che teorizza appunto che ad abbattere l'aereo sia stato un missile non meglio identificato. L'appello viene vinto dall'Avvocatura di Stato che, però, commette un errore procedurale. La Cassazione allora annulla la sentenza di appello e rinvia alla Corte, la quale, però, può conoscere solo gli elementi portati dalle parti e non aggiungerne di nuovi. In questo modo è stata confermata in Cassazione civile l'assurda ipotesi del missile, definita "più probabile che no", totalmente smentita invece in sede penale».

In che modo l'ipotesi della bomba cambierebbe le carte in tavola per i familiari delle vittime?

«La risposta è semplice: se si fosse trattato di una bomba, come hanno stabilito le perizie tecniche, la responsabilità di non aver vigilato a Bologna avrebbe coinvolto anche la società Itavia e dunque il Ministero non dovrebbe risarcire le centinaia di milioni di danni. Aggiungo che a ogni famiglia delle persone decedute sono stati assegnati 200 mila euro e i 141 familiari superstiti godono dal 2004 di un assegno vitalizio mensile di 1.864 euro netti, rivalutabili nel tempo».

Che fare dunque ora?

«Innanzitutto smetterla di chiedere a me di rivelare questi documenti, cosa che mi costerebbe 3 anni di carcere e la decadenza da senatore per indegnità morale. E' il governo Renzi ad avere il dovere morale di togliere il segreto sui dossier per amore di verità, così forse - almeno - ripuliremo una volta per tutte l'immaginario collettivo su Ustica, inquinato da sceneggiati e depistaggi».

La colpevolezza dei Nar è un dogma ideologico. Le strane relazioni che intercorrevano tra l'Italia e gli arabi del Fplp, scrive il 02/08/2016 Dimitri Buffa su “Il Tempo”. Anche oggi come da 36 anni a questa parte alle 10 e 25 in punto la città di Bologna si fermerà per qualche minuto. Per commemorare gli 85 morti e i 200 feriti di un attentato che, al di là delle sentenze definitive e della colpevolezza come esecutori materiali ormai appiccicata addosso in maniera indelebile ai tre ex Nar Valerio Fioravanti, Luigi Ciavardini e Francesca Mambro, rimane ancora avvolto nel mistero. Un po’ di luce però, almeno sul movente lo può fare il libro «I segreti di Bologna», di Valerio Cutonilli e Rosario Priore, rispettivamente un avvocato e un magistrato, entrambi coraggiosi nell’andare contro corrente rispetto alla vulgata che ha voluto che questa strage fosse fascista sin dai primi istanti. Il Tempo già si era occupato di uno dei misteri di questa indagine, ossia la mancata identificazione di un cadavere e la scomparsa di un corpo di una delle vittime. Ma l’indicibile segreto di Stato che forse non sarà mai tolto, perchè è servito all’Italia a non subire più attentati da parte di terroristi palestinesi e medio orientali in genere, compresi quelli dell’Isis (toccando ferro), non è negoziabile nè rivelabile. E dopo gli anni ’70 che avevano lasciato una lunga scia di oltre sessanta morti del tutto rimossi dall’inconscio collettivo ad opera di settembre nero e altre formazioni dell’epoca, oggi se ne conosce il nome: «Lodo Moro». E colui che gli diede il nome non sapeva che un giorno, il 16 marzo 1978 ne sarebbe diventato vittima. Molte indagini infatti hanno acclarato, e il libro le elenca tutte in maniera che anche un bambino di sette anni potrebbe capire, che le armi alle Br in Italia le portarono anche i palestinesi del Fplp di George Habbash. Quel fronte popolare di resistenza palestinese di matrice marx leninista che invano nel febbraio 1978 tramite gli informatori del colonnello Stefano Giovannone, vero e proprio sacerdote della liturgia del «Lodo Moro», soffiò al Viminale della preparazione di un attentato con rapimento di un’alta personalità politica in Italia sul modello del sequestro di Hans Martin Schleyer, il presidente della Confindustria della ex Germania Ovest sequestrato nel settembre 1977 dalla Raf. Insomma se tutte le rivoluzioni finiscono per mangiarsi i propri figli il «lodo Moro» si mangiò suo padre, Aldo Moro. Il libro in questione, quindi, rivela e mette in fila tutti i segreti di Stato legati al «Lodo Moro» a cominciare dal ruolo di Carlos e di Thomas Khram e dei suoi accoliti dell’Ori, organizzazione rivoluzionaria internazionale, nella strage di Bologna, che potrebbe anche essere avvenuta per errore, cioè esplosivo in transito, cosa che spiegherebbe la mancata identificazione di almeno una delle vittime. Per non parlare degli omissis legati alle minacce di ritorsione sempre segnalate dal Sismi di Santovito, che venivano fino a tutto il luglio 1980 da parte dell’Fplp, legate alla vicenda dei missili Strela Sam 7 sequestrati qualche mese prima all’autonomo Daniele Pifano e destinati ai palestinesi. Con annessi arresto di Abu Anzeh Saleh e trattativa per farlo rilasciare dai giudici di Chieti e L’Aquila. Poi c’è la storia del trattato segreto tra Italia e Malta siglato dall’allora sottosegretario Giuseppe Zamberletti a La Valletta proprio un’ora prima della deflagrazione di Bologna. O quella dell’appoggio italiano, sottobanco, al tentato golpe contro Gheddafi fomentato dall’Egitto di Sadat, senza contare la vicenda di Ustica e via dicendo. Verità mai cercate anzi sacrificate da alcuni magistrati sull’altare della ragion di Stato. Moventi precisi, quasi certi, conosciuti da Francesco Cossiga, Giulio Andreotti, Giuseppe Zamberletti, Bettino Craxi, Lelio Lagorio e Giuseppe Santovito. Tragici segreti di Stato e insieme di Pulcinella. Ma che, per evitare che venissero fuori i nostri accordi sottobanco con i palestinesi dell’Olp e del Fplp, nonchè quelli con Gheddafi che includevano l’aiuto a scovare e uccidere i dissidenti libici in Italia, si preferì seppellire sotto i depistaggi ai danni dei Nar. Che in fondo, essendo tutti già condannati per altri omicidi e atti di terrorismo, erano dei capri espiatori perfetti, Ma oggi quando si chiede di togliere i segreti di Stato su Bologna, magari sperando di trovarci dietro chissà quale appoggio occulto della P2 di Licio Gelli, con quale onestà intellettuale si fanno questi appelli? Il «Lodo Moro» e il doppiogiochismo dell’Italia tra «la moglie americana e l’amante libica, e magari l’amichetta palestinese», per citare una felice battuta di Giovanni Pellegrino presidente della Stragi, rimarranno sempre segreti. L’Italia deve accontentarsi dei colpevoli di repertorio. Dimitri Buffa.

Come a sinistra si racconta sempre un'altra storia.

La strage di Bologna: l’intervista di Gianni Barbacetto al giudice Mastelloni. Ad ogni anniversario della strage di Bologna spuntano le rivelazioni su nuove piste e nuovi responsabili per la bomba. Piste e responsabili che spesso si sono rivelati sbagliati o, peggio, dei depistaggi. L'ultimo libro sulla bomba alla stazione: il saggio uscito per Chiarelettere di Rosario Priore e Valerio Cutonilli "I misteri di Bologna". L’1 agosto 2016 sul Fatto Quotidiano Gianni Barbacetto (autore tra gli altri del libro "Il grande vecchio" sulle stragi e sui segreti italiani) intervista il giudice Carlo Mastelloni, che nel passato aveva indagato sul disastro di Argo 16 e sui contatti tra Br e Olp per lo scambio d'armi. Diversamente da Priore, Mastelloni ha pochi dubbi sull'origine della bomba e sui responsabili: sono stati i neofascisti dei Nar, Valerio Fioravanti e Francesca Mambro. Quest'intervista cancella la tesi dei due autori del libro. E' la più grave delle stragi italiane: 85 morti, 200 feriti. È anche l’unica con responsabili accertati, condannati da sentenze definitive: Valerio Giusva Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini. Esecutori materiali appartenenti ai Nar, i Nuclei armati rivoluzionari. La strage di Bologna del 2 agosto 1980, ore 10.25, è anche l’unica per cui sono state emesse sentenze per depistaggio: condannati due uomini dei servizi segreti, Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte, e due faccendieri della P2, Licio Gelli e Francesco Pazienza. I depistaggi: fanno parte della storia delle indagini sull’attentato di Bologna (come di tutte le stragi italiane, a partire da piazza Fontana) e arrivano fino a oggi, dopo che sono passati 36 anni. Malgrado le sentenze definitive che attribuiscono la responsabilità dell’attentato ai fascisti nutriti dalla P2, sono continuamente riproposte altre spiegazioni, fantasmagoriche “piste internazionali”. La pista palestinese, più volte presentata in passato, anche da Francesco Cossiga, torna alla ribalta oggi aggiornata dal magistrato che ha indagato sulla strage di Ustica, Rosario Priore. Continua a resistere la pervicace volontà di non guardare le prove raccolte in anni d’indagini e allineate in migliaia di pagine di atti processuali, per inseguire le suggestioni evocate da personaggi pittoreschi e depistatori di professione. Del resto Fioravanti e Mambro, che pure hanno confessato decine di omicidi feroci, continuano a proclamare la loro innocenza per la strage della stazione: non possono e non vogliono accettare di passare alla storia come i “killer della P2”. La definizione è di Vincenzo Vinciguerra, protagonista dell’altra strage italiana per cui c’è un responsabile condannato, quella di Peteano. Ma Vinciguerra ha denunciato se stesso e ha orgogliosamente rivendicato l’azione di Peteano come atto “di guerra politica rivoluzionaria” contro uomini dello Stato in divisa. Su Bologna, sulle 85 incolpevoli vittime, sui 200 feriti, invece, 36 anni dopo restano ancora all’opera i dubbi, le menzogne, i depistaggi. Non ha dubbi: “Cominciamo a mettere le cose al loro posto: la matrice neofascista della strage di Bologna è chiara”. Carlo Mastelloni è dal febbraio 2014 procuratore della Repubblica a Trieste. Non dà credito alla pista internazionale per l’attentato: il giudice Rosario Priore, in un libro scritto con l’avvocato Valerio Cutonilli, spiega la strage con una pista palestinese. “Non l’ho mai condivisa”, dice Mastelloni. In estrema sintesi, secondo i sostenitori di questa ipotesi, la Resistenza palestinese avrebbe compiuto la strage come ritorsione per l’arresto nel novembre 1979 di Abu Saleh, uomo del Fronte popolare di liberazione della Palestina (Fplp), componente radicale dell’Olp di Yasser Arafat, fermato in Italia con tre missili terra-aria tipo Strela insieme a Daniele Pifano e altri due esponenti dell’Autonomia romana. La strage come vendetta per la rottura da parte italiana del cosiddetto “Lodo Moro”, cioè dell’accordo di libero transito in Italia dei guerriglieri palestinesi, in cambio della garanzia che sul territorio italiano non avrebbero compiuto attentati. “Quella pista”, ricorda Mastelloni, “si basa sul fatto che a Bologna la notte prima della strage era presente Thomas Kram; tuttavia, all’elemento certo di quella presenza si è aggiunto il nulla indiziario”. Kram è un tedesco legato al gruppo del terrorista Carlos, lo Sciacallo. Nuovi documenti, ancora secretati perché coinvolgono Stati esteri, sono stati di recente acquisiti dall’attuale Commissione parlamentare d’inchiesta sull’assassinio di Aldo Moro: proverebbero che gli accordi con la Resistenza palestinese hanno tenuto almeno fino all’ottobre dell’80, assicura lo storico Paolo Corsini, che ha potuto leggere quelle carte in qualità di componente dell’organismo parlamentare. Racconta Mastelloni: “Quando il vertice del Sismi (il servizio segreto militare erede del Sid) dopo l’arresto di Pifano e degli altri fu costretto a rivelare la persistenza del Lodo Moro a Francesco Cossiga – che già ne era stato sommariamente informato attraverso le lettere inviate da Moro prigioniero nella primavera 1978 – questi andò su tutte le furie. Soprattutto dopo aver appreso che il transito dei missili era stato accordato al capo dell’Fplp George Habbash dal colonnello del Sid Stefano Giovannone”. La furia di Cossiga, i contatti di Giovannone. In quei mesi Cossiga era presidente del Consiglio. “Appunto. E si arrabbiò moltissimo. Di qui l’atteggiamento furioso di Habbash che rivendicò i missili e la copertura datogli “dal governo italiano” che lui evidentemente identificava in Giovannone, capocentro Sismi a Beirut. Conosco un po’ la personalità di Cossiga: gli piacevano assai certi intrighi internazionali e poi credeva di avere le stesse capacità strategiche di Moro. Per questo è assai facile che il Lodo abbia tenuto fino a tutto il 1980, almeno fino alla conclusione del mandato di Cossiga. È però da escludere che di fronte a una strage come quella di Bologna il Lodo Moro potesse essere idoneo a coprire il fatto. Mi si deve poi spiegare quale utilità avrebbe mai conseguito il Kgb – che aveva avuto alle sue dipendenze Wadi Haddad fino al 1978, così come nella sua orbita si trovava Habbash e lo stesso Arafat capo dell’Olp – colpendo la rossa Bologna”. Cossiga arrivò a dire, in un’intervista al Corriere del giugno 2008, che la strage fu la conseguenza un transito di esplosivo finito male. “Non è assolutamente plausibile. L’esplosivo usato per l’attentato poteva esplodere solo se innescato, non per altri fattori accidentali. La strage fu causata dalla deflagrazione di una valigia riempita con circa 20 chili di Compound B, esplosivo di fabbricazione militare in dotazione a istituzioni come la Nato”. Priore sostiene che l’Fplp di Habbash aveva una così forte influenza su Giovannone e, tramite questi, sul governo italiano, da pretendere che le nostre autorità rifiutassero a statunitensi e israeliani di esaminare i missili Strela sequestrati. “Il dottor Habbash è stato un capo carismatico ma, francamente, penso che i nostri alleati non avessero bisogno di analizzare gli Strela che già conoscevano. Le rivelo che spesi ogni energia –tante missive di richiesta allo Stato maggiore dell’esercito – per avere notizia dei missili sequestrati e poi inviati agli organi tecnici dell’Esercito. Dove si trovavano? Silenzio. Mi fu poi detto nel 1986, dal generale Vito Miceli, che erano stati spediti agli americani per le analisi”. L’ipotesi è che il destinatario ultimo dei missili sequestrati fosse niente di meno che il terrorista Carlos, che stava progettando un’azione clamorosa, un attentato contro i leader egiziano Sadat. “Lo escludo. Nel 1979, Carlos già da anni era stato espulso dal circuito di Fplp. Penso che quei missili fossero in transito e che gli autonomi arrestati si sarebbero dovuti limitare a trasportarli, probabilmente fino al confine svizzero. Si trovava infatti in Svizzera quella che io chiamo la testa del motore, e cioè la centrale del terrorismo palestinese. Mi pare che proprio in quel periodo a Ginevra fosse in programma un’importante conferenza internazionale cui doveva partecipare Henry Kissinger, da anni obbiettivo del Fplp. Carlos aveva assunto il comando dell’organizzazione poi chiamata Separat, vicina ai siriani, e quindi all’Unione Sovietica. Escludo perciò che Carlos avesse bisogno proprio dei due missili di Habbash così come escludo che quest’ultimo si mettesse nelle mani di Carlos per compiere un attentato eclatante nella rossa Bologna”. È dunque solida, da un punto di vista giudiziario, la matrice fascista della strage di Bologna. “Sì. Ricordiamoci innanzitutto il luogo e il contesto: agli inizi degli anni Ottanta, Bologna era ancora la capitale simbolica del Pci. Finiti gli anni del compromesso storico e degli accordi con la Dc, Enrico Berlinguer riposizionò il Partito comunista all’opposizione”. Tanti i testimoni che parlano di Giusva. Responsabile della strage, per la giustizia italiana, è il gruppo dei Nar, i Nuclei armati rivoluzionari di Valerio Giusva Fioravanti. “Lo provano le testimonianze di militanti di primo piano dei Nar: da Cristiano Fioravanti a Walter Sordi, da Stefano Soderini a Luigi Ciavardini. Ma decisiva appare nel contesto della strage la vicenda dell’omicidio Mangiameli. Francesco Ciccio Mangiameli, leader nazionale di Terza Posizione, fu indicato dal colonnello Amos Spiazzi nell’agosto del 1980 come coinvolto nell’attentato. Nel settembre dello stesso anno, Mangiameli venne eliminato dai fratelli Fioravanti, Francesca Mambro e Giorgio Vale a Roma, dopo essere stato attirato in una trappola. Omicidio inspiegabile, se non con il pericolo che ‘Ciccio’ rivelasse quello che sapeva sulla strage di Bologna”.  Giusva Fioravanti e Francesca Mambro erano stati a Palermo, da Mangiameli, nel mese di luglio 1980, per pianificare l’evasione di Pierluigi Concutelli, capo militare di Ordine nuovo. “Sì. Ed è proprio per paura di quanto avevano appreso durante quel viaggio in Sicilia che Giusva era deciso a eliminare anche la moglie e la bambina di Mangiameli. Questo lo ha raccontato il pentito Cristiano Fioravanti, fratello di Giusva”. Cristiano Fioravanti è un personaggio drammatico, grande accusatore del fratello Giusva. È un personaggio credibile? “Certamente sì. In diverse confidenze fatte nel carcere di Palianolo si evince dalle dichiarazioni di Sergio Calore e Raffaella Furiozzi – e in parziali confessioni rese alla Corte d’assise di Bologna, poi ritrattate ma solo su fortissime pressioni del padre dei fratelli Fioravanti, Cristiano ha additato il fratello come responsabile della strage che, nelle intenzioni, non avrebbe dovuto assumere dimensioni così devastanti”. In aggiunta c’è la testimonianza di Massimo Sparti. “Ed è molto importante. Sparti parla di una richiesta urgente di documenti falsi per Francesca Mambro avanzata da un Valerio Fioravanti molto preoccupato che la ragazza fosse stata riconosciuta alla stazione di Bologna. Inoltre, è assolutamente certo che Giusva e Francesca volevano eliminare Ciavardini per aver fatto incaute rivelazioni il 1° agosto alla fidanzata. Stefano Soderini era già stato mobilitato per l’eliminazione del giovane, allora minorenne e ferito in uno scontro a fuoco durante un’azione dei Nar. Non le pare abbastanza per considerare definitiva la matrice fascista della strage?”. Alcuni ritengono però che in tutta la vicenda processuale sia apparsa indeterminata, se non assente, la figura dei mandanti e la motivazione profonda per la strage. “Resta un buco di ricostruzione storica. Ma nessuno può levarmi dalla testa che le continue e pervicaci campagne volte ad accreditare l’innocenza degli attentatori materiali neofascisti non hanno avuto altro esito – anche dopo la sentenza definitiva della Cassazione – che allontanare ancora di più la ricerca dei mandanti e dei loro scopi”. Oggi resta intoccabile quella grande lapide (“Vittime del terrorismo fascista”) all’interno della stazione, con i nomi degli 85morti di Bologna. “Sì, e aggiungo una cosa: quella lapide è tuttora scomoda per parecchi ambienti”.

«Le stragi di Ustica e Bologna? Cercate in medioriente», scrive Giulia Merlo il 2 ago 2016 su “Il Dubbio”. Il 2 agosto di 36 anni fa, la stazione di Bologna venne devastata da un'esplosione che provocò 85 morti e oltre 200 feriti. Il giudice Rosario Priore racconta la sua verità e spiega il “Lodo Moro”. Che cosa è successo alla stazione Bologna, quel 2 agosto del 1980? A 36 anni dalla strage più sanguinosa del secondo dopoguerra - in cui persero la vita in un’esplosione 85 persone e ne rimasero ferite 200 - la verità processuale è stata stabilita in via definitiva e ha riconosciuto colpevoli i militanti neofascisti dei Nuclei Armati Rivoluzionari, Giusva Foravanti e Francesca Mambro. Secondo l’ex magistrato Rosario Priore, titolare delle inchieste sulla strage di Ustica e autore con Valerio Cutonilli del libro I segreti di Bologna, la verità storica apre scenari completamente diversi.

Partiamo dall’inizio, perchè lei scarta la pista neofascista?

«Da magistrato rispetto la cosa giudicata, ma sul piano storico la ricostruzione presenta numerose falle, dovute probabilmente al fatto che l’istruttoria del processo è stata molto lunga, il che spesso si presta a inquinamenti di ogni genere. Gli elementi che rimandano alla pista mediorientale, invece, sono molto evidenti e in alcuni di questi mi sono imbattuto in prima persona nei processi da me istruiti».

A che cosa si riferisce?

«Principalmente alle dichiarazioni di Carlos, detto lo Sciacallo e membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Non solo, però, io credo che il primo a raccontare le cose per come andarono fu il presidente Francesco Cossiga, quando parlò di esplosione prematura».

Non si trattò di una strage voluta?

«Io credo non sia stato un atto doloso per colpire deliberatamente Bologna. La mia ipotesi è che l’esplosivo si trovasse lì perchè doveva essere trasportato dai membri del Fronte Popolare fino al carcere speciale di Trani, in cui era detenuto il militante filopalestinese Abu Anzeh Saleh».

A che cosa serviva quell’esplosivo?

«Il quantitativo fa pensare alla necessità di abbattere mura robuste, come quelle del carcere di Trani. Io credo servisse a far evadere Saleh e che sia esploso per errore a Bologna».

Era così facile per forze straniere trasportare armi ed esplosivi in territorio italiano?

«In quel periodo vigeva ancora il cosiddetto “lodo Moro”, che concedeva alle organizzazioni palestinesi il libero passaggio sul suolo italiano con armi, al fine di stoccarle e usarle successivamente, a patto che non agissero in territorio italiano. Di questo patto esistono le prove, come i depositi di armi in Sardegna e in Trentino».

Possiamo parlare di una sorta di disegno internazionale?

«In quegli anni gli attori in gioco erano molti e molto complessi. Da un lato i filopalestinesi, dall’altro gli americani e la Nato. Noi ci trovavamo nel mezzo e Aldo Moro, da politico raffinato quale è stato fino alla sua morte (nel 1978) sapeva che le regole della partita andavano capite e interpretate».

Lei ha indagato anche sulla strage di Ustica, che avvenne il 27 giugno, un mese prima della strage alla stazione, e in cui persero la vita gli 81 passeggeri del volo Itavia, che viaggiava da Bologna a Palermo. In questo caso una verità processuale chiara manca e le ipotesi rimangono molte. Lei vede un legame con la strage di Bologna?

«Io credo esista un legame generale tra i due eventi, come in tutti i fatti di quegli anni. Anche in quella situazione si riverbera il “lodo Moro”, a cui ancora si ispirava la nostra politica estera. In volo quella notte c’erano velivoli stranieri non Nato, che sorvolavano i nostri cieli con il nostro benestare, sfruttando i buchi sul controllo aereo del patto Atlantico».

Quindi lei scarta decisamente la teoria della bomba a bordo dell’aereo?

«L’ipotesi della bomba non regge. Non posso dire cosa sia successo quella notte, è possibile che si sia trattato di una cosiddetta near-collision tra il volo di linea e un altro aereo militare. Anche i radar indicano questa strada, così come il ritrovamento sui monti calabresi di un aereo da guerra libico».

Tornando ai fatti di Bologna, il suo libro ha scatenato molte polemiche e il presidente dell’associazione delle vittime Paolo Bolognesi l’ha messa in guardia dal commettere il reato di depistaggio.

«Non voglio alimentare polemiche ma trovo strane queste sue affermazioni. Lui si è battuto una vita per capire cosa sia successo a Bologna, ma io ho fatto lo stesso, con intento cronachistico. Entrambi abbiamo lo stesso obiettivo, trovare la verità».  

I MISTERI DEL VELIVOLO ITAVIA. Ustica, la firma di Pertini era falsa: l’ufficiale pilota che cercava la verità sul Dc 9 venne radiato ingiustamente. Mario Ciancarella, ex capitano che indagava sui misteri del velivolo precipitato nel 1980, venne cacciato -per indegnità - dall’Aeronautica con decreto del Quirinale nel 1983. Il tribunale 33 anni dopo: firma del presidente apocrifa. «La Difesa risarcisca», scrive Alessandro Fulloni l'11 ottobre 2016 su "Il Corriere della Sera". Un falso pazzesco. Una firma mai vergata dal presidente-partigiano Sandro Pertini. Che di quell’atto che cacciò dall’Aeronautica un suo ufficiale - se non rovinandogli la vita di certo cambiandogliela pesantemente - non sapeva nulla. La firma dell’allora Capo di Stato sul decreto di radiazione del capitano-pilota Mario Ciancarella (in prima fila nelle denunce per cercare la verità a Ustica e nella riforma, erano gli anni Settanta, dell’ordinamento militare) sottoscritta nel 1983, era apocrifa. In sintesi: «taroccata» come in un documento uscito da una stamperia fuorilegge. Firmata chissà da chi, in una notte buia del 1983. Lo ha stabilito, 33 anni dopo, il tribunale civile di Firenze e la notizia è stata rivelata dall’associazione «Rita Atria» di cui lo stesso ex ufficiale, oggi residente a Lucca dove ha aperto una libreria, è fondatore. La sentenza, spiega una nota della stessa associazione, arriva «dopo due perizie - una di parte e una disposta dal magistrato - che hanno potuto rilevare come il falso sia tanto evidente quanto eseguito con assoluta approssimazione». Non basta. Nella motivazione si legge che il ministero della Difesa è stato condannato in contumacia al pagamento delle spese processuali di 5.885 euro. È solo l’inizio di una specie di rivincita giudiziaria che vedrà l’ex pilota - «cacciato per indegnità a portare la divisa», questa fu la formula usata per radiarlo - avviare con ogni probabilità altre cause, sia in sede penale che davanti alla magistratura contabile. Ma a questo punto è il caso di fare un lungo passo indietro e arrivare alla fine degli anni Settanta, quando tutto comincia. Anni in bianco e nero, anni di piombo. Terrorismo, stragi impunite, l’ombra dei servizi deviati e della P2. Mario Ciancarella è un giovane ufficiale dell’Aeronautica, capitano pilota a Pisa, vola sugli Hercules C-130 della brigata aerosoccorritori, la 46°. Si interessa di sindacato, parola che nelle forze armate di quegli anni era impronunciabile. «Ci chiamavano i “nipotini” delle Brigate Rosse» ricorda oggi l’ex ufficiale riferendosi a quel gruppo di colleghi con cui fondò il movimento dei militari democratici. E che collaborò alla stesura della legge 382/78 - ovvero la riforma dell’ordinamento militare - soprattutto in un punto: la possibilità di disobbedire a un ordine palesemente ingiusto. Battaglia che gli valse processi, un arresto e la radiazione dall’Aeronautica. Giunta tramite ufficiale giudiziario con un atto falso, si scopre ora. Che con quella firma Pertini non c’entrasse nulla, Ciancarella l’aveva intuito subito dopo aver ricevuto la copia del decreto presidenziale. Ma questo avvenne dieci anni dopo la radiazione. E, tra l’altro, dopo la morte dello stesso ex inquilino del Colle. «Prima non era possibile avere quell’atto, non era diritto dell’interessato, mi venne spiegato». Quella firma «l’avevo vista su altre carte: era apocrifa in un modo spudorato». Trovare un avvocato disposto a portare avanti la battaglia per accertare la verità non fu semplice. «Ci ho messo 16 anni... E altri 7 per arrivare alla sentenza». Che gli ha dato ragione. Ciancarella si era interessato anche dei misteri che ruotavano attorno all’abbattimento del Dc9 Itavia a Ustica, il 27 giugno 1980. In particolare al giudice istruttore Rosario Priore il pilota raccontò di quella testimonianza drammatica raccolta poche ore dopo la sparizione dal radar del velivolo da Alberto Dèttori, il sottufficiale radarista, impiegato nella stazione radar di Poggio Ballone, trovato impiccato nel 1987. «Comandante, siamo stati noi a tirarlo giù. Siamo stati noi». «È una cosa terribile...». «Io non le posso dire nulla, perché qua ci fanno la pelle». Qualche mese prima Ciancarella era stato convocato proprio da Pertini al Quirinale insieme a Sandro Marcucci e Lino Totaro, entrambi aviatori e tra i fondatori del movimento democratico. Avevano parlato della riforma dell’ordinamento. Il presidente voleva saperne di più. «La segreteria del Quirinale mi chiamò a casa. Fissarono un appuntamento con me, io non volevo essere solo e mi presentai con i colleghi». Il presidente fu schietto e brutale «ma trasparente: parlammo circa tre ore. Ci congedò dicendoci che se quella sulla modifica dell’ordinamento militare era una battaglia giusta allora avremmo dovuto combatterla seguendo le vie istituzionali, dal confronto sindacale a quello politico ed eventualmente in aula giudiziaria, senza alcun appoggio diretto del Quirinale». Che però continuò discretamente a interpellarli, e forse a osservarli benevolmente, anche in seguito. Sino al via libera parlamentare della legge. (Questo fu il destino dei tre fondatori del movimento militari democratici: Sandro Marcucci, capitano pilota nella brigata degli aerosoccorritori, si interessò di Ustica, cercando documenti e testimonianze. Morì il 2 febbraio 1992, una domenica limpida e senza vento, precipitando a Campo Cecina, in Toscana, a bordo di un aereo anti-incendio civile: due anni fa la procura di Massa ha deciso di riaprire un’inchiesta su quell’incidente. Lino Totaro, sergente maggiore, dovette lasciare l’Aeronautica perché dichiarato instabile mentalmente. Lui oggi vive in Africa, «abbastanza serenamente». Di Mario Ciancarella si è detto.)

Giancarlo Siani, il mistero durato 15 anni. Testo e Video di Antonio Castaldo del 22 settembre 2016 su "Il Corriere della Sera/Tv. E quel sogno alla fine realizzato. Il fratello Paolo e l’amico e compagno d’avventura Antonio Irlando raccontano il cronista ucciso il 23 settembre 1985. Giancarlo Siani era un ragazzo. Aveva compiuto 26 anni quattro giorni prima di essere ucciso. Ed era un giornalista. Quella estate, la sua ultima estate, aveva fatto il suo ingresso nella redazione centrale de «Il Mattino». Non era ancora la fine della gavetta, «l’assunzione» tanto attesa, ma il primo passo concreto in quella direzione. Per il giornale di Napoli lavorava però già da qualche anno come corrispondente da Torre Annunziata. Lui, figlio della Napoli bene, spedito dal borghese Vomero al cuore vesuviano della guerra di camorra. A Torre, solo un anno prima, 8 persone sono state falciate dal fuoco di 14 killer giunti nel fortino del clan Gionta a bordo di un autobus turistico. «E a Torre Annunziata Giancarlo sfornava una notizia dopo l’altra, fino a scrivere quasi mille articoli in pochi anni», racconta Paolo Siani, che si è speso con grande energia per mantenere accesa la stessa fiamma di energia e impegno che animava suo fratello. «Pezzo dopo pezzo - racconta l’amico e compagno di mille avventure da cronisti sul campo, Antonio Irlando - Giancarlo stava raccontando una città. Non so se consapevolmente o meno, ma l’intero corpus di tutto il suo lavoro, le notizie che cercava, quelle che trovava mettendo insieme situazioni apparentemente slegate, costruivano un’unica narrazione, ma basata sui fatti». E siamo al 23 settembre 1985. Sono le 21 circa di un tranquillo lunedì di settembre. Siani ha appena terminato la sua giornata di lavoro in redazione. Sostituto estivo, abusivo come si dice in gergo. Sale a bordo della sua macchina, quella Mehari verde che annunciava il suo arrivo a decine di metri di distanza. Risale dal mare su in collina, saluta gli amici che lo aspettano in piazza, e va a parcheggiare al solito posto, sotto casa. Lì i killer lo stanno aspettando da almeno un paio di ore. Lo colpiscono alla schiena, otto proiettili. Una sentenza passata in giudicato nel 2000 ha stabilito che ad uccidere il giornalista napoletano sono stati gli affiliati del clan Nuvoletta. Nel giugno precedente Siani aveva alluso in un suo articolo alla possibilità che i boss di Marano avessero venduto ai carabinieri il capoclan di Torre Annunziata, Valentino Gionta, per compiacere i potentissimi Alfieri e Bardellino. Un’offesa a quanto pare insopportabile: «Come? Noi mica siamo infami? Noi mica facciamo arrestare le persone?», avrebbe urlato Lorenzo Nuvoletta, poi diventato famoso per aver sciolto nell’acido svariati nemici. E dal momento che il lavoro assiduo e coraggioso di Siani dava fastidio alla stessa famiglia Gionta, arrivò l’ordine: il giornalista doveva morire. Per giungere a questa verità processuale sono stati impiegati 15 anni. L’inchiesta partita con slancio si è imbattuta lungo la strada in alibi spuntati dal nulla che hanno vanificato arresti presentati come definitivi; cambi di direzione nelle indagini dopo anni spesi su false piste; identificazioni confuse in un valzer di sosia e figuranti. Eppure in tanti anni, nonostante i molti testimoni oculari, mai neppure un identikit. Decine di sigarette certamente fumate dal killer, ma non un Dna, al massimo il gruppo sanguigno di uno dei due assassini. «C’è stato qualche intoppo», sintetizza oggi Paolo Siani con una certa eleganza. I faldoni dei tanti processi Siani occupano un grosso armadio negli archivi del tribunale di Napoli. La vicenza giudiziaria ha avuto uno svolgimento tanto lungo e complesso da presentare più di una porosità. E i dubbi, quasi ricalcando l’andamento carsico del processo, ciclicamente si riaffacciano. «Il sangue di Giancarlo Siani è scorso in maniera diversa da quella di altre vittime di camorra». Lo scrive Roberto Paolo, giornalista del quotidiano «Il Roma», che in un libro apparso nel 2014, «Il caso non è chiuso», (edizione Castelvecchi), rianalizza l’interminabile sequenza di atti d’indagine e percorre nuove piste. O meglio, piste battute in un primo momento dagli inquirenti ma poi abbandonate. Spunti su cui anche la Procura di Napoli è tornata ad indagare, senza poter approdare, ad oggi, a nessuna altra verità possibile. Quel ragazzo che voleva fare il giornalista e che sul fondo della sua ultima estate stava per trovare il suo primo contratto, non è morto invano. Anzi, per Napoli, in un certo senso, Giancarlo Siani non è mai morto veramente: «Nei mesi successivi al delitto - racconta Paolo - incontravamo difficoltà a parlare di camorra nelle scuole. Gli insegnanti ci dicevano: che c’entra la scuola con la camorra, non è cosa nostra. Oggi io non riesco ad andare in tutte le scuole che mi chiamano». Col passare degli anni, e dell’inesausta attività dell’associazione che oggi porta il nome di Giancarlo, quella situazione è cambiata: «Giancarlo voleva cambiare il mondo», conclude Irlando. «Con i suoi articoli, i suoi dubbi, le sue continue domande. E chissà, alla fine in fondo ci è riuscito».

Ambrosoli, l’eroe borghese che l’Italia non ha dimenticato. Testo e Video di Antonio Castaldo del 10 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera/Tv. Ucciso a Milano l’11 luglio 1979. Il ricordo del figlio Umberto: «Per lui Paese si scriveva con la maiuscola». Il mese di luglio a Milano è sempre uguale. L’aria brucia sotto un sole martellante, ma il traffico, la gente, il ciclo continuo della metropoli in movimento è lo stesso di sempre. È estate piena, ma non è ancora tempo di vacanze. Era così Milano anche l’11 luglio del 1979, la sera in cui Giorgio Ambrosoli venne ammazzato. Il 29 gennaio di quello stesso 1979 i militanti di Prima Linea avevano ucciso a Milano il giudice Emilio Alessandrini. Il 20 marzo, a Roma, il delitto di Mino Pecorelli, giornalista depositario di molti segreti. E poi agenti di polizia e carabinieri caduti per mano del terrore. Solo un anno prima, l’8 maggio del 1978, il sequestro Moro si chiudeva con il ritrovamento del corpo dello statista in via Caetani. Sono gli anni di piombo. Ogni giorno qualcuno spara, assalta sedi politiche, uccide, minaccia, lancia bombe o progetta attentati. Ed è per questo motivo che, sebbene più volte minacciato, anche Ambrosoli girava per Milano senza scorta. Quella sera si disputava un incontro di pugilato. Ambrosoli aveva invitato nella sua casa di via Morozzo della Rocca alcuni amici per vedere il match. Finito il quale li aveva accompagnati a casa. Sceso dall’auto si sentì chiamare: «Avvocato Ambrosoli?». Ebbe il tempo di rispondere «sì». Poi William J. Arico, noto negli ambienti della «comunità italo-americana» di New York come Bill lo sterminatore, disse solo: «Scusi avvocato». E gli esplose contro 4 colpi di 357 magnum. Il «Corriere della Sera» del 29 settembre 1974 titolava a pagina 6: «Da domani sportelli chiusi alla Banca Privata di Sindona». Il giorno prima Ambrosoli aveva ricevuto dal governatore della Banca d’Italia Guido Carli l’incarico di commissario liquidatore. Telefonando alla moglie Annalori per comunicarle la notizia, dirà: «Sono solo». Un solo commissario liquidatore per un fallimento da centinaia di miliardi. Non era raro a quei tempi, ma neppure comune. E soprattutto era anomalo considerando le forze in gioco. Per i cinque anni successivi Ambrosoli, che all’epoca aveva 41 anni e un’unica esperienza nel settore fallimentare, fronteggerà Michele Sindona, personaggio potente e spericolato, con alle spalle Giulio Andreotti e mezza Dc, con relazioni che spaziavano dalla finanza internazionale alla P2 di Licio Gelli, fino al gotha della mafia siciliana. «Per quattro anni e mezzo mio padre lavorò duro alla liquidazione della Banca Privata. I primi tempi, rimaneva in ufficio tutto il giorno. Lo vedevamo a casa solo i primi tempi», aggiunge Umberto Ambrosoli, avvocato a sua volta e da qualche anno anche consigliere regionale in Lombardia per il Pd. Nel 2009 ha scritto «Qualunque cosa succede», un libro che ricostruisce la vicenda del coraggioso genitore. Fin dai primi tempi tentarono di blandirlo, di convincerlo ad assumere un atteggiamento morbido nei confronti della proprietà, ovvero di Sindona. Che contro l’evidenza legale di un crac multimiliardario, tentò in ogni modo di ottenere un accordo con la Banca d’Italia. Voleva fare salva la sua banca e con questo obiettivo mobilitò tutti i suoi contatti: da Andreotti a Gelli, dal ministro Gaetano Stammati al sottosegretario Franco Evangelisti, fino ai vertici di Bankitalia ed a Enrico Cuccia, già all’epoca influente tessitore di trame finanziarie, che finì per minacciare nei modi più espliciti. «Poi un giorno papà viene in possesso fortuitamente di un telex inviato agli uffici della banca. Scopre così l’esistenza di alcune società estere. Erano le cassaforti di Sindona. In qualità di commissario liquidatore, ne assume la guida. Un’operazione che qualcuno definì avventata, ma che gli consentì di recuperare i denari frutto di operazioni illecite che il banchiere aveva occultato». Ponendosi a capo della Fasco, Ambrosoli entra nella cabina di regia del gruppo sindoniano, svelando l’intreccio di partecipazioni e il traffico di fondi che fluttuano per l’Europa, da una banca all’altra. Sono coinvolti lo Ior di Marcinkus e la Democrazia Cristiana, esposizioni con coperture scarse o nulle e interessi girati «a nero» ai diretti, potentissimi, investitori. Ambrosoli non si ferma, non ha paura dei nomi grossi che incontra lungo la strada, la sua è una marcia decisa, senza tentennamenti. E quando circa sei mesi dopo consegna alla Banca d’Italia il primo frutto del suo lavoro, lo stato passivo della Banca Privata (che tra l’altro taglia fuori lo Ior), acclude un biglietto per il governatore: «Con i migliori sentimenti di devozione per avermi dato modo di servire in qualche modo il Paese». La strategia adottata per fermare Ambrosoli è un crescendo rossiniano. Dagli ammiccamenti si passa ai messaggi intimidatori, alle visite in studio di strani personaggi, poi alle minacce a lui e ai suoi collaboratori, primo fra tutti Silvio Novembre, il maresciallo della Guardia di Finanza che gli fu vicino fino all’ultimo e che rischiò il trasferimento sul Monte Bianco a motivo della sua leale collaborazione. A maggio, due mesi prima dell’agguato, trova nel parcheggio della banca, proprio davanti alla sua Alfetta blu, una pistola rubata dalla cassaforte del suo ufficio. Ambrosoli va avanti. In contatto costante con i magistrati che indagano sul crac e protetto dalla sola Banca d’Italia, prosegue il suo lavoro. Non si ferma neppure quando la voce anonima dall’accento siculo che lui ormai amichevolmente chiama «il picciotto» per le continue chiamate, gli urla: «Lei è degno soltanto di morire come un cornuto e un bastardo». La mattinata del 11 luglio 1979, poche ore prima di spirare sulla barella di un’ambulanza con quattro proiettili in corpo, aveva terminato la lunga audizione per la rogatoria che di lì a cinque anni riporterà in Italia Sindona. L’uomo che tre gradi di giudizio riconosceranno come mandante materiale del suo omicidio. In Italia esistono 8 «vie Giorgio Ambrosoli», tre «piazza» o «largo Giorgio Ambrosoli», innumerevoli scuole, spazi universitari, biblioteche, aule di tribunali. Non si tratta dell’omaggio a un funzionario diligente. A un rispettoso servitore dello Stato. Non è solo questo. Con le targhe, le medaglie, le celebrazioni, l’Italia onora un uomo coraggioso, un uomo libero. Ambrosoli ha fatto molto più di quanto in realtà gli era umanamente chiesto. Se si fosse limitato all’ordinario, se avesse portato a termine la liquidazione senza infastidire i potenti, nessuno lo avrebbe biasimato. Anzi, per lui si sarebbero spalancate le porte di una luminosa carriera. Gherardo Colombo, il magistrato che con Giuliano Turone indagò sull’omicidio, confidò un giorno ad Umberto: «Gli sarebbe bastato un sì talmente piccolo che nessuno se ne sarebbe accorto. E se qualcuno lo avesse notato, non avrebbe potuto opporre argomenti al fatto che si era trattato di un atto dovuto». Ma come con condivisibile ammirazione ama ripetere suo figlio, Giorgio Ambrosoli era «un uomo libero, persino dalla preoccupazione per la sua stessa incolumità». «L’eroe borghese», lo aveva definito Corrado Stajano nel libro ancora oggi celebrato come esempio di giornalismo d’inchiesta. Borghese forse perché non indossava divise e non aveva bandiere se non il tricolore cui era devoto. O forse perché, in un momento di forte contrapposizione sociale, ha dimostrato di essere il migliore tra quelli come lui. Un giurista, un avvocato, un professionista «eroe». Ha fatto il suo dovere e non si è fermato neppure di fronte alla morte.

«Masse di denaro a ignoti». La prima relazione ai pm di Ambrosoli su Sindona. Le carte dell’eroe borghese: complesso liquidare una banca. La ricostruzione delle operazioni per trasferire all’estero «enormi masse di denaro», scrive Sergio Bocconi il 12 ottobre 2016 su "Il Corriere della Sera". «Il 22.10.1974 il sottoscritto ha reso alla S.V. deposizione sui fatti emersi da un primo esame (...) ed ora è in grado di offrire una prima relazione...». Così Giorgio Ambrosoli, che ha assunto il 29 settembre 1974 le funzioni di unico commissario liquidatore della Banca Privata italiana, il cuore dell’impero in dissesto di Michele Sindona, scrive in apertura delle 14 pagine che compongono la «Prima relazione» al Procuratore della Repubblica (il pm che segue la bancarotta è Guido Viola, e Ovidio Urbisci è giudice istruttore) datata 21 marzo 1975. Il documento, inedito e che precede il primo rapporto inviato a Banca d’Italia il 26 giugno (Governatore è Guido Carli fino all’agosto 1975, poi gli succede Paolo Baffi), fa parte dell’archivio della Banca Privata riordinato, reso ora consultabile e conservato dalla Camera di commercio di Milano per conto dell’Archivio di Stato. Un «tesoro» composto da 8.944 fascicoli, dei quali 6.300 riguardano l’attività degli istituti che nel 1974 sono diventati la Privata mentre gli altri sono relativi all’attività liquidatoria di Ambrosoli e di chi ne proseguirà il lavoro dopo che l’11 luglio l’«eroe borghese» verrà ucciso dal killer William Arico su mandato di Sindona, agli interrogatori e agli atti della «scatole» societarie costruite dal bancarottiere. Colpiscono nella relazione le righe che definiscono tratti caratteriali e professionali di Ambrosoli come il senso del dovere e di responsabilità. «Per quanto dal 27.9 siano decorsi quasi sei mesi, il sottoscritto ha potuto dedicare poco tempo alle indagini ai fini della relazione, occupato dalla gestione quotidiana dell’azienda: se invero chiudere un’azienda è relativamente facile, assai più complessa e lunga è la liquidazione di un’azienda di credito la cui “vita” continua anche dopo la messa di liquidazione per i molteplici rapporti in essere soprattutto con l’estero». Il commissario sottolinea «la convinzione» che la Procura, disponendo delle relazioni degli ispettori di Bankitalia, abbia già elementi «per procedere nei confronti dei responsabili». Perciò ha dedicato l’attenzione «ai problemi più urgenti per svolgere le operazioni di liquidazione»: dalla formazione dello stato passivo alla «sistemazione presso altri istituti del personale dell’azienda». L’entità del dissesto che emerge dalla contabilità raggiunge 531 miliardi di lire, ma Ambrosoli spiega di aver «contenuto» il passivo in 417 miliardi «contestando crediti ed effettuando compensazioni». Nella relazione il commissario già traccia i meccanismi fraudolenti messi in atto dal bancarottiere: «Operazioni di affidamento a società estere per il tramite di poche banche straniere tutte o quasi strettamente collegate al gruppo Sindona». Così «enormi masse di denaro sono trasmesse all’estero e buona parte di tali importi è stata trasferita a beneficiari sconosciuti». Dai primi mesi del 1974 il gruppo ha «operato nella prospettiva del dissesto». Ambrosoli descrive poi perdite da prestiti “diretti” a società estere «non previste dal consiglio», «distorsioni contabili di gravità tale da alterare la veridicità dei bilanci». E si sofferma sulle operazioni in cambi non contabilizzate che portano alla «falsificazione di documenti contabili, all’occultamento di costi e ricavi»: sono pervenute «domande di tre creditori» fra cui lo Ior, l’Istituto del Vaticano, per «ingenti depositi in dollari», contabilizzati «invece come depositi di una banca estera presso la Privata». Le responsabilità? Fanno carico «a chi amministrava la banca, o meglio, disponendo della maggioranza azionaria, era l’ispiratore di ogni attività». A Sindona dunque. Sebbene «non meno gravi» sono quelle di «amministratori, sindaci, dirigenti che hanno passivamente ordinato, disposto ed eseguito». Nelle 14 pagine c’è già dunque tutto, o quasi, ciò che porterà al sacrificio di Ambrosoli. Il quale, pochi giorni prima, aveva scritto alla moglie Annalori: «Pagherò a molto caro prezzo l’incarico. Qualunque cosa succeda tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo».

E' nel 2014 quando Luigi Bisignani, uno degli uomini più influenti della storia italiana, decise insieme al giornalista Paolo Madron - ex firma de Il Foglio, Il Giornale, Panorama, Sole24ore e ora direttore di Lettera43 - di svelare le verità più occulte che per moltissimo tempo mossero l'Italia. Politici, industriali, papi, ministri protagonisti di un libro senza precedenti che assume i toni di un romanzo. Il titolo "L'uomo che sussurra ai potenti" è evocativo di un personaggio capo indiscusso del network che guida le nomine più importanti del Belpaese dai ministri a quelle della Rai, dalle banche all'esercito. Un capolavoro da decine di migliaia di copie, edito da Chiarelettere, "L' uomo che sussurra ai potenti. Trent'anni di potere in Italia tra miserie, splendori e trame mai confessate". Descrizione: Ministri, onorevoli e boiardi di Stato fanno la fila nel suo ufficio per chiedergli consigli, disegnare strategie e discutere di affari. Luigi Bisignani è unanimemente riconosciuto come il capo indiscusso di un network che condiziona la vita del paese. Non c'è operazione in cui non ci sia il suo zampino, dalle nomine dei ministri a quelle in Rai, nei giornali, nelle banche e nell'esercito. La sua influenza arriva persino in Vaticano. In questo libro, per la prima volta, Bisignani decide di raccontarsi attraverso aneddoti ed episodi inediti. Da Andreotti e la P2 a Berlusconi e Bergoglio. Lui che non appare mai in tv, non scrive sui giornali e disdegna la mondanità. La sua testimonianza da questo punto di vista è unica. Ecco come funziona il potere, quello vero, che non ha bisogno di parole e agisce nell'ombra.

Chi è veramente Luigi Bisignani, uomo del mistero? Un identikit dell'uomo che sussurra ai potenti, scrive "Wuz". Un libro Chiarelettere che va esaurito nel giorno stesso in cui arriva nelle librerie. Al centro della curiosità vorace dei lettori, la figura di Luigi Bisignani, affarista conosciuto e temuto da moltissimi politici. Di lui, Berlusconi ha avuto a dire che era "l'uomo più potente d'Italia"... ma quali sono le cose che sappiamo con certezza, su questo Richelieu in sedicesimo la cui discrezione è direttamente proporzionale al potere che è in grado di esercitare? Ecco un breve estratto dal libro-intervista pubblicato da Chiarelettere, e firmato dal giornalista Paolo Madron. Sono solo poche righe, per tratteggiare un carattere che vedremmo bene portato sul grande schermo da Sorrentino, magari sulla falsariga di quella grottesca commedia del potere ammirata ne Il divo (che raccontava dell'esempio cui massimamente Bisignani si è ispirato nella sua quarantennale carriera dietro le quinte, e cioè Giulio Andreotti). Quello di Bisignani è un libro la cui lettura consigliamo; ci permettiamo però di consigliare qualche cautela nel prendere per buono tutto ciò che in esso viene raccontato. Se è vero che l'uomo è arrivato dove è arrivato grazie alle sue capacità strategiche e alla sua grande cautela, infatti, è difficile pensare che all'improvviso Bisignani abbia deciso di mettere sul piatto i segreti di cui è geloso custode (e al cui mantenimento è probabilmente legato l'ascendente di cui gode presso i politici). Più facile invece che Mister B. abbia deciso, anche in seguito alle sue recenti, travagliate vicende giudiziarie, di offrire a (tutti) i suoi potenziali lettori l'assaggio di una cena che sarebbero in pochi ad aver voglia di gustare fino in fondo. Diciamo che in queste pagine si respira il fumo (saporito, non c'è che dire) di un arrosto che il nostro cuoco tiene ben caldo in forno, portata principale che immaginiamo non arriverà a tavola tanto presto. Sul libro: Ministri, onorevoli e boiardi di Stato fanno la fila nel suo ufficio per chiedergli consigli, disegnare strategie e discutere di affari. Luigi Bisignani è riconosciuto come il capo indiscusso di un network che condiziona la vita del paese. Non c’è operazione - si dice - in cui non ci sia il suo zampino, dalle nomine dei ministri a quelle in Rai, nei giornali, nelle banche e nell’esercito. La sua influenza arriva persino in Vaticano. In "L'uomo che sussurra ai potenti", per la prima volta, Bisignani "vuota il sacco" e decide di raccontarsi attraverso aneddoti ed episodi inediti: da Andreotti e la P2 a Berlusconi e Bergoglio. L'uomo che sussurra ai potenti non appare mai in tv, naturalmente. Non scrive sui giornali e disdegna la mondanità. La sua testimonianza - da questo punto di vista - è realmente unica. Quindi questo libro ci offre un cannocchiale privilegiato per gettare uno sguardo da vicino sul potere più forte e inossidabile: il potere vero, che fa economia di parole e si muove con assoluta efficacia fra le stanze di Palazzo.

IDENTIKIT – cosa il signor B. dice di sé stesso:

1. Inguaribile ottimista, amo il sole e il mare;

2. Le mie conversazioni sono rapide, in genere non superano i 15 minuti;

3. Il mio segreto è che resto sempre a disposizione dei miei amici;

4. Non cerco ritorni;

5. So come va il mondo;

6. Non mi piace apparire;

7. Non partecipo a cene con più di sei persone;

8. Gianni Barbacetto mi ha definito L’uomo dei collegamenti;

9. Maurizio Crozza dice che ho più amici di facebook;

10. Qualcuno dice che sono un battitore libero senza padroni né padrini;

11. Io direi che sono uno stimolatore d’intelligenze: quando una persona valida mi piace immagino quale ruolo potrebbe ricoprire.

L'uomo che sussurrava ai potenti. Alter ego di Letta. Regista di mezzo governo. Ispiratore dei manager pubblici. Bisignani è l'uomo ombra della seconda Repubblica. E ora fa tremare il sistema Berlusconi, scrive Marco Damilano su “L’Espresso” il 23 giugno 2011. Al suo successo avevano contribuito una congerie di potentati difficilmente collegabili tra loro, ma che lui era sempre riuscito a usare, manovrandoli come pedine su un'immaginaria scacchiera del potere...". Martedì 21 giugno, solstizio d'estate, il calendario segna san Luigi Gonzaga, ma il san Luigi di piazza di Spagna, confessore di ministre e di boiardi di Stato, non può più rispondere: è agli arresti domiciliari. E qualcuno nei palazzi romani rilegge l'incipit di un romanzo anni Ottanta denso di spioni, cardinali, belle donne, in cui l'autore sembrava volersi descrivere, consegnare la verità più profonda su di sé. "Il sigillo della porpora", si intitolava quella spy-story all'italiana che fu presentata al teatro Eliseo, e peccato che non ci fosse ancora "Cafonal" a immortalare la scena: il ministro degli Esteri Giulio Andreotti recensore entusiasta ("Il gelido protagonista si commuove solo quando gli uccidono la figlia: una pagina di toccante ed eloquente umanità"), il giovane e rampante Giuliano Ferrara, il re dei critici Enzo Siciliano, e in mezzo a loro lo scrittore, il 35enne Luigi Bisignani. Di quella serata indimenticabile resta qualche scatto, null'altro. Dalla condanna per la tangente Enimont a due anni e sei mesi (1994) Bisignani è scomparso dalle cronache: un'ombra che ha attraversato l'intera Seconda Repubblica. E ora l'Ombra torna alla luce, con l'inchiesta di Napoli dei pm Curcio e Woodcock, nel pieno di una nuova traumatica transizione politica. Spiega un notabile a Montecitorio: "Siamo come all'8 settembre: una corte in fuga, un governo che si dissolve, eserciti in rotta. Pezzi di Stato contro pezzi di Stato, apparati contro apparati. Una guerra di tutti contro tutti, che si può concludere solo con un ricambio di classe dirigente. O che soffocherà tutti nei suoi miasmi". Nei palazzi rileggono i verbali dell'inchiesta e riconoscono in controluce nella storia di Bisignani la parabola della politica di questi vent'anni. "Ai tempi di Andreotti, Bisignani era un piglia e porta. Stava in anticamera ed eseguiva. Su uno come Geronzi, Giulio ironizzava: "È come un taxi, anche se conserva la ricevuta"", spiega un ex democristiano di rango. "Dirigenti pubblici, banchieri, consiglieri di Stato, i De Lise, i Calabrò, i Catricalà, erano guidati dai politici. Svaniti i partiti con la bufera Tangentopoli hanno dovuto trovarsi altri referenti". Interessi senza volto. Comunanze e affinità che sostituiscono le sedi visibili. Filiere trasversali. Come quella, ad esempio, personificata da Cesare Previti: in apparenza dormiente e condannato, ma ancora abbastanza influente da far inserire nelle liste per la Camera del Pdl Alfonso Papa, il magistrato distaccato nel ministero di via Arenula e oggi deputato Pdl amante di Rolex e di Jaguar di cui i pm napoletani hanno richiesto l'arresto. La filiera che più si sente minacciata e desiderosa di protezione, però, è un'altra: bastava vedere il balletto improvvisato da Berlusconi nell'aula del Senato, un inconsueto giro di strette di mano tra i banchi del governo per arrivare a stringere davanti a tutti quella del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il dottor Gianni Letta. A legare il sodalizio tra i due, un quarto di secolo fa, fu Bisignani. All'imprenditore di Arcore serviva un presidio a Roma. E Bisignani non ebbe esitazioni, indicò a Silvio l'uomo giusto: il dottor Letta, appunto. Letta da direttore del "Tempo" diventa il decoder di Berlusconi nella capitale, e poi il gran ciambellano di Palazzo Chigi, il governante che nessuno ha votato e di cui nessuno conosce le idee politiche e che pure viene candidato alle più alte cariche. L'inchiesta Bisignani lo fulmina alla vigilia della possibile consacrazione istituzionale, la nomina a senatore a vita e perfino il Quirinale. E se Letta risolve i problemi di Berlusconi, l'Ombra Bisignani è il personaggio che spiccia le faccende di mezzo governo, dei vertici degli enti pubblici, del Gotha dell'impresa privata e dei servizi segreti, da Cesare Geronzi a Fabrizio Palenzona. A lui si affidano i ministri e le ministre di Berlusconi: a Gigi si rivolge con familiarità il titolare della Farnesina Franco Frattini, a lui ricorre il trio rosa Stefania Prestigiacomo, Mara Carfagna, Mariastella Gelmini. Più confidenziale Stefania ("Se escono le intercettazioni sono rovinata"), più prudente Mara, più ambiziosa Mariastella. Ruota attorno all'ufficio di piazza Mignanelli lo stato maggiore della corrente del Pdl Liberamente ("Forse avrebbero dovuto chiamarsi Bisignanamente", maligna un deputato). Vicino a Bisignani è il titolare delle Infrastrutture Altero Matteoli, tramite il braccio destro Erasmo Cinque. Mentre tra i finiani di Futuro e libertà, capolavoro, si abbeverano ai consigli di Gigi entrambe le anime: il falco Italo Bocchino e la colomba Andrea Ronchi, ministro nel 2008 per grazia ricevuta, forse non solo di Gianfranco Fini. A Palazzo Grazioli l'Ombra può contare sulla vecchia conoscenza Daniela Santanchè: fu lui il regista dell'operazione Destra, quando la Sarah Palin di Cuneo si candidò premier con il partito di Francesco Storace, fu ancora lui a spingerla a fondare l'agenzia Visibilia, per raccogliere pubblicità per "Libero" degli Angelucci. E c'è il sindaco di Roma Gianni Alemanno, che a leggere la testimonianza del suo ex capo di gabinetto Maurizio Basile, usava cenare a casa della mamma di Bisignani, la signora Vincenzina, per discutere del Gran premio a Roma e chiedere a san Luigi di intercedere presso Flavio Briatore. L'aggancio giusto per la F1, manco a dirlo: il figlio di Bisignani lavora in Ferrari e con il presidente del Cavallino Rampante c'è una vecchia simpatia. "Di casa a New York come a Parigi, amante delle lunghe gita in bicicletta e della scultura moderna, Luca Cordero di Montezemolo è diventato un manager tenace con un notevole carisma che, a sentire i sondaggi, l'ha imposto come uno degli italiani più conosciuti", magnificava l'allora redattore ordinario dell'Ansa Bisignani in un sobrio lancio del 15 novembre 1991. Ma c'era da capirlo: emarginato nell'agenzia dopo lo scandalo P2, costretto a occuparsi di camionisti o di poco eccitanti convegni come quello su "Etica e professione" ("Il giornalista deve liberarsi dai cordoni ombelicali del potere economico e politico", tuonava), era stato salvato da Montezemolo: "Nell'89, in occasione dei Mondiali di calcio, noi dell'organizzazione ottenemmo il suo distacco dall'Ansa", ha dichiarato l'ex presidente di Confindustria interrogato dai pm sulle richieste di raccomandazione per l'amico Gianni Punzo e per l'ex compagna Edwige Fenech. Naturale un po' di gratitudine, anche se sono trascorsi vent'anni. Come appare del tutto normale, nel Bisi-mondo, la rete ai vertici di Eni, Enel, Finmeccanica, Poste, Ferrovie. E la pubblicità di 100 mila euro arrivata dall'Eni a Dagospia per interessamento di san Luigi. Più complicato da spiegare, perfino per un professionista del potere come Bisignani, perché il direttore generale della Rai Mauro Masi si rivolgesse a lui per farsi scrivere la lettera con cui puntava a licenziare Michele Santoro, lo chiamasse con l'assiduità del molestatore e con toni non certo da grand commis: "Je stamo a spaccà er culo". "Mi occupavo di Rai perché ero convinto che Masi non fosse all'altezza", ha provato a giustificarsi il povero Bisignani. E sì che Gigi ha fatto con Mauro coppia fissa: entrambi legati a Lamberto Dini e a Letta, senza trascurare la rive gauche. Tra il 2006 e il 2008 Masi è stato capo di gabinetto di Massimo D'Alema vice-premier del governo Prodi. E anche Bisignani poteva vantare ottima accoglienza dalle parti dell'ex leader Ds: fu lui a portare il direttore dell'Aise, il generale Adriano Santini, dal presidente del Copasir. "Il generale mi chiese una mano per la sua carriera e mi chiese di parlare bene di lui con Letta. Chiesi a D'Alema se potevo portargli Santini, lui mi disse di sì", ha raccontato a Curcio e Woodcock. Anche in questo caso, giurano i protagonisti, nulla di strano: "Conosco Bisignani da 35 anni", ha testimoniato D'Alema. "Lui conosceva mio padre, era presidente della commissione Finanze della Camera, Bisignani era il portavoce del ministro". Nel '77 D'Alema aveva 28 anni ed era il capo dei giovani comunisti, Bisignani ne aveva appena 23 ed era il più giovane piduista. Vite parallele, in un'Italia in cui tutti si conoscono. E in cui, nonostante l'alternanza dei diversi schieramenti al governo, certi nomi non tramontano mai. Ora siamo alla vigilia di un nuovo cambio. Se n'è discusso tre mesi fa, sussurra chi sa, in un incontro a porte chiuse all'Aspen sul tema della riforma dei servizi segreti. Pochi gli invitati, c'erano D'Alema e Giuliano Amato, c'era il prefetto Gianni De Gennaro, incrollabile punto di riferimento di questi anni travagliati anche oltre Atlantico, c'era il presidente dell'Istituto Giulio Tremonti, da molti indicato come il vero beneficiario di un terremoto che fa vacillare i suoi avversari nel governo. Assente il procuratore aggiunto di Milano Francesco Greco, che indagò su Bisignani ai tempi Enimont e alle cui analisi il ministro dell'Economia è molto attento. In questi ambienti c'è preoccupazione per le conseguenze dell'inchiesta e si discute già della fase successiva: un governo del Presidente. "Berlusconi doveva avere il coraggio di voltare pagina. All'Italia serve un governo forte e credibile e il Cavaliere non ha più carte da giocare", ripetono. Il premier non ci sente, prova a blindarsi nel bunker di Palazzo Chigi tra un voto di fiducia e l'altro, aggrappato a una maggioranza nel caos e a un Letta vistosamente indebolito. Tremonti al Senato per il dibattito sulla verifica non si è fatto neppure vedere. E l'Ombra, intanto, continuerà a far tremare con le sue rivelazioni. Il più consapevole che il game is over, la storia è finita, è proprio lui, Bisignani. "Ora che dalla cima si poteva guardare indietro, gli capitava spesso di chiedersi, rabbrividendo, se avrebbe sfidato ancora l'azzardo come gli era capitato tante volte durante l'ascesa", aveva scritto Bisignani nel suo primo romanzo. Ma adesso il suo azzardo coinvolge un intero Sistema.

“Avrei voluto un amico come lui” – David Gramiccioli omaggia Rino Gaetano, scrive il 14 settembre 2015 "lastella". Riceviamo & pubblichiamo da David Gramiccioli. Dagli anni 70 a oggi non è cambiato niente. Ieri il braccio armato di quel potere occulto e deviato (oggi sempre meno occulto e sempre più deviato) era Franco Giuseppucci detto Er Negro, primo, indiscusso capo della banda della Magliana. Oggi Massimo Carminati, forse non è un caso che il secondo rappresenti l’ideale contiguità con quell’esperienza criminale. Negli anni 70 il fronte criminale romano si arricchì con il commercio della droga, successivamente con il business immobiliare. Oggi, che la droga sembra non essere più il filone aureo di una volta e con la profonda crisi che sta vivendo l’edilizia, si “investe” sulla disperazione umana (immigrati e zingari). Tangentopoli produsse, colossale bluff, una nuova legge elettorale per l’elezione dei sindaci, in molti esultarono all’idea che finalmente sarebbero stati i cittadini, per la prima volta nella storia repubblicana e democratica del paese, a eleggere direttamente un sindaco. In realtà si rafforzò ancora di più il potere politico di alcuni leader che avevano a cuore tutto tranne che il bene e la ripresa del paese. La televisione, il riscontro mediatico fissavano sempre di più i parametri del successo in ogni campo della nostra società. Quando parliamo del nostro paese, della nostra amata Italia, non dobbiamo dimenticarci mai cosa è accaduto dall’8 di settembre 1943 a oggi. Legge truffa subito dopo la morte di Stalin, Capocotta. Tragedia del Vajont, Giorgiana Masi…i rapporti tra massoneria-politica-criminalità. Nessuno come lui ha cantato la nostra storia, nessuno come lui, cantava: “ma chi me sente”, era consapevole della solitudine artistica e umana alla quale è condannato il genio, ma nel profondo del suo animo Rino nutriva, lo disse pubblicamente una sera, una grande speranza; quella che un giorno grazie alla comunicazione di massa la gente potesse finalmente comprendere il significato dei testi delle sue canzoni.

Recensione di Giada Ferri dello spettacolo teatrale “Avrei voluto un amico come lui. Omaggio a Rino Gaetano” di David Gramiccioli. Finalmente uno spettacolo teatrale dai contenuti ben scelti e approfonditi che tocca con estrema professionalità e non meno stile una sequenza di vicissitudini italiane per lo più rimaste impunite. Spettacolo che dà il giusto lustro alla figura del diretto ispiratore, il cantautore Rino Gaetano, menzionato con intelligenza e garbo, non tentando di snaturarne la criptica essenza con convinzioni pregiudizievoli nei suoi confronti, ma evidenziando il suo genio nel trattare eventi, di diverse collocazioni spazio-temporali, che gli stanno a cuore. Ci si immerge infatti in un viaggio nella Memoria, condotto magistralmente da David Gramiccioli (giornalista e speaker radiofonico), attraverso alcuni dei più rilevanti fatti di cronaca nera e scandali della storia italiana, dal secondo dopoguerra agli anni ’70, per mezzo della chiave di lettura che il cantautore dà a quei fatti, trasformandoli in frasi cardine delle sue canzoni. Si pensi a “Spendi per opere assistenziali e per sciagure nazionali” (in Fabbricando case) e a “Il numero 5 sta in panchina, s’è alzato male stamattina” (in Nuntereggae più) riferite a personaggi coinvolti nella strage annunciata del Vajont oppure a “Il nostro è un partito serio” (sempre in Nuntereggae più) con tanto di imitazione dell’inflessione dell’allora dirigente del PCI Berlinguer, all’indomani del “Governo delle astensioni”, nel 1976. La stessa frase viene pronunciata anche da Cossiga, sardo pure lui e al tempo Ministro dell’Interno, quando è chiamato a rispondere degli incresciosi fatti dell’anno successivo, che vedono cadere Giorgiana Masi raggiunta da un misterioso proiettile durante una manifestazione. Ancora, ai nomi fatti in Standard, ricordandoci dello scandalo Lockheed e ai nomi censurati alla stessa Nuntereggae più, brano cardine della pièce poiché, come si vedrà, racchiude in sé allusioni anche al delitto Montesi nella sua frase ormai nota “…sulla spiaggia di Capocotta”. Ma questa non è che una modesta anticipazione di quelli che sono gli argomenti toccati dall’autore. David Gramiccioli ha conosciuto la grande forza di Rino Gaetano leggendo i suoi testi. Non ha preteso di interpretarlo ed etichettarlo, ma affronta le vicende contenute nelle sue parole senza preconcetti e infondati collegamenti, come a volte, pur di dare un senso alla sua prematura scomparsa, si sia spinti a fare, costruendone un lato oscuro invece di ammirare le sue doti straordinarie legate alla sua dedizione a tenere sempre gli occhi aperti, nella scelta coraggiosa di smascherare gli intrighi del Potere anziché farne parte. È così quindi che l’autore scrive questa sceneggiatura, con estrema lucidità e oggettività, senza attingere a dietrologie non provate e senza farcire di orpelli e convinzioni personali quegli intrecci nefasti tutti italiani, bensì lasciando lo spettatore alle proprie deduzioni, stimolandone tuttavia l’interesse a saperne di più e favorendone l’utile ragionamento circa i casi trattati. Gramiccioli, oltre ad aver creato uno spettacolo a scopo benefico, ha veramente reso “Omaggio a Rino Gaetano”. I contenuti della sceneggiatura sono fedeli al titolo. Giada Ferri.

“Avrei voluto un amico come lui”, tour itinerante della Compagnia Teatro Artistico d’Inchiesta guidata dal giornalista performer David Gramiccioli. «Nessuno come Rino Gaetano – si legge nelle note di regia – ha cantato la nostra storia, nessuno come lui, cantava “ma chi me sente”, consapevole della solitudine artistica e umana alla quale è condannato il genio. Ma nel profondo del suo animo Rino nutriva – e lo disse pubblicamente una sera – la speranza che un giorno, grazie alla comunicazione di massa, gli italiani potessero finalmente comprendere il significato vero dei testi delle sue canzoni».

Nemmeno al mare si può stare tranquilli.

Cazzotti, toilette da incubo e sesso sfrenato Le spiagge diventano gironi infernali. I vigili di Follonica aggrediti dagli ambulanti ultimo capitolo del degrado estivo, scrive Michela Giachetta, Martedì 02/08/2016, su "Il Giornale". Agenti aggrediti da venditori abusivi in Toscana, centinaia di immigrati che, prima ancora del sorgere del sole, invadono il bagnasciuga in Liguria. Ma anche coppie che fanno sesso in riva al mare, in pieno giorno, senza curarsi dei bambini, che sono lì, a pochi metri, a giocare con la sabbia. E poi la sporcizia, le bottiglie di plastica o di vetro abbandonate, i cumuli di rifiuti che incorniciano panorami che sarebbero solo da ammirare, se non ci fosse quel degrado. Da Nord a Sud, le spiagge italiane sono in preda a incuria, trascuratezza, trattate malissimo in alcuni casi, come se non fossero uno dei nostri patrimoni da tutelare. Gli esempi negativi non mancano. A Castel Porziano, a due passi da Roma, dove c'è anche la tenuta presidenziale, prima ancora di arrivare in spiaggia si è accolti dai parcheggiatori abusivi. La situazione poi si complica se durante la giornata bisogna andare in bagno: le toilette o mancano o sono inavvicinabili per odore e sporcizia. Una situazione di degrado che si può trovare anche in altri posti. A giugno Legambiente Arcipelago ha denunciato le pessime condizioni in cui versa la spiaggia della Cala, a Marciana Marina, nella splendida isola d'Elba: quello che resta di vecchie imbarcazioni giace completamente abbandonato, così come sono abbandonate e fatiscenti le strutture che le ospitano. «Per non parlare della tettoia, ormai ridotta a pochi e pericolosi elementi di copertura». Rimanendo in Toscana, qualche giorno fa, a Follonica (Grosseto), tre agenti della polizia municipale, che stavano effettuando controlli di routine sulle spiagge, sono stati aggrediti da una decina di venditori ambulanti, che si sono opposti a quei controlli, reagendo con calci e pugni contro i vigili. Gli agenti sono riusciti a fermare solo una persona, gli altri sono tutti scappati, creando il parapiglia in spiaggia. Nella stessa località un episodio simile si era già verificato una decina di giorni prima. Scene che hanno a che fare poco col degrado, ma molto con quella serenità che dovrebbe regnare sulle spiagge. In Liguria, invece, ha raccontato La Stampa, centinaia di immigrati, per lo più del Sud America, prima dell'alba, arrivano sulla spiaggia libera di Laigueglia (Savona), per passare una giornata al mare. Partono col buio da Milano o da Torino, spesso in pullman. Quando il sole si sveglia, lì trova già tutti lì, con i loro teli, i giochi per i bambini, i frigoriferi portatili che contengono i loro pranzi fai da te. Le lamentele non mancano: perché la spiaggia a fine giornata bisogna pulirla, ma gli immigrati non hanno speso nulla nelle strutture circostanti, i bagni inoltre sono pochi e comunque insufficienti, così come i controlli. L'assenza di controlli è un leitmotiv che accompagna tutta la penisola: già a maggio, i giornali locali calabresi raccontavano il degrado e l'incuria di alcune spiagge a Vibo Marina, frazione di Vibo Valentia. A giugno a Salerno le proteste dei comitati di zona non sono mancate: nella parte orientale della città gli arenili erano ostaggio di topi scorrazzanti fra i bagnati e blatte volanti, una situazione disastrosa. Anche a Villasimius, in Sardegna, alcune spiagge sono state lasciate al più completo abbandono e piene di rifiuti. Così come a Brindisi, dove a maggio, alcune persone hanno preso il sole circondate non solo dal rumore del mare, ma anche da un cumulo di sporcizia. Non ci sono però solo l'immondizia e i rifiuti con cui fare i conti: che l'estate sia la stagione degli amori, si sa, ma capita che alcuni quel detto lo prendano fin troppo alla lettera: accade che, presi dalla passioni, si spoglino anche di quel poco che hanno indosso per fare sesso in spiaggia, in pieno giorno, sono gli occhi dei bimbi (che forse non capiscono) e sotto gli sguardi degli adulti che capiscono bene e spesso sono costretti a chiamare le autorità competenti per far cessare l'amplesso. È capitato a maggio nelle Marche, a Civitanova: due italiani sono stati denunciati. Stessa sorte di una coppia di tedeschi: in una spiaggia vicino a Venezia un uomo e una donna, completamente nudi, hanno scelto di fare sesso, completamente nudi. Spiaggia che vai, degrado che trovi. E se non è degrado, è trascuratezza. Da nord a sud. Per fortuna però le eccezioni esistono.

Come conoscere gli altri?

Chiedendogli se puoi accendere il climatizzatore in auto o in casa. Una persona si dimostra veramente quello che è nella vita ed il rispetto che questa non ha in confronto agli altri, quando da passeggera (anche se posteriore) fa spegnere il climatizzatore in auto, accusando mal di gola, mentre all’esterno ci sono 40°, costringendo gli altri passeggeri ed il proprietario dell’auto a fare bagni di sudore. E la stessa cosa costringerà a fare negli uffici e nelle case altrui. La mancanza di rispetto per gli altri, specialmente verso i familiari, sarà costante ed alla fine, quando l’orlo è colmo e lo farai notare, lo rinnegherà esaltando le sue virtù ed, anzi, ti accuserà di intolleranza e per ritorsione ti affibbierà qualsiasi difetto innominabile.

Chiedendogli come programma le cose da fare.  Una persona si dimostra veramente quello che è nella vita ed il rispetto che questa non ha in confronto agli altri, quando pretende e dà per scontato l’ausilio altrui, anche quando gli altri hanno programmi alternativi ai suoi.

Chiedendogli cosa pensa delle persone che dalla vita e dal lavoro hanno avuto soddisfazione. Una persona si dimostra veramente quello che è nella vita ed il rispetto che questa non ha in confronto agli altri, quando da nullafacente e nullatenente sparlerà di chi ha successo nella vita e lo accuserà di aver rubato per ottenere quello che egli stesso non ha.

Salvo eccezioni.

"Fiat brava gente": così gli Agnelli hanno rapinato l'Italia lungo un intero secolo, scrive “L’Antidiplomatico il 27 luglio 2016. Hanno deciso di abbandonarla definitivamente anche come sede legale e fiscale, dopo che, scrive correttamente Giorgio Cremaschi oggi, non resta più nulla da spolpare e poi è sempre meglio essere lontano (tra Stati Uniti e Olanda) quando si tratta di chiudere i prossimi stabilimenti o licenziare i prossimi dipendenti. "Come le peggiori classi parassitarie che hanno saccheggiato questo paese nei lunghi secoli della sua spesso triste storia, gli Agnelli lasciano l'Italia dopo aver usato ed abusato del sacrificio di milioni di persone e di una montagna di soldi pubblici. Migrano come cavallette, cavallette europeiste", scrive Cremaschi. Ma la Fiat e la famiglia Agnelli hanno una storia molto lunga legata al nostro paese. In un lungo e dettagliato articolo del 2011 Maria Rosa Calderoni su Liberazione (ripreso anche da Marx 21) la ripercorreva tutto. Il 2011 è un anno importante, l'inizio della rivoluzione di Marchionne di cui subiamo ancora oggi tutti i drammatici effetti nell'Italia di Renzi.  "Mani in alto, Marchionne! Questa è una rapina", concludeva l'articolo di Calderoni. E' giunto il momento che come contribuenti e cittadini derubati ci si mobilitasse per chiedere la restituzione dei nostri soldi. Di Maria Rosa Calderoni su Liberazione. Gioanin lamiera, come scherzosamente gli operai chiamavano l'Avvocato, ha succhiato di brutto; ma prima di lui ha succhiato suo padre; e prima di suo padre, suo nonno Giovanni. Giovanni Agnelli Il Fondatore. Hanno succhiato dallo Stato, cioè da tutti noi. E' una storia della Fiat a suo modo spettacolare e violenta, tipo rapina del secolo, questa che si può raccontare - alla luce dell'ultimo blitz di Marchionne - tutta e completamente proprio in chiave di scandaloso salasso di denaro pubblico. Un salasso che dura da cent'anni. Partiamo dai giorni che corrono. Per esempio da Termini Imerese, lo stabilimento ormai giunto al drammatico epilogo (fabbrica chiusa e operai sul lastrico fuori dai cancelli). Costruito su terreni regalati dalla Regione Sicilia, nel 1970 inizia con 350 dipendenti e 700 miliardi di investimento. Dei quali almeno il 40 per cento è denaro pubblico graziosamente trasferito al signor Agnelli, a vario titolo. La fabbrica di Termini Imerese arriva a superare i 4000 posti di lavoro, ma ancora per grazia ricevuta: non meno di 7 miliardi di euro sborsati pro Fiat dal solito Stato magnanimo nel giro degli anni. Agnelli costa caro. Calcoli che non peccano per eccesso, parlano di 220 mila miliardi di lire, insomma 100 miliardi di euro (a tutt'oggi), transitati dalle casse pubbliche alla creatura di Agnelli. Nel suo libro - "Licenziare i padroni?", Feltrinelli - Massimo Mucchetti fa alcuni conti aggiornati: «Nell'ultimo decennio il sostegno pubblico alla Fiat è stato ingente. L'aiuto più cospicuo, pari a 6059 miliardi di lire, deriva dal contributo in conto capitale e in conto interessi ricevuti a titolo di incentivo per gli investimenti nel Mezzogiorno in base al contratto di programma stipulato col governo nel 1988». Nero su bianco, tutto "regolare". Tutto alla luce del sole. «Sono gli aiuti ricevuti per gli stabilimenti di Melfi, in Basilicata, e di Pratola Serra, in Campania». A concorrere alla favolosa cifra di 100 miliardi, entrano in gioco varie voci, sotto forma di decreti, leggi, "piani di sviluppo" così chiamati. Per esempio, appunto a Melfi e in Campania, il gruppo Agnelli ha potuto godere di graziosissima nonché decennale esenzione dell'imposta sul reddito prevista ad hoc per le imprese del Meridione. E una provvidenziale legge n.488 (sempre in chiave "meridionalistica") in soli quattro anni, 1996-2000, ha convogliato nelle casse Fiat altri 328 miliardi di lire, questa volta sotto la voce "conto capitale". Un bel regalino, almeno 800 miliardi, è anche quello fatto da tal Prodi nel 1997 con la legge - allestita a misura di casa Agnelli, detentrice all'epoca del 40% del mercato - sulla rottamazione delle auto. Per non parlare dell'Alfa Romeo, fatta recapitare direttamente all'indirizzo dell'Avvocato come pacco-dono, omaggio sempre di tal Prodi. Sempre secondo i calcoli di Mucchetti, solo negli anni Novanta lo Stato ha versato al gruppo Fiat 10 mila miliardi di lire. Un costo altissimo è poi quello che va sotto la voce "ammortizzatori sociali", un frutto della oculata politica aziendale (il collaudato stile "privatizzazione degli utili e socializzazione delle perdite"): cassa integrazione, pre-pensionamenti, indennità di mobilità sia breve che lunga, incentivi di vario tipo. «Negli ultimi dieci anni le principali società italiane del gruppo Fiat hanno fatto 147,4 milioni di ore di cassa integrazione - scrive sempre Mucchetti nel libro citato - Se assumiamo un orario annuo per dipendente di 1.920 ore, l'uso della cassa integrazione equivale a un anno di lavoro di 76.770 dipendenti. E se calcoliamo in 16 milioni annui la quota dell'integrazione salariale a carico dello Stato nel periodo 1991-2000, l'onere complessivo per le casse pubbliche risulta di 1228 miliardi». Grazie, non è abbastanza. Infatti, «di altri 700 miliardi è il costo del prepensionamento di 6.600 dipendenti avvenuto nel 1994: e atri 300 miliardi se ne sono andati per le indennità di 5.200 lavoratori messi in mobilità nel periodo». Non sono che esempi. Ma il conto tra chi ha dato e chi ha preso si chiude sempre a favore della casa torinese. Ab initio. In un lungo studio pubblicato su "Proteo", Vladimiro Giacché traccia un illuminante profilo della storia (rapina) Fiat, dagli esordi ad oggi, sotto l'appropriato titolo "Cent'anni di improntitudine. Ascesa e caduta della Fiat". Nel 1911, la appena avviata industria di Giovanni Agnelli è già balzata, con la tempestiva costruzione di motori per navi e soprattutto di autocarri, «a lucrare buone commesse da parte dello Stato in occasione della guerra di Libia». Non senza aver introdotto, già l'anno dopo, 1912, «il primo utilizzo della catena di montaggio», sulle orme del redditizio taylorismo. E non senza aver subito imposto un contratto di lavoro fortemente peggiorativo; messo al bando gli "scioperi impulsivi"; e tentato di annullare le competenze delle Commissioni interne. «Soltanto a seguito di uno sciopero durato 93 giorni, la Fiom otterrà il diritto di rappresentanza e il riconoscimento della contrattazione collettiva» (anno 1913). Anche il gran macello umano meglio noto come Prima guerra mondiale è un fantastico affare per l'industria di Giovanni Agnelli, volenterosamente schierata sul fronte dell'interventismo. I profitti (anzi, i "sovraprofitti di guerra", come si disse all'epoca) furono altissimi: i suoi utili di bilancio aumentarono dell'80 per cento, il suo capitale passò dai 17 milioni del 1914 ai 200 del 1919 e il numero degli operai raddoppiò, arrivando a 40 mila. «Alla loro disciplina, ci pensavano le autorità militari, con la sospensione degli scioperi, l'invio al fronte in caso di infrazioni disciplinari e l'applicazione della legge marziale». E quando viene Mussolini, la Fiat (come gli altri gruppi industriali del resto) fa la sua parte. Nel maggio del '22 un collaborativo Agnelli batte le mani al "Programma economico del Partito Fascista"; nel '23 è nominato senatore da Mussolini medesimo; nel '24 approva il "listone" e non lesina finanziamenti agli squadristi. Ma non certo gratis. In cambio, anzi, riceve moltissimo. «Le politiche protezionistiche costituirono uno scudo efficace contro l'importazione di auto straniere, in particolare americane». Per dire, il regime doganale, tutto pro Fiat, nel 1926 prevedeva un dazio del 62% sul valore delle automobili straniere; nel '31 arrivò ad essere del 100%; «e infine si giunse a vietare l'importazione e l'uso in Italia di automobili di fabbricazione estera». Autarchia patriottica tutta ed esclusivamente in nome dei profitti Fiat. Nel frattempo, beninteso, si scioglievano le Commissioni interne, si diminuivano per legge i salari e in Fiat entrava il "sistema Bedaux", cioè il "controllo cronometrico del lavoro": ottimo per l'intensificazione dei ritmi e la congrua riduzione dei cottimi. Mussolini, per la Fiat, fu un vero uomo della Provvidenza. E' infatti sempre grazie alla aggressione fascista contro l'Etiopia, che la nuova guerra porta commesse e gran soldi nelle sue casse: il fatturato in un solo anno passa da 750 milioni a 1 miliardo e 400 milioni, mentre la manodopera sale a 50 mila. «Una parte dei profitti derivanti dalla guerra d'Etiopia - scrive Giacché - fu impiegata (anche per eludere il fisco) per comprare i terreni dove sarebbe stato costruito il nuovo stabilimento di Mirafiori». Quello che il Duce poi definirà «la fabbrica perfetta del regime fascista». Cospicuo aumento di fatturato e di utili anche in occasione della Seconda guerra mondiale. Nel proclamarsi del tutto a disposizione, sarà Vittorio Valletta, nella sua veste di amministratore delegato, a dare subito «le migliori assicurazioni. Ponendo una sola condizione: che le autorità garantissero la disciplina nelle fabbriche attraverso la militarizzazione dei dipendenti». L'Italia esce distrutta dalla guerra, tra fame e macerie, ma la casa torinese è già al suo "posto". Nel '47 risulta essere praticamente l'unica destinataria dell'appena nato "Fondo per l'industria meccanica"; e l'anno dopo, il fatidico '48, si mette in tasca ben il 26,4% dei fondi elargiti al settore meccanico e siderurgico dal famoso Piano Marshall. E poi venne la guerra fredda, e per esempio quel grosso business delle commesse Usa per la fabbricazione dei caccia da impiegare nel conflitto con la Corea. E poi vennero tutte quelle autostrade costruite per i suoi begli occhi dalla fidata Iri. E poi venne il nuovo dazio protezionistico, un ineguagliabile 45% del valore sulle vetture straniere... E poi eccetera eccetera. Mani in alto, Marchionne! Questa è una rapina.

Terrorismo, qualcosa non torna…scrive Diego Fusaro su "Il Fatto Quotidiano" il 26 luglio 2016. Stragi su stragi. Senza tregua. Quasi una al giorno, ormai. Chissà perché, poi, questi orrendi attentati si abbattono sempre nei luoghi pubblici facendo strage di povera gente, di persone comuni, lavoratori e disoccupati, ragazzi e studenti. Mai una volta – avete notato? – che l’ira delirante dei terroristi si abbatta nei luoghi del potere e della finanza. Mai. Mai un signore della finanza colpito, mai uno statista, mai un “pezzo grosso” dell’Occidente. Strano, davvero, che i pazzi alfieri del terrorismo, che in teoria – si dice – avrebbero dichiarato guerra all’Occidente non prendano di mira chi l’Occidente davvero lo governa. Se non ci dicessero un giorno sì e l’altro pure che il terrorismo islamico ha dichiarato guerra all’Occidente si avrebbe quasi l’impressione che si tratti di una guerra di classe – gestita poi da chi? – contro lavoratori, disoccupati, classi disagiate: una lotta di classe tremenda, ordita per tenere a bada i dominati, per tenerli sotto tensione, proprio ora che, mentre stanno perdendo tutto, iniziano a sollevarsi (è il caso della Francia della “loi travail”, uno dei Paesi più colpiti dal terrorismo). E intanto, a reti unificate, ci fanno credere che il nostro nemico sia l’Islam e non il terrorismo quotidiano permanente dell’economia di mercato. Ci fanno credere che il nemico, per il giovane disoccupato cristiano, sia il giovane disoccupato islamico e non il delocalizzatore, il magnate della finanza, il fautore delle “riforme” che uccidono il mondo del lavoro: il conflitto Servo-Signore è, ancora una volta, frammentato alla base. Nell’ennesima guerra tra poveri, della quale a beneficiare sono coloro che poveri non sono. Il terrorismo, quali ne siano gli agenti, è un’arma nelle mani dei potenti: fa il loro interesse. E lo fa per più ragioni. Intanto, perché frammenta il conflitto di classe e mette i servi in lotta tra loro (Islamici vs Cristiani, Orientali vs Occidentali): lo “scontro di civiltà” di Huntington va a occultare la “lotta di classe di Marx”. Il tutto condito con le tirate à la Fallaci. In secondo luogo perché attiva il paradigma securitario, modello “Patriot Act” Usa: per garantire sicurezza, si toglie libertà. Et voilà, il gioco è fatto. In terzo luogo, si crea adesione al partito unico della produzione capitalistica anche in chi avrebbe solo motivi per contestarla: l’Occidente “buono” contro l’Oriente cattivo e terrorista. In quarto luogo, si prepara il terreno – prepariamoci – per nuove guerre: guerre in nome del terrore, come fu in Afghanistan (2001) e non molto fa con i bombardamenti in Siria. Il terrorismo diventa una “opportunità” - sit venia verbo – per guerre di aggressione imperialistiche. Questo lo scenario. V’è poco da stare allegri. Ma è meglio essere informati, se non altro.

La faida dei Ricchi, scrive Piero Sansonetti il 26 luglio 2016 su "Il Dubbio". È logico, è ragionevole che un signore che guadagna circa 18 mila euro al mese (per non fare molto: cioè, per fare il deputato...) si incazzi come un diavolo perché un direttore di telegiornale guadagna troppo, sebbene questo direttore (o questa direttrice) di telegiornale, guadagna circa la metà di lui? Vediamo prima i fatti, e poi proviamo a ragionare, giusto per poche righe. Nel fine settimana è scoppiato lo scandalo Rai. Perché l’azienda - unica in tutt’Italia - ha deciso di rendere noti gli stipendi alti dei propri dipendenti. Cioè tutti gli stipendi superiori ai 200 mila euro lordi all’anno (che, all’ingrosso, equivalgono a un po’ meno di 7000 euro al mese). L’elenco è piuttosto lungo, ma i nomi innalzati sulla croce sono una quindicina. Prima di tutti quello del direttore generale (che è colui che ha dato via libera all’operazione trasparenza) e cioè il famigerato Campo Dall’Orto che prende uno stipendio lordo di 650 mila euro. Poi il presidente, Monica Maggioni, con uno stipendio un po’ superiore ai 300 mila. Poi un gruppetto di direttori di rete o di telegiornale, tutti oscillanti, come la presidente, sui 300 mila. Infine un certo numero di presunti nullafacenti, i quali negli anni scorsi sono stati emarginati e privati dei loro incarichi (per motivi politici, o professionali, o talvolta, magari, di scarsa obbedienza) ma non licenziati in tronco. La pubblicazione di queste cifre ha scatenato un putiferio. I giornali che le hanno riportate (dal “Fatto” al “Corriere della Sera” a “Repubblica” a tutti gli altri), hanno gridato allo scandalo, al tradimento, all’estorsione. E poi hanno gridato allo scandalo i politici, a cominciare da Matteo Orfini, presidente moralizzatore del Pd, e -naturalmente – Fico e tutti i cinque stelle d’Italia. E hanno chiesto innanzitutto che tutti gli stipendi siano tagliati e riportati sotto i 240 mila euro, e poi che siano cacciati via, o comunque privati dello stipendio, i giornalisti superpagati e emarginati, compresi fior di professionisti come, ad esempio, Carmen Lasorella. E’ giusta questa levata di scudi? Il problema – credo – non sono tanto gli scudi, ma chi li leva. Nel senso che la maggior parte degli indignati prende stipendi più alti di quelli per i quali si indigna. I parlamentari, innanzitutto, ma anche i giornalisti. Voglio confessarvi un segreto: so per certo che le grandi firme dei giornali italiani, quasi tutte, guadagnano più di 20 mila euro al mese (cioè, circa mezzo milione lordo all’anno), qualcuno di loro guadagna anche di più. Voi pensate che ogni volta che vanno a ritirare la busta paga si auto-indignano? No. E se glielo fai notare, ti dicono: ma io lavoro per una azienda privata. Embe? Richiede più talento, più merito, e impone più responsabilità dirigere un telegiornale della Rai o dirigere un quotidiano privato, o scrivere un servizio per il tal giornale? E allora da dove nasce questa indignazione? Nasce da una spinta popolare. Alla quale tutti si adeguano. E strillano, strillano, per mettersi in vista. La spinta è anche giusta, intendiamoci, perché – lo ho scritto altre volte – l’eccesso di ricchezze secondo me non è una bella cosa. Il problema è che quelli che si incazzano come api sono gli stessi che urlano plaudenti e ammirati se parlano Santoro, o Floris, o Belpietro, o Giannini o – soprattutto – Crozza o Benigni. E’ questo cortocircuito che mi fa paura: l’indignazione usata come carburante del proprio potere da chi dovrebbe esserne l’oggetto. P. S. Ho una proposta: vietare il diritto all’indignazione a chiunque guadagni più di 100 mila euro all’anno. Immaginate voi che silenzio, nei giornali e in tv...

Non si spende per fare le opere, si fanno le opere per spendere, scrive Giuseppe De Tomaso il 17 luglio 2016 su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Duole dirlo in circostanze come questa. Ma la tragedia ferroviaria sulla linea Andria-Corato ha tragicamente messo in risalto l’inadeguatezza delle classi dirigenti meridionali (politiche e burocratiche). Se queste terre del Sud sono ancora le «periferie» dell’Italia, per ripetere la locuzione del Papa ripresa da monsignor Luigi Mansi, vescovo di Andria, davanti al presidente Sergio Mattarella, nell’omelia ai funerali per le vittime della strage del 12 luglio, la responsabilità non va attribuita solo allo Stato centrale, solitamente poco attento al Sud, ma anche o soprattutto alle sue diramazioni territoriali, che non possono certo ritenersi risparmiate da un altro brano dell’omelia vescovile: «Le nostre coscienze sono state addormentate da prassi che ci sembrano normali, ma non lo sono: quelle prassi dell’economia in cui non si pensa alla vita delle persone, ma alla convenienza e all’interesse, senza scrupoli e con piccole e grandi inadempienze del proprio dovere». Il disastro ferroviario di Andria è il paradigma più completo del deficit culturale dei gruppi dirigenti del Sud, un deficit, per molti versi, persino più grave di quello economico-infrastrutturale. Più grave perché stronca la fiducia, l’ottimismo. Se, anche quando i finanziamenti ci sono, si allungano spirali di ritardi, contenziosi, blocchi, da mandare in tilt un computer, figurarsi quando i soldi non ci sono, quando cioè bisogna mettersi in coda sperando in un Babbo Natale romano o europeo. Purtroppo, non si vede via d’uscita. Nel Sud, ma l’andazzo riguarda ormai l’intera nazione, spesso non si spende per fare le opere, ma si fanno le opere per spendere. L’obiettivo non è realizzare migliori servizi pubblici per i cittadini, ma utilizzare i progetti per mungere altra spesa pubblica, da destinare ad apparati privati, come possono essere i cenacoli clientelari ed elettorali in cui si danno di gomito politici di radicamento, burocrati di riferimento e (im) prenditori di sostentamento. La spesa per la spesa. Le opere al servizio della nomenklatura. Non la nomenklatura al servizio delle opere. L’istituto della concessione è istruttivo, a cominciare dalla parola stessa. In diritto amministrativo, la concessione è un atto con cui la Pubblica Amministrazione consente al concessionario l’uso di risorse e/o l’esercizio di attività non disponibili da parte dei privati, e riservate ai pubblici poteri. Traduzione: il Principe «concede» di fatto a un suo devoto il rango di feudatario, con tutti i benefìci e i privilegi che l’elargizione comporta. Oggi, quasi sempre, la concessione consente al concessionario - non solo nel settore ferroviario - di incidere, decidere lui, sui tempi di realizzazione delle opere. Più si rallentano i lavori, più ci si avvicina inadempienti alla data di consegna dell’opera, più crescono le probabilità, anzi la certezza, che alla scadenza dei termini, la concessione venga rinnovata per un altro periodo. E così all’infinito, o quasi. Nell’indifferenza generale e nella capillare complicità tra i protagonisti della vicenda. Ma siccome al peggio non c’è mai fine e a volte non si tocca mai il fondo, dal momento che dopo averlo toccato si può continuare a scavare ancora, prepariamoci nei prossimi mesi a prendere atto di una realtà vieppiù allarmante e frustrante. Da quando, nell’aprile 2016, è entrato in vigore il nuovo codice degli appalti, il numero delle gare è crollato dell’85%. Praticamente è tutto fermo. Il dato lo ha illustrato sabato 16 luglio 2016 a Bari, nel convegno organizzato dalla Guardia di Finanza, il dottor Michele Corradino, componente dell’Anac presieduta da Raffaele Cantone. Ma c’è di più, cioè di peggio. Già a partire da novembre 2015 si era registrata una flessione del 30% delle gare, dovuta all’obbligo per i Comuni di comprare attraverso centrali di committenza, non più da soli. Risultato: il binomio centralizzazione degli acquisti e nuovo codice degli appalti sta devitalizzando, paralizzando il sistema. Le burocrazie comunali temono di sbagliare, le formazioni politiche stanno a guardare. Insieme forse stanno facendo resistenza alle due riforme. Ora. È vero che l’Italia è il paradiso del positivismo giuridico (una legge per qualsiasi inezia). È vero che il ricorso alla giustizia amministrativa (Tar, Consiglio di Stato) spesso assume forme patologiche, ossessionanti e paralizzanti. È vero che il normativismo sfrenato e il proceduralismo bizantino oggi manderebbero in depressione gli antichi giuristi di Costantinopoli. È vero che ciascun comitato rionale si sente investito di un potere d’interdizione che non si sognerebbe nemmeno un taglieggiatore piazzatosi su un sentiero obbligato. Ma lo strabiliante ostruzionismo delle Caste politico-burocratiche nell’applicazione delle leggi dello Stato suscita più di un (angosciante) interrogativo. Qual è il livello di preparazione delle classi dirigenti? E qual è il loro livello di moralità? Possibile che nessuno, o quasi, sappia orientarsi fra i nuovi codici? Cosa c’è dietro lo sciopero bianco, dietro il sabotaggio di ogni novità? Non è semplice rispondere, anche se a pensar male si fa peccato, ma s’indovina. Gira e rigira, la questione non cambia. Il Sud (ma non solo il Sud) è vittima delle sue classi dirigenti, dei loro intrecci, dei loro affari, dei loro conflitti di interesse. Questo ceto dominante, che prima era agrario, poi urbano, e oggi post-industriale, è più spregiudicato di un capitano di ventura cinquecentesco. Bussa a denari non in nome delle opere da realizzare, bensì dei lavori da cominciare e mai terminare. Progettare per spendere, anziché spendere per realizzare. C’è soprattutto questa filosofia perversa dietro la stagnazione-corruzione meridionale e dietro le tragedie umane che si susseguono con una frequenza vertiginosa. Giuseppe De Tomaso.

Il nuovo Codice degli appalti? Un capolavoro: 181 errori. Imprecisioni, sviste e incongruenze di un funzionario sciatto (e anonimo) stravolgono una norma fondamentale. In Gazzetta Ufficiale è stato pubblicato un comunicato di rettifica: 181 errori nei 220 articoli del nuovo Codice degli appalti, scrive Gian Antonio Stella il 20 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". Centottantuno errori! Finisse sottomano ai maestri d’una volta, il dirigente di Palazzo Chigi che ha vistato il «Codice degli appalti», quello famoso che doveva «far ripartire l’Italia», sarebbe spedito dietro la lavagna col berretto a punta da somaro. Come si può incasinare una legge fondamentale con 181 errori su 220 articoli? C’è poi da stupirsi se il valore delle gare bandite, in questo caos, è crollato secondo l’Ance del 75%? «Voglio la testa dell’asino», dirà probabilmente Matteo Renzi nella scia del celeberrimo «Voglio la testa di Garcia» di Sam Peckinpah. Anche noi. Nome, cognome, ruolo. Per sapere se magari ha avuto lui pure il premio di «performance» come l’89% (ultimo dato disponibile) degli alti burocrati della presidenza del consiglio. Tutti bravissimi, tutti intelligentissimi, tutti preparatissimi. Sul «somarismo» non ci sono dubbi. La sentenza è della Gazzetta Ufficiale che ha appena pubblicato un umiliante «avviso di rettifica» (che vergogna…) con tutte le correzioni al decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 recante: «Attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d’appalto…». Cinquecentoventisei righe per mettere in fila, come dicevamo, le correzioni a centottantuno errori. Alcune frutto di demenza burocratica. Come l’introduzione di un punto e il trasloco di un punto e virgola: «alla pagina 110, all’art. 97, comma 4, lettera c), dove è scritto: “...proposti dall’offerente;” leggasi: “...proposti dall’offerente.”;» Altre dovute alla negligenza: «Alla pagina 1, nelle premesse, al settimo visto, dove è scritto: “per l’attuazione delle direttive” leggasi: “per l’attuazione delle direttive”;» Altre causate da sciatterie sfuggite alla rilettura: «servizi di ingegnera». Altre ancora generate da evidenti difficoltà grammaticali: «alla pagina 18, all’art. 16, comma 1, al secondo rigo, dove è scritto: “è tenuto ad aggiudicare”, leggasi: “...sono tenute ad aggiudicare...”». Per non dire di spropositi vari: «alla pagina 28, all’art. 25, comma 6, al quinto rigo, dove è scritto: «... in sito dire periti archeologici.” leggasi: “... in sito di reperti archeologici.”» Oppure: «alla pagina 23, all’art. 23, comma 4, al secondo rigo, dove è scritto: “... i requisitigli elaborati ...” leggasi: “... i requisiti e gli elaborati ...”». Fino alle varianti pecorecce: «alla pagina 123, all’art. 105, comma 21, all’ultimo rigo, dove è scritto “...casi di pagamento di retto dei subappaltatori” leggasi “... casi di pagamento diretto dei subappaltatori”». E via così: dov’è scritto «infrastrutture strategiche» va letto «infrastrutture prioritarie», dove «...di cui al presente Titolo...» va letto «di cui al presente capo», dove «“il progetto di base indica ...” leggasi: “Il progetto a base di gara indica”». Dove «la seconda fase, avente ad oggetto» leggasi «il secondo grado, avente ad oggetto». Un delirio, con l’aggiunta di parole rococò: «alla pagina 61, all’art. 53, il comma 7 è da intendersi espunto». Sic. Nella galleria degli orrori, tuttavia, i più mostruosi sono altri. «Alla pagina 30, all’art. 26, comma 6, lettera b), dove è scritto: “... e di cui all’articolo 24, comma 1, lettere d), e), f), g), h) ed i),” leggasi: “... e di cui all’articolo 46, comma 1”». Per capirci: perfino un genio in materie tributarie o contrattualistiche, se i riferimenti sono sbagliati, si schianta. Sbagliare su queste cose, le pietre miliari delle leggi, significa far deragliare anche i fuoriclasse del settore. E il «Codice degli appalti» è pieno di strafalcioni così. «Il “comma 28” leggasi “comma 26”». «Dove è scritto: “... articoli 152, 153, 154, 155, 156 e 157.” leggasi: “... articoli 152, 153, 154, 155 e 156”». «Dove è scritto: “...di cui all’articolo 24, comma 1, lettere d), e), f), g), h) ed i),” leggasi: “... di cui all’articolo 46, comma 1”». Al che verrebbe da urlare: ne avessi almeno indovinato uno! Ora, non c’è al mondo piastrellista che possa posare 181 piastrelle sbagliate su 220, cuoco che possa carbonizzare 181 bistecche su 220, bomber che possa sbagliare 181 rigori su 220... Sarebbero tutti buttati fuori. Tutti. Giuliano Cazzola, sul blog formiche.net ironizza: «Nel Belpaese esiste una presunzione assoluta di corruzione a carico di tutte le opere pubbliche. Il che porta, in primo luogo, a fare delle leggi assurde e inapplicabili, vero e proprio tormentone per le imprese del settore. Ecco un esempio illuminante». Ancora più sferzante il giudizio di LavoriPubblici.it che per primo ha dato la notizia denunciando, al di là degli errori grammaticali o degli svarioni nella punteggiatura, la sostanziale modifica del «44% dell’articolato». «Ciò significa che per quasi tre mesi gli operatori hanno avuto a che fare con un codice difficilmente leggibile, con conseguenze che sono sotto gli occhi di chi ha voglia di fare un’analisi libera da legacci politici», accusa durissimo il sito, «ci chiediamo, e vi chiediamo, se questo è il modo di legiferare e perché il testo originario sia stato predisposto dal dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della presidenza del Consiglio dei ministri espropriando il ministero delle Infrastrutture della responsabilità e competenza della predisposizione di una legge che riguarda le infrastrutture ed i trasporti». Rileggiamo il verbo: «espropriando». Segno di uno scontro termonucleare tra due burocrazie. Di qua il ministero, di là Palazzo Chigi. Ma scusate: sarebbero questi i dirigenti pubblici che, stando al dossier del commissario alla spending review Carlo Cottarelli, vengono pagati ai livelli apicali 12,63 volte più del reddito pro capite italiano cioè quasi il triplo, in proporzione, dei colleghi tedeschi? Questi i burocrati che mediamente prendono molto più che i vertici della Casa Bianca? Queste le «eccellenze» che per bocca di una sindacalista sostengono che il loro lavoro «richiede una elevata professionalità» e che «come tutte le cose pregiate, come una Porsche, ha un costo» e che «nessuno si stupisce se costa di più un diamante di una pietra di scarso pregio»? Ci si dirà: non facciamo d’ogni erba un fascio. Giusto. Per evitare generalizzazioni inique occorre però che chi aveva confezionato quello sconclusionato codice degli appalti, che secondo i costruttori ha fatto precipitare del 27% le gare bandite e del 75% il loro valore, venga subito rimosso. Anzi, per dirla a modo suo: espunto.

Mazzette nello spumante. Così pilotavano i processi. Sequestrato un elenco di sentenze a casa di Mazzocchi. Alcune riguardano Berlusconi, scrive Fiorenza Sarzanini il 20 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". Interventi al Consiglio di Stato per «aggiustare» i processi. È il nuovo e clamoroso filone di indagine avviato dai magistrati romani dopo la perquisizione effettuata a casa di Renato Mazzocchi, il funzionario di Palazzo Chigi indagato per riciclaggio perché nascondeva in casa oltre 230mila euro in contanti, bustarelle e fascicoli giudiziari. In particolare, alcune decisioni che riguardano Silvio Berlusconi. Gli accertamenti disposti dal procuratore aggiunto Paolo Ielo e dal sostituto Stefano Fava — titolari dell’inchiesta sul gruppo di faccendieri guidati da Raffaele Pizza che avrebbe truccato appalti e orientato nomine e assunzioni in enti pubblici — si concentrano sulle sentenze emesse negli ultimi due anni. E si intrecciano con quelli che hanno portato in carcere Stefano Ricucci. Anello di congiunzione sembra essere il giudice Nicola Russo, indagato e perquisito dalla Guardia di Finanza proprio perché sospettato di aver ottenuto soldi e favori, compreso il pagamento di notti in albergo con una donna, per «pilotare» l’esito dei provvedimenti. Ma i controlli riguardano adesso tutti i giudici componenti dei collegi. Il 4 luglio scorso — quando vengono arrestati Pizza, il suo presunto complice Alberto Orsini e numerosi imprenditori, mentre viene indagato il parlamentare di Ncd Antonio Marotta — gli investigatori del Nucleo Valutario coordinati dal generale Giuseppe Bottillo perquisiscono l’appartamento di Mazzocchi. Si tratta del capo della segreteria dell’allora ministro per l’Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio, funzionario del governo per la ricostruzione in Abruzzo. Le intercettazioni telefoniche e ambientali dimostrano che l’uomo è molto legato a Marotta, dunque si cercano eventuali elementi utili all’indagine. E la sorpresa non manca. Come viene specificato nel decreto di sequestro «all’interno di una confezione di vino “Ferrari”, di una confezione di vino “Cavelleri”, di una scatola recante il logo “Frittyna”, tutte chiuse con nastro adesivo, sono occultati 247.350 euro». Una parte del denaro è già chiuso in alcune buste e tanto basta per avvalorare il sospetto che si tratti di tangenti. Anche perché nell’appartamento c’è molto altro: lettere di raccomandazioni e un pacco di sentenze emesse dal Tar e dal Consiglio di Stato. I pubblici ministeri chiedono la convalida del sequestro. Il giudice Pina Guglielmi accoglie l’istanza e nel provvedimento elenca i documenti trovati da Mazzocchi. Ma evidenzia anche il sospetto della Procura sui processi «aggiustati», sottolineando proprio il ruolo del funzionario all’interno delle istituzioni. E tanto basta per dare corpo al sospetto sull’esistenza di una «rete» in grado di orientare le scelte di alcuni giudici amministrativi e delle commissioni tributarie. Scrive la gip: «Circa la somma sequestrata al Mazzocchi, deve osservarsi che depongono nel senso della illecita provenienza l’importo rilevante, le modalità di occultamento, i contenuti della documentazione sequestrata (curriculum vitae di alcune persone, domanda di partecipazione del concorso di tale De Stefano Damiano, ordinanze e sentenze del Tar e del Consiglio di Stato relative a contenziosi nei quali è parte Silvio Berlusconi). Detti elementi, complessivamente valutati, inducono a ritenere che Mazzocchi, grazie al lavoro che svolge (dipendente della Presidenza del Consiglio) sia il referente di persone interessate a concorsi pubblici o a giudizi amministrativi e che abbia ricevuto quel denaro di tali opachi contatti. A ciò si aggiunge che l’unica ragionevole spiegazione al fatto che Mazzocchi abbia scelto di occultare in casa una somma così rilevante, esponendosi in tal modo a tutti i gravi rischi conseguenti, può essere rappresentata solo dalla consapevolezza di non poterne dimostrare di averne acquisito la disponibilità in maniera lecita, a conferma, almeno in termini di fumus, che la somma proviene da un delitto che potrebbe essere il millantato credito o la corruzione». Nelle conversazioni di Pizza e di Marotta si parla spesso del Consiglio di Stato. Entrambi mostrano dimestichezza con i giudici. In un colloquio del 9 gennaio 2015 con Davide Tedesco, stretto collaboratore del ministro dell’Interno Angelino Alfano, Pizza dichiara: «Tanto per essere chiari io ho bloccato il sistema elettorale, se non era per me non si votava... perché vedi i miei rapporti, la dimostrazione è questa, io sono riuscito con i miei rapporti... nonostante c’erano il Presidente della Repubblica, il Presidente del Consiglio, il Ministero degli Interni... con i miei rapporti sono riuscito a bloccare il sistema... il Consiglio di Stato ha dato ragione a me...». In questo «sistema» emerge il ruolo Nicola Russo, il giudice accusato di aver favorito Ricucci. Molti indagati ne parlano e le verifiche svolte sul suo conto hanno fatto emergere i regali e i favori ottenuti. Come le due notti presso l’hotel Valadier di Roma «insieme all’amante Zaineb Dridi, dove Ricucci lo ha accompagnato nel marzo scorso e lo ha contatto il giorno successivo». E dove, questo è il sospetto dei magistrati, ha pagato il conto.

Un giudice tarantino nello scandalo Ricucci. Si tratta di Nicola Russo, magistrato del Consiglio di Stato: è indagato, scrive Taranto Buona Sera il 23 luglio 2016.  È tarantino il giudice coinvolto nello scandalo che ha portato agli arresti l’immobiliarista Stefano Ricucci e l’imprenditore Mirko Coppola. Il magistrato è Nicola Russo, cinquantenne, in servizio al Consiglio di Stato e componente della Commissione tributaria regionale del Lazio. L’inchiesta riguarda un giro di fatture false per un milione di euro e un presunto aggiustamento di sentenze grazie alle quali Ricucci avrebbe ottenuto enormi vantaggi economici. Il caso, come è noto, è esploso con gli arresti eseguiti dal nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza su disposizione del Gip di Roma, nell’ambito di una inchiesta sul fallimento di una delle società del Gruppo Magiste, riconducibile a Ricucci. Veniamo al ruolo che avrebbe avuto il magistrato tarantino. Da quanto emerso dagli accertamenti disposti dal procuratore Paolo Ielo, il magistrato avrebbe ottenuto favori per pilotare alcune sentenze. Ma quali favori avrebbe ottenuto da Ricucci? Soldi, innanzitutto. Secondo quanto scrive Repubblica, per gli inquirenti «è altamente probabile» che Russo «sia stato indebitamente retribuito da Stefano Ricucci in cambio della indebita rivelazione e/o anche dello sviamento della decisione in favore della società del gruppo Magiste». A questa presunta indebita retribuzione, gli inquirenti fanno risalire l’acquisto da parte del giudice Russo di una Porsche Cayenne e di un immobile. Acquisti, sempre secondo l’ipotesi accusatoria, effettuati dopo il deposito di una sentenza della Commissione Tributaria che avrebbe fatto maturare a Ricucci un credito da 20 milioni di euro. Nelle carte dell’inchiesta si fa riferimento allo «smodato tenore di vita» del magistrato. Nella storia c’è anche un particolare piuttosto piccante: Ricucci avrebbe pagato il soggiorno del magistrato in compagnia di una donna, tale Zaineb Dridi, all’hotel Valadier di Roma. Tutte circostanze che Ricucci, in un articolo pubblicato dal Corriere della Sera, smentisce: «Non ho mai pagato il giudice Russo e nemmeno gli ho pagato l’albergo. Russo l’avrò visto una volta in vita mia e di sicuro dopo che era già uscita la sentenza». C’è da dire che la Procura della Repubblica di Roma aveva chiesto per il magistrato l’interdizione dalla professione, richiesta non accolta dal gip. Il giudice Russo resta comunque indagato.

La verità di Zaineb Dridi, con una lettera inviata alla stampa che ha fatto il suo nome accostandolo alla vicenda Ricucci-Russo e pubblicata solo su "Affari Italiani" il 14 agosto 2016. "Spett.li redazioni in indirizzo, con la presente e-mail, io sottoscritta Zaineb Dridi, intendo chiarire il macroscopico travisamento dei fatti in base al quale sono stata assurta addirittura a prova dei legami tra Stefano Ricucci e il giudice Nicola Russo, nonché falsamente e ingiustamente apostrofata all’interno di atti giudiziari quale “amante/meretrice” di quest’ultimo, con mio grande stupore e sgomento: e io che pensavo che le indagini e la giustizia fossero una cosa seria! Non conosco assolutamente il loro grado di conoscenza - come apparirà chiaro da quanto di seguito narrato -  ma conosco ovviamente la verità dei fatti che mi riguardano e che diverge totalmente da quanto riportato da alcuni di Voi negli articoli pubblicati dal 20 al 25 luglio scorso. Anzitutto desidero precisare che solo ora, a distanza di 20 giorni, sto trovando quel minimo di forza per contattarvi e affrontare questa vicenda per me drammatica: vi posso garantire che mi avete distrutto la vita e violentata nell’animo. Vi spiego ora come stanno le cose. Io non ho nessunissima relazione con Nicola Russo se non in quanto padre della mia migliore amica: io e la figlia siamo amiche intime da ormai due anni e di conseguenza è del tutto naturale che io ne conosca anche il padre, il quale diverse volte ha accompagnato la figlia intrattenendosi con noi in alcune delle numerosissime nostre serate trascorse insieme, da padre moderno e premuroso. Dunque io non ho mai passato un istante da sola con il giudice Russo, ma sempre alla presenza della figlia! Questo che vi sto dicendo lo posso provare con centinaia di foto e video (meno male che ho questa mania) fatti con il mio telefonino, con tanto di indicazione di data, ora e luogo, compreso un video fatto nella fatidica sera dell’8 marzo (nonché fiumi di conversazioni e messaggi vocali su WhatsApp sempre con la figlia). Quella sera eravamo una grossa tavolata a cena al “Bolognese” (tra cui Nicola Russo e la figlia) e verso fine cena abbiamo incontrato, ritengo per caso, un’altra comitiva con diverse amicizie in comune con la mia e nella quale c’era anche Stefano Ricucci. Quest’ultimo è una persona che ho incontrato pochissime volte per caso nei locali romani, si contano a stento sulle dita di una mano: in due anni che frequento Roma saranno state tre o quattro volte al massimo e con lui non ho alcun grado di conoscenza, benché mi abbia chiesto il numero di telefono io non glielo ho mai dato. Tornando a quella sera, si è deciso poi di continuare la serata andando a ballare tutti insieme all’hotel “Valadier”, dove come noto si svolgono tra le più belle feste serali romane. Ci siamo dunque spostati in gruppo con diverse macchine di proprietà e taxi tutti quanti pieni e insieme. Quindi non risponde minimamente al vero che Ricucci abbia accompagnato me e Russo al predetto hotel per avere un rapporto sessuale a pagamento. Continuando la narrazione della vicenda, siamo arrivati al Valadier dove abbiamo trascorso la serata ballando tutti quanti in comitiva e come vi dicevo ho anche un video di questo. In particolare, ricordo che Nicola Russo è rimasto pochissimo lì, forse mezz’ora e poi è andato via, presumo a casa da sua moglie. Io, invece, sono rimasta a ballare insieme alla figlia e ad un’altra mia amica intima e durante la serata Ricucci ha cercato di parlare, approcciare credo con me, ma io non gli ho dato alcuna particolare confidenza se non due chiacchiere di cortesia. A fine serata, siccome si era fatto molto tardi ed eravamo stanchissime, abbiamo deciso (io, la figlia di Russo e la mia suddetta amica, pronta a testimoniare) di rimanere a dormire lì al Valadier e a quanto so il conto della camera l’ha pagato il padre della mia amica, Nicola Russo. Preciso peraltro che non è la prima volta che io e la figlia Russo o l’altra mia amica dormivamo insieme in quell’hotel (circostanze documentate con numerose foto, selfie e video fatti nelle camere dell’hotel insieme) dove sono da tempo registrata. La mattina seguente, in camera è arrivata una telefonata da parte di Ricucci, da quanto ho capito sotto intercettazione, alla quale purtroppo ho risposto io. Ed in base a questa telefonata, intercettata dalla Guardia di Finanza, e nella quale Ricucci parlando con la reception faceva il mio nome e quello di Russo, non sapendo a che nome era prenotata la stanza (ma sapendo che ero lì a dormire con la figlia), facendosi transitare l’interno con il fine di parlare con me per invitarmi a pranzo e chiedere il mio numero di cellulare, richieste che ovviamente declinavo. Ebbene, da questa telefonata hanno costruito un castello: quanto si legge nei miei riguardi negli atti giudiziari è frutto del desiderio degli investigatori di far quadrare il cerchio e provare, in qualche modo o in qualsiasi modo, che Ricucci abbia pagato Russo e con lui avesse un’amicizia intima. Sono cose che io non so assolutamente e sono stata tirata in mezzo senza neanche uno straccio di prova. Hanno costruito un castello, ripeto, su base meramente indiziaria e sono stata usata, triturata come persona per una banale telefonata: …forse perché sono di origine straniera e dunque non valgo niente, non ho una dignità di persona… o forse perché l’equivalenza straniera-prostituta viene facile…ma così non è giusto, ne ho versate di lacrime nelle notti insonni per questo…Nessun’altra prova, neanche indizio! Se fossi stata l’amante di Russo avrebbero dovuto intercettare almeno qualche nostra telefonata intima, qualche messaggino amoroso, e invece niente! O se fossi stata una “meretrice” al soldo di Ricucci doveva avere almeno il mio numero di telefono, non credete??? E invece anche qui nulla di tutto questo, neanche una telefonata intercettata tra noi! Mi chiedo allora perché farmi tutto questo…distruggere chiunque pur di provare un reato…Questa storia, da quel 20 luglio, mi ha veramente rovinato la vita. Nonostante tutta la sofferenza che sto patendo ho trovato la forza per ribellarmi a questa brutale violenza subita: ora ho capito che le parole unite alla superficialità di chi indaga possono fare più male di qualsiasi altra cosa. Non sono un’esperta, ma basta vedere un qualsiasi film poliziesco per sapere che sarebbe bastato controllare le celle telefoniche agganciate quella notte dai nostri telefoni per verificare che in quell’hotel Nicola Russo non c’era ma c’eravamo io, sua figlia e un’altra mia amica. Quanto vi sto dicendo, l’ho anche dichiarato alla Guardia di Finanza il giorno 20 pomeriggio, quando sono stata ascoltata come persona informata sui fatti dopo l’arresto di Ricucci e dopo che quell’ordinanza riportata nei quotidiani, per me fatidica, era purtroppo già stata scritta. Sperando, questa volta, che sia chiara la verità, perché questa è la verità dei fatti! Per quanto sopra esposto, confido nella pubblicazione della mie dichiarazioni, oltre che per dovere di cronaca, anche a parziale ristoro della mia reputazione e onore, gravemente lesi, e per migliorare il mio stato di salute. Distinti saluti. Zaineb Dridi"

La “casta” dei giudici sui colleghi che sbagliano. Dal caso Ricucci al caso Saguto e a quello Esposito. Il guanto di velluto sui magistrati indagati, la sanzione è un trasferimento, scrive Luciano Capone il 22 Luglio 2016 su "Il Foglio". “Che fate, m’arrestate pe’ due carte?”, avrebbe detto Stefano Ricucci ai finanzieri che l’hanno portato in carcere. Le due carte in realtà sarebbero servite al rampante odontotecnico di Zagarolo a recuperare un credito da 20 milioni di euro che la sua società in liquidazione, la Magiste, vanterebbe con l’Agenzia delle Entrate. Almeno queste sono le accuse e più specificamente: fatture false, evasione fiscale, corruzione e rivelazione del segreto d’ufficio. Per riuscire in quest’operazione però si è servito, sempre secondo l’accusa, dell’aiuto dell’imprenditore Mirko Coppola, anch’egli arrestato, e del magistrato Nicola Russo che invece è solo denunciato a piede libero. Eppure il giudice del Consiglio di stato è una figura centrale in questa vicenda. Russo era infatti anche giudice relatore della commissione tributaria regionale che ha giudicato il credito vantato da Ricucci, dopo che la commissione provinciale aveva bocciato la richiesta dell’imprenditore. Secondo la procura, Russo sarebbe stato corrotto da Ricucci con donne e soldi per ribaltare la sentenza e comunicarne in anticipo l’esito per permettere a Ricucci, tramite un complice, di ricomprare per pochi soldi il credito da 20 milioni, che dopo la prima sentenza valeva poco o nulla. La sentenza favorevole viene fatta filtrare a Ricucci, che può raggranellare i soldi, e nel testo contiene “interi passaggi della memoria Ricucci, errori di battitura inclusi”. Le prove della corruzione sarebbero l’acquisto da parte del giudice di un’auto e di una casa dopo la sentenza e la presentazione da parte di Ricucci di una signorina con cui il giudice soggiorna in hotel. Per il gip però non c’è corruzione: a Russo viene attribuita “solo” la rivelazione del segreto d’ufficio, ma viene comunque respinta la sospensione interdittiva chiesta dai pm. Il processo deve fare il suo corso. Intanto Ricucci viene arrestato perché può ancora delinquere, mentre il giudice accusato di rivelare segreti d’ufficio resta a fare il suo lavoro. Il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, intervistato dal Fatto all’epoca delle dichiarazioni del presidente dell’Anm Piercamillo Davigo sui politici ladri, diceva: “Anche tra noi ci sono corrotti e collusi, ma noi non aspettiamo che un magistrato venga condannato in Cassazione per rimuoverlo”. E invece pare che la “casta” dei magistrati riservi a sé criteri molto più laschi di quelli richiesti alla “casta” dei politici. Un esempio è quello dell’ex pm di Milano Ferdinando Esposito – nipote dell’ex procuratore generale di Cassazione Vitaliano e figlio del giudice Antonio, presidente del collegio che ha condannato Silvio Berlusconi nel processo Mediaset – condannato pochi giorni fa a 2 anni e 4 mesi per aver indotto una persona a pagargli l’affitto. Esposito era salito agli onori delle cronache perché, prima che il padre condannasse Berlusconi, si era presentato più volte ad Arcore dal Cavaliere per ottenere (senza successo) una candidatura e quando emersero le gravi accuse e il fatto che avesse vissuto per anni in un appartamento nel centro di Milano pagatogli da un imprenditore, venne punito dal Csm con un trasferimento al tribunale di Torino, dove ora fa il giudice. E lo stesso “pugno di ferro” è stato usato in quello che probabilmente è uno dei principali scandali che ha colpito la magistratura italiana, il cosiddetto “caso Saguto”, l’inchiesta in cui l’ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo Silvana Saguto è indagata per aver amministrato l’immenso patrimonio sequestrato alla mafia come una proprietà privata, assegnando profitti e consulenze a parenti, amici e amici degli amici. In quella vicenda è finito indagato anche il giudice Tommaso Virga, padre di Walter, il giovane avvocato a cui la Saguto ha affidato incarichi milionari. Di fronte a condotte ritenute gravi e ricorrenti il Csm ha punito la Saguto con la sospensione e la riduzione di un terzo dello stipendio, mentre Virga padre è stato trasferito alla Corte d’Appello di Roma, quasi un premio. Invece al giornalista Pino Maniaci, grande accusatore della Saguto e di Virga dalla sua Telejato, è stato imposto il divieto di dimora per una presunta estorsione da qualche centinaio di euro. “Te lo dico per esperienza, da figlio di magistrato – diceva in un’intercettazione Walter Virga – pure se non fossero falsità, e lo sono, fino al terzo grado di giudizio 8 mila magistrati ne difendono uno”. Sicuramente esagerava, ma non più del procuratore Roberti.

Corruzione, le carte dell'inchiesta Tangenti in cassette di sicurezza e a casa le sentenze da ricopiare. Tra i documenti sequestrati, il ricorso di Berlusconi contro Bankitalia. Per i pm, i giudici del Consiglio di Stato avrebbero accontentato le richieste di politici e manager, scrive Fiorenza Sarzanini il 22 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". Sentenza di accoglimento del ricorso di Silvio Berlusconi contro il provvedimento di Bankitalia che imponeva la cessione delle quote di Mediolanum. È uno dei documenti sequestrati per ordine dei magistrati romani a casa del funzionario di Palazzo Chigi Renato Mazzocchi, indagato per riciclaggio e corruzione. E tanto basta per capire quale direzione abbia imboccato l’inchiesta sulla «rete» di faccendieri e politici sospettati di aver «aggiustato» numerosi processi. Ma anche di aver pilotato appalti, assunzioni e nomine. Altre mazzette sono state trovate nella cassaforte di uno degli imprenditori arrestati il 4 luglio scorso durante il blitz del Nucleo Valutario della Guardia di Finanza. Secondo il giudice sono i «fondi neri» accantonati per pagare le tangenti necessarie ad ottenere le proroghe di un appalto dell’Inps. Sono svariati i filoni di indagine aperti dal procuratore aggiunto Paolo Ielo e dal sostituto Stefano Fava. E tutti si concentrano sui contatti e i legami di Raffaele Pizza e Alberto Orsini, ritenuti le «menti» dell’organizzazione che poteva contare sulla disponibilità di politici, manager e magistrati che avrebbero accontentato le loro richieste in cambio di soldi. L’ultimo riguarda proprio l’operato dei giudici del Consiglio di Stato. Oltre ai 247 mila euro conservati nelle confezioni di spumante, Mazzocchi aveva nella propria abitazione numerose sentenze del Consiglio di Stato. Alcune sono «segnate» con appunti e «post it». Ma il sospetto maggiore riguarda il fatto che oltre agli originali (che potrebbero anche essere state scaricati dal sito internet) nei fascicoli custoditi dal funzionario c’erano anche le «minute», cioè le bozze. E dunque bisognerà scoprire in che modo si sia procurato i documenti, quali contatti abbia con i giudici di palazzo Spada e soprattutto quali compiti gli siano stati affidati dal parlamentare Ncd Antonio Marotta (indagato per associazione per delinquere, corruzione e traffico d’influenza) al quale era legato da un rapporto stretto. Anche tenendo conto che un paio di anni fa Mazzocchi avrebbe collaborato, seppur saltuariamente, proprio con uno dei magistrati amministrativi di secondo grado. Alcune sentenze non contengono l’indicazione delle parti, altre sono invece complete. La più importante è certamente quella emessa nel marzo scorso per rispondere al ricorso di Silvio Berlusconi. Dopo la condanna definitiva a quattro anni nel processo per i diritti Tv, Bankitalia impose al Cavaliere di cedere «la propria quota in Mediolanum oltre il 9,9 per cento, ovvero il 20 circa, che valeva circa 1 miliardo di euro». Era il 7 ottobre 2014. Secondo Palazzo Koch Berlusconi non era più in possesso dei «requisiti di onorabilità» necessari per essere soci al 10 per cento in un gruppo bancario e dunque doveva cedere una parte del proprio patrimonio che Fininvest poteva conferire in un trust per poi vendere. Il leader di Forza Italia decise di ricorrere al Tar, ma gli fu dato torto. Non si arrese e presentò una nuova istanza al Consiglio di Stato. Quattro mesi fa i giudici (presidente Francesco Caringella, estensore Roberto Giovagnoli) gli danno ragione, accogliendo la tesi secondo cui le quote erano già detenute prima del passaggio dal sistema assicurativo a quello bancario. Adesso sarà Mazzocchi a dover chiarire come mai custodiva tutta la documentazione — anche riservata — relativa a quel pronunciamento, da chi l’abbia avuto e soprattutto a quale scopo. E diverse spiegazioni dovrà fornirle Roberto Boggio, l’imprenditore titolare della «Transcom WorldWide» che ha ottenuto l’appalto per la gestione del call center dell’Inps nel maggio 2010 ed è indagato per emissione di fatture false per oltre 210 mila euro. Nella sua cassetta di sicurezza «presso la Banca di Credito Bergamasco, Agenzia 1, sono stati trovati contati pari a 77.880 euro». Secondo le indagini Boggio ha «subappaltato fittiziamente una parte del lavoro alla “Dacom Service”». Scrive il giudice nella convalida del sequestro dei soldi: «Dagli accertamenti bancari è risultato che il beneficiario finale delle rimesse provenienti dalle società è Raffaele Pizza per l’interessamento da questi manifestato per assicurare a Boggio le proroghe dell’appalto, sino all’ultima, in scadenza a giugno 2016». Adesso si sta cercando di scoprire con chi — all’interno dell’Inps — Pizza abbia diviso le «mazzette».

Guardia di Finanza, gli hotel pagati al generale Toschi: omaggio del socio di Verdini. Spuntano prove della sua rete di relazioni con personaggi come Riccardo Fusi, regista del sistema Grandi Appalti, poi condannato per corruzione e bancarotta fraudolenta, scrive Carlo Bonini il 22 luglio 2016 su "La Repubblica". Nel passato del Comandante Generale della Guardia di Finanza, il generale Giorgio Toschi, c'è una scatola di cartone che dice qualcosa dell'uomo, quanto basta dell'ufficiale, molto della sua rete di rapporti che ne avrebbe sconsigliato la nomina il 29 aprile scorso e che forse, e al contrario, a questo punto la spiega. In quella scatola, custodita nell'ufficio corpi di reato del Tribunale di Firenze, ci sono due fatture per altrettanti soggiorni alberghieri.  Soggiorni del luglio e del settembre del 2008 che il generale non ha mai saldato, perché qualcun altro lo faceva per lui. Un costruttore e corruttore che di nome fa Riccardo Fusi, un "pratese" che in quegli anni, a Firenze, dove Toschi era Comandante regionale, contava. Perché tasca e "socio occulto" di Denis Verdini. Perché Grande Elemosiniere toscano e perno del Sistema trasversale che presiedeva agli assetti politici e imprenditoriali lungo l'Arno. Almeno fino a quando le inchieste giudiziarie sui Grandi Appalti (2010) non lo hanno travolto insieme al suo gruppo (la BF holding e la BTP), schiantato sotto il peso dei debiti e per il cui crac Fusi risponde ora di bancarotta fraudolenta. Ultimo, ma non unico, dei processi che lo hanno visto e lo vedono imputato. Da quello che sta celebrando il suo primo grado a Firenze per la bancarotta del Credito Cooperativo Fiorentino (dove Fusi è imputato con Verdini), a quello chiuso nel febbraio scorso in Cassazione con una sentenza di condanna a 2 anni per la corruzione nell'appalto per la scuola dei Marescialli di Firenze. La scatola e il Generale, dunque. Sepolta negli atti del processo per il crack del Credito Cooperativo Fiorentino di Denis Verdini, l'evidenza è numerata "B14". E, nel 2010, è parte delle migliaia di carte che il Ros dei Carabinieri acquisisce durante le perquisizioni negli uffici del Gruppo Fusi. All'interno, una messe di fatture, molte delle quali intestate "UNA hotel", la catena alberghiera di cui Fusi è proprietario. La scatola appare da subito un formidabile strumento di lettura della rete di relazioni di Riccardo Fusi, oltre che prova del suo rapporto "a catena" con Denis Verdini. Ma non solo. Tanto è vero che, con una decisione inedita e che la dice lunga sul grado di condizionamento ambientale che Verdini e Fusi erano riusciti a imporre, l'analisi del suo contenuto "contabile" viene delegata non alla Finanza, evidentemente ritenuta non affidabile, ma alla direzione generale dell'Agenzia delle Entrate della Toscana che, il 24 maggio di quell'anno, ne redige un rapporto di una quarantina di pagine. Le ultime delle quali di particolare interesse. "Nella stessa scatola B14 - scrive l'Agenzia delle Entrate - sono stati reperiti documenti di spesa emessi da UNA spa, addebito spese alberghiere non pagate dai relativi beneficiari e addebitate alla società BF servizi srl. (altra società del Gruppo Fusi ndr.)". E di quei beneficiari a scrocco viene allegato un elenco di 50 nomi. Alcuni decisamente più importanti di altri. Accanto al figlio di Denis Verdini, Tommaso, e ai suoi amici che, di volta in volta, decideva di portare con sé all'Una hotel del Lido di Camaiore, figurano infatti due ufficiali della Guardia di Finanza. Giorgio Toschi (laconicamente indicato dall'Agenzia come "generale della Gdf") e Marco De Fila (neppure indicato come appartenente alla Finanza). Il primo, Comandante regionale in Toscana dal 2006 al 2010. Il secondo, comandante provinciale nel 2009 della Finanza di Prato, quella competente per i controlli sul Gruppo Fusi (la cui sede legale era a Calenzano). E del resto che Fusi avesse un occhio attento a Prato lo dimostra la presenza nell'elenco degli ospiti anche di Costanza Palazzo, figlia di Salvatore, Presidente del Tribunale di Prato fino all'ottobre 2013, quando si dimise dalla magistratura per far cadere al Csm l'azione disciplinare cui era stato sottoposto per avere "omesso consapevolmente di astenersi dalla trattazione e dall'emissione di numerosi decreti ingiuntivi in favore di società che, pur in concordato preventivo, erano collegate a Riccardo Fusi, cui era legato da amicizia e assidua frequentazione". Fusi, insomma, sa scegliere i suoi ospiti. E il generale Giorgio Toschi, lo è almeno due volte come documentano le fatture XRF 310520/07 e XRF453092/07. Entrambe nello stesso albergo: il quattro stelle UNA hotel di Bergamo, in via Borgo Palazzo, una costruzione in vetro e acciaio che chiuderà i battenti alla fine del 2013. La prima fattura è relativa a un soggiorno di due notti il 5 e 6 luglio 2008, un sabato e una domenica. La seconda, ancora due notti, il 9 e 10 settembre, un martedì e mercoledì, di quello stesso anno. Sempre la stessa camera. Una "matrimoniale classic" con "free upgrade in executive junior suite". Per una spesa che, in luglio, è pari a 199 euro e 50 centesimi, e in settembre a 188 euro. E in cui, perché l'ospite non abbia a rimanerne a male, tutto è compreso. Oltre al lettone, una mezza minerale e un pacchetto di patatine in luglio. Due mezze minerali e un succo di frutta in settembre. Del resto, l'ospite è così di riguardo che il lunedì 30 giugno del 2008, alla vigilia del primo soggiorno del Generale, una mail inviata dall'ufficio prenotazioni UNA all'hotel di Bergamo e allegata alla fattura trovata nella scatola "B14", raccomanda di "far trovare in camera al sig. Toschi un cesto di frutta". Non è dato sapere, né ha importanza, per quale motivo l'allora Comandante della Regione Toscana della Guardia di Finanza fosse a Bergamo e avesse bisogno di una matrimoniale con free upgrade a junior suite. Né se fossero improrogabili ragioni di servizio a spingerlo in Lombardia in un week-end estivo. Certo, si potrebbe osservare che se fossero state ragioni di ufficio a muoverlo da Firenze, non una ma due volte, il Generale avrebbe sicuramente potuto usufruire della foresteria dell'Accademia che a Bergamo ha la sua sede e che lo stesso Toschi ha comandato. In ogni caso, è singolare che un generale di divisione quale allora era Toschi, con uno stipendio netto mensile di circa 4mila e 500 euro, dovesse scroccare una camera di albergo, un pacchetto di patatine, due succhi di frutta a Riccardo Fusi e al suo Gruppo sui quali, come Comandante regionale, aveva "giurisdizione", senza che questo gli apparisse sconveniente. Non fosse altro per la formula linguistica con cui, riferendosi al Generale Toschi, la direzione della UNA Hotel di Bergamo chiede alla "Bf servizi srl" (società infragruppo di Fusi) di liquidare le fatture in sospeso dei suoi due soggiorni ("Con riferimento al soggiorno dei vostri clienti presso il nostro hotel siamo lieti di inviarvi le fatture per il relativo saldo"). Non fosse altro, perché - "cliente" o meno che fosse considerato dal Gruppo Fusi - i fatti hanno documentato come, fino al 2010 e alle indagini della Procura di Firenze e del Ros dei carabinieri, la Guardia di Finanza, che aveva in Toschi il suo ufficiale più alto in grado in Toscana, non si sia accorta di quale grumo di corruzione si fosse saldato nel rapporto tra Fusi e Verdini, tra il Gruppo BF-BTP e il Credito Cooperativo Fiorentino. È un fatto che le notti a Bergamo in carico a Fusi non sembrano uno sfortunato inciampo nella storia di Toschi. L'ufficiale era già finito in una vicenda non edificante in quel di Pisa nel 2002, dove era stato comandante Provinciale e dove una generosa archiviazione (come ha documentato il "il Fatto" il 3 maggio) lo aveva salvato da un processo per concussione. Accusato di aver chiesto e ottenuto denaro contante dalle concerie della zona per evitare verifiche (e per questo indagato), Toschi aveva dovuto spiegare per quale misteriosa ragione fosse riuscito a cambiare in cinque anni tre Mercedes nuove di pacca con formidabili sconti. Perché fosse per lui abitudine cenare con imprenditori della zona. Soprattutto, per quale ragione, non facesse altro che cambiare banconote vecchie con banconote nuove o perché, nell'arco di anni solari successivi, il suo conto corrente personale avesse registrato prelievi tra i 4 e i 10 milioni di lire. Come se l'uomo potessero campare di aria. "Ho ricevuto denaro contante dalla mia famiglia di origine", aveva sostenuto Toschi in un drammatico interrogatorio con l'allora procuratore Enzo Iannelli. In quel 2002, la spiegazione bastò. La scatola "B14" meriterà altre risposte.

Consob, il caso della funzionaria che vigila su stessa. La storia di Paola Deriu, dipendente Consob che è riuscita a vendere le azioni di Veneto Banca prima del tracollo, scrivono Milena Gabanelli e Giovanna Boursier il 20 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". Lei è Paola Deriu, promossa da Vegas nel 2013 a responsabile dell’ufficio «Vigilanza operatività mercati a pronti e derivati» della Consob. Prima era condirettore dello stesso ufficio, e prima ancora, funzionaria all’Ufficio insider trading. Il suo ufficio garantisce la correttezza delle negoziazioni, l’integrità dei mercati, vigila sui soggetti che li gestiscono. Una posizione che dovrebbe ricordarle di essere un dirigente dell’Autorità chiamata ad assicurare che i mercati e i risparmiatori sappiano quel che comprano. Nel caso della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca l’informazione che la Consob avrebbe dovuto far arrivare ai mercati era che queste banche, per far fronte alle loro difficoltà dovute a mala gestione e malaffare, gonfiavano il prezzo delle loro azioni, o le collocavano presso i loro clienti in modo non regolare. Ma a partire da quando Consob ha queste informazioni? Ci focalizziamo su Veneto banca perché è qui che la dirigente Consob ha un personale interesse. Da un’ispezione di Bankitalia del 2013 emergono gravi irregolarità, e infine una maximulta ai vertici della banca nel 2014. La voce circola, molti clienti chiedono di vendere, ma solo pochi ci riescono. Seguono le ispezioni della Bce e la richiesta di dimissioni di tutto il cda, su cui indaga la magistratura: la banca per anni ha movimentato compravendite di azioni, finanziandone l’acquisto anche per milioni di euro, o appioppandole anche ai piccoli risparmiatori che chiedevano fidi e prestiti, «datevi una mossa, avete una media troppo bassa», scrivevano le dirigenze ai dipendenti. Le stesse dirigenze, contemporaneamente, si attivavano per salvare il salvabile di amici e clienti «influenti», aiutandoli a vendere il loro pacchetto azionario prima del tracollo. Tra gli amici è noto il caso di Bruno Vespa, che con il direttore della banca Consoli condivideva una masseria in Puglia. Il giornalista a settembre 2014, 3 mesi prima che il titolo cominci a crollare rovinosamente, riesce a farsi rimborsare 8 milioni di euro quando le azioni valgono ancora 39 euro. Un mese dopo riesce a vendere anche Paola Deriu. L’operazione emerge proprio da un’ispezione Consob del 2015, notificata ai vertici e al vecchio Cda nell’ultima assemblea della banca il 5 maggio scorso, ma tenuta nel massimo riserbo. Gli ispettori esaminano in particolare 10 casi critici nella relazione con la clientela, in cui «gli addetti della banca hanno provveduto a soddisfare l’istanza di liquidazione di alcuni clienti». Tra questi c’è anche la responsabile dell’ufficio vigilanza dell’Autorità. I documenti spiegano quasi tutta la storia: la dirigente Consob l’8 maggio 2014 chiede di vendere il suo pacchetto di 585 azioni acquistate tra fine 2006 e inizio 2007 a 32 euro ciascuna, per un importo di circa 18 mila euro. Il 26 giugno sollecita, ha fretta di vendere e la banca tarda; dal suo account Consob scrive al responsabile Veneto banca area Milano Brianza: «Ribadisco che sono sempre stata rassicurata del fatto che è la banca stessa a porsi in contropartita dei clienti quando chiedono di vendere, e che ciò avviene sempre in tempi rapidi... la vendita è dettata da ragioni di urgenza, e nel caso avvenga dopo il 1° luglio incorrerò in un aggravio di tassazione dovuto alla recente modifica di fiscalità sui capital gain». Per evitarlo, intanto, il 30 giugno chiede anche la rideterminazione del valore secondo perizia appena effettuata a 39,50 euro (il valore medio era di 32 euro), e tempestivamente paga la tassa del 2%. Tassa che il giorno dopo raddoppia. L’ufficio affari legali e reclami di Veneto banca però risponde 10 giorni dopo confermando che la ricerca di un acquirente è in corso, giustifica il ritardo con la particolare natura dell’operazione, mentre specifica che il valore dell’azione è stato rideterminato entro giugno come richiesto. Così la dirigente Consob è a posto, poiché il dovuto lo ha pagato il giorno prima dell’aumento, inoltre non dovrà pagare tasse sulle plusvalenze (passate dal 20 al 26%) perché il valore dell’azione è stato aggiornato a quello di vendita, e quindi di plusvalenze non ne avrà. L’effettiva cessione avviene a fine ottobre 2014, e nella nota di Veneto banca c’è scritto: «Tra conoscenti». Di chi? Della Deriu o della banca? Gli acquirenti desiderosi di prendersi l’intero pacchetto per 23.108 euro, mentre le azioni stanno crollando, sono i cugini Francesco e Giuseppe Zinghini, due trentenni che cercano di scrollarsi di dosso una parentela ‘ndranghetista ingombrante, con l’avvio di attività di giardinaggio e pulizie nell’hinterland milanese. Giuseppe Zinghini la racconta così: «Con mio cugino siamo andati alla filiale di Veneto Banca di Corsico, dove abbiamo il conto, a chiedere un prestito di 80 mila euro a nome della società Zeta Servizi, ma la condizione era l’acquisto di quelle azioni a 39,50 euro da una di Roma. Non avevamo scelta, qualche mese dopo abbiamo provato a rivenderle ma non è stato possibile». I dubbi restano perché nella documentazione i dipendenti della banca si comunicano internamente che la cessione è stata revocata e trasformata in «trasferimento fra conoscenti». Sta di fatto che oggi quelle azioni valgono 10 centesimi, e la loro società è in liquidazione. Ha qualche colpa la signora Deriu in questa operazione? Apparentemente nessuna, se ha rispettato l’obbligo previsto per i dirigenti di un’Autorità di vigilanza di comunicare le loro operazioni di Borsa. Certo sarebbe stato più opportuno se si fosse liberata del suo pacchetto nel 2013, appena ricevuto l’incarico, perché vendere un anno dopo la pesante ispezione di Bankitalia fa venire brutti pensieri. Ancor più brutti se si considera che Consob già a febbraio del 2013 sanziona Veneto Banca per le «diffuse e reiterate condotte irregolari» nella «valutazione di adeguatezza delle operazioni disposte dalle clientela», in particolare su obbligazioni e azioni emesse dalla stessa banca. Il dirigenti della vigilanza quindi sapevano, e avrebbero dovuto approfondire per allertare i risparmiatori. Invece hanno aspettato. Nell’attesa, chi aveva il problema, grazie al privilegio della posizione (a cui la banca ha dimostrato sensibilità), lo ha rifilato al malcapitato di turno. Un peccato veniale rispetto alle responsabilità del presidente Vegas verso quelle decine di migliaia di risparmiatori delle popolari che hanno perso tutto.

Quei giornalisti svelti a trovare il “fascista”, ma lenti a vedere l’islamista, scrive Adriano Scianca il 19 luglio 2016. Proviamo per un attimo a mettere insieme due fatti di sangue molto, molto, molto diversi. Non ci interessa confondere i piani, ma solo ragionare sul meccanismo mediatico e i suoi trabocchetti.

Primo caso: al termine di una scazzottata la cui dinamica è ancora da chiarire, a Fermo un nigeriano cade a terra, morto. Per questo fatto tragico, viene arrestato un ragazzo locale, tale Amedeo Mancini. Chi è? Di lui si sa che frequenta la curva della Fermana, ma non risulta alcuna militanza politica. Ci sono sue foto a un banchetto di destra radicale, ma anche alla raccolta firme del M5S. Il sindaco di Fermo, ex Pd, lo conosce bene, pare sia stato un suo sostenitore. “Qualche anno fa diceva di essere comunista”, afferma il primo cittadino. Qualcuno dice di averlo visto anche in alcuni centri sociali della zona. Insomma, un profilo che ha molto della figura “paesana” e poco del militante, di qualsiasi schieramento. Ma per i media, Amedeo Mancini è di estrema destra. È un fascista, lo hanno capito subito e lo hanno scritto ovunque, forti anche della versione della vedova nigeriana, smentita dagli esami autoptici e da tutte le testimonianze. Eppure loro lo sanno: l’uomo è un fascista. E se gli fai notare le incongruenze di tale affermazione, ti rispondono che poco importano le idee o le frequentazioni, chi si comporta in un certo modo è fascista, punto.

Caso numero due, cambiamo completamente scenario. A Nizza, durante i festeggiamenti del 14 luglio, un uomo falcia la folla con un tir e fa 84 vittime. Chi è? Un tunisino, con tutta una serie di problemi personali legati all’instabilità psichica, familiare ed economica. È uno jihadista? Qui gli stessi media di prima diventano improvvisamente cauti. Non si sa, chi può dirlo. Alcuni sono pronti a giurare che l’islamismo non c’entri proprio niente e che si tratti di un classico delitto della follia, un raptus maturato in una mente disturbata. L’illusione tiene, incredibilmente, anche di fronte alle prime evidenze: l’uomo aveva il padre che era un noto estremista islamico tunisino. Aveva il pc pieno di video di attentati e decapitazioni, mentre nella rubrica del suo telefonino è stato trovato il numero di uno dei maggiori reclutatori di jihadisti in Francia, un senegalese legato ad Al Nusra. Spunta uno zio che riferisce di come suo nipote fosse stato “radicalizzato” da circa “due settimane” da un reclutatore algerino membro dell’Isis a Nizza. E all’improvviso si trovano testimoni che ricordano, ultimamente, di averlo sentito elogiare lo Stato islamico. Eppure molti giornalisti sono ancora in attesa del documento in triplice copia firmato dal Califfo con le dovute marche da bollo in cui si attesti formalmente che l’uomo è un soldato dell’Isis. Si obietta che non osservava il Ramadan, che mangiava maiale e pare facesse uso di cocaina. Ma la coerenza militante e ideologica di un soldato è cosa che riguarda i suoi ufficiali o, al limite, il suo dio, non certo gli osservatori che dovrebbero prendere atto dell’evidenza.

Insomma, il quadro è chiaro: da una parte abbiamo un atto terroristico la cui matrice è chiara, limpida, cristallina (si potrà poi discutere sul grado di spontaneismo o meno dell’azione). Eppure si fa un’enorme fatica a riconoscerlo per quello che è. Se uscisse fuori che c’è una parte di mondo che ci ha dichiarato guerra si farebbe un favore alle destre populiste e xenofobe, capite? Dall’altra ci sono altre etichette, come per esempio quella di “fascista”, che i padroni delle parole dispensano a piene mani, senza troppi riguardi, decidendo loro chi lo è e chi non lo è, anche a prescindere dalle idee dell’interessato. Perché avere un fascista in più fa molto comodo a lorsignori, mentre avere un immigrato terrorista in più è una vera tragedia. E non a causa dei morti che ha fatto.

Buonisti: i morti di Nizza sono sulla vostra coscienza! Scrive Giampaolo Rossi il 16 luglio 2016 su "Il Giornale". Basta prenderci per il culo! Questa mostruosità l’avete creata voi e ha un nome preciso: si chiama multiculturalismo, la più evidente stortura ideologica del nostro tempo. Questa bestia che si annida nel cuore dell’Europa e che esplode periodicamente con una violenza cieca e disumana rappresenta il vero fallimento di tutto ciò che potevamo essere e che non saremo per vostra responsabilità. Non è importante sapere se il “franco-tunisino” che ha ammazzato 84 persone come stesse su una pista di bowling, fosse un terrorista addestrato dall’Isis, gli amici di quei sauditi che Hollande riceve con tutti gli onori all’Eliseo e che poi tornati in patria finanziano quelli che ammazzano i francesi (tutto questo è solo la resa ignobile di una classe politica europea corrotta e imbelle). Non è importante neppure sapere se l’assassino fosse un islamico praticante o saltuario, depresso o lucido; se abbia gridato “Allah Akbar” oppure nulla; se abbia sperato fino all’ultimo di raggiungere il suo Paradiso scatenando un inferno o semplicemente abbia regalato il suo inferno all’eternità. Quello che è importante è riconoscere la verità che voi continuerete a negare; e cioè che anche lui era figlio di quel pezzo di Europa che odia l’Europa; di quell’esperimento folle e suicida che la vostra ottusità ha prodotto. Siete voi che avete generato tutto questo: politici di sinistra, intellettuali ipocriti, giornalisti bugiardi e preti sconfessati. Questi mostri li avete creati voi con il vostro buonismo irreale, con i vostri gessetti colorati, con il vostro mito dell’accoglienza; voi che avete confuso l’uguaglianza dei diritti con la dittatura di un egualitarismo astratto. Voi che negate l’identità europea perché non avete il coraggio di difenderla: vigliacchi e stolti. Siete voi che continuate a non vedere che loro odiano ciò che noi siamo: odiano la nostra libertà, il nostro senso della vita, la nostra idea di uomo e di donna. Odiano i nostri diritti e la nostra cultura. Siete voi i responsabili di questa paura che ora viaggia nel cuore dell’Europa; voi che avete permesso le banlieue a Parigi, i “quartieri della sharia” in Belgio e Olanda (dove scuole e moschee sono finanziate dall’integralismo salafita), i tribunali islamici in Germania e Gran Bretagna, Husby e i laboratori di orrore sociale a Stoccolma dove travestite da integrazione ghetti di emarginazione. Siete voi che continuate a non leggere le ricerche che raccontano che il 30% dei giovani musulmani francesi tifa Isis, e che quasi la metà dei turchi tedeschi preferisce rispettare la legge islamica a quella vigente in Germania. Questi mostri li avete creati voi, tecnocrati di Bruxelles che state distruggendo le identità sovrane e nazionali per costruire un assurdo melting pot dove, da veri razzisti, pianificate i progetti di migrazione sostitutiva che trasformeranno l’Europa in Eurabia molto prima di quanto immaginasse Oriana Fallaci. Questi mostri li avete creati voi guerrafondai, con le vostre bombe umanitarie e le guerre illuminate; voi che avete pianificato il caos Mediorientale, che avete benedetto il disastro in Libia, quello in Siria che hanno aperto la strada all’esodo di disperati (pochi) e furbi (tanti) che si riversano nei nostri paesi e al dilagare dell’islamismo; voi che avete alimentato le primavere arabe che a loro volta hanno alimentato il terrorismo; voi che dite di combattere l’Isis e Al Qaeda e poi li finanziate e li addestrate per i vostri disegni strategici. Dai, forza buonisti, ora regalateci ancora un po’ del vostro sdegno. Continuate a scandalizzarvi e a bollarci come demagoghi, xenofobi e oscurantisti; scatenate i vostri giullari di corte sui giornali e in tv. Concedete ai menestrelli stonati di continuare a raccontare la favola del multiculturalismo, magari con i soldi pubblici della Rai e al solito Gad Lerner. Troverete ancora qualcuno che vi darà retta sperando che il mondo irreale della vostra ipocrisia non getti definitivamente l’Europa nel baratro. Ma questi morti sono sulla vostra coscienza. Fatemi capire.

La Boldrini vuole punire chi parla male dell'islam. La presidente della Camera insiste sul reato di "islamofobia" per censurare le critiche sulla religione di Allah. Ma si dimentica dei cristiani perseguitati, scrive Magdi Cristiano Allam, Domenica 22/05/2016, su "Il Giornale. La minaccia principale alla nostra civiltà laica e liberale risiede nel divieto assoluto di criticare e di condannare l'islam come religione, perché i suoi contenuti sono in totale contrasto con le leggi dello Stato, le regole della civile convivenza, i valori non negoziabili della sacralità della vita, della pari dignità tra uomo e donna, della libertà di scelta. Mentre il terrorismo islamico dei tagliagole, coloro che sgozzano, decapitano, massacrano e si fanno esplodere, noi lo sconfiggeremo sui campi di battaglia dentro e fuori di casa nostra, di fatto ci siamo già arresi al terrorismo islamico dei «taglialingue», coloro che sono riusciti a imporci la legittimazione dell'islam a prescindere dai suoi contenuti ed ora sono mobilitati per codificare il reato di «islamofobia», un'autocensura nei confronti dell'islam. Le Nazioni Unite, l'Unione Europea e il Consiglio d'Europa hanno già accreditato, sul piano politico, il reato di islamofobia, assecondando la strategia dell'Organizzazione per la Cooperazione Islamica. Ebbene ora in Italia il presidente della Camera, Laura Boldrini, ha fatto un ulteriore passo in avanti finalizzato a codificare per legge il reato di islamofobia, che comporterà sanzioni penali e civili per chiunque criticherà e condannerà l'islam come religione. È ciò che emerge dall'iniziativa della Boldrini di dar vita alla Commissione di studio sull'intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni di odio, nelle varie forme che possono assumere, xenofobia, antisemitismo, islamofobia, antigitanismo, sessismo, omofobia. Secondo la Boldrini sarebbero nuove forme di razzismo, che si manifestano soprattutto nella rete, catalogate in inglese come «hate speech», da intendersi come «incitazione all'odio». È singolare che siamo in un'Italia e in un'Europa dove chiunque può dire di tutto e di più sul cristianesimo, su Gesù, sulla Chiesa e sul Papa, senza che succeda nulla perché viene ascritto alla libertà d'espressione, mentre ci siamo auto imposti di non dire nulla sull'islam, su Allah, su Maometto e sul Corano perché urta la suscettibilità dei musulmani, perché abbiamo paura della loro reazione violenta che si ritorce indiscriminatamente contro tutti i cristiani nel mondo. A proposito, dal momento che i cristiani sono in assoluto i più perseguitati al mondo per la loro fede, perché mai tra le categorie che sostanzierebbero il reato di «incitazione all'odio» non compare la «cristianofobia»? L'errore fondamentale che viene commesso è di sovrapporre la dimensione della persona con quella della religione, ritenendo che per rispettare i musulmani come persone si debba automaticamente e acriticamente legittimare l'islam come religione. Noi invece dobbiamo rispettare i musulmani come persone, ma al tempo stesso dobbiamo usare la ragione per entrare nel merito dei contenuti di una religione e poter esprimere in libertà la verità sull'islam. La Boldrini, la terza carica dello Stato che dovrebbe lealtà e fedeltà all'Italia, si esibisce in pubblico con al petto una spilletta su cui c'è scritto «Stati Uniti d'Europa», una entità inesistente ma che si tradurrebbe nella scomparsa dell'Italia come Stato sovrano e indipendente, così come promuove l'invasione di milioni di clandestini musulmani che a suo avviso rigenererebbero la vita e la civiltà dell'Italia. In questo contesto il reato di islamofobia si rivelerebbe il colpo di grazia all'Italia e agli italiani.

Le bugie di Fermo e il razzismo degli anti-razzisti contro la verità, scrive Salvatore Tramontano, Venerdì 15/07/2016, su "Il Giornale". E ora Boldrini e Boschi cosa fate? Se si guarda solo il colore si perdono di vista i fatti. Questo vale per il sesso, il genere, la lingua, la nazionalità, il reddito, perfino la religione. Non è razzismo. È il contrario. Quando un uomo uccide un uomo il colore della pelle non può essere l'unica variabile. Altrimenti si finisce davvero per peccare di razzismo, anche senza volerlo. Oppure la morte di una persona si sfrutta come strumento politico. Nella brutta e drammatica storia di Fermo sappiamo che ci sono una vittima e un assassino. Quello che bisogna valutare e raccontare con onestà sono i fatti. Per capire. Amedeo Mancini si è comportato da razzista. Ha insultato un uomo e quell'uomo ha reagito. Su questo non ci sono dubbi. Emmanuel era con sua moglie e probabilmente si è spaventato. Ha preso un cartello stradale e ha aggredito Mancini. Anche su questo ormai non ci sono dubbi. Solo che a lungo si è faticato a credere a questa versione, nonostante ci fossero sei testimoni. Qui entrano in gioco la politica e l'ideologia e una sorta di razzismo involontario o antirazzismo strumentale. Ci sono sospese ancora le parole di Laura Boldrini e Maria Elena Boschi. La prima testimone mente. È inattendibile. E anche gli altri cinque nascondono (...) (...) qualcosa. Questo perché conta più il colore della pelle di chi parla che la verità. Non per bontà, ma per vantaggio politico. Ma non è così che si sta dalla parte dei deboli e dei discriminati, perché se si mente o si preferisce non vedere per antirazzismo si finisce col fare il gioco dei razzisti. Si creano alibi e invece in storie maledette come questa nessuno deve averne, di alibi. Non è infatti in discussione la colpevolezza di Mancini, ma perfino lui ha il diritto processuale alle attenuanti. Non si contrastano le discriminazioni razziali cancellando il diritto, compreso quello alla difesa. Ora la moglie di Emmanuel, Chinyere, ha ammesso di essersi spiegata male. È vero, il marito ha reagito alle accuse disgustose con rabbia, aggredendo con un'asta di ferro. I testimoni avevano detto il vero. È bene subito dire che la precisazione di Chinyere non è un alibi per Mancini. Ma quello che deve far riflettere è la facilità con cui il politicamente corretto cancella ogni dubbio se deve scegliere tra un nero e un bianco. E questo danneggia soprattutto i neri. Perché comunque è una discriminazione. Quello che conta è l'uomo, l'uomo ucciso, non il suo colore. Boldrini e Boschi hanno voluto credere alla versione della vedova, sbugiardando i testimoni solo perché non rientravano nella narrazione che strappa applausi al loro elettorato. Applausi sulla morte. Tutta questa retorica purtroppo puzza di opportunismo e finisce per rendere poco credibili le battaglie di libertà di chi davvero si batte contro il razzismo, con i fatti, non con la retorica. Non c'è bisogno di caricare una storia già eloquente. In Italia c'è un razzismo di offese, di ignoranza, da bar e di cori da stadio. Emmanuel è stato offeso da un razzista, ma la sua morte non è un pestaggio. C'è una dose di fatalità, che non assolve affatto Mancini, ma di cui non si può non tener conto. Ma c'è da spazzare via anche tutto l'apparato ideologico che ha voluto trasformare una brutta storia in una fotografia dell'Italia razzista. Razzista sì, ma in questo caso nei confronti della verità.

Maometto vs Gesù. Riflessioni di Jerry Rassamni. La differenza tra Gesù, quindi il Cristianesimo, e Maometto, quindi l'Islam.

Nessuna profezia preannunciò la venuta di Maometto. Numerose e precise e antiche profezie si sono avverate con la nascita di Gesù.

Il concepimento di Maometto fu umano e naturale. Gesù fu concepito in modo soprannaturale e nacque da una vergine.

Numerose rivelazioni di Maometto servivano a soddisfare i suoi interessi personali, come ad esempio la legalizzazione del matrimonio con la sua nuora. Le rivelazioni e la vita di Gesù erano «sacrificali», come la sua crocifissione per i peccati del mondo.

Maometto non ha fatto alcun miracolo. Gesù ha guarito lebbrosi, dato la vista ai ciechi, camminato sulle acque, risuscitato i morti.

Maometto ha instaurato un regno terreno. Gesù ha detto «il mio regno non è di questo mondo».

Maometto ha ammesso che le sue più grandi passioni erano le donne, gli aromi e il cibo. La passione principale di Gesù era di glorificare il nome del suo Padre celeste.

Maometto era un re terreno che accumulava ricchezze, divenendo il più ricco possidente in Arabia. Gesù non aveva un posto dove appoggiare il suo capo.

La vita di Maometto era contrassegnata dalla spada. La vita di Gesù era contrassegnata da misericordia e amore.

Maometto incitava alla jihad, la guerra santa. Gesù ha detto che «coloro che feriscono di spada, periscono di spada». Uno dei suoi titoli è «Principe della pace».

Se una carovana era debole, Maometto l’attaccava, la saccheggiava e la massacrava; se era forte, fuggiva. Gesù disse: «Splenda la vostra luce davanti agli uomini, affinché vedano le vostre buone opere e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli.» «Amate i vostri nemici e benedite coloro che vi odiano.»

Maometto fece lapidare un’adultera. Gesù perdonò un’adultera.

Maometto sposò quattordici donne, compresa una bambina di sette anni. Gesù non ebbe relazioni sessuali.

Maometto riconosceva di essere un peccatore. Gesù fu senza peccato, perfino secondo il Corano.

Maometto non predisse la sua morte. Gesù predisse esattamente la sua crocifissione, morte e risurrezione.

Maometto non nominò né istruì un successore. Gesù nominò, istruì e Gesù nominò, istruì e preparò i suoi successori.

Maometto era così incerto riguardo alla sua salvezza che pregava settanta volte al giorno per ricevere perdono. Gesù era l’essenza della salvezza, egli disse: «Io sono la via, la verità e la vita! Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me.»

Maometto massacrò i suoi nemici. Gesù perdonò i suoi nemici.

Maometto morì e le sue spoglie sono sepolte sulla Terra. Gesù risuscitò dai morti e salì al Cielo!

Il multiculturalismo imperante esige che si eviti di fare qualsiasi associazione tra terrorismo e fondamentalismo islamico, malgrado siano gli stessi terroristi a invocare il Corano. Abbiamo visto le assurde – e anche ridicole – conseguenze di questa censura “politicamente corretta” nella notizia pubblicata il 19 febbraio. Ora, ha ben ragione Benedetto XVI a insistere sul fatto che non è lecito uccidere in nome di Dio e che Dio non può volere la violenza, ma l’insistenza – che ha assunto il tono di una sfida alla ragione – si spiega proprio con il fatto che, in campo islamico, c’è chi teorizza il contrario. Sarebbe anche sbagliata un’equazione del tipo islam=terrorismo o islam=violenza, però allo stesso modo non si possono negare certi fenomeni inquietanti, che ripropongono la domanda sulle radici della violenza fondamentalista. Uno spunto originale ce lo offre il lavoro di William J. Federer, uno studioso americano esperto di rapporti tra religione e società, il cui ultimo libro esamina il rapporto tra islam e Stati Uniti. In un articolo scritto per WorldDailyNet, Federer smentisce sia gli apologeti islamici che accusano anche i cristiani di aver commesso violenze nella loro storia, sia i laicisti che credono sia la religione la prima causa della violenza – dimenticando gli stermini “atei” della Rivoluzione Francese, dello stalinismo, del maoismo -. Lo fa mettendo a confronto la vita e gli insegnamenti di Gesù con la vita e gli insegnamenti di Maometto: i quattro vangeli sono la fonte usata per Gesù, mentre per Maometto usa il Corano, l’Hadith (le storie sul Profeta trasmesse oralmente e poi raccolte dal califfo Omar II nell'VIII secolo) e il Sirat Rasul Allah (La vita del Profeta di Allah), anche questo scritto nell'VIII secolo. Il confronto tra le due figure, ben dettagliato da Federer e che potete leggere nell’articolo integrale, non necessita di alcun commento. Citiamo solo alcuni punti:

– Gesù è stato un leader religioso.

– Maometto è stato un leader religioso e militare.

– Gesù non ha mai ucciso nessuno.

– Maometto si stima abbia ucciso 3mila persone, compresi 700 ebrei a Medina nel 627.

– Gesù non ha mai posseduto schiavi.

– Maometto ne riceveva un quinto dei prigionieri catturati in battaglia, comprese le donne (Sura 8,41).

– Gesù non ha mai forzato i suoi discepoli a continuare a credere in Lui.

– Maometto ha forzato i suoi discepoli a continuare a credere in lui (pena la morte).

– Gesù ha insegnato a perdonare le offese ricevute.

– Maometto ha insegnato a vendicare le offese contro l’onore, la famiglia o la religione.

– Gesù non ha mai torturato nessuno.

– Maometto ha torturato il capo di una tribù ebrea.

– Gesù non ha vendicato la violenza contro di lui, affermando addirittura “Padre, perdona loro” (Lc 23,24).

– Maometto ha vendicato le violenze contro di lui ordinando la morte dei suoi nemici.

– Per cristiani ed ebrei martire è colui che muore per la propria fede.

– Per l’islam martire è chi muore per la propria fede mentre combatte (e uccide) gli infedeli.

– Nessuno dei discepoli di Gesù ha mai guidato eserciti.

– Tutti i califfi discepoli di Maometto sono stati anche generali.

– Nei primi 300 anni di cristianesimo ci sono state 10 importanti persecuzioni contro i cristiani (senza che ci fossero resistenze armate).

– Nei primi 300 anni di islam, gli eserciti islamici hanno conquistato Arabia, Persia, la Terra Santa, Nord Africa, Africa centrale, Spagna, Francia meridionale e vaste aree di Asia minore e Asia.

“Morendo, Gesù lascia quattro chiodi, Maometto sette spade”. Victor-Marie Hugo (Besançon, 26 febbraio 1802 – Parigi, 22 maggio 1885). Sulla base di questa citazione mettiamo a confronto i principali personaggi delle due più diffuse religioni al mondo, troppo spesso equiparati ma mai per ragioni di verbo.

“Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori” – Matteo 5,44

“Preparate, contro di loro, tutte le forze che potrete [raccogliere] e i cavalli addestrati per terrorizzare il nemico di Allah e il vostro e altri ancora che voi non conoscete, ma che Allah conosce” – Corano VIII, 60

Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno vi perquote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra”. – Matteo 5,39

“Non combatterete contro gente che ha violato i giuramenti e cercato di scacciare il Messaggero? Sono loro che vi hanno attaccato per primi”. – Corano IX, 13

“Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli” – Matteo 5,11-12

“Uccideteli ovunque li incontriate, e scacciateli da dove vi hanno scacciati: la persecuzione è peggiore dell’omicidio” – Corano II, 191

“Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avra ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con ii proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna.” – Matteo 5,21-22

“Quando [in combattimento] incontrate i miscredenti, colpiteli al collo finché non li abbiate soggiogati, poi legateli strettamente. In seguito liberateli graziosamente o in cambio di un riscatto, finché la guerra non abbia fine. Questo è [l'ordine di Allah]. Se Allah avesse voluto, li avrebbe sconfitti, ma ha voluto mettervi alla prova, gli uni contro gli altri. E farà sì che non vadano perdute le opere di coloro che saranno stati uccisi sulla via di Allah.” – Corano XLVII, 4

“Nessuno è buono, se non Dio solo.” – Marco 10,18

“I giudei dicono: ‘La mano di Allah si è incatenata!’. Siano incatenate le mani loro e siano maledetti per quel che hanno detto. Le Sue mani sono invece ben aperte: Egli dà a chi vuole.” – Corano V, 64

“Allora gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo, gli dicono: “Maestro, questa donna e stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?”. Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra. E siccome insistevano nell’interrogarlo, alzò il capo e disse loro: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei”. E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi. Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. Alzatosi allora Gesù le disse: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata? Ed essa rispose: “Nessuno, Signore”. E Gesù le disse: “Neanch’io ti condanno; và e d’ora in poi non peccare più.” – Giovanni 8,3-11

“Una donna di Ghamid si reco da lui (il Santo Profeta [Maometto]) e disse: “Messaggero di Allah, purificami poiché ho commesso adulterio”. Egli (il Santo Profeta) la mandò via. Il giorno seguente ella disse: Messaggero di Allah, perche ml scacci? […] In nome di Allah, sono rimasta incinta”. Egli disse: “Bene, se proprio insisti, allora vattene e non tornare prima di avere dato alla luce il bambino”. Dopo avere partorito la donna tornò con il neonato avvolto in un pezzo di stoffa e disse: “Questo e il figlio che ho dato alla luce”. E Maometto: “Vattene e allattalo fin quando non l’avrai svezzato”. Una volta svezzato il bambino, ella tornò da lui […] e disse: “Apostolo di Allah, ecco mio figlio. L’ho svezzato e ora è in grado di mangiare”. A quel punto il Santo Profeta affidò il bambino a uno dei musulmani e pronunciò la condanna. La donna fu messa in una fossa che le arrivava al petto e Maometto ordinò al suoi uomini di lapidarla. Halid ‘Ibn Walid si fece avanti e le tiro una pietra sulla testa. Il sangue schizzo sul volto di Halid cd egli allora abusò di lei. L’apostolo di Allah sentì la maledizione scagliata su di lei da Halid e disse: “Halid, sii gentile. In nome di Colui che ha nelle Sue Mani la mia vita, il pentimento di questa donna è tale che sarebbe stata perdonata persino se fosse un esattore della tasse disonesto”. Date quindi istruzioni su cosa fare di lei, si mise a pregare e la donna venne seppellita.” Hadith – Sahih Muslim, vol. 3, libro 17, n. 4206

“Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in Lui non muoia, ma abbia la vita eterna.” – Giovanni 3,16

“Allah ha comprato dai credenti le loro persone e i loro beni [dando] in cambio il Giardino, [poiché] combattono sul sentiero di Allah, uccidono e sono uccisi. Promessa autentica per Lui vincolante.” – Corano IX, 111

“Tutti quelli che mettono mano alla spada periranno.” – Matteo 26,52

“Sappiate che il Paradiso è all’ombra delle spade (jihad in nome di Allah).” – Hadith – al-Bukari, Sahih al-Bukhari cit., vol. 4, libro 56, n. 2818

“Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perche saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.” – Matteo 5,8-10

“Coiui che partecipi (alle guerre sante) in nome di Allah, e che non lo faccia per nessun’altra ragione che non sia la fede in Allah e nei suoi messaggeri, sarà ricompensato da Allah o con un ricco bottino (qualora sopravviva) o con l’ingresso in Paradiso (nel caso muoia da martire in battaglia).” – Hadith – Al-Bukhari, Sahih al-Bukhari cit., vol. 1, libro 2, n. 36.

“Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. […] Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?” – Matteo 5,7; 46-47

“Maometto è il Messaggero di Allah e quanti sono con lui sono duri con i miscredenti e compassionevoli fra loro.” – Corano XLVIII, 29

Verrà l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio.” – Giovanni 16,2

“Combattete coloro che non credono in Allah e nell’Ultimo Giorno, che non vietano quello che Allah e il Suo Messaggero hanno vietato, e quelli, tra la gente della Scrittura, che non scelgono la religione della verità, finché non versino umilmente il tributo, e siano soggiogati.” – Corano IX, 29

“Voi sarete odiati da tutti a causa del mio nome, ma chi avrà perseverato sino alla fine sarà salvato” – Marco 13,13

“Avete avuto un bell’esempio in Abramo e in coloro che erano con lui, quando dissero alla loro gente: “Noi ci dissociamo da voi e da quel che adorate all’infuori di Allah: vi rinneghiamo. Tra noi e voi è sorta inimicizia e odio [che continueranno] ininterrotti, finché non crederete in Allah” – Corano LX, 4

“Allora quelli che eran con lui, vedendo cio che stava per accadere, dissero: “Signore, dobbiamo colpire con la spada?”. E uno di loro colpì il servo del sommo sacerdote e gli staccò l’orecchio destro. Ma Gesù intervenne dicendo: “Lasciate, basta così!”. E toccandogli l’orecchio, lo guarì.” – Luca 22,49-51

“Secondo ‘Abù Qilaba, Anan disse: “Alcuni uomini di ‘Ukl e di ‘Uraina vennero a Medina, ma poiché il clima della regione non si confaceva loro essi si ammalarono. Allora uccisero il pastore che accudiva le bestie del Profeta e portarono via tutti i cammelli. Quando al mattino presto la notizia giunse alle orecchie di Maometto egli ordinò ai suoi [uomini] di inseguire i ladri, che a mezzogiorno erano già stati catturati e riportati indietro. Allora il Profeta diede disposizioni di amputare loro le mani e i piedi (e questo fu fatto). Quindi gli vennero bruciati gli occhi con dei pezzi di ferro incandescente. Dopodiché furono portati ad Al-Harra e quando chiesero dell’acqua non gli venne concessa”. ‘Abu Qilaba aggiunse: “Questi uomini rubarono, uccisero, tornarono a essere infedeli dopo avere abbracciato l’lslam e si opposero al volere di Allah e del Suo Messaggero”.  – Muhammed Ibn Isma’il al-Bukhari, Sahih al-Bukhari: The Traslation pf the Meaning. vol. 1, libro 4, n. 234

“Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto.” – Giovanni 18,36

“Ho ricevuto (da Allah) l’ordine di combattere contro gli infedeli finché non testimonieranno che non vi è altro dio al di fuori di Allah e che Maometto è il Suo Messaggero.” – Muhammed Ibn Isma’il al-Bukhari, Sahih al-Bukhari: The Traslation pf the Meaning. Vol. 1, libro 2, n. 25

Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e il vostro premio sarà grande e sarete figli dell’Altissimo; perché egli è benevolo verso gl’ingrati e i malvagi.” – Luca 6,35

“I credenti non si alleino con i miscredenti, preferendoli ai fedeli. Chi fa ciò contraddice la religione di Allah, a meno che temiate qualche male da parte loro. Allah vi mette in guardia nei loro confronti.” – Corano III, 28

“Se qualcuno poi non vi accoglierà e non darà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete la polvere dai vostri piedi”. – Matteo 10,14

“Chiunque lasci il credo islamico per convertirsi a un’altra religione merita la morte.” – Muhammed Ibn Isma’il al-Bukhari, Sahih al-Bukhari: The Traslation of the Meaning. vol. 4, libro 52, n. 260.

“Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro [tutti gli uomini]: questa infatti è la Legge ed i Profeti.” – Matteo 7, 12

“Nessuno di voi avrà fede finché non farà per il suo fratello (musulmano) ciò che fa per se stesso.” – Muhammed Ibn Isma’il al-Bukhari, Sahih al-Bukhari: The Traslation of the Meaning. vol. 1, libro 2, n. 13 

Nostradamus: “La Guerra inizierà in Francia e poi tutta l’Europa sarà colpita, Italia compresa”. Nostradamus, veggente e visionario, nel suo libro pubblicato nel 1555 “Le Profezie” ha predetto tantissimi eventi che sono avvenuti nei secoli successivi come l’avvento di Adolph Hitler, la Rivoluzione Francese, la bomba atomica, gli attacchi del 11 Settembre 2001 ed una terza guerra mondiale. E anche quello che è accaduto in questi giorni in Francia e nel mondo sarebbe determinante per grandi sconvolgimenti in arrivo. Secondo molti esegeti, ovvero coloro che hanno interpretato e cercato di comprendere il messaggio criptico contenuto nelle quartine e sestine del famoso profeta, gli avvenimenti descritti nel libro arrivano fino al 2025 dove un nuovo mondo di pace sorgerà dalle ceneri della distruzione del mondo come lo conosciamo oggi. Nel libro ci sono almeno 20 profezie che parlano dell’invasione araba dell’Europa (Italia compresa) e dell’Occidente con la distruzione di Parigi, Roma e altre città. Vediamone alcune che sono molto chiare: “LA GRANDE GUERRA INIZIERÀ IN FRANCIA E POI TUTTA L’EUROPA SARÀ COLPITA, LUNGA E TERRIBILE ESSA SARÀ PER TUTTI….POI FINALMENTE VERRÀ LA PACE MA IN POCHI NE POTRANNO GODERE“. “PER LA DISCORDE NEGLIGENZA FRANCESE SARÀ APERTO PASSAGGIO A MAOMETTO: DI SANGUE INTRISO LA TERRA ED IL MARE, IL PORTO DI MARSIGLIA DI VELE E NAVI COPERTO.” Secondo il profeta la tendenza a favorire a tutti i costi l’Islam rinunciando alle tradizioni è stato determinante per l’attacco arabo alla nostra cultura. Poiché la Francia è la nazione dove questo è avvenuto di più sarebbe il luogo dove inizierebbe la terza guerra mondiale. Ma la preoccupazione cresce se si considera anche cosa abbia scritto di Roma: CI SARANNO TANTI CAVALLI DEI COSACCHI CHE BERRANNO NELLE FONTANE DI ROMA […] CHE SPARIRÀ E IL FUOCO CADRÀ DAL CIELO E DISTRUGGERÀ TRE CITTÀ. E in questo caso, in relazione a una profezia retroattiva, si potrebbe pensare al racconto dei sopravvissuti del Bataclan, prima i colpi come se facessero parte della scenografia, poi le parole pronunciate dai terroristi. Nostradamus ha sempre affermato di basare le proprie profezie sull’astrologia giudiziaria, ma fu duramente criticato dagli astrologi dell’epoca, considerandolo incompetente in materia. Gli studi recenti hanno rilevato come egli stendesse la parafrasi di elementi escatologici derivati dalla Bibbia, integrandoli con fatti storici e testi antologici in cui erano raccontati presagi e predizioni. Si pensi per esempio al finale della città di Roma, con l’avvento della terza guerra mondiale: ROMA PERDERÀ LA FEDE E DIVENTERÀ IL SEGGIO DELL’ANTICRISTO […] I DEMONI DELL’ARIA, CON L’ANTICRISTO, FARANNO DEI GRANDI PRODIGI SULLA TERRA E NELL’ARIA E GLI UOMINI SI PERVERTIRANNO SEMPRE DI PIÙ. Un destino per la città eterna che non si addice al suo nome, in considerazione anche delle minacce dell’Isis, annoverata come prossimo bersaglio, generando non poche polemiche sull’eventualità della cancellazione del Giubileo. Il Papa però non ha intenzione di fare marcia indietro. Prepariamoci quindi alle prossime profezie, presenti fino al 3797, considerando anche che alcune predizioni non si sono avverate. Fonte: AttivoTV

L'islam vuole sostituirsi al cristianesimo. Radio Maria lancia il monito "L'islam punta a farci fuori". Padre Fanzaga sulla strage di Nizza: "Pericolo grave: più che politico è un problema soprattutto religioso", scrive Fabio Marchese Ragona, Domenica 24/07/2016, su "Il Giornale". Non usa mezzi termini e non sembra avere alcun dubbio Padre Livio Fanzaga, storico direttore di Radio Maria, finito spesso al centro delle polemiche per le sue esternazioni radiofoniche da molti considerate troppo «spinte» per un uomo di Chiesa. Contro ogni coro islamofilo, il religioso bergamasco questa volta ha affidato i suoi pensieri senza filtri a un breve messaggio scritto sul sito web della radio cattolica: parlando della recente strage di Nizza, il padre scolopio ha infatti detto: «È doveroso chiedersi che cosa i musulmani pensino di noi e della religione cristiana; l'obbiettivo dell'islam di qualsiasi tendenza è quello di sostituirsi al cristianesimo e ad ogni altra espressione religiosa. I mezzi per farlo dipendono dalle circostanze storiche». Un messaggio chiaro, un sasso lanciato nello stagno che apre di certo un dibattito sulla questione islam, considerato anche che a pronunciare queste parole non è stato un sacerdote sconosciuto nel corso di un'omelia in una chiesetta di campagna, ma l'ormai celebre Padre Livio, seguito ogni giorno da milioni di ascoltatori e di cybernauti che visitano il suo sito. «Il terrorismo di matrice islamica - scrive Don Fanzaga - rappresenta uno dei pericoli più gravi che incombono sulla nostra società. Il problema non è soltanto politico, ma anche e soprattutto religioso. Non vi è dubbio che la grande maggioranza di musulmani che vive in Occidente sia gente che vuole fare una vita tranquilla, ma l'obiettivo dell'Islam è di sostituirsi al cristianesimo». A sostegno di queste parole, il religioso ha pubblicato a seguire un breve estratto del suo volume «Non praevalebunt. Manuale di resistenza cristiana», in cui il direttore di Radio Maria, riporta alla luce una vecchia pubblicazione di Stefano Nitoglia secondo cui, nonostante le differenze tra Islam moderato, radicale e di matrice terrorista, i fini appaiono sempre gli stessi: «La soggezione di tutto il mondo all'islam, considerato il sigillo e il compimento di tutte le rivelazioni, con il mondo (secondo la dottrina classica dell'islam, accettata da tutti i musulmani) suddiviso in due parti, il territorio dell'islam, dove vige la legge dell'islam e il territorio di guerra dove sono gli infedeli. Quest'ultimo territorio dev'essere conquistato e assoggettato all'Islam». Parole che Padre Livio ha fatto sue, ritenendo peraltro inutile un ipotetico dialogo interreligioso con l'Islam in cui i cristiani proporrebbero la visione della fede cristiana ai musulmani «perché per essi il cristianesimo è quello che viene interpretato dal Corano e nessun argomento umano potrebbe cambiare quella che per loro è una rivelazione divina». Una posizione, quella espressa da don Fanzaga, secondo cui l'islam vuole sostituirsi al cristianesimo, in netto contrasto con quella ufficiale del Vaticano, con il cammino intrapreso da Papa Francesco, impegnato sin dall'inizio del suo pontificato in un dialogo con l'islam sunnita e con quello sciita, convinto che «con i musulmani si può convivere». Proprio qualche giorno fa, ad esempio, uno stretto collaboratore del Papa, il vescovo spagnolo Miguel Angel Ayuso Guixot, segretario del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso ed esperto di Islam, è volato al Cairo per un incontro all'Università di Al-Azhar, uno dei maggiori centri d'insegnamento dell'Islam sunnita, retto dalla guida suprema, lo sceicco Muhammad Ahmad al-Tayyib. Nell'incontro, l'inviato papale ha discusso i termini e le modalità per un prossimo incontro che «segna la ripresa del dialogo tra Santa Sede e Al-Azhar per rafforzare i legami tra cristiani e musulmani». Nonostante ciò, Radio Maria e il suo direttore rimangono di un altro avviso: l'islam è un pericolo per i cristiani e in un altro editoriale intitolato «La donna e il drago» pubblicato qualche giorno fa, Fanzaga, parlando di terrorismo islamico ha ribadito: «Per quanto gli Stati si diano da fare, difficilmente verranno a capo di questo scatenamento infernale dell'impero delle tenebre. Per uscire vincitori di questo tremendo passaggio storico non bastano i mezzi umani, per quanto necessari».

La legittimità delle Crociate, un atto di difesa, scrive Massimo Viglione il 23 novembre 2015. Dal VII all’XI secolo l’Islam ha sistematicamente attaccato e invaso manu militari gran parte delle terre di quello che era l’Impero Romano d’Occidente (premendo nel contempo senza sosta alle porte di quello d’Oriente), conquistando gran parte del Medio Oriente, l’Africa del Nord, la Penisola Iberica, tentando di varcare i Pirenei, poi occupando la Sicilia, la Sardegna e la Corsica, risalendo con scorrerie fino a Lione e poi in Svizzera e alle Alpi, ponendo delle enclave fisse vicino Roma (le basiliche di San Pietro e San Paolo e l’abbazia di Montecassino furono distrutte), ma soprattutto terrorizzando per secoli le popolazioni cristiane mediterranee, specialmente quelle italiane. Quattro secoli di invasioni militari (massacri di uomini, deportazioni di donne negli harem, conversione forzata dei bambini) e razzie, di cui nessuno mai potrà fare il calcolo non tanto dei danni materiali, quanto del numero dei massacrati e del dolore immenso causato a intere generazioni di cristiani, senza che questi potessero in alcun modo contrattaccare. Gli stessi pellegrini che andavano in Terra Santa venivano spesso massacrati, specie a partire dall’XI secolo, con l’arrivo del dominio dei turchi selgiuchidi. Tutto quanto detto deve essere tenuto presente prima di emettere qualsivoglia giudizio storico e morale sulla crociate: non si può infatti presentare i crociati come una “banda di matti fanatici” e ladri che calò improvvisamente in Palestina per rubare tutto a tutti e uccidere i poveri musulmani indifesi. Ciò è solo ridicolo, evidentemente sostenuto da chi non cerca la verità storica ma è mosso solo dal suo odio anticristiano (o dalla sua simpatia filoislamica). Come sempre ufficialmente dichiarato dalla Chiesa tramite la voce dei Papi e dai teorici del movimento crociato (fra questi, san Bernardo di Chiaravalle) e dai teologi medievali (fra gli altri, san Tommaso d’Aquino e anche santa Caterina da Siena), lo scopo e la legittimità delle crociate risiedono nei seguenti princìpi fondamentali:

Il diritto/dovere assoluto della Cristianità a rientrare in possesso dei Luoghi Santi;

La difesa dei pellegrini (e a tal fine nacquero gli Ordini monastico-cavallereschi);

La legittima difesa dai secolari assalti della Jahad islamica.

Come si può notare, tutti e tre i princìpi indicati si fondano pienamente sul diritto naturale: quello del recupero della legittima proprietà privata lesa, quella della difesa del più debole dalla violenza ingiustificata, quello della legittima difesa da un nemico ingiustamente invasore. È interessante notare a riguardo che le fonti islamiche sulle crociate, pur accusando i crociati di atti barbarici e stragisti di ogni genere, mai mettono però idealmente in dubbio il loro diritto alla riconquista dei Luoghi della Redenzione di Cristo. Da conquistatori, essi sanno che il diritto del più forte, su cui essi si fondano, prevede anche il contrattacco. A questi tre princìpi poi, santa Caterina da Siena ne aggiunge un altro: il doveroso tentativo di conversione degli infedeli alla vera Fede, per la loro salvezza eterna, bene supremo di ogni uomo. Per necessaria completezza, occorre tener presente poi che il movimento crociato non si esaurì nell’ambito dei due secoli (1096-1291) in cui avvennero la conquista e la perdita della Terra Santa da parte cristiana (crociate tradizionali); infatti, a partire dal XIV secolo, e fino agli inizi del XVIII, con l’avanzata inarrestabile dei turchi ottomani, di crociate se ne dovettero fare in continuazione; questa volta però non per riprendere i Luoghi Santi, ma per difendere l’Europa stessa (l’Impero Romano d’Oriente cadde in mano islamica nel 1453) dalla conquista musulmana. I soli nomi di Cipro, Malta, Lepanto, Vienna (ancora nel 1683) ci dicono quale immane tragedia per secoli si è consumata anche dopo le stesse crociate “tradizionali” e ci testimoniano un fatto incontrovertibile e di importanza capitale: per quattro secoli prima e per altri quattro secoli dopo le crociate “tradizionali”, il mondo cristiano è stato messo sotto attacco militare dall’Islam (prima arabo, poi turco), subendo quella che può definirsi la più grande e lunga guerra d’assalto mai condotta nella storia, in obbedienza ai dettami della Jihad (Guerra Santa) voluta e iniziata da Maometto stesso. Mille anni di guerre. Per questo, occorre essere sereni, preparati e giusti nei giudizi. Le crociate furono insomma anzitutto guerre di legittima difesa e di riconquista di quanto illegittimamente preso da un nemico invasore. Pertanto, ebbero piena legittimità storica e ideale (ciò non giustifica, ovviamente, tutte le violenze gratuite commesse da parte cristiana nel corso dei secoli). Ancor più ciò è valido a partire dal XIV secolo, quando l’unico scopo del movimento crociato divenne la difesa della Cristianità intera aggredita dai turchi.

Con la Rivoluzione Francese abbiamo diviso lo Stato dalla Chiesa e questi ci vogliono imporre un nuovo tipo di regime teocratico ideologico?

«Siamo allo Stato etico: omosessualità, bisessualità e transessualità sono dogmi morali intoccabili», scrive "Tempi" il 19 Luglio 2016. È questo il commento di Gandolfini a un nuovo ddl che propone di punire con due anni di carcere i professionisti medici che si impegnano, anche su richiesta, a modificare l’orientamento sessuale di una persona. «La strategia contro l’umano – ma anche contro il buon senso – non si ferma. Il 14 luglio scorso è stato depositato al Senato il ddl 2402 con il titolo “Norme di contrasto alle terapie di conversione dell’orientamento sessuale dei minori”. Primo firmatario il Sen. Sergio Lo giudice (Pd) – che ha contratto matrimonio gay ad Oslo e oggi è “padre” di un bimbo avuto con utero in affitto. Fra i firmatari anche la Sen. Monica Cirinnà (Pd)». Spiega Massimo Gandolfini, presidente del Comitato promotore degli ultimi due Family Day. «In buona sostanza il ddl chiede la galera fino a due anni e una multa da 10mila a 50mila euro – prosegue Gandolfini – per “chiunque esercitando la pratica di psicologo, medico psichiatra, psicoterapeuta, terapeuta, consulente clinico, counsellor, consulente psicologico, assistente sociale, educatore o pedagogista faccia uso su soggetti minorenni di pratiche rivolte alla conversione dell’orientamento sessuale” (art.2). Va, quindi, sanzionata “ogni pratica finalizzata a modificare l’orientamento sessuale, eliminare o ridurre l’attrazione emotiva, affettiva o sessuale verso individui delle stesso sesso, di sesso diverso o di entrambe i sessi” (Art.1, comma 1)». «Ciò significa – afferma ancora il portavoce del Family Day – che un minore che vive con disagio il suo orientamento sessuale, con l’aiuto e l’approvazione dei genitori, non può e non deve trovare alcun professionista che lo aiuti, salvo solo confermarlo nell’orientamento vissuto con sofferenza. Siamo allo Stato Etico: omosessualità, bisessualità e transessualità sono dogmi morali intoccabili a anche difronte alle valutazioni che può fare un esperto medico psichiatra. Che ne è della libertà? La libertà di scelta, la libertà di ricerca, la libertà di educazione dei genitori? Senza contare quanto instabili ed insicure sono le scelte emotivo-affettive che caratterizzano gli anni dell’adolescenza!». «La solita schizofrenia tipica delle menti che si credono illuminate e che si alimentano solo di insensate ideologie: da un lato la pretesa di libertà assoluta di scegliere l’orientamento e l’identità di genere che si vuole fin dalle scuole dell’infanzia, dall’altro la negazione di essere liberi di scegliere il percorso di assistenza psicologica che meglio si addice alla propria condizione di disagio emotivo, sempre qualora esso si manifesti. Un appello a tutte le persone di buon senso: uniamo le nostre forze per fermare, con tutti gli strumenti democratici a disposizione, questo folle treno in corsa». Conclude Gandolfini.

Essere i paladini dell’antirazzismo. Le radici del razzismo del ‘900? Marx ed Engels, scrive Riccardo Ghezzi, l'11 settembre 2011 su “Quelsi”. C’è qualcosa di strano negli “anti-razzisti” in bandiera rossa con falce e martello dei giorni nostri. Qualcosa che non torna. Come al solito, quel qualcosa che non torna è la scarsa conoscenza della storia dei compagni. Già, perché gli “anti-razzisti” di oggi, che ideologicamente si rifanno al comunismo e ai teorici Marx ed Engels, ignorano che il razzismo del ‘900 ha dei padri che sono vissuti un secolo prima: Marx ed Engels, per l’appunto. Due pensatori razzisti, neppure troppo velatamente. Basterebbe studiarli per saperlo, ma certo non si può pretendere che marxisti o engelsiani leggano opere e aforismi dei loro beniamini. Lo studio dei testi di Marx ed Engels ci mostra che il genocidio, razziale o di classe, è una teoria propria al socialismo. L’ha scritto il filosofo e politico francese Jean-François Revel nella sua prefazione al libro «La littérature oubliée du socialisme» di George Watson. Aveva ragione. Engels, nel 1849, invocava lo sterminio degli ungheresi che si erano ribellati all’Austria. Lo scriveva in un articolo pubblicato sulla rivista diretta proprio dal suo amico Karl Marx, la «Neue Rheinische Zeitung». Lo stesso articolo sarà riportato da Stalin, nel 1924, in «Fondamenti del Leninismo», in realtà spudoratamente copiato da un saggio del segretario Ksenofontov, al quale è stata vietata la pubblicazione della sua opera (troppo simile a quella che Stalin aveva spacciato per farina del proprio sacco) prima di essere fatto fucilare negli anni ’30. Ma non andiamo fuori tema. Engels desiderava candidamente l’estinzione di ungheresi, serbi e altri popoli slavi, e poi ancora baschi, bretoni e scozzesi. In «Rivoluzione e controrivoluzione in Germania», pubblicato nel 1852 sulla stessa rivista, era Marx in persona a chiedersi come fare per sbarazzarsi di “queste tribù moribonde, i boemi, i corinzi, i dalmati, ecc…”. Il concetto di autodeterminazione dei popoli non era proprio ben visto da Marx ed Engels, per usare un eufemismo. Ma Engels ha rincarato la dose nel 1894. In una lettera ad uno dei suoi corrispondenti, W. Borgius, l’intellettuale comunista tedesco scriveva: Per noi, le condizioni economiche determinano tutti i fenomeni storici, ma la razza è anch’essa un dato economico. La “razza”. Chi l’avrebbe detto. Cosa Engels volesse intendere, l’ha chiarito meglio nel suo Anti-Duhring: Se, per esempio, nel nostro paese gli assiomi matematici sono perfettamente evidenti per un bambino di otto anni, senza nessun bisogno di ricorrere alla sperimentazione, non è che la conseguenza dell’eredità accumulata. Sarà al contrario molto difficile insegnarli a un boscimane o a un negro d’Australia. Parole che farebbero impallidire persino il tanto vituperato (dai compagni) Mario Borghezio. La superiorità razziale dei bianchi era una verità scientifica per i fondatori del socialismo, ed anche per i loro adepti. H. G. Wells e Bernard Shaw, intellettuali socialisti del ‘900 e grandi ammiratori dell’Unione Sovietica, per esempio rivendicavano il diritto di liquidare fisicamente le classi sociali che ostacolavano o ritardavano la Rivoluzione socialista. Stupiscono soprattutto le parole di Bernard Shaw riportate sul periodico The listener nel 1933, con le quali invitava scienziati e chimici a “scoprire un gas umanitario che causa la morte istantanea e senza dolore, insomma un gas «civile» mortale ma umano, sprovvisto di crudeltà”. Anche il nazista Adolf Eichmann, durante il processo a Gerusalemme nel 1962, ha invocato in sua difesa il carattere umanitario dello zyklon B, usato per uccidere le vittime della Shoah. Torniamo a Marx. Egli, ebreo auto-rinnegato, definiva il suo rivale e critico Ferdinand Lassalle con queste parole: Vedo ora chiaramente che egli discende, come mostrano la forma della sua testa e la sua capigliatura, dai Negri che si sono congiunti agli Ebrei al tempo della fuga dall’Egitto, a meno che non siano sua madre o sua nonna paterna che si sono incrociate con un negro. L’importunità di quell’uomo è altresì negroide. E poi ancora: Il negro ebreo, un ebreo untuoso che si dissimula impomatandosi e agghindandosi di paccottiglia dozzinale. Ora questa mescolanza di giudaismo e germanesimo con un fondo negro debbono dare un bizzarro prodotto. Léon Poliakov, storico e filosofo francese di origine russa vissuto nel ‘900, così ha definito Marx: Marx restava influenzato dalle gerarchie germanomani, si rifaceva all’idea dell’influenza del suolo di Trémaux, un determinismo geo-razziale che fondava agli occhi di Marx l’inferiorità dei negri. Lo stesso si potrebbe dire per Engels. Impossibile pretendere che gli scalmanati dei centri sociali, armati di spranghe e bandiera rossa, sappiano queste cose. Ma che almeno coloro che si rifanno alle idee di Marx ed Engels abbiano il buon gusto di non definirsi “anti-razzisti”. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Illudere gli operai, distruggere la Chiesa, aggregare l’Italia all’Urss: i piani del PCI in due documenti esclusivi. È il 1948, all’orizzonte si profila l’appuntamento con il 18 aprile, giorno delle elezioni politiche che potrebbero rivelarsi decisive per le sorti dell’Italia. PCI e PSI si sono riuniti nel Fronte Democratico Popolare, con lo scopo dichiarato di assumere la guida del Paese battendo la Dc, già uscita vincitrice dalle precedenti elezioni del 1946. Al fine di raggiungere l’obiettivo, i militanti sono disposti a tutto: una vera e propria “macchina da guerra”, nemmeno troppo “gioiosa”, per parafrasare la famosa uscita di Achille Occhetto molti anni dopo. La propaganda del Fronte Democratico Popolare è feroce, tanto che i “compagni propagandisti” rivestiranno un ruolo importante durante la campagna elettorale. I due documenti che vi mostriamo sono particolarmente significativi: una lettera segreta contenente un vero e proprio vademecum per i propagandisti ed un decalogo inoltrato ai militanti più fedeli e considerati affidabili. Entrambi stupiscono per il tono enfatico e ancor di più per i contenuti, talvolta davvero stucchevoli. Ci sono stati forniti da un lettore del blog, che li ha avuti originali da una persona nata del 1932 che all’epoca risiedeva in un paesino vicino a Ravenna. Essendo famiglia di area cattolica, hanno ricevuto tale missiva per errore, ma l’hanno gelosamente custodita per tutti questi anni. Nel vademecum sono elencati i 9 punti che il Partito intendeva inculcare ai propagandisti: dai nemici del Fronte Popolare, individuati anche nei mancati alleati del PSLI (futuro PSDI) e PRI, agli obiettivi da ottenere in ambito morale, economico e religioso. Ossia estirpare la Chiesa, distruggere la moralità, abolire la proprietà privata. E poi, trasformare l’Italia in una Repubblica Socialista, vassalla dell’URSS di Stalin, favorendo l’egemonia comunista nel mondo. Oltre alla raccomandazione finale di non divulgare la lettera, che deve restare segreta. Abbiamo scelto di riportare integralmente il documento, senza correggere errori pacchiani come “appariscano”.

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Compagno mezzadro!

1) Il giorno 18 aprile si combatterà la battaglia decisiva tra le forze progressiste e le forze reazionarie. Le forze progressiste sono tutte quelle raggruppate nel Fronte, la forze reazionarie sono tutte le altre. Il Partito Comunista integrale che è l’anima del P.C.I. denuncia come forze reazionarie sia il P.S.L.I. sia il P.R.I., perché il P.C.I. sa perfettamente che se fosse stato costituito, in Italia, un Fronte Popolare comprendente anche le forze socialiste e repubblicane, come fu fatto dodici anni fa in Ispagna, il P.C.I. avrebbe senz’altro vinto le elezioni. Mentre invece il partito si trova a dover lottare contro la reazione, che diventa ogni giorno sempre più pericolosa ed aggressiva, insieme al solo P.S.I. del compagno Nenni, in una lotta che diventa sempre più dura e preoccupante.

2) Il Partito, ti considera maturo e degno di conoscere i suoi più immediati obiettivi, per convincerti della necessità di lottare duramente. Il Partito sa che gli avversari, grazie a forme spietate della loro propaganda capillare, sono riusciti a provocare il disordine nelle nostre file, che fino a dieci giorni fa, sembravano pugnaci e compatte. Il Partito sa che, purtroppo, moltissimi compagni non hanno resistito al tremendo attacco. Ricorda sempre che il Partito ti rivela i suoi immediati obiettivi, considerandoti maturo, perché tu possa incoraggiare i compagni impauriti ed ammonire i compagni titubanti.

3) Il Partito mira a questi obiettivi grandiosi la cui conquista darà nome alla nostra epoca:

Primo: nel piano religioso il Partito mira e estirpare radicalmente l’idea di dio, la dottrina di Cristo, la influenza della chiesa sulle masse, il potere dei preti. Non si vedranno più madonne che andranno in giro da un comune all’altro, né madonne che appariscano o statue di madonne che si muovano.

Secondo: nel piano morale, il partito tende a liquidare, una volta per tutte, la morale borghese, la famiglia cristiana, l’indissolubilità del matrimonio. Il Partito vuole rivendicare, a favore di tutti, uomini e donne, la libera iniziativa nell’amore, fuori da ogni controllo religioso, perché per noi bolscevichi la religione è l’oppio del popolo e droga che ubriaca. La sola morale del Partito è quella affermata dal grande Lenin: quella che serve agli sviluppi della nostra lotta, non quella che si riallaccia all’idea di dio e dei suoi pretesi comandamenti.

Terzo: nel piano economico il Partito abolirà la proprietà privata di tutti i mezzi di produzione, ed in modo particolare abolirà la proprietà privata della terra, delle industrie, dei mezzi di comunicazione -ferroviari, marittimi, aerei, automobilistici – di tutte le aziende, agricole, industriali, artigiane, di caccia e di pesca. Tutto sarà confiscato a favore dello Stato, il quale sarà il solo produttore ed il solo distributore di merci e prodotti, il solo che avrà in mano il commercio sia interno che estero.

4) Compagno! Quando tutto sarà confiscato a favore dello Stato, tu sarai finalmente libero da qualunque privato padrone. Lo Stato tutelerà i tuoi diritti, se tu osserverai onestamente i tuoi doveri. I diritti e i doveri del cittadino saranno determinati in una nuova Carta Costituzionale, che sarà immediatamente fatta sulla guida di quella del compagno Stalin.

5) Quando il partito avrà conquistato il potere, allora vedrai cosa saprà fare contro la chiesa cattolica, contro i suoi ministri, i suoi simboli, i suoi santi, le sue madonne, le sue chiese, le sue organizzazioni. Il Partito ti libererà per sempre dai preti e dalla loro dottrina.

6) Quando il Partito avrà conquistato il potere allora finalmente si realizzerà il sogno di ogni vero comunista bolscevico italiano: l’Italia diventerà una REPUBBLICA SOCIALISTA e domanderà l’onore di essere aggregata all’URSS, con a capo il compagno Stalin. Così dichiarò a Mosca il compagno Togliatti. Allora l’URSS penetrerà, attraverso l’Italia, nel mare mediterraneo, e sarà in grado di resistere alle prepotenze degli Stati Uniti d’America; allora il compagno Stalin accetterà la sfida che gli Stati Uniti d’America gli hanno lanciato. La vittorie del Fronte significherà perciò guerra agli Stati Uniti d’America; e la guerra finirà nella vittoria del Comunismo nel mondo.

7) La vittoria del Fronte aprirà immediatamente le porte alla emigrazione di milioni di lavoratori italiani in Russia, grande Patria del Socialismo, senza formalità alcuna. Così milioni di lavoratori italiani riempiranno gli spaventosi vuoti causati dalla infame guerra fascista nei ranghi della gioventù maschile sovietica. E migliaia di donne sovietiche saranno felici di accogliere i lavoratori italiani, e creare con essi una vera famiglia comunista.

8 ) Compagno! Il Partito ha insistito presso il compagno Stalin di fare all’ultimo momento il gran gesto verso l’Italia, di rinunciare alle riparazioni e alle navi italiani e almeno di promettere all’Italia il grano necessario per arrivare al raccolto. Ciò sarà utilissimo alla nostra propaganda. E’ chiaro, del resto, che se il Partito vincerà le elezioni, il compagno Stalin sarà ricompensato ad usura del suo gesto, ed avrà il centuplo di ciò che darà o prometterà all’italia prima delle elezioni.

9) Compagno! Questa è lettera è segreta. Appunto per questo è stata spedita in busta non intestata, come lettera privata. Il Partito ti raccomanda quindi di non farla leggere a nessuno, ma tutt’al più, ad un solo compagno di tua piena fiducia, purché non sia un contadino. Nel caso però che questa lettera capitasse in mano agli avversari, il Partito la smentirà sollecitamente, a voce e sulla stampa, nelle sue Sedi e fuori. E’ certo doloroso per il Partito dovere smentire i suoi veri programmi; ma talvolta ciò è necessario. Sii dunque avvertito che se il Partito smentirà, ciò vuol dire che qualche compagno immaturo ha parlato.

Per il P.C.I. nel M.S.R. (Compagno Filiberto S.) W IL FRONTE DEMOCRATICO POPOLARE!

Ancor più allarmante, per certi versi, il decalogo. Traspare, oltre ad un linguaggio particolarmente violento, un odio pericoloso nei confronti di chiesa cattolica e istituzioni come la famiglia. Significative anche le parti in cui si invita a “mentire” e “calunniare” i “preti” o i nemici, addirittura a “illudere” gli operai. Attenzione: non aiutare o difendere, ma illudere. Quindi strumentalizzarli. LETTERA SEGRETA AI COMPAGNI MILITANTI. MESSAGGIO CHE CHIARAMENTE INCITA ALL’ODIO E ALL’ANTI-CATTOLICESIMO. La seguente lettera è stata consegnata dal Comitato Centrale del Partito Comunista Italiano, diretto da Palmiro Togliatti (1893-1964), ai quadri propagandisti rivoluzionari nel 1947. Rileggendola è facile capire l’odio che ha guidato la mano omicida di tanti partigiani durante la guerra e nell’immediato dopoguerra.

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Compagno,

il Partito vuole che anche tu conosca il contenuto di questa circolare segreta, che fu diramata già ai compagni propagandisti dell’Italia del nord, dopo la liberazione, e che fu spedita, nelle rispettive lingue a migliaia di compagni, nei Paesi dell’Europa centrale che dovevano essere bolscevizzati.

Compagno propagandista, Tu sei uno dei più validi strumenti. Perché l’opera tua sia efficace, eccoti una breve guida per il tuo lavoro. Ricorda sempre che il nostro compito è bolscevizzare l’Europa tutta a qualunque costo, in qualunque modo. Tuo compito è bolscevizzare il tuo ambiente. Bolscevizzare significa, come tu sai, liberare l’umanità dalla schiavitù che secoli di barbarie cristiana hanno creato. Liberare l’umanità dal concetto di religione, di autorità nazionale, di proprietà privata.

Per ora il tuo compito è più limitato. Ecco un decalogo:

1) Non manifestare ai compagni non maturi lo scopo del nostro lavoro: comprometteresti tutto.

2) Lottare contro quanto, specie gli ipocriti preti, vanno dicendo di meno vero sui nostri scopi: negare recisamente quanto essi affermano, negare recisamente che noi non vogliamo la religione, la patria, la famiglia.

3) Mostrare con scherzi, sarcasmi e con condotta piacevole che tu sei più libero senza le pastoie della religione, anzi si vive meglio e si è più liberi.

4) Specialmente è tuo compito distruggere la morale insegnando agli inesperti, creando un ambiente saturo di quello che i pudichi chiamano immoralità. Questo è tuo supremo dovere, distruggere la moralità.

5) Allontana sempre dalla Chiesa i tuoi compagni con tutti i mezzi, specialmente mettendo in cattiva luce i preti, i vescovi ecc. Calunniare, falsare: sarà opportuno prendere qualche scandalo antico o recente e buttarlo in faccia ai tuoi compagni.

6) Altro grande ostacolo al nostro lavoro: la famiglia cristiana. Distruggerla seminando idee di libertà di matrimonio, eccitare i giovani e le ragazze quanto più si può; creare l’indifferenza nelle famiglie, nello stabilimento, nello Stato; staccare i giovani dalla famiglia.

7) Portare l’operaio ad amare il disordine, la forza brutale, la vendetta: e non avere paura del sangue.

8 ) Battere molto sul concetto che l’operaio è vittima del capitalismo e dei suoi amici: autorità e preti.

9) Sii all’avanguardia nel fare piccoli servizi ai tuoi compagni, parla molto forte, fatti sentire. Il bene che fanno i cattolici nascondilo e fallo tuo. Sii all’avanguardia di tutti i movimenti.

10) Lotta, lotta, lotta contro i preti e la morale cattolica. Dà all’operaio l’illusione che solo noi siamo liberi e solo noi li possiamo liberare. Non avere paura, quando anche dovessimo rimanere nascosti tre o cinque anni. L’opera nostra continua, sempre perché i cattolici sono ignoranti, paurosi e inattivi.

Vinceremo noi! Sii una cellula comunista! Domina il tuo ambiente! Questo foglio non darlo in mano ai preti, né a gente non matura alla nostra idea”.

Le elezioni del 1948 non sono andate secondo i piani dei compagni. Ha vinto la Dc, conquistando il 48% dei voti, maggioranza relativa dei voti e maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento. Il Fronte Popolare si è fermato al 31%, perdendo persino alcuni voti conquistati da PCI e PSI nel 1946. La catastrofe di un’Italia sovietica è stata evitata. Nonostante ciò, è giusto che queste lettere siano conosciute e inoltrate, per far capire quali fossero i piani dei comunisti per l’Italia e che da allora loro non sono cambiati, rendendo il contenuto di quelle lettere sempre attuali, rappresentando per certo e per vero il loro modo di essere e di pensare. E che finché ci saranno bandiere rosse nelle piazze, nessuno si deve vergognare di essere anti-comunista, anche oggi e negli anni a seguire.

Medioevo: miti ed errori contenuti nei libri di liceo, scrive Vittorio Nigrelli l’8 maggio 2014. La prima lezione di Storia medievale del professor Giuseppe Sergi, all’Università di Torino, è scioccante. Scoprire che la maggior parte delle conoscenze che si possiedono sul Medioevo è falsa è un colpo al cuore che non miete vittime solo grazie alla giovane età delle matricole. Il Medioevo è, in effetti, un contenitore di luoghi comuni talmente forti e radicati che nessuno si meraviglia se, in un articolo di giornale, si legge che il potere nel Medioevo era trasmesso tramite un’investitura feudale, o che il 31 dicembre 999 il mondo era terrorizzato e sùbito dopo la mancata apocalisse s’ebbe una sfolgorante crescita dovuta alla rinnovata fiducia nel futuro. Quando si parla di Medioevo, tornano alla mente parole come servi della gleba, vassalli, valvassini, valvassori, vescovo-conte, ius primae noctis, feudalesimo e altre ancora. Come dimostrato dai medievisti nel corso dell’ultimo secolo, queste parole indicano perlopiù ricostruzioni sbagliate, traslazioni temporali di fenomeni avvenuti in epoche diverse, o semplici bugie. Uno dei luoghi comuni più ferocemente confutati ma estremamente resistenti a qualunque dichiarazione da parte degli specialisti è lo ius primae noctis. Grazie a Braveheart di Mel Gibson, l’intero globo conosce l’odiosa regola secondo la quale il signore feudale aveva il diritto di «sostituire» il marito durante la prima notte di nozze. Le radicali smentite di Felix Liebrecht e Karl Schmidt, risalenti alla seconda metà dell’Ottocento (!), sembrano non avere risvegliato alcun interesse presso la cultura di massa. Lo ius primae noctis fu in realtà ideato da alcuni giuristi del Cinquecento. Costoro pensarono, studiando una forma di pagamento in moneta d’una tassa (il formariage) riguardante i matrimoni di persone di condizione non libera, che tale forma evoluta di pagamento costituisse l’esito d’una civilizzazione progressiva d’un’usanza ben più barbara e tremenda; un’usanza che tuttavia non è mai stata documentata. Una delle cause più frequenti d’errori è la «deformazione prospettica», reazione spontanea di chi non è specialista di fronte alla storia. Si guarda il passato come un paesaggio: gli elementi più vicini sono grandi e nitidi; quelli lontani, molto più piccoli e sfocati. Si finisce per guardare gli oggetti più grandi e assimilare a questi i più piccoli. Un esempio sono le convinzioni in fatto di dieta: se sulle tavole dei contadini della prima età moderna c’erano zuppe di cereali, è altrettanto vero che nell’Alto Medioevo il consumo di carne era diffusissimo. Un altro caso è quello dei castelli: difficile convincere le scolaresche in gita che i castelli tardo-medievali (quelli rimasti in piedi) sono molto diversi dai tipici villaggi fortificati in legno e pietra dei secoli precedenti. O, ancora, le famiglie — immaginate come grandi gruppi parentali organizzati su base patriarcale, simili a quelle ottocentesche — erano in realtà nucleari e molto più «vicine» a quelle d’oggi. La servitù della gleba è una categoria storiografica ottocentesca dall’enorme fortuna; tuttavia va decisamente ridimensionata. Rare attestazioni riguardanti adscriptus glebae hanno stuzzicato l’immaginazione dei primi studiosi d’epoca moderna. A parte pochi casi (ad esempio nelle campagne intorno a Bologna e Vercelli), la massa di contadini non è certamente ascrivibile alla categoria «servitù della gleba». Esistevano servi la cui libertà era limitata del tutto (e non solo legata alla terra), coloni liberi, piccoli allodieri (proprietari). Il fatto che alcuni di questi venissero perseguiti se abbandonavano i campi non era collegato a un qualche servaggio, bensì al mancato rispetto di contratti ventinovennali o vitalizi col proprietario della terra. Spesso al Medioevo è imposta l’etichetta d’età feudale. Nei libri del liceo, è facile trovare la famosa piramide vassallatica, ovverosia l’immagine che rende i medievisti comprensivi nei confronti degl’iconoclasti. Feudale è una parola di straordinario successo, molto più esotica, lontana e quindi affascinante di signoria. Marx usa questa parola per definire un tipo d’organizzazione fondiaria, un sistema di rapporti di produzione, una fase antecedente al capitalismo. Spesso sembra che feudale sia usato perfino come sinonimo di medievale. Eppure è difficile — o, meglio, impossibile — trovare alla base d’ogni frazionamento territoriale un’investitura di tipo feudale. Marc Bloch riuscì a definire con chiarezza i rapporti vassallatico-beneficiari, e il suo allievo Robert Boutruche compì un passo fondamentale: individuò la peculiare struttura di potere del Medioevo nei poteri signorili formatisi dal basso, e non delegati feudalmente dall’alto. Vi sono diverse ragioni per cui questi errori rimangono e non vengono spazzati via dalle pagine dei libri di liceo. Il primo ordine di motivi è la semplicità di comunicazione. È facile spiegare il magma di rapporti di potere e contratti tramite una delega tutta feudale del potere. È ancor più semplice parlare d’una sola Chiesa, potente e oppressiva, tralasciando il fatto che si può parlare di papato monarchico solo dopo il XII secolo e non prima, quando il papa era il vescovo di Roma in possesso tuttalpiù d’un primato d’onore in fatto di teologia. Il secondo ordine è quello della distanza: colpisce di più un Medioevo molto diverso dall’oggi, in cui signori crudeli deflorano novelle spose, in cui i contadini scambiano senza bisogno di moneta e l’economia è solo di sussistenza, in cui cavalieri affascinanti partono alla ricerca del Graal…In questa sede è possibile mostrare solo una parte dei luoghi comuni sul Medioevo. Per chi volesse approfondire il tema, esiste un ottimo nonché brevissimo libro: L’idea di Medioevo. Fra storia e senso comune, di Giuseppe Sergi, edito da Donzelli. Centundici pagine di sano buonsenso storico.

Così il Medioevo cristiano ha posto le basi della scienza, scrive Antonio Giuliano il 10 luglio 2015 su "Avvenire”. «Mille anni vissuti dall’uomo senza che abbia espresso niente di bello? A chi si vuole darlo a credere?». Così Régine Pernoud già nella prima metà del Novecento attaccava la leggenda nera che da secoli squalifica il Medioevo. La storica francese fu tra le prime voci a firmare libri controcorrente (come Luce del Medioevo, ripubblicato da Gribaudi). Ma mai come in questo caso il pregiudizio è duro a morire. Basta oggi sbirciare la cronaca per riscontrare come 'medievale' sia tra gli aggettivi più gettonati per denigrare qualcuno. Per non parlare poi di certi manuali scolastici. Eppure un testo da poco tradotto anche in italiano La genesi della scienza di James Hannam (a cura di Maurizio Brunetti) smonta uno per uno i luoghi comuni più diffusi. Fisico, storico e filosofo della scienza a Cambridge, Hannam sfodera un volume poderoso e scorrevole, scritto con punte di ironia britannica. «Il Medioevo è stato un periodo di enormi progressi in ambito scientifico, tecnologico e culturale», scrive. I mille anni che vanno dalla caduta dell’impero romano (476) al 1500 sono stati decisivi in ogni campo. Ma soprattutto «il Medioevo ha posto le basi per la scienza moderna». In barba alla condanna illuminista, il fisico britannico ricorda come la Chiesa non abbia mai appoggiato l’idea che la Terra fosse piatta, né abbia mai bandito la dissezione umana o l’introduzione del numero zero. Hannam con sarcasmo non si stanca di ripetere: «I Pontefici non hanno vietato nulla, né hanno scomunicato qualcuno per la cometa di Halley. Nessuno è stato mai bruciato sul rogo per le sue idee scientifiche. Eppure, tutte queste storie sono ancora tirate fuori come esempio di intransigenza clericale verso il progresso scientifico». Ma anzi la Chiesa cattolica, argomenta Hannam dati e fonti alla mano, è stata il principale sponsor della ricerca scientifica. L’ha fatto proprio in virtù di quell’approccio che distingue il cristianesimo dalle altre tradizioni culturali e religiose. Se la scintilla del progresso scientifico si accese nell’Europa cristiana medievale è proprio perché «attraverso la natura l’uomo poteva imparare qualcosa del suo Creatore», il quale era «coerente e non capriccioso». Del resto, fa notare l’autore, il termine 'scienziato' nacque nel 1833 alla British Association for the Advancement of Science: «Prima d’allora nessuno ne aveva avvertito la necessità. Solo nel secolo XIX la scienza era diventata una disciplina autonoma, separata dalla filosofia e dalla teologia». È venuto il momento di chiedersi se il vero 'Rinascimento' non sia stato nel XII secolo, quando ad esempio nacquero le università. Scoprire nella natura l’impronta del creatore fu poi anche il convincimento dei religiosissimi Copernico, Keplero, Newton e Galilei, il cui contrasto con le autorità ecclesiastiche, spiega Hannam, fu dettato più da motivi politici. La stessa rivoluzione scientifica del XVII secolo è fondata su scoperte dei secoli precedenti: la bussola, la carta, la stampa, la staffa, la polvere da sparo... Invenzioni provenienti dall’Estremo Oriente, ma gli europei le perfezionarono a livelli «incomparabilmente superiori». E gli occhiali, gli orologi meccanici, i mulini a vento, gli altiforni? «Obiettivi e apparecchiature fotografiche, quasi ogni tipo di macchinario, la stessa rivoluzione industriale devono tutto a inventori del Medioevo. Non conosciamo i loro nomi, ma non è un buon motivo per ignorare le loro conquiste». 

7 Luglio 1647, i potenti tremano: Masaniello è il Re di Napoli, scrive il 7 luglio 2015 Francesco Pipitone su “Vesuvio Live”. Masaniello è un nome che a Napoli viaggia ancora nell’aria, uno spirito che aleggia nella città, in particolare nella zona di Piazza Mercato, luogo dove la persona con una buona predisposizione dell’animo può allungare le mani e afferrare l’umile pescatore, Re senza corona che ha governato per pochi giorni e facendo tremare i potenti, fin quando la pazzia e le basse mire non hanno, brutalmente e fatalmente, ucciso il corpo, e solamente il corpo, del rivoltoso. Quella buona predisposizione d’animo in altro non consiste se non nel desiderio fermo, puro e forse un po’ ingenuo, di libertà, una libertà bella e semplice che vuol dire amare e rispettare la propria Terra, la propria gente. Tommaso Aniello d’Amalfi, luogo di origine del padre di Masaniello, nacque in Vico Rotto a Napoli il 29 Giugno 1620, da Cicco e Antonia Gargano. Nella metà del Seicento la popolazione partenopea all’interno delle mura ammonta a circa mezzo milione, del quale solo una piccola parte ha un’occupazione stabile: il resto vive alla giornata, mentre le classi più alte e agiate vivono di usura, speculando sulle gabelle (imposte indirette sulle merci), vendita di voti e rendita, mentre tra i nobili i soli che esercitano con onore la propria funzione erano quelli dei più antichi Sedili cittadini. Le gabelle gravano in particolar modo sui beni di prima necessità, come il grano, il pane, frutta, verdura, carne, pesce, in modo da costringere il popolo alla fame. Il pretesto per la rivolta popolare nasce da lontano, il giorno di Santo Stefano del 1646, quando il viceré don Rodrigo de Leon, Duca d’Arcos, viene contestato mentre si reca alla Santa Messa dopo la notizia di nuove gabelle sulla frutta. Il 3 Gennaio 1647 vengono pubblicate le tariffe, tuttavia è solo il 20 Maggio dello stesso anno che qualcosa si muove: in città spuntano manifesti che parlano di tumulti sorti a Palermo ed esortanti a fare lo stesso a Napoli; diciassette giorni dopo, il 6 Giugno, viene incendiata di notte la bottega nella quale avviene la riscossione della gabella sulla frutta, gesto che, come si seppe in seguito, fu compiuto da Masaniello. Come mai, però, costui si decise ad agire? Masaniello è un lazzaro, un giovane plebeo ca votta a campà, ossia tira a campare come può, che col tempo però si è “specializzato” nell’attività di pescivendolo. Molto furbo e con grande carisma, fedele alla sua gente, alla religione e al Re, come ogni lazzaro aveva avuto a che fare praticamente con tutti, dai poveracci ai signori, dai mariuoli agli intellettuali e agli artisti, specialmente quando era finito in galera per essersi opposto ai sequestri di pesce. In prigione ebbe modo di conoscere dei prigionieri politici, che lo portarono ad incontrare don Giulio Genoino, eletto del popolo destituito perché fastidioso e fervente nel difendere la plebe contro la nobiltà, fattosi prete a più di 70 anni perché stanco di entrare e uscire dalle carceri e il quale, con la sua cultura, affascinò Masaniello e lo rese cosciente della corruzione che soffocava la popolazione, pur senza mai arrivare a manovrarlo: se ci fosse riuscito, d’altra parte, il ragazzo non avrebbe fatto una triste fine. Spaventato dall’incendio, il viceré tenta di calmare la situazione scarcerando due guappi affinché l’eletto Naclerio potesse contrattarvi, Peppe Palumbo e l’abate Perrone, amici di Naclerio stesso oltre che di don Genoino. Nel frattempo Masaniello addestra qualche centinaio di alarbi, i lazzari che dovevano sfilare alla festa per la Madonna del Carmine curata da fra’ Savino, cuciniere del Carmine e amico di Genoino, in modo da indurli sì a protestare contro il mal governo, ma allo stesso tempo sottolineando la fedeltà al Re Filippo IV, detto El Rey Planeta perché con lui la Spagna portò alla massima espansione il suo impero dove non tramontava mai il Sole. La tappa successiva fu il 30 Giugno, quando Masaniello e più di duecento alarbi con un tamburo e vestiti di stracci, urlano “Mora lo mal governo, viva ‘o Rre”, oltre a vari altri gridi contro le gabelle e le soverchierie. Giunti sotto Palazzo Reale ai pezzenti non viene vietato di protestare, probabilmente per ordine dello stesso viceré che voleva evitare pericolose tensioni. Un chiaro segno di debolezza che incoraggia Masaniello, suo cognato Mase Carrese (padrone abbastanza benestante di una bottega di frutta, verdura e carbone) e Ciommo Donnarumma (ortolano, anch’egli abbastanza benestante) a organizzare una protesta ben più dura giusto una settimana dopo, domenica 7 Luglio, la vera e propria rivoluzione. Quella mattina gli alarbi sono circa trecento ed armati di canne, stanno dietro Sant’Eligio. Ad essi si aggiungono contadini, pescatori e commercianti che davanti alla bottega per la riscossione della gabella manifestano l’intenzione di non pagare. Coloro che ricorrono a Naclerio, che fa il doppio gioco insieme ai due camorristi (categoria fatta di venduti geneticamente traditori del popolo, dunque), si sentono dire che è meglio che paghino; una delegazione di negozianti riesce a farsi ricevere da Don Rodrigo d’Arcos, il quale li manda da un commissario, ma alla fine nulla cambia e perciò Carrese, dopo aver preso uno schiaffone sul volto al Mercato, rovescia a terra la sua merce e se la mette a vendere 4 soldi al rotolo senza alcuna tassa. D’ora in poi non si potrà più tornare indietro. A quel segnale, Masaniello e alcuni dei suoi lasciano Sant’Eligio e si catapultano nel mezzo del mercato, gli scugnizzi portano l’Inferno a Napoli e non vogliono conoscere alcuna ragione, buttando dei fichi in faccia a un Naclerio che come al suo solito voleva dimostrare alla polizia di essere il padrone della folla. Gli alarbi scappano e seminano i poliziotti, arrivano altri lazzari che di fichi non sanno cosa farsene, se non mangiarli, allora tirano grossi sassi colpendo in petto Naclerio, salvato e condotto svenuto al Palazzo Reale da Perrone. A questo punto la folla si fa davvero consistente e Masaniello la arringa dalla fontana con i delfini, lo stesso punto, più o meno, dove trovò la morte per decapitazione Corradino di Svevia: non si sa di preciso cosa abbia detto, secondo alcuni semplicemente di ribellarsi e incendiare le botteghe dei dazi, secondo altri un discorso da capo con la promessa che, grazie alla Madonna del Carmine e il patrono San Gennaro, la sofferenza sarebbe ora finita. Masaniello, a capo di quasi mille persone, distrusse i locali del dazio e si diresse a Palazzo Reale per prendere Naclerio, rifugiato nelle stanze della moglie di don Rodrigo. Quello scappa, ma la rivolta si sta propagando in tutta la città e i soldati vengono man mano disarmati. Il viceré prepara la fuga e si rifugia al convento di San Luigi, da dove, sotto suggerimento del conte genovese Sauli, scrive dei bigliettini dove annuncia la soppressione della gabella e li lancia alla gente. Non è sufficiente per don Giulio Genoino, che vuole la reintroduzione di un discusso privilegio concesso al Regno di Napoli dall’imperatore Carlo V, con cui si stabiliva uguale rappresentanza per patrizi e plebei, oltre a una giusta redistribuzione dell’onere delle gabelle. Contemporaneamente in città venivano aperte le carceri e compiuti saccheggi, con i camorristi Perrone e Palumbo stavolta a capo di alcuni insorti – chissà se il viceré lo sapeva. Alla sera Masaniello fa suonare le campane del Carmine per adunare la gente, dando appuntamento per il giorno successivo: bisognava far abbassare anche la tassa sulla farina; don Rodrigo d’Arcos si è rifugiato al Maschio Angioino e ci resterà tre giorni. Masaniello ora è consapevole di quanto potere abbia nelle proprie mani; Genoino lo lascia fare, i due guappi pure. Il caporivolta dà i primi ordini, primo tra tutti abbassare il prezzo del pane, girando per gli esercizi, controllando di persone e minacciando di tagliare la testa agli imbroglioni. Inevitabilmente si concede qualche vendetta: per esempio, dà al fratello un elenco di case da bruciare, tutte appartenenti a uomini corrotti, con l’ordine puntualmente rispettato di non rubare neanche la cosa più insignificante: tutto alle fiamme. I consensi attorno a Masaniello crescono, a un certo punto medita una rottura con la Spagna, dato che può facilmente conquistare i castelli, ma Giulio Genoino lo fa desistere perché non vuole rinunciare alla protezione del Re, bensì solo le riforme: è la scelta, forse, che condanna Masaniello a morte. Don Rodrigo era convinto, in fondo, che si trattasse solo di un po’ di caos, il capriccio di un pescivendolo che presto sarebbe stato abbandonato, o si sarebbe scocciato. Un pescivendolo facilmente ammansibile, magari con un vitalizio consistente, da signore, ma il tentativo di corruzione non sortisce effetto. Altri individui bisogna dunque comprare, e allora gli avvocati Mastellone e De Palma fanno spuntare un documento che somiglia al privilegio di cui parla Genoino, che provvede personalmente a integrare e renderlo uguale all’originale, che secondo lui, evidentemente, si trova in Spagna. Genoino crede di non aver più bisogno di Masaniello, del quale il viceré può fare ciò che vuole: la notte tra mercoledì e giovedì, la vita di Masaniello è attentata due volte, prima con un coltello e poi con cinque colpi di archibugio, ma la colonna di nemici viene afferrata dal popolo devoto e giustiziata per essersi ribella al Re e al popolo: decapitati, teste infilzate sui pali in mostra al mercato e circa 30 corpi trascinati in città. Il privilegio viene letto finalmente nella Chiesa del Carmine e approvato dal popolo, ora Masaniello può andare dal viceré, insieme a Genoino e al mediatore cardinale Filomarino, affinché fosse firmato; per l’occasione don Rodrigo gli ha fatto consegnare un veste d’argento. Durante il tragitto Masaniello ripete più volte alla gente di incendiare tutta Napoli se non dovesse tornare dal palazzo, però tutto va liscio e dal balcone saluta la folla, oltre a baciare i piedi al viceré tra le acclamazioni della plebe, ricevendo in cambio il titolo di capitano del popolo e una collana d’oro, accettata solo una volta ricevuta l’autorizzazione dei popolani. Sono i primi segnali del suo crollo nervoso. I giorni seguenti prosegue a governare con i soliti buoni propositi, distribuisce le vivande, fa saccheggiare i tesori dei disonesti e le case dei nobili scappati per le opere utili al popolo, ristabilisce l’ordine pubblico. Con don Giulio e il nuovo eletto Francesco Arpaja però è sprezzante e irrispettoso, il suo comportamento si fa stravagante, anche nel Duomo in occasione del giuramento sul privilegio. Masaniello ha vinto la sua lotta, anche i suoi manovratori, i quali ora meditano la sua morte. Prima di tutto bisogna fargli mancare un favore così incondizionato della gente, dunque viene sparsa la falsa voce della pederastia di Masaniello, oltre a insinuare che non sia giusto che un semplice pescivendolo comandi sui suoi pari. La domenica annuncia di non voler più comandare e fa smantellare le milizie popolari, la gente festeggia e lui se ne va a Posillipo con il viceré che lo ha invitato, per distrarlo mentre si forma in segreto il nuovo assetto: d’ora in poi gli ordini di Masaniello sono considerati senza valore. Lunedì si sveglia dopo una notte febbricitante e comincia dare ordini, a pretendere esecuzioni, il suo fisico è debolissimo e la gente non lo segue più, essendogli anzi ostile per la sua pazzia. Di sera viene legato e sorvegliato in casa sua, il 16, giorno di celebrazione della Madonna del Carmine, viene destituito e se ne ordina l’incarcerazione fino alla guarigione. Masaniello, però, riesce a fuggire e si reca nella Chiesa, dove tiene sul pulpito l’ultimo amaro discorso in preda alla follia, in cui ricorda i risultati della lotta, ammonisce i concittadini che lo hanno tradito e annuncia la sua morte imminente, poi scese e si denudò in mezzo alla navata. Portato in cella, fu ucciso con alcuni colpi di archibugio da alcuni capitani corrotti e decapitato, il copro ai rifiuti e la testa al viceré come prova. I corrotti sono premiati con cariche di potere e somme di denaro. Il 17 Giugno il popolo si accorge che il pane costa di nuovo come prima e le gabelle reintrodotte, così va a recuperare il corpo disfatto di Tommaso Aniello e lo porta in processione, dopo averlo lavato e ricucito, il 18 Luglio al funerale celebrato dal cardinale Filomarino, forse l’unica persona che ha davvero apprezzato Masaniello, pur allontanandosene dopo le prime stravaganze. Con il feretro davanti al Palazzo Reale, don Rodrigo in segno di lutto fa abbassare le bandiere. Di lui il cardinale Filomarino scrisse, in una lettera al papa: Questo Masaniello è pervenuto a segno tale di autorità, di comando, di rispetto e di ubbidienza, in questi pochi giorni, che ha fatto tremare tutta la città con li suoi ordini, li quali sono stati eseguiti da’ suoi seguaci con ogni puntualità e rigore: ha dimostrato prudenza, giudizio e moderazione; insomma era divenuto un re in questa città, e il più glorioso e trionfante che abbia avuto il mondo. Chi non l’ha veduto, non può figurarselo nell’idea; e chi l’ha veduto non può essere sufficiente a rappresentarlo perfettamente ad altri. Non vestiva altro abito che una camicia e calzoni di tela bianca ad uso di pescatore, scalzo e senza alcuna cosa in testa; né ha voluto mutar vestito, se non nella gita dal Viceré.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA. 

La Storia violata, scrive Valerio Rizzo il 17 maggio 2009. Gli storici continuano a voler ignorare una storia piena di dolore, disperazione e di morte che da quasi 150 anni aspetta di essere scritta sui testi scolastici. L’esempio più emblematico di questa continua censura storica è il Lager di Finestrelle. Ma facciamo un piccolo passo indietro, cosa ha comportato l’Unità d’Italia? Le cifre ufficiali, anche se molto sotto-valutate, sono terrificanti: 5212 condanne a morte, 6564 arresti, 54 paesi rasi al suolo, 1 milione di morti. Una vera e propria repressione consumata all’indomani dell’Unità d’Italia dai Savoia e forse la si può definire come la prima pulizia etnica dell’epoca moderna, operata sulle popolazioni meridionali, dettata dalla Legge Pica, promulgata dal governo Minghetti. Se queste argomentazioni ci indignano, niente può farci venire il ribrezzo più delle vicende che hanno coinvolto il forte di Fenestrelle dal 1860 al 1870. In quel periodo si concretizzò il primo campo di sterminio della storia moderna, in esso trovarono la morte più di 8.000 soldati del Regno delle Due Sicilie, ai quali va aggiunto un numero imprecisato di letterati, preti, briganti e miseri contadini. Ma tutto ciò continua ad essere ignorato dalle menti illustri della storiografia “ufficiale” italiana e dai letterati; addirittura sul sito dell’Amministrazione Provinciale la fortezza viene presentata come “Monumento simbolo della Provincia di Torino” (con tanto di foto in notturna per decantarne implicitamente la bellezza), mentre sul sito ufficiale del Forte, si invita alla devoluzione del 5 per mille! Sempre sul sito De Amicis scrive: “Uno dei più straordinari edifizi che possa aver mai immaginato un pittore di paesaggi fantastici: una sorta di gradinata titanica, come una cascata enorme di muraglie a scaglioni, un ammasso gigantesco e triste di costruzioni, che offriva non so che aspetto misto di sacro e di barbarico, come una necropoli guerresca o una rocca mostruosa, innalzata per arrestare un’invasione di popoli, o per contener col terrore milioni di ribelli. Una cosa strana, grande, bella davvero. Era la fortezza di Finestrelle”. Si chiude con “Guardiano immobile e supremo della nostra indipendenza e del nostro onore”. E’ la pura esaltazione dell’inferno! Ora immaginate se invece di Fenestrelle si parlasse di Auschwitz, e con in mente il nome del famoso lager nazista rileggete le parole di De Amicis appena sopra riportate!! Noi popolo meridionale abbiamo l’obbligo morale di dire tutte le verità sulla cieca e razzista politica di aggressione che i Savoia e i Piemontesi hanno fatto nelle nostre meravigliose regioni! Di seguito riporterò la vera storia, quella che non troverete mai nei testi scolastici dei vostri figli, leggetela con attenzione e con una lacrima nel cuore, come quella che avevo io mentre la trascrivevo. Fenestrelle, storia di un lager sconosciuto. “Ognuno vale non in quanto è, ma in quanto produce” (iscrizione messa in epoca fascista). E’ l’iscrizione che un visitatore legge oggi su un muro, entrando a Fenestrelle, fortezza ubicata sulle montagne piemontesi dove, dal 1860 al 1870, furono deportati i migliaia di meridionali che si opposero all’unità d’Italia e alla colonizzazione piemontese. Gli internati erano soprattutto poveri contadini ed ex soldati borbonici, gli stessi che sarebbero morti di stenti e vessazioni perpetrati da chi si reputava un liberatore! Un insieme di forti protetti da altissimi bastioni ed uniti da una scala di 4000 gradini scavata nella roccia: ecco cos’era a quel tempo Fenestrelle, una gigantesca cortina fortificata resa ancor più spettrale dalla naturale asperità di quei luoghi e dalla rigidità del clima. Assassini, sacerdoti, giovani, vecchi, miseri popolani e uomini di cultura privi di luce e coperte, senza neanche un pagliericcio lottavano tra la vita e la morte in condizioni disumane; perfino i vetri e gli infissi venivano smontati per rieducare con il freddo i segregati. Laceri e poco nutriti passavano le giornate standosene appoggiati ai muraglioni nel tentativo disperato di catturare i timidi raggi di sole invernali, e chissà che in quei momenti non ricordassero con nostalgia il calore di climi più mediterranei. Pochissimi riuscirono a sopravvivere: le aspettative di vita in quelle condizioni non superavano i tre mesi e spesso i carcerati venivano uccisi anche solo per aver proferito ingiurie contro i Savoia. Nessuna spiegazione logica dunque alla base della loro misera prigionia, molti non erano nemmeno registrati, da qui la difficoltà di conoscere oggi il numero preciso dei morti, processati e non. E proprio a Fenestrelle furono imprigionati la maggior parte di quei soldati che, subito dopo la resa di Gaeta nel 1861, avrebbero dovuto trovare la libertà. Dopo sei mesi di eroica resistenza dovettero, invece, subire un trattamento infame: disarmati, derubati di tutto e vigliaccamente insultati dalle truppe piemontesi, morirono di stenti. Poi, il 22 agosto del 1861 arriva il tentativo di rivolta: uno sforzo inutile, sventato per tempo dai piemontesi e che ebbe come risultato l’inasprimento delle pene tra cui la costrizione di portare al piede palle da 16 chili, ceppi e catene. L’unica liberazione possibile era dunque la morte, delle più atroci: i corpi venivano sciolti nella calce viva, collocata in una grande vasca nel retro della chiesa all’ingresso del Forte. Una morte senza onore, senza tombe, senza lapidi e senza ricordo, affinché non restassero tracce dei misfatti compiuti. Valerio Rizzo.

1970. LA RIVOLTA DI REGGIO CALABRIA CONTRO LO STATO STRANIERO. Riportiamo gli scritti del grande maestro Nicola Zitara, scomparso nel 2010, sulla rivolta di Reggio. Leggerla fa scaturire rabbia su rabbia! Ringraziamo Angelo Fusco per aver trascritto la nota l'11 febbraio 2015. Prima che vedessi con i miei stessi occhi, avevo immaginato la Rivolta di Reggio come uno di quei fatti insignificanti che la stampa afferra e gonfia, per attrarre lettori e inserzionisti pubblicitari. Il Sud era morto a ogni forma di risentimento. Le offese che la patria italiana ci aveva inferto e ci infliggeva colavano lungo le nostre facce di bronzo lasciandole completamente impassibili. Sempre servili, sempre attenti a non deludere l’Italia, potevamo piegarci a qualunque soperchieria. Chiusa la caotica parentesi postbellica, che ci aveva permesso qualche larghezza, ad esempio le lotte contadine per la terra, una ribellione sudica contro il venerato stato unitario era assolutamente inimmaginabile. Certo, a quel tempo la contestazione giovanile attraversava tutto l’Occidente, scatenando dovunque -oltre al resto- consistenti forme di iconoclastia statuale. Ma che in Calabria, dove anche i mafiosi più spavaldi cercavano l’amicizia dei reali carabinieri, qualcuno alzasse la mano contro lo Stato, era una cosa che stravolgeva ogni coordinata sociologica. Dopo l’annessione sabauda, il paese napoletano e la Sicilia erano scomparsi progressivamente come realtà, degradando, prima, a Questione meridionale - qualcosa che stava tra lo storiografico e l’antropologico - approdando, poi, a mera espressione geografica: territori popolati da uomini che assumevano rilevanza demografica se e quando utili alla patria italiana. Caso eclatante, la guerra all’Impero austriaco, che i fanti padani e le brigate alpine non se l’erano sentita d’affrontare da soli. In tale circostanza i contadini meridionali erano stati proclamati italiani a tutti gli effetti militari e invocati a difesa della lontana, sconosciuta e oppressiva Valle Padana. Casi meno eclatanti, ma non meno importanti: il ripianamento della bilancia estera italiana con lo spudorato uso delle rimesse dei terroni emigranti, e l’impiego della corrispondente valuta per convertire l’immane debito pubblico (padano) e per dotare di impianti moderni la nascente industria (sempre gloriosamente padana); ciò nello stesso momento in cui il Sud invocava spasmodicamente lavoro (in sostanza nuovi investimenti). In verità, l’opera di assoggettamento del Sud era stata condotta con spregiudicata eleganza; quasi senza lasciare tracce. Intonando patriottici inni, facendo squillare vibranti ottoni, sventolando tricolori, labari, gagliardetti e medaglieri, producendo una legislazione apparentemente appoggiata su una sola gamba, ma in effetti articolata su due, come la gru di Chichibio, l’Italia aveva piegato il Sud alle sue necessità di aspirante potenza militare ed economica. Ovviamente la soggezione presupponeva la negazione dell’identità storica meridionale. Ma la cosa funzionava soltanto con le classi istruite, che sin dalla prima elementare -anzi sin dall’asilo- potevano essere rieducate al disprezzo della propria terra e all’esaltazione dell’ethos venale e del verbiloquente epos guerresco dei toscopadani. Non aveva invece senso presso i contadini e il proletariato urbano. Volendo riparare, italianamente e pretescamente si escogitò un darwinismo terronico, contemplante l’inferiorità razziale dell’homo sudico, non sempre erectus, meno che mai sapiens, immancabilmente deficitario di scatola cranica e di materia grigia, di pubblica e privata moralità (su detta linea c’è ancora tanti, per esempio l’americano Putnam e persino il sudico Arlacchi, presidente, o quasi, dell’ONU). Arretratezza storica, malgoverno borbonico, crocianesimo, lombrosismo contribuirono a comporre l’alibi vincente con cui la nazione una poté ribaltare le responsabilità del colonialismo interno addossandole tutte sugli stessi meridionali, quelli vivi e quelli morti. Certo, anche il Sud era Italia, una parte della patria, ma solo come Questione meridionale. Per il suo bene supremo, era necessario che si emendasse, che si riscattasse dalle sue storiche ed etnografiche colpe, ovviamente, servilmente imitando l’Italia restante. Commossi, straziati, i meridionalisti avevano condotto defatiganti inchieste, le quali avevano stabilito che tutto il Sud era uno sfasciume pendulo fra due mari. Senza, però, ricordare né a sé né agli altri che lo sfasciato sfasciume manteneva il paese e pagava, con le sue esportazioni agricole, il debito estero padano. Pur assolvendo a tale nazionale e patriottico ruolo, i contadini sudici rimanevano poveri. Essendo poveri erano anche denutriti. Bisognava quindi che italianamente mangiassero qualche pagnotta di più. Per farlo, erano necessari dei soldi. Ma i soldi non c’erano. A qualcuno venne anche in testa che i soldi non c’erano, perché se li pappava lo stato, cioè il Nord. Ma evidentemente non era una cosa seria, degna dell’Italia una (neanche Arlacchi l’avrebbe ben giudicata). Inoltre i contadini erano analfabeti. Lo erano perché non andavano a scuola. Ma non andavano a scuola perché le scuole non c’erano. E se le scuole non c’erano, la colpa era tutta dei borboni, che non avevano provveduto ad elevare il popolo. Dopo tanto ben architettato trattamento, alla data del 1970, il Sud era ridotto a meno di un morto che parla. In effetti non parlava. Era ammutolito, esterrefatto, inebetito, non possedeva più le idee e le risorse per comunicare umanamente con il mondo. Di esso si sapeva soltanto quel che raccontava Amleto: che c’era del marcio in Danimarca. Un cratere che vomitava clientelismo, malaffare politico e malavita organizzata. La discriminazione nazionale era stata introiettata e aveva messo radici. Il Sud era alla vergogna di sé, alla prostrazione economica e politica. Svisato del passato e del presente, negato a se stesso, aveva sopportato tutto: offese, spoliazioni, sopraffazioni d’ogni genere. Sempre applaudendo i proconsoli di turno; ieri Ferdinando Nunziante e Giovanni Nicotera, all’atto, il colto Misasi e l’intraprendente Mancini. Ciò spiega la sorpresa dell’opinione pubblica nazionale per la Rivolta di Reggio -benché preceduta dal moto di Battipaglia - e contemporaneamente la finta indignazione dei giornali. Battipaglia e Reggio sono due casi esemplari di città che fino agli anni Cinquanta avevano in qualche modo resistito all’oltraggio italiano e al regresso meridionale, giungendo alla resa dei conti con il colonialismo interno e l’ilotismo nazionale solo dopo il miracolo economico italiano. Della Rivolta di Reggio la stampa neosabauda e la televisione governativa furono forse la causa scatenante, comunque delle protagoniste facinorose. Infatti, alla rivendicazione sicuramente legittima del capoluogo regionale, che alla città reggina veniva scippato attraverso una delle congiure di cui è costellata, in Italia, la vicenda politica postbellica, con la faziosità in alto richiesta, esse appiccicarono l’etichetta della gretta rivendicazione municipalistica, il pennacchio. Sarebbe stato divertente leggere cosa avrebbero scritto codesti liberi operatori della penna se Modena avesse rapito la secchia di prima città emiliana, e Bologna fosse insorta. Transeat. Il giornalismo farcito al gusto di anticamera di Palazzo romano è consentito solo quando è di scena il Sud. La politica cosiddetta di corridoio - in effetti le congiure di palazzo - sono state (e sono ancora) un tratto tipico, caratteriale, dei cosiddetti partiti costituzionali. Si autodefinirono in tal modo gli ex Comitati di Liberazione Nazionale (CLN), poiché toccò ai loro massimi leader dettare, in sede d’Assemblea Costituente, la legge primaria; una costituzione indubbiamente moderna e civile, ma altrettanto sicuramente velleitaria e impotente di fronte alla realtà sociale italiana, organizzata e diretta da un sistema capitalistico parassitario, intrallazzista e geograficamente minoritario. Ovviamente al Sud fu consentito di partecipare solo di nome -e mai di fatto- alla riorganizzazione postbellica, sia a quella costituzionale sia a quella materiale. I suoi interessi non erano in linea -insignificanti, stranieri, retrivi, qualunquisti, anzi beduini- con gli interessi emergenti, con le progressive sorti del capitalismo padano e gli allori della Confindustria. Pur non costituendo niente, il Sud ebbe egualmente i suoi partiti costituzionali, anzi le loro filiali suburbane e sudiche: in pratica gli stessi comitati massonici e papalini dell’epoca notabiliare prefascista, che, l’8 settembre 1943, gli angloamericani avevano restaurati in trono. I quali, forti del vuoto politico creato dalla fellonia del re Savoia -e dovendo essi avvolgerla di nuovi allori e legittimare lo stato quale patria istituzione- ebbero mano libera per reimpiantare nel paese meridionale il malaffare con cui il sistema padano teneva aggiogato il paese sudico durante l’età giolittiana e le precedenti, sicuramente non meno gloriose e meritevoli. Dovettero, però, prima legittimare se stessi, e per far questo si impancarono a CLN (il quale era composto dai partiti democristiano, socialista, comunista, liberale, d’azione, del lavoro), praticamente a governo del paese meridionale. Ovviamente la lotta di liberazione, i loro leader, se l’erano fatta a casa, o magari al mare, e ciò per il semplice motivo che i fascisti erano stati tolti di mezzo dagli angloamericani, i quali ci avevano liberati prima che ci dessimo da fare per liberarci da noi. Eccezion fatta relativamente a singole persone e determinati luoghi, sin dal principio il legame tra i partiti del CLN e le popolazioni meridionali ebbe un carattere deteriore: sostanzialmente clientelare, nei casi migliori paternalistico. In prosieguo, capito che il vento spirava dal Nord, i suddetti impararono il vangelo resistenziale e lo predicarono ai paesani, continuando ad operare impunemente da ladroni pubblici, come al glorioso tempo del glorioso Giolitti. Solo il PCI ebbe un’origine popolare (e naturale), quale espressione delle masse contadine scese in campo contro i proprietari. Ma il legame ebbe presto una poco gloriosa fine. Infatti avendo anch’esso optato per la Ricostruzione solo del Nord, non ebbe altro modo per beccarsi i voti dei cafoni che continuare a vaneggiare di spartizione di latifondi e di continuare a maneggiare, con un ardore degno di miglior causa, l’archeologia economica. Ma ai contadini non ci volle molto per capire l’antifona. A quel punto preferirono la nuova America e presero i treni che Valletta spediva da Torino. Ovviamente pagandosi il biglietto di tasca loro. Resta solo il dubbio se il PCI non abbia saputo o non abbia voluto - poco marxisticamente - capire che il generale processo di modernizzazione in Europa aveva archiviato per sempre Caio e Tiberio Gracco, nonché la millenaria lotta per la proprietà contadina, ponendo in primo piano la lotta contro il sottosviluppo. La Rivolta scoppiò in questo clima di generale estraneazione nordista, con una borghesia che si sentiva nazionale se e quando riceveva i resti dell’italico banchetto e con il proletariato che s’era fatto finalmente nazionale dormendo nelle soffitte di Torino e ungendo di sudore e d’amare lacrime le catene produttive del trionfante Valletta. Alla popolazione di Reggio, che si poneva apertamente contro l’assetto nazionale, i giornali e la TV, dominati funzionalmente e idealmente dai partiti ex CLN, dedicarono malcelati giudizi di primitività, di faziosità, di becerismo. Sull’evento esiste un consistente numero di libri (da ultimo, Francesco Scarpino, La rivolta di Reggio Calabria tra cronaca e mass-media). Non ho argomenti per aggiungerne un altro. Vorrei solo notare qualcosa che mi pare generalmente sfuggita: per la prima volta, in tutti gli ottant’anni della sua storia, la sinistra italiana si pose a fianco della repressione governativa e poliziesca e contro il popolo. Ove occorresse, si tratta di un’ulteriore riprova che, dopo venticinque anni di democrazia, il proletariato meridionale stava nel cuore della sinistra nazionale soltanto per i voti che poteva dare. Il sentimento (o meglio, la sua mancanza) venne in luce proprio in tale circostanza e ad opera delle frange (non storiche) della stessa sinistra italiana. Nel 1970 si era ben lontani dal tetro conformismo attuale, dal plumbeo panorama ideale che esclude ogni forma di critica al sistema imperante, attruppa le idee nella tomistica del capitale, dio e taumaturgo, e piega gli intellettuali a inchinarsi al trono (anche se di cartapesta), chiunque vi sieda: Berlusconi, Agnelli, Veltroni. Fuori del Sud, la contestazione traboccava persino dentro i compatti, impermeabili territori della sinistra comunista e sindacale. Quando gli inviati della stampa di ultrasinistra raggiunsero la provincia marginalizzata del profondo Sud (era questa l’ultima invenzione linguistica che ci toccava subire dagli italiani civili) per cercare di capire come mai il proletariato reggino si facesse strumentalizzare dai boia chi molla, non trovarono sul campo altra spiegazione, se non quella delle cause remote: i moventi di ordine occupazionale di cui parlavano i Quaderni calabresi, una pubblicazione fuori del giro della dorata intellighenzia capitolina, ambrosiana e taurina; i quali Quaderni appartenevano, però, più all’extraitalianità che all’extraparlamentarità. Infatti contestavano proprio alla sinistra nazionale, quella parlamentare e quella non, d’avere un DNA nordista; d’essere appiattita e ligia alla più volgare ipocrisia votocratica; di arrogarsi il diritto di parlare in nome del popolo meridionale per confonderlo e sfigurare la rappresentazione dei suoi veri interessi (di classe). In un’epoca in cui Gramsci era ancora in auge e il proletariato era inteso come classe nazionale, i Quaderni calabresi non si erano peritati d’affermare che nell’ambito della classe nazionale si dava -oggi come al tempo di Gramsci- peso zero ai proletari meridionali e si usava la forza che essi esprimevano sulla bilancia dei rapporti sociali nell’Italia restante. La stessa visione gramsciana di un Sud prettamente contadino era viziata da una debole conoscenza del paese meridionale e costituiva un regalo ideologico al capitalismo padano. In termini non metaforici dicevano che, sul tema della strutturale inoccupazione meridionale, i partiti di sinistra e i sindacati ipocritamente facevano solo parole, e le facevano per acchiappare voti. Aggiungevano che un popolo costretto a non produrre (dalla dominazione coloniale padana) non doveva rassegnarsi a essere guidato dall’esterno, da forze sostanzialmente nordiste. In verità i Quaderni non erano stati i primi a sostenere che la disoccupazione meridionale era a tutti gli effetti popolazione in più, sovrappopolazione; né erano gli unici ad affermare che l’acclamato e reclamizzato miracolo economico italiano era tutt’altro che un fatto nazionale, ma solo regionale, circoscritto a poche regioni, al Triangolo industriale Genova-Torino-Milano; né erano i soli a dire che tutto quel che aveva innalzato il Triangolo in cent’anni, e stava ancora innalzandolo sulle altre regioni, veniva pagato in contanti dal Sud. Però si ritrovavano isolati e malvisti quando ponevano un’alternativa: o (uno) l’uscita della sinistra nazionale dal terreno sindacale e retributivo, per portare lo scontro su un terreno veramente meridionalista, per la classe l’unico veramente nazionale e internazionalista; o (due) la permanenza sul terreno riformista anche del proletariato meridionale, ma con un proprio partito politico. La polemica salveminiana di sessant’anni prima contro il riformismo di Turati e dei socialisti padani, sulla quale erano attestate (peraltro solo a parole) le formazioni storiche di sinistra, risultava sottodimensionata rispetto alla consistenza reale del rapporto Sud/Nord. Questo non andava visto come il prodotto dell’imperialismo straccione italiano, ma come un caso inedito di accumulazione primitiva che si prolungava da oltre un secolo ricevendo la benedizione della sinistra, tanto prima del fascismo, quando era diretta dal riformista Turati, quanto dopo, sotto la direzione del stalinista Togliatti. Bisognava risalire necessariamente alla formazione dello stato nazionale italiano per trovare non solo l’origine del sottosviluppo meridionale, ma anche la causa che lo riproduceva a ogni passaggio della storia. Difatti la questione meridionale si spiegava soltanto con il modo singolare con cui l’Italia s’era avviata al capitalismo. Al momento dell’annessione al Nord, gli esponenti politici e militari del Sud, corrotti con il danaro e le promesse, resi ciechi -i residenti- dalla paura dei contadini, i fuoriusciti dalla voglia di rivalsa, cedettero il paese con le mani legate all’ingordigia e all’arroganza di Cavour, che raddoppiavano a ogni fortunato regalo della storia. Forte di tanti gratuiti e insperati successi, il mellifluo/tracotante Ministro ottenne il diritto-potere di lucrare sullo stato a favore di alcuni suoi compari di briscola. Si trattava di un gruppetto di concussori e malversatori di estrazione genovese, ai quali le circostanze dettero il destro di mettere le mani nel piatto. Però il carattere parlamentare del governo sabaudo (possiamo dire) li costrinse ad allargare la base dei loro intrallazzi. Dalle successive relazioni malavitose scaturì (o se più vi piace, fiorì) il gruppo affaristico che, nonostante gli eventi secolari e la mobilità degli individui, tuttora dirige l’Italia. Questi eupatridi, che fiutavano la preda come un levriero dal pedigree perfetto, s’accorsero subito (o forse lo sapevano da prima) che in seguito all’annessione delle Due Sicilie, la vera greppia era l’uso spregiudicato (potremmo anche dire il saccheggio, senza travisare niente) dei napoletani, dei siciliani e dei territori su cui erano insediati storicamente. Arma dell’azione: il fisco. Anzi l’erario, che contempla oltre alle entrate, anche le uscite. Difatti, il punto in questione sono proprio queste. Se tutta la borghesia italiana avesse potuto approfittare della generosità statale -come sempre accade negli stati a carattere borghese- il profitto non sarebbe stato grande, in quanto le sostanze statali erano alquanto scarse. Così (con buona pace per Tommasi di Lampedusa e per il suo Gattopardo), gli eupatridi decisero di escludere i borghesi napoletani e i borghesi siculi dal bottino. Cosa che, avendo essi la sciabola in mano, non fu difficile. Da allora la guida effettiva dello stato (i vari Crispi, Moro, Colombo, sono solo dei direttori generali che eseguono decisioni d’un superiore consiglio d’amministrazione e non possono firmare assegni se le cifre sono grosse) appartenne esclusivamente alla borghesia tosco-padana. La quale usò e usa spregiudicatamente il potere, in funzione dei suoi profitti. Alla borghesia meridionale furono assegnati i resti del banchetto -quelli che di solito vanno alla gatta di casa- e il ruolo ascaro e servile di mediatore con il popolo sudico degli interessi nordisti; in sostanza una posizione ancillare. Nei fatti essa poté esplicarsi come classe promotrice della produzione capitalistica soltanto in quei settori che non toccavano gli interessi della consorella settentrionale. È superfluo aggiungere che in un paese a economia e legislazione capitalistica, se la borghesia è limitata, anzi impotente, si arriva presto all’improduzione, al sottosviluppo, alla disoccupazione generale, alla sovrappopolazione. Proprio all’avvio degli anni Settanta, Paolo Cinanni (Emigrazione e imperialismo) spiegava, sulla scia di Marx, che le masse disoccupate meridionali si configuravano come un esercito industriale di riserva a favore di altre realtà sociali; una cosa peraltro storicamente sperimentata tra il 1880 e il 1914, quando i cafoni erano andati a stendere rotaie sul continente americano, e replicatasi nel corso del ventennio postbellico, con i lavoratori del Sud chiamati a fare da rincalzo dell’esercito operaio, nelle catene di montaggio tedesche e del Triangolo industriale italiano. Se la borghesia sudica era stata una serva fedele, arrivato finalmente, grazie al miracolo economico (dei salari più bassi, fra i paesi industriali europei), l’arrosto sulla tavola nazione una, anche la morale più gretta avrebbe voluto che i commensali lasciassero alla gatta un po’ di carne sull’osso. Invece, la borghesia settentrionale restò sorda a ogni forma di civismo, di gratitudine, e orba della lungimiranza che qualunque collettività normale avrebbe avuto in simili condizioni. Tra Sud e Nord non ci doveva essere uno spazio comune. Sempre tutto al Nord, secondo il migliore stile del redditiere. Come abbiamo già notato, il carattere parassitario della borghesia padana sta scritto a lettere cubitali nelle procedure intrallazzisti che contrassegnarono la sua assurzione a capitalismo nazionale. Un qualunque sistema capitalistico non nasce con i soldi dell’industria (che ancora non c’è) ma con quelli di altri settori. Marx chiamò questa fase accumulazione primitiva (originaria). Quella compiuta dal capitalismo italiano appartiene a una tipologia unica nella storia mondiale. Non è venuta dal capitale agrario, e neppure da quello marittimo, o commerciale, o manifatturiero; è nata invece da quell’intrallazzo statale e fiscale di cui si è accennato. Infatti la spregiudicatezza di Cavour in materia di danaro pubblico divenne una specie di patrimonio immorale, che passò quale bene ereditario prima alla Destra e poi alla Sinistra, entrambe storiche (tali sicuramente in materia di malaffare). Demani svenduti; concessioni di monopoli statali, in cui lo stato dava la concessione e anche il capitale, pagando per sovrappiù gli interessi sul mutuo che esso aveva concesso; ferrovie private pagate con i soldi dei contribuenti, le stesse in appresso nazionalizzate e pagate ai privati, poi ri-regalate ai privati e alla fine ri-nazionalizzate e pagate nuovamente; baroni che fondevano acciaio con rottami di ferro ricchi solo di impurità; corazzate e incrociatori costati sedici volte il loro effettivo valore; cartelle del Debito Pubblico acquistate da istituti di credito inclini a falsificare i biglietti di banca e da finti risparmiatori al prezzo di svendita di lire 23,00, e alla scadenza ripagate dal Tesoro 100,00 lire-oro: queste cose -e purtroppo non solo queste, ma anche la vergogna di una quadreria di generali e ammiragli non s’è mai ben capito se più incompetenti che arroganti, o viceversa- fecero da humus alla fioritura della nuova borghesia nazionale, quella che dette e dà i quadri dell’industria e formò e forma gli indirizzi di governo. A questo disastro morale originario e risorgimentale si aggiunse trenta anni dopo il parassitismo industriale. L’industria nazionale si avviò intorno al 1895, per mano di quelle famiglie della nuova borghesia parassitaria che Cavour e i suoi epigoni avevano tenuto a battesimo con l’acqua santa della corruttela e il sale sapientiae della speculazione sul debito pubblico. Era gente che non somigliava in nulla al capitano d’industria ambizioso di vincere costruendo, come lo immaginiamo leggendo i romanzi inglesi, francesi e tedeschi. I nostri - piaccia o non piaccia, è storia patria - avviavano industrie non per affermarsi nella competizione produttiva, ma per prolungare la precedente speculazione erariale. E in verità ci riuscirono ampiamente. Naturalmente il risultato produttivo fu così incongruo, meschinello, inefficiente, rachitico, che le loro imprese private costarono ai contribuenti e ai consumatori nazionali cifre iperboliche, perfino difficili da immaginare (Emilio Sereni, Capitalismo e mercato nazionale; un’opera fondamentale sull’accumulazione primitiva in Italia, dotata anche di un apparato bibliografico importante perché i riferimenti più scottanti sono di regola ignorati dagli storiografi accademici). Di certo c’è solo che il prezzo di tale immane e invereconda inefficienza fu messo in conto all’agricoltura, specialmente a quella meridionale. Al tempo dei cosiddetti fatti di Reggio, la tematica dell’industria parassitaria era tutt’altro che nuova in Italia. Un filone del meridionalismo pre e post fascista -non amato a destra e trangugiato malvolentieri a sinistra, tanto che gli illustri compilatori di antologie meridionaliste, di regola, hanno preferito ignorarlo- l’aveva avviata già prima della guerra del 1914-18 e l’aveva ripresa dopo la caduta del fascismo. I pescicani, i padroni del vapore erano stati infatti oggetto dell’informata denunzia di Ernesto Rossi, seguito da qualche meno dignitoso e retto discepolo, che ha preferito farsi foraggiare dal nemico e sterzare la mira sulla sola industria di Stato. La nostrana tipologia di accumulazione primitiva -l’accumulazione parassitaria- non compare nella vivace esemplificazione di Marx sul famoso XXIV capitolo del primo libro de Il capitale, né in quella ancor più efficace che costituisce la parte descrittiva del Manifesto del partito comunista. Senza offendere il padre dell’analisi classista, che non avendo potuto conoscere i padri del capitalismo italiano, pare avesse qualche apprezzamento per i pionieri dell’industria, potremmo definirla accumulazione parassitaria secolare; che poi rappresenta la più solida delle istituzioni nazionali. Nonostante gli alti profitti provenienti dal doppio stadio di intrallazzo realizzato (uno) mettendo le mani direttamente nel cassetto e (due) imponendo per oltre mezzo secolo una politica protezionistica controproducente ai fini della stessa crescita industriale ma grandemente profittevole per i padroni, il capitalismo nazionale italiano non era penetrato tuttavia in alcune situazioni produttive. Mi riferisco all’agricoltura di piantagione e alle produzioni mediterranee. Un settore in cui la borghesia attiva del Sud mostrò d’essere ben più moderna della consorella padana; così moderna ed efficiente da competere sul libero mercato internazionale, senza la copertura di dazi e benefici; da risultare, anzi, vincente nonostante l’inimicizia del suo stesso stato nazionale; e così capace di sorgere e risorgere, che allo stato nemico ci vollero ben cent’anni per abbatterla definitivamente. È questo il punto dove il castello di bugie rivolto a sorreggere l’alibi padano, il falso storico dei mali antichi di cui il Sud sarebbe afflitto, mostra la sua faccia sporca. Come il volpino Cavour aveva intuito fin da giovane, l’abbassamento delle tariffe doganali e la liberalizzazione degli scambi internazionali che, nel 1860, a Italia non ancora ufficialmente nata, egli, divenuto primo ministro nazionale, volle imporre, fece esplodere il potenziale di cui erano gravide le produzioni del Sud: l’olio, il vino, gli agrumi. Solo poche cifre. Secondo la stima di Correnti e Maestri, autori di una celebre ricerca statistica che fu non solo la prima che si faceva in Italia, ma anche l’ultima ispirata a onestà intellettuale, nel Regno borbonico venivano prodotti circa 900mila quintali di olio, il 60% dell’intera produzione italiana. L’esportazione annuale toccava mediamente i 450mila q.li, cioè la metà del prodotto. In realtà il Sud italiano, parecchio più che la Spagna, ebbe per l’intero secolo XIX un quasi-monopolio per la produzione di olio, che esportava in Francia, Inghilterra, Germania, Austria, Russia, America del Nord e del Sud, nonché nell’Italia restante. Oltre che un alimento, l’olio veniva impiegato nelle lucerne, per l’illuminazione, come lubrificante industriale e nella lavorazione dei filati di cotone.   Sotto la spinta della domanda internazionale e nazionale, nel 1909 la produzione olearia meridionale aveva superato i due milioni di quintali. Con ben 588mila q.li, la produzione calabrese aveva fatto un tal balzo in avanti da porsi al secondo posto, subito dietro la Puglia, regione madre della produzione olearia mondiale, che ne produceva 617mila q.li (Chino Valenti, L’agricoltura dal 1861 al 1911, in cinquant’anni di storia italiana). Diversamente da quello che la gente immagina, l’ulivo non cresce e l’olio non si produce per grazia divina. Certo la natura ama l’albero sacro a Minerva, e forse anche Dio lo ama, però bisogna investirci dentro lavoro e danari. Dove gli uliveti assumono il carattere della piantagione a filari squadrati, come nella Piana di Gioia e su tutta la collina jonica e tirrenica, sicuramente molti soldi. Quanti? Gli impianti calabresi che coprivano 84mila ettari, nel 1880, erano passati a 151mila ettari nel 1951 (dati Istat, riportati da Ferdinando Milone, L’Italia nell’economia delle sue regioni): 67mila ettari in settant’anni, quasi 1.000 ettari di nuove piantagioni l’anno. Nei nostri uliveti ci sono risparmi di notevolissima consistenza, nonché la fatica di dieci e più generazioni; c’è, soprattutto, uno stringere la cinghia per decenni, perché una pianta d’ulivo impiega quindici o vent’anni per arrivare a pieno frutto. L’ulivo non dava molta occupazione ai contadini d’un tempo. Soltanto la raccolta era l’occasione per un corale coinvolgimento di donne e di uomini, che durava qualche mese ogni due anni. Prima che arrivassero i moderni mezzi di aratura e di raccolta, la scadenza dava lavoro a circa mezzo milione di persone, per un totale di un milione/un milione e mezzo di giornate lavorative, nel biennio. Ed è completamente sbagliato considerare un progresso il sopravvenire di macchine, perché si tratta di lavoro nostro che si sposta in altre regioni, senza che ci sia - come sarebbe naturale - un aumento della domanda in altro settore della produzione. A ottenere cospicue entrate era invece il padronato, i cui maggiori esponenti, in questa parte ultima della Calabria, vivevano signorilmente a Reggio. Il Corso Garibaldi e il Lungomare, che nel 1939 erano considerati fra le più belle e lussuose vie d’Italia, potevano dare l’idea di quanto quelle entrate fossero consistenti. I palazzi che li fronteggiavano erano ricchi e belli. Non solo, ma ricostruiti già una volta dopo il terremoto del 1783, il padronato reggino li aveva dovuti ricostruire per ben due volte, una dopo il terremoto del 1908 e una seconda dopo i bombardamenti americani. I soldi per edificare e riedificare tre volte la città in appena centocinquant’anni non arrivarono da Napoli o da Roma, e neppure da Milano, ma vennero dall’olio e dagli agrumi. Veniva dall’agricoltura anche la spesa vistosa della gente che trascorreva oziose mattinate e indolenti pomeriggi dinanzi al Comunale, indossando fresche camicie di lino e cravatte di seta pura. Perché l’agricoltura di Reggio, per la sua produttività, era quasi un’industria. Anzi nel caso del bergamotto era persino più produttiva dell’industria. Bisogna aggiungere che se, attraverso il fisco e il drenaggio bancario, la quota più consistente del surplus viaggiava verso i padani, la parte che i ricchi consumavano andava per una quota consistente ai lavoratori della città (abbiamo qui una buona esemplificazione del Tableau économique di Quesnay): ai muratori, ai fabbri, ai falegnami, ai camerieri, agli addetti al commercio, a quell’esercito di persone civili e dignitose nonostante la povertà, qual era il popolo di Reggio intorno al 1936. Certo, a tutti i cronisti meridionali piacerebbe poter scrivere che i signori elegantemente accomodati nella sala più riservata del Caffè Pontorieri erano degli intraprendenti cavalieri d’industria, invece che dei redditieri. Ma, a parte il fatto che nel bergamotto e nel gelsomino costoro, come già annotato, erano dei veri industriali, l’organizzazione dello Stato, scaturita dal processo risorgimentale, aveva tolto i capitali necessari e lo spazio tecnico per scalare l’erta parete dell’industria. Gli storici della destra sabauda e della sinistra sedicente gramsciana fanno finta di non sapere che il fatto che ciascuno di loro fosse sufficientemente ricco per costruirsi (o ricostruirsi) un lussuoso palazzo significava poco ai fini imprenditoriali. Infatti non il ricco privato ma solo la volontà bancaria trasforma il capitale in investimento (Joseph A. Schumpeter, Storia dell’analisi economica). Ho fatto l’inciso perché la pigrizia spagnolesca della borghesia meridionale è soltanto una favola. In effetti, la modernizzazione produttiva era stata avviata in Calabria con piede più sicuro e più europeità che negli altri ex-Stati regionali (basti pensare al setificio di Villa San Giovanni); un passaggio che gli storici dell’economia identificano con la fase della pre-industrializzazione, come dire la manifattura senza ancora il motore e i combustibili fossili, cioè la prima fase del capitalismo, allorché gran parte degli artigiani lavorava (non più su commissione nella propria bottega, ma) in un opificio dove si produceva direttamente per il mercato. Dico di più. Al tempo di Ferdinando II, la Calabria Ultra era la parte più industrializzata (nel senso di cui sopra) del Regno, dopo Napoli. La quale Napoli, poi, era sicuramente l’area d’Italia dove la preindustrializzazione era più avanzata e più integrata che altrove. E a detta del gruppo di urbanisti giapponesi che ultimamente l’hanno studiata con serietà, come è costume di quel popolo, l’area meglio preparata a un successivo passo avanti in tutto il Mediterraneo, non esclusa Marsiglia. Patriotticamente, italianamente, l’arretratezza sudica corrisponde a uno scippo delle sue manifatture. La borghesia attiva del Sud era una cosa ben diversa dalle classi baronali che Cavour prima, Giolitti in appresso, legarono a sé per dividere e dominare il paese napoletano e la Sicilia. Cosicché i massacri e parecchi fra gli stessi baroni non accettarono l’annichilimento italiano e reagirono come poterono concentrando i loro interessi sull’agricoltura di piantagione. La storia economica e sociale della Campania, Puglia, Sicilia, Calabria, nell’infelice prima fase del saccheggio padano, ha del miracoloso. Gli agricoltori fecero qualcosa di più che produrre. “Le esportazioni meridionali salvarono l’Italia” (oggi diremmo hanno salvato l’Italia), sottinteso dalla bancarotta internazionale, si esclamò in Senato al tempo del (finto) pareggio del bilancio, nel 1876 (si badi, siamo al secondo salvataggio in soli dodici anni). I libri di storia patria non amano il Sud, meno che mai ammettono che la questione meridionale l’hanno inventata proprio gli storici di parte sabauda, come alibi dell’assassinio di un popolo che la stessa Italia proclamava italiano. E non amano parlare della rivoluzione agricola che salvò l’Italia. Eppure l’imponenza dello sforzo produttivo e la consistenza dei suoi risultati non sono un’opinione generica, ma fatti. Al tempo dell’inchiesta agraria Jacini, che si svolse a partire dal 1880, gli ettari destinati ad agrumeto erano nelle tre province calabresi non più di 4mila. Nel 1970, il professor De Nardo rilevava ben 24.800 ettari. La progressione, nel settantennio, è di 354 ettari l’anno, che potrebbero sembrare persino pochi, ma trasformare una brughiera, un arido pascolo, adatto solo alle capre, in un lussureggiante giardino di bergamotti o di aranci costa parecchio. La spesa principale è l’irrigazione. Si tratta d’un investimento capitalistico nel significato più completo. Le canalizzazioni spesso sono lunghe chilometri. Captate a monte le acque di una fiumara, esse le derivano verso i fondi posti a valle, non sempre vicini. Altre volte l’acqua si ottiene mediante lo sbarramento delle falde subalvee, in tal caso le opere murarie sono ancor più consistenti; in pratica debbono essere sufficientemente profonde e sufficientemente alte da sollevare l’acqua di una decina di metri, in modo che possa scivolare per caduta verso i quadri a valle. Ancora maggiori sono i costi quando, in mancanza di opere consortili, è il singolo proprietario che scava un pozzo. Difficilmente l’acqua che esso dà è sufficiente a più di un fondo. In questo caso i costi crescono perché è necessario addurre la corrente elettrica; garbatamente la SME caricava l’intera spesa sul portafoglio del produttore privato, anche se poi si appropriava della condotta elettrica, in base alla legge della giungla. Non minore era il costo delle opere di piantagione. Infatti un agrumeto non si pianta col tempo e in tutta comodità, diluendo la spesa negli anni. Esso è come una fabbrica: deve dare un prodotto commerciabile, una merce uniforme per varietà e momento di maturazione. E ciò si ottiene soltanto con un impianto coevo. Ferdinando Milone, un grande e corretto maestro di geografia economica, scrive: “Anche qui le piante di agrumi appaiono un po’ dovunque, nei campi coltivati; risalgono le pendici e i terrazzi dell’Aspromonte; si insinuano nelle valli più apriche; proseguono lungo la costa jonica, dove la loro coltivazione si fa di nuovo più intensa… tra Sant’Ilario e Caulonia… L’agrumicoltura, e specie la coltivazione del bergamotto, ha trasformato il deserto in lussureggianti giardini… (cosicché) dobbiamo pur riconoscere il grande sforzo compiuto da questa gente e sfatare, se possibile, le accuse che a essa si facevano, scambiando per infingardaggine l’inattività che, il più delle volte, derivava dalla mancanza di capitali per l’adatto sfruttamento di una terra dal clima dolcissimo, ma quanto mai avara. Alla rilevata trasformazione, infatti, hanno contribuito in massima parte i capitali derivanti dall’emigrazione e il lavoro assiduo”. Ora, chi investe danaro in proprio, o magari accende un mutuo al fine d’investire, lo fa se e quando si rappresenta la prospettiva di un profitto. È facile concludere, quindi, che, se a Reggio si era arrivati ad alti livelli di spesa in impianti fissi, i profitti sicuramente non mancavano, anche se poi le patrie statistiche ci dicono poco su tale argomento. C’è stato (e c’è tuttora) uno strano atteggiamento intorno all’olio e agli agrumi: valevano moltissimo quando si trattava di classificare i terreni a fini fiscali; era come se non esistessero quando si trattava di glorificare la patria agricoltura. Negli scritti ufficiali -principalmente le statistiche agrarie, ma anche gli scritti di storici accademici, come quelli del tanto lodato (sarò pure fazioso, ma credo lodato solo per i suoi ammanigliamenti bancari) Gino Luzzatto- si ricava il sospetto che affermare, o appena ricordare, che per oltre quarant’anni il valore delle produzioni meridionali fu di gran lunga superiore a quello dell’agricoltura settentrionale sembra un delitto di lesa maestà. Il citato Luzzatto, in un libro che fa testo in materia di storia economica dell’Italia unita, si sofferma sull’esportazione d’olio una sola volta, dedicando alla cosa un solo rigo, mentre la parte dedicata alla seta padana deborda da tutte le parti, zampilla a ogni parola. Peraltro l’Illustre non perde il suo tempo per informare che dopo la caduta del prezzo da 10 lire a 2,50 (a causa dell’arrivo in Europa della seta giapponese) il settore era ormai finito; che la gloria economica del Piemonte e del Lombardo-Veneto non contribuiva granché alla bilancia commerciale, sicuramente non nella misura intravista dall’occhio avido dell’indebitato Cavour. L’avversione a ricordare le esportazioni meridionali ha portato alla pratica scomparsa delle statistiche sull’olio. Oggi possiamo facilmente sapere, per esempio, quanti asini circolavano in Calabria nell’anno 1876 e quanti chili di seta si filavano a Como nel luglio del 1877. Ma a trovare una serie storica sull’olio, il vino e gli agrumi, ci vuole uno Sherlock Holmes in servizio attivo. Fra tante glorie nordiste e tante omissioni sudiche, sappiamo comunque che tra il 1905 e il 1958, le superfici irrigue, in Calabria, passarono da 48mila ettari a 91.247 ettari. In cinquantatré anni sono stati riportati a coltura irrigua 43mila ettari, per una spesa che si può calcolare intorno ai quattro/cinquemila miliardi. Logicamente sborsati dai calabresi. Più espliciti sono gli agronomi, e non solo quelli che avevano cattedra all’università di Portici. In effetti, l’idea di un’agricoltura calabrese sconfitta e impotente non apparteneva a chi giudicava da competente, ma soltanto al giornalismo prezzolato dagli industriali milanesi e in appresso al cinema fintamente realistico. Basti ricordare l’informato saggio di De Marco posto in appendice al volume su Calabria e Lucania dell’Inchiesta Jacini (volume fortemente sgradito al riscrittore, prof. Nicola Caracciolo, non so se piemontese di nascita, sicuramente sabaudo per atti di pensiero). De Marco attribuisce agli aranceti e ai limoneti un valore della produzione di quasi 900 lire (del 1880) l’ettaro e al bergamotto un valore di 1.800 l’ettaro, tre volte le 600 lire della granicoltura lombarda. Credo il valore più alto in Europa. Forse anche nei bergamotti c’era la mano di Dio, ma i bergamotteti li piantano comunque gli uomini, che nel caso non erano lombardi e non erano andati a scuola dal professor Luzzatto. I libri degli agronomi suggeriscono l’idea di un’agricoltura reggina meno povera di quel che ci vogliono far credere, e tuttavia pur sempre un’economia subalterna, in cui la spinta e la controspinta produzione-investimento funzionava nell’ambito di un solo settore. Che, comunque, almeno Reggio fosse meno povera di quel che si ama sostenere a proposito del Sud lo dimostra una precisa circostanza. Negli anni Trenta, allorché il bergamotto e le arance tiravano a tutto vapore -e gli agrumi rappresentavano la prima posta della bilancia commerciale italiana con l’estero- su sette banche nazionali presenti in Calabria, sette avevano la loro filiale a Reggio e due soltanto avevano aperto un’agenzia fuori Reggio. A quel tempo non era un mistero che detti istituti erano scesi da Milano e da Roma - inseguendosi l’un l’altro e gareggiavano fra loro onde accaparrarsi una buona posizione sul Corso Garibaldi - per incettare i cospicui incassi degli agricoltori, che in parte rimettevano al Nord e in parte lavoravano sulla stessa piazza di Reggio. La funzione negativa di una banca forestiera operante su una nostra piazza non sta tanto nel fatto che funziona da pompa per drenare altrove il nostro risparmio, quanto nell’altro che non compie operazioni rischiose, quali sono quelle industriali. In pratica finanzia il commercio. Ed è proprio attraverso il commercio che passa e si rafforza la subalternità coloniale, in quanto il commercio (oggi detto distribuzione: gli alimentari, i tessuti, l’edilizia, il legno, ecc.) si approvvigiona presso gli industriali. In sostanza, con il risparmio locale le banche hanno sempre prefinanziato lo sbocco meridionale dell’industria padana. Solo il Banco di Napoli, che nei decenni precedenti il fascismo aveva convogliato quasi tutto il risparmio in valuta degli emigrati italiani (prima della guerra del 1915-18 la cifra ufficiale era di 25 miliardi dell’epoca, pari a 123mila miliardi in lire attuali), effettuava, attraverso la sezione speciale del credito agrario, operazioni a lungo termine. L’importanza e la proficuità (per l’istituto napoletano; il costo, se si guarda da parte di chi pagava pesanti interessi e subiva troppo facili esecuzioni immobiliari) di tale attività è comprovata dal palazzo che sorge all’angolo tra la Prefettura e la Provincia, al centro del centro di Reggio; un edificio imponente per essere solo la filiale di una banca, e che gareggia in grandezza con la sede barese e con la stessa direzione centrale, a Napoli. Prima della guerra, dunque, Reggio non era povera quanto Catanzaro o Campobasso. Anche se non prosperava, almeno campava. La sua agricoltura era fra le più moderne d’Italia, e la danarosità della classe padronale teneva in vita un consistente artigianato urbano di servizio al palazzo. Certo il settore industriale era poca cosa. Se la memoria non mi tradisce, esso non andava oltre il molino Costantino; praticamente zero, se consideriamo i bisogni occupazionali di una città che contava 200mila abitanti. Anche i servizi culturali, che la benevolenza sabauda le riservava, erano bloccati a livello delle scuole medie superiori, mentre quello stesso Stato -al Sud tanto micragnoso- faceva lo scjalone tra l’Emilia e la Toscana, dove aveva insediato ben sette università -cinque più del necessario e dell’equo (Siena, Pisa, Modena, Ferrara e Parma, oltre a Bologna e Firenze), in quanto rivolte al servizio di cittadine di modesta popolazione. Ciascuna di esse, infatti, non arriva a un quarto della popolazione reggina e tutte assieme ne facevano appena il totale. La crisi reggina va connessa con la crescita demografica che si verifica negli anni a cavallo tra guerra e dopoguerra. Le nuove generazioni non trovano una sistemazione, in quanto proprio nel dopoguerra il Sud perde la battaglia che passa sotto il nome di Ricostruzione Nazionale, ma che tale nome non merita (e neppure le lettere maiuscole) trattandosi della ferma scelta da parte del CLN - quasi una congiura - di concentrare tutte le risorse nazionali e l’apporto degli aiuti americani sullo sviluppo del solito Triangolo padano, come chiedevano Valletta (FIAT) e altri ceffi di pari statura. A contrappeso e come palliativo si procede all’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno. Si proclama che il Sud ha bisogno di infrastrutture (parola allora nuova per dire le strade e gli acquedotti, quelli che né la Destra Storica, né Sinistra egualmente Storica, né il Ministro della malavita, Giovanni Giolitti, e neppure Benito Mussolini, Duce vittorioso e Fondatore dell’Impero, s’erano degnati di fare, né sono venute dopo, nonostante la Cassa, ancorché Bossi e compagnoni padani piangano calde lacrime su una fattura che non è stata mai pagata dai soli paludosi (padani). Il nuovo ente è sotto il comando strategico di politici dotati di grande talento geografico, i quali s’impegnano a ridisegnare l’aspetto del paese meridionale secondo le misure del loro sarto di famiglia. Tanto per fare un esempio Napoli, la vecchia capitale del Regno meridionale, italianamente degradata a capoluogo di provincia, si comincia a trasferirla ad Avellino. Così anche Reggio. La quale è città fastidiosa in quanto elegge un senatore e un deputato fascisti. Non avendo provveduto un terremoto, la briga di accorciarla se la prendono i nostri. In effetti il municipalismo cosentino incide in modo tutt’altro che lieve sulla geografia economica, sociale e umana della vecchia Calabria. La consistenza urbana e il peso politico di Cosenza crescono visibilmente, sospinti dalla mano adunca del notabilato politico clientelista e dall’abile unilateralità politica della Cassa di Risparmio di Calabria (il figlio del capo era asceso a deputato con i voti cosentini e a sottosegretario italiano di stato con la benedizione di frate Colombo). Sebbene strategata dal meno che mediocre Ernesto Pucci, Catanzaro riesce ad arraffare il peculio che di solito va a chi regge il sacco. Reggio paga il fio d’essere incostituzionale, di dare voti ai fascisti, anzi di non darli agli ex CLN, e lentamente decàde. Il diffondersi della coltura e dell’industria del gelsomino, i successi del Caffè Mauro non riescono a nascondere l’involuzione. Decàde, ma non protesta. Il ceto politico che la dirige è perdente a livello romano e cosentino. Il senatore Barbaro poteva ben essere un galantuomo, e anche devoto alla sua città, ma non aveva entrature a Roma, tanto sulla destra quanto sulla sinistra del Tevere. Al tempo della Rivolta operavano in Calabria 37 istituti di credito, con 215 sportelli, i quali totalizzavano una raccolta di risparmio vicina ai 500 miliardi. Reggio, benché alla guida della provincia con il minor numero di comuni e di abitanti, era ancora in testa, sia sul lato dei depositi sia sul lato degli impieghi (cfr. Unione Regionale delle Camere di Commercio I.A.A., Relazione sulla situazione economica della Calabria nel 1970, a cura di Vincenzo De Nardo). Ma si trattava, evidentemente, dell’ultima resistenza. Alcuni successi imprenditoriali, del tipo armatore Matacena, allignavano nel vuoto. Come è ampiamente noto, a partire dai primi anni Cinquanta e poi per tutto il ventennio successivo, l’assetto sociale europeo viene squassato da un sommovimento di portata epocale. L’innesco è di carattere tecnologico e produttivo. L’Italia (dizione generica ed equivoca) segue lo slancio dei tre forti paesi che la precedono: Inghilterra, Francia e Germania. Al contrario il Sud, mancando uno stato suo, si avvia in caduta libera verso il precipizio. La sua precedente posizione di periferia del Settentrione si converte in estraneazione. Il blocco cavourrista e padano del suo sviluppo diventa in tale passaggio sottosviluppo; un fenomeno non economico ma politico, superabile soltanto per via politica (forse è più onesto e corretto dire: militare). A monte della nuova situazione stanno due fenomeni contrapposti e simmetrici: la caduta dei prezzi relativi per le produzioni mediterranee e l’aumento dei salari agricoli. Non v’è dubbio che il dissesto dell’agricoltura meridionale sia stato consapevolmente accettato quale offa nazionale della crescita industriale nordista. L’operazione viene condotta dai governi nazionali con un’aggressività barbarica a tutti evidente. Il Sud viene trattato come un nemico da annientare. La buffonata dell’uguaglianza legale, istituzionale ed elettorale non può e non deve ingannare nessuno. Nonostante sia ferma ogni forma d’investimento e l’occupazione agricola e manifatturiera cada, il livello dei salari sale. La diaspora della manodopera contadina e artigianale verso l’industria padana spopola le campagne e appiattisce la domanda di lavoro. Contemporaneamente (o forse anticipatamente, come sostengono Ferrari-Bravo e Serafini, Stato e sottosviluppo) i cantieri aperti dalla Cassa incettano i non molti rimasti. A partire da questa svolta, i contadini superstiti non sono più costretti a scappellarsi profondamente per ottenere un’affittanza. Anche l’iniqua gara fra braccianti per una giornata di zappa finisce per sempre. In una situazione di libertà economica ciò dovrebbe essere segnato come un grande progresso sociale. Ma, in effetti, il progresso non c’è. A trarne vantaggio sono soltanto gli industriali e i padroni di casa padani. Infatti i primi si trovano di fronte a una curva salariale che non cresce in misura diretta con la loro domanda di manodopera, i secondi decuplicano la rendita di posizione. Invece gli agrumi - l’ultima ricchezza residua - diventano una bolla d’aria. Buona parte delle province siciliane e la provincia reggina vedono andare in malora l’unico loro capitale, i dimenticati slanci (ovviamente in rapporto alle sue forze) della borghesia sudica per crearsi basi nuove di profitto attraverso la piccola -o è più esatto dire, l’atomistica- impresa industriale. Ciò era già avvenuto negli anni dell’immediato dopoguerra, sotto la spinta dei buoni affari realizzati con il mercato nero. Si ripete tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, adesso sull’eco del successo padano. Ma, se la crescita della ricchezza nazionale ha elevato le possibilità di spesa dei consumatori, il mercato meridionale è già da tempo una colonia dell’industria padana. Senza una disciplina politica del mercato -come a quel tempo auspica, solitario, il reggino Demetrio Di Stefano (Il Risorgimento e la questione meridionale) nella cui parabola politica e umana è descritta la sofferenza del vero rivoluzionario meridionale- la spinta in avanti si risolve in un cimitero d’industrie. E il riferimento funebre non va alla Liquichimica di Saline e a tutto l’intrallazzo nordista degli anni Sessanta; va invece alle croci piantate su piccole iniziative locali, fallite al primo incontro con il mercato nazionale. Patrimoni e speranze private vengono distrutti -cosa che è il meno- ma quei facili fallimenti ingenerano un clima diffuso di scoraggiamento che, sommandosi all’annientamento agricolo, fanno tabula rasa d’ogni spirito d’impresa. Uno stato che non fosse il nostro storico nemico avrebbe tentato almeno d’impedire tanta distruzione. Nello stesso tempo, la schiavitù degli agricoltori verso il monopolio chimico (concimi Montecatini) e verso il monopolio elettrico (Bastogi) si estende alla FIAT. Ancora una volta mediano le uguali leggi statali. Altro che rottamazione delle auto. Il ministero dell’agricoltura assume dipendenti e li dissemina per le campagne perché spieghino agli agricoltori che la meccanizzazione dell’agricoltura può tamponare la crescita dei salari. Intanto, o lo stesso ministero o quello degli esteri manovra e briga a Bruxelles per non estendere il protezionismo agricolo comunitario alle produzioni mediterranee. Agnelli deve ben vendere le sue macchine in Spagna. Gli agricoltori vengono presi al laccio con l’esca delle comode rate, spavaldamente fornita dai Consorzi agrari. Ovviamente si trattava di una spesa governativa a esclusivo favore delle industrie meccaniche produttrici di attrezzature e macchine agricole, che abilmente viene fatta passare per un aiuto all’agricoltura meridionale. In tal modo il monopolio ottiene ciò che gli serve e il capitale finanziario nascosto nei Consorzi (padani) può confiscare con largo anticipo le future, presunte entrate degli ex padroni dei terroni emigrati. Ovviamente, trattori e motocoltivatori vennero pagati non certo con le rendite, ma o stringendo la cinghia o vendendo un pezzo di terra. I cambiamenti correlati alla grande trasformazione del Nord italiano coinvolgono il Sud, in quanto oggetto della storia padana sin dal 1860, imponendogli un ulteriore regresso, ma questa volta relativo. È bene chiarire in cosa consista questo concetto, e non perché esso sia ambiguo, ma perché ambivalenti sono i fatti. Fra questi, i più rilevanti sono: Uno. Come è a tutti noto, la concentrazione geografica (la centralizzazione capitalistica) della tecnologia -al tempo della Rivolta- abbatteva immancabilmente il lavoro nelle aree sottosviluppate che venivano raggiunte dalle nuove merci (oggi la politica capitalistica del labour saving danneggia anche le aree elevate a centro). Tra il 1953 e il 1970, oltre agli emigrati, il Sud perde più di tre milioni di occupazioni. Due. Con l’aumento della ricchezza nazionale, la quota incassata e ridistribuita dallo stato cresce in termini assoluti e anche in rapporto alla porzione che rimane ai privati. Ciò permette che i pubblici servizi possano essere dilatati. Il Sud ottiene un primo vantaggio dal fatto che il numero degli impiegati cresce in assoluto in percentuale. La remunerazione che questa quota di popolazione ottiene è a un livello italiano, cioè più alto rispetto a quello che la produttività media del paese meridionale consentirebbe. Il Sud ricava un secondo vantaggio dal fatto che ottiene servizi in precedenza riservati solo al Centronord (le università, la sanità pubblica, ecc.). Tre. Lo sviluppo industriale porta con sé una crescita del livello medio delle aziende. Ciò danneggia il quadro concorrenziale, ma fa salire il livello medio dei profitti industriali; consente così alle industrie di cedere alla distribuzione -quindi anche alla sua frazione meridionale- una parte più larga del plusvalore estorto. Quanto sub Due e Tre permette al Sud di non perdere la posizione che aveva nelle statistiche nazionali in termini di reddito medio pro-capite, storicamente oscillante intorno al 65%. C’è però una significativa novità: detto percento, un tempo, era legato alla produttività complessiva del paese meridionale, mentre adesso viene insufflato dall’esterno. Tutte cose che, se arricchiscono il Sud, ne scombussolano, però, l’armonia sociale. Per essere passabilmente chiaro, esemplifico. Un insegnante meridionale lavorerebbe per metà dello stipendio vigente. L’aggiunta è un regalo italiano. Così un medico, un giudice, un poliziotto, un bancario, l’operaio di un’azienda nazionale tipo ENEL, Telecom, ecc. Anche un commerciante-distributore meridionale lavorerebbe per un ricarico pari alla metà di quel che ottiene. Pure in questo caso l’aggiunta è collegata a una nazionalizzazione, precisamente a quella burocratica vigente nelle grandi aziende, in forza della quale vengono sottoposti a disciplina coattiva fenomeni che di per sé sarebbero economici e di mercato. Ovviamente, il vantaggio che arriva nelle tasche di una parte dei meridionali è pagato dagli stessi meridionali, che sono costretti a dare di più allo stato e di più ai monopolisti padani. C’è, tuttavia, subito da osservare che, se gli stipendi e i ricarichi fossero dimezzati, al Sud non verrebbe alcun vantaggio contabile. Infatti la differenza in più non sarebbe risparmiata dai contribuenti e dai consumatori, ma andrebbe ai professori, ai medici, ecc. settentrionali sotto forma di un maggiore stipendio e alle aziende industriali sotto forma di più lauti profitti (Bossi è meno scemo di quel che sembra). Ma come sopra segnalato, nel quadro economico meridionale i vantaggi non pagati costano carissimi. Infatti nel Sud, mancante di un suo Stato e di economie esterne tali da consentire una migliore produttività del lavoro, la nazionalizzazione del livello dei salari e degli stipendi ha come contropartita il tragico declino, la caduta, senza possibilità alcuna di ritorno, dell’agricoltura, non essendo questa protetta da sbarramenti comunitari. Aggiornando il tema alla data attuale, si può aggiungere che la caduta ha toccato ogni produzione lecita a carattere arretrato e ha portato alla crescita di quella illecita, alla fioritura del lavoro in nero, tanto fra i cittadini italiani quanto fra gli extracomunitari, nonché alla dilatazione della sovrappopolazione, che adesso potrebbe essere considerata non più un esercito industriale di riserva, ma umanità superflua, come nel Terzo Mondo, e da qui a non molto soltanto zoologia antropica. I partiti stanno tornando sui propri passi. Ma si tratta di un ripensamento vano e contraddittorio se non accompagnato da un forte vincolo valutario (o se più vi piace, bancario) a finanziare con risparmio sudico l’importazione di merci forestiere. Infatti i sindacati, consapevoli dell’inefficacia di una unilaterale decurtazione dei salari, sono fermamente decisi a combattere le gabbie salariali senza la contropartita di un investimento che bilanci la sottrazione di valuta. Naturalmente neanche questo basta, ma anche i sindacati sono italiani. L’approdo alla disarmonia sopra accennata precede la Rivolta, ma, a quel momento, la gente -che pure ne soffre il disagio- non ne ha ancora concettualizzato le cause. Avvertite sono invece le ripercussioni di carattere sociologico della trasformazione italiana. Quando il morso della fame durava da un anno all’altro, e segnava, uno dopo l’altro, tutti i giorni della vita, la comune povertà legava il proletariato. Nella nuova fase, la fame vera è scomparsa, ma il modo di produrre (il lavoro) si riorganizza a raggi, il cui sole è spesso lontano. Ciò frantuma la dimensione umana della città, il senso del vicolo e del rione. Chi lavora diventa la macchina di un dio cieco, chi non lavora è la vittima di un demone irraggiungibile. L’umanesimo antico evapora, un nuovo umanesimo (un sindacato, un partito aderente ai problemi periferici) non spunta. Per usare il linguaggio del sindacalista, la grande trasformazione si allarga al Sud senza ammortizzatori sociali. La durezza della transizione (per esempio, il riverbero locale dell’emigrazione) lascia insensibili i politici e i sindacalisti. In effetti ciò che non cambia, o cambia in peggio, è l’organizzazione clientelare delle filiali sudiche di tutti i partiti costituzionali. L’Italia ricca è scesa al Sud con altre sue merci, e per i fortunati anche con i suoi stipendi e salari, ma senza farsi accompagnare dalle regole di una libera democrazia. Perché? Credo si debba dare una risposta veritiera anche a rischio d’apparire faziosi: perché, al Sud, il primo atto di vera democrazia sarebbe la liberazione. Una cosa che va oltre le manette e arriva ai carri armati. I maggiori benefici dell’allargamento al Sud delle condizioni sociali raggiunte nell’Italia restante, li ricavano i ceti medi scolarizzati. Legioni di redditieri ormai senza più rendita, e perciò promessi alla misurazione dei marciapiedi cittadini, hanno trovato facilmente un posto. Altri posti si lasciano sperare e si sperano. Legioni di figli del proletariato, in salita sociale per via degli studi, s’infilano anche loro da qualche parte. Ragionieri, medici, ingegneri, avvocati si sistemano in un modo o nell’altro. Altri s’infileranno, almeno si spera. Alla fine del mese lo stato paga. Sarebbe inopportuno mettersi a fare della sociologia senza possederne gli strumenti, ma una cosa è chiara a chiunque: questa nuova quadreria che, attraverso la politica e l’invasione politica della società civile, diventa la parte sub-dirigente del Sud, manca di virtù. In fondo non è che l’erede statuale di quella borghesia padronale e redditiera che si concesse a Cavour per mancanza di decoro, d’onore e d’amor di patria. D’altra parte non è una classe, e neppure una classe in formazione. Manca il punto di riferimento sociale e quello autenticamente politico. Certo, un punto di riferimento non manca, ed è il civismo rovesciato in disvalore. Esso aggrega le persone, ma non può essere dichiarato all’esterno. Soltanto ristagna nel sottobosco familiare e municipale come necessaria arte del campare. A questo punto, se sommiamo la crisi produttiva, il non possedere altro che braccia per pagare le merci forestiere, e ancora il sommovimento sociale, lo scardinamento dei vecchi valori classisti, la disperazione occupazionale, abbiamo il Sud degli anni Sessanta. Un Sud impoverito che dovrebbe solamente e puramente liberarsi d’ogni torchiatura esterna e farsi (al suo interno) finalmente quei conti sociali che i bersaglieri piemontesi impedirono, facendo colare sulla sollevazione contadina un fiume di sangue. Comunque, la Rivolta reggina non ebbe tale idealità, né prima né poi. La rabbia contro lo stato straniero, o quantomeno estraneo, fu scioccamente vanificata da un personale politico che non seppe far altro che prendere il tram elettorale. Allora cosa fu questa Rivolta? Perché Reggio? Intanto l’occasione. Poi la singolarità va cercata nella sua splendida agricoltura. Quella stessa classe di redditieri fondiari che aveva invocato i bersaglieri piemontesi e che s’era pappato con poca spesa il demanio ecclesiastico e gratis quello statale e comunale, s’era lentamente ricostruita moralmente. Sicuramente spremendo sangue dalle ossa dei coloni, aveva piantato milioni di ulivi e decine di milioni di aranci, limoni, bergamotti. Li aveva lavorati, commerciati, imposti sui mercati stranieri (il Nord era ancora troppo povero per presentare una domanda effettiva). Spesso s’era indebitata fino alle mutande, in attesa che arrivasse il momento della fruttificazione. Anni, decenni di attesa, durante i quali il Banco di Napoli li aveva vessati con i suoi avvocati e gli ufficiali giudiziari. Poi un limitato benessere privato e anche un surplus provinciale consistente. Allo scadere del luglio 1970, l’agraria reggina non era del tutto appassita; era ancora detentrice di qualche quattrino e s’era fatta un certo orgoglio di classe. Una cosa che nei tempi prosperi appariva solo sussiego, ma che oggi dobbiamo storicamente rivalutare, poiché era in effetti frutto della fiducia in sé, la stessa che mostrava il cavaliere d’industria. O forse -e più giustamente- quella di Esiodo, di Virgilio, di Plinio, di Columella, del cremonese Stefano Jacini: l’agricoltura come esplicazione del sapere umano, del vichiano conoscere la storia, in quanto produttori delle cose e di sé. Insomma Reggio era stata una città effettivamente capace di partecipare alla produzione nazionale in una posizione d’avanguardia; una città autentica. Nei decenni precedenti, l’insolita identità reggina si era espressa mediante l’uso di un partito non costituzionale come podio, come palco per la rappresentazione scenica: il MSI. Ma senza per questo essere fascista. C’era solo una circostanza casuale a determinarla. Il podio era preso a prestito, quel che contava era l’uomo, forse il simbolo della sua rifiutata decadenza. Il senatore Francesco Barbaro è descritto come un aristocratico d’altri tempi, democraticamente alla mano; come un vir dotato di severo spirito di servizio. Barbaro morì qualche anno prima della Rivolta, ma l’idea che la gente di Reggio ne aveva, faceva del suo ricordo un punto di riferimento, e non solo per l’agraria in decomposizione, ma per tutte le famiglie oneste: per quelle dei lavoratori, gli antichi e i nuovi, per quelle della nuova burocrazia, dove crescevano giovani destinati alla nuova guerra dell’uomo contro l’uomo, per quelle dei bottegai e prestatori di servizi, per cui la decadenza decisa per decreto rappresentava un atto ostile, persino per operatori economici di respiro nazionale come Mauro e Matacena, nonché per una larga parte dei colti, ai quali la conoscenza del passato dava conto della misura del declino. Volendo concludere, l’input impresso dalle idee di Cavour al quadro sociopolitico italiano ha diviso un paese che aveva avuto parecchi stati, ma strutture produttive di uguale livello. Al Centronord l’intrallazzo finanziario e il parassitismo industriale alimentarono la formazione di un esercito del lavoro agricolo e industriale di tipo metropolitano, che è stato ed è rappresentato da formazioni politiche e sindacati coerenti con la sua condizione; al Sud, il saccheggio del capitale storico, dei surplus normali e dei surplus popolari da astinenza, la centralizzazione padana del capitale bancario di rischio, la mancanza di un proprio stato organizzatore, l’espropriazione del credito internazionale derivante dal massiccio afflusso della valuta rimessa dagli emigrati, non lasciarono altro spazio alla crescita capitalistica che una modesta nicchia in agricoltura; una situazione ben lontana dalla richiesta popolare di dar lavoro alle masse che la penetrazione di merci capitalistiche forestiere proletarizzava. Le forze politiche e i sindacati italiani, coerenti con l’assetto occupazionale settentrionale, forse avrebbero voluto, ma oggettivamente non potevano e storicamente non poterono rappresentare gli interessi di un proletariato in larghissima parte esterno ai rapporti capitalistici di produzione. Quando questa versione del proletariato contemporaneo recepisce la lezione marxista, nega la negazione imperialistica e si afferma come il protagonista storico della liberazione nazionale dal sottosviluppo produttivo. Insomma la Rivolta, per la partecipazione popolare che ebbe, poteva ben essere il principio della rivoluzione meridionale, se il proletariato non fosse stato da sempre solo. Invece, rimasta in mano al nazionalismo dannunziano di Ciccio Franco, si tramutò nel parto di una vecchia, in un aborto politico, nella contorta contrimmagine dell’impresa fiumana. Nicola Zitara

Cefalonia 1943, non tutti eroi. I militari della divisione Acqui si opposero ai tedeschi e molti vennero fucilati dopo la resa. Un libro di Elena Aga Rossi (il Mulino) ricostruisce la vicenda della strage, scrive Paolo Mieli il 4 settembre 2016 su "Il Corriere della Sera". Il 3 gennaio 1945, mentre la Seconda guerra mondiale non si era ancora conclusa, erano trascorsi appena sette mesi da quando gli Alleati avevano liberato Roma e l’Italia rimaneva divisa in due (al Nord Benito Mussolini con la Repubblica di Salò, al Centrosud gli alleati e il governo antifascista presieduto da Ivanoe Bonomi), un ufficiale dell’esercito, Renzo Apollonio, diede appuntamento a don Romualdo Formato per le otto e mezza del mattino, in un bar della capitale, a Porta Pia. Tema del colloquio una versione comune di quel che era accaduto a Cefalonia dove erano stati entrambi quindici mesi prima, tra il 15 e il 22 settembre del 1943. Nell’isola, a seguito dell’armistizio dell’8 settembre, i militari italiani appartenenti alla divisione Acqui, dopo qualche esitazione e una sorta di referendum tra i soldati, avevano rifiutato di arrendersi, si erano scontrati con i tedeschi e in molti erano stati uccisi. A cominciare dal loro comandante, il generale Antonio Gandin. Ma torniamo al bar di Porta Pia. Apollonio e don Formato sono entrambi reduci da quell’esperienza di fine settembre 1943 e il primo, che ha da farsi perdonare d’aver successivamente collaborato con i nazisti, vorrebbe che il sacerdote avallasse la sua versione dei fatti e cioè che era stato lui a spingere alla ribellione contro i tedeschi un recalcitrante Gandin. Don Formato annota sul proprio diario che, di fronte alle sue puntualizzazioni in difesa di Gandin, «Apollonio va su tutte le furie» e «per fortuna ci ha raggiunto un mio amico, professore d’archeologia» perché il colloquio «aveva preso una brutta piega». Anche tra gli storici quello che il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi celebrò nel 2001 come «il primo atto della Resistenza di un’Italia libera dal fascismo», prese fin dall’inizio «una brutta piega». Nel senso che, come ricostruisce Elena Aga Rossi in uno straordinario libro che sta per essere pubblicato dal Mulino, Cefalonia. La resistenza, l’eccidio, il mito, qualcosa non funzionò (e ancora non funziona del tutto) nel racconto di quegli accadimenti di oltre settant’anni fa. A partire dal numero di morti italiani, novemila secondo un comunicato ufficiale della Presidenza del Consiglio emesso nel settembre 1945 (ai tempi era capo del governo Ferruccio Parri) destinato a restare nei libri di storia. «Un dato totalmente fuori dalla realtà», lo definisce la Aga Rossi, che riduce i caduti della divisione Acqui a un numero tra i 1.600 e i 2.500. Il che, precisa la storica, «lungi dallo sminuire il significato della tragedia», attribuisce «al di fuori di mitologie ed esagerazioni, proprio nella sua aderenza al vero, maggior valore al caso di Cefalonia, al sacrificio di quanti — e sono sempre circa duemila italiani — morirono combattendo o fucilati dai tedeschi dopo la resa». In quello che peraltro resta «il più grande massacro commesso dai militari tedeschi nei confronti degli italiani». Come andarono davvero le cose nell’isola greca del Mar Ionio, in quella fine di settembre del 1943? A seguito dell’armistizio, i nazisti intimarono agli italiani di arrendersi e di consegnare le armi; il generale Gandin, dopo aver attentamente valutato le opzioni di cui disponeva, decise di trattare la resa per avere il tempo di ricevere aiuti dagli angloamericani; alcuni dei soldati reagirono però con episodi di insubordinazione a questa tattica temporeggiatrice; qualcuno tra gli ufficiali suggerì di indire un referendum che si tenne e diede luce verde alla ribellione. Che condusse all’ecatombe di cui si è detto. Il ministro degli Esteri Alcide De Gasperi nel novembre del 1945 tenne a sottolineare come l’eccidio di Cefalonia andasse tenuto nel conto di un esempio di «resistenza partigiana». Ma il generale Gandin, che precedentemente era stato definito dal giornale dei comunisti, «l’Unità», un «eroe antifascista», nonostante avesse pagato con la vita il suo eroismo, da qualche mese veniva criticato dallo stesso quotidiano, che contrapponeva la sua presunta «esitazione» alla «determinazione di buona parte dei soldati e dei marinai guidati da alcuni sottufficiali». Padre Formato incontrò il Papa Pio XII, che «assunse un atteggiamento molto prudente, quasi filotedesco» sulla vicenda. E poi il principe Umberto, all’epoca luogotenente del Regno, che espresse una profonda «riconoscenza» verso il generale Gandin e gli uomini della divisione Acqui. Già allora, dunque, i giudizi si divisero. Ma perché a Cefalonia i soldati si ribellarono? Secondo un’indagine militare condotta all’inizio degli anni Sessanta, ciò accadde in seguito a «gravi episodi di sobillazione sediziosa da parte di taluni ufficiali», mentre il generale Gandin era «impegnato nelle trattative con il locale comando tedesco». L’accaduto era riconducibile anche ad «arbitrarie intese segrete con elementi partigiani greci ai quali furono perfino cedute da qualche reparto armi e munizioni». Il rapporto rimproverava, neanche tanto velatamente, a Gandin una «certa debolezza», non già verso i tedeschi, bensì nei confronti di alcuni suoi ufficiali e soldati che in quei giorni avevano fomentato la rivolta. Una debolezza manifestatasi, secondo il rapporto, «con la mancata adozione di severe misure contro i principali responsabili di attività sediziosa e di intemperanze disciplinari». In effetti, ancorché eroica, quella ribellione — sottolinea Aga Rossi — non si configurò come un episodio della Resistenza. Quei soldati consideravano il loro non come «un gesto di eroismo resistenziale», bensì come «la via più diretta per tornare a casa». La vicinanza dell’Italia e la speranza dell’arrivo di aiuti da parte degli anglo-americani ebbero un ruolo fondamentale nel convincere una parte della divisione che, combattendo i tedeschi, sarebbero tornati a casa «prima». Prima di quello che sarebbe stato il loro destino «se avessero accettato di arrendersi». È difficile, prosegue la storica, individuare «nell’azione della truppa la motivazione antifascista presente soltanto in pochi militari che provenivano da famiglie contrarie al regime». Allo stesso modo «sarebbe sbagliato vedere nel cosiddetto referendum una dimostrazione di democrazia». Studiate con attenzione carte edite e inedite, Aga Rossi conclude che «molti reparti non furono interpellati e quelli che lo furono risposero in base al modo in cui era stata posta la domanda e all’autorità del comandante». In che senso? I documenti parlano chiaro: «Anche chi avrebbe voluto cedere le armi o passare dalla parte dei tedeschi accettò e seguì le posizioni dei propri comandanti e della maggioranza dei commilitoni». Quanto poi ai partigiani dell’Elas, la storiografia resistenziale ha proposto «una mitica fratellanza antifascista italo-greca» che nella documentazione non trova riscontro. Anzi. Una volta ricevute le armi dai soldati italiani, i resistenti dell’Elas «non parteciparono ai combattimenti» e nelle relazioni sugli scontri «non si parla di azioni di partigiani se non per il giorno 13 settembre». È vero invece che la propaganda dell’Elas contribuì a diffondere tra gli italiani «l’illusione» che, combattendo, anche con l’ausilio della resistenza greca, si sarebbe «dato tempo alle forze anglo-americane di intervenire e si sarebbe così aperta la strada per il ritorno a casa». Sono a questo punto individuabili responsabilità del governo italiano (in quel momento presieduto da Pietro Badoglio) e degli Alleati in merito a quel che accadde a Cefalonia. Poiché «gli anglo-americani all’inizio non si erano nemmeno posti il problema di fornire aiuti alle isole Ionie», scrive Aga Rossi, «la decisione del governo di ordinare di resistere senza essere in grado di assicurare l’aiuto militare promesso equivalse a una condanna a morte dei resistenti». Gli anglo-americani, «prima impegnati totalmente e con scarse forze nello sbarco a Salerno e poi nel consolidamento dell’occupazione nell’Italia meridionale, si resero conto solo gradualmente della situazione». Quando «presero finalmente in considerazione la possibilità di intervenire e di cogliere l’occasione loro offerta dalla resistenza italiana, era troppo tardi». Lo stesso accadde per la vicina isola di Corfù, dove «la decisione alleata di intervenire arrivò undici giorni dopo l’inizio dei bombardamenti e quando i tedeschi, sbarcati indisturbati, stavano ormai annientando le truppe italiane». Come per altre vicende, scrive Aga Rossi, «anche in questo caso l’uso politico della storia ha favorito l’affermazione di una versione piuttosto che di un’altra a prescindere dal dibattito storiografico su fatti e protagonisti di quegli avvenimenti». Nel clima del secondo dopoguerra c’era «poca disponibilità a valutare caso per caso» l’operato dei comandanti che si consegnarono ai soldati di Hitler. Quelli che si arresero furono ritenuti comunque «corresponsabili della guerra fascista», mentre quelli che si schierarono contro i tedeschi vennero celebrati come eroi. Con qualche eccezione, come quella di Apollonio. Antonio Gandin — il cui operato è in questo libro giudicato sostanzialmente saggio e che pagò con la vita — fu tenuto nel conto di un ufficiale che aveva avuto «un comportamento indeciso e ambiguo al limite della collusione con i tedeschi». Il suo principale oppositore, il tenente Renzo Apollonio, riuscì invece a farsi considerare l’eroe di Cefalonia, nonostante avesse in seguito collaborato con i militari nazisti. Ottenne questo riconoscimento presentandosi come il fomentatore della «rivolta dal basso» dei soldati, cosa che gli valse un importante riconoscimento nel libro Un popolo alla macchia (Res Gestae) del leader comunista Luigi Longo e nella Storia della Resistenza italiana (Einaudi) di Roberto Battaglia. Reso forte da questi giudizi, Apollonio «divenne nel dopoguerra il principale accusatore di Gandin, su cui raccolse un serie di dichiarazioni», e rivendicò il proprio comportamento a Cefalonia come «fondato sull’eroismo e sulla fedeltà ai valori militari, nel quale patria e onore erano incompatibili con la resa». Eppure sono sempre più numerosi gli storici che, ricorda Aga Rossi, evidenziano nella sua successiva collaborazione con i tedeschi e in molti altri episodi «un atteggiamento ambiguo e opportunista». Ma come fu possibile questo pasticcio? Nelle relazioni italiane redatte a guerra finita, spiega la studiosa, vi sono pesanti reticenze. Gli episodi di insubordinazione e di violenza della truppa, che poi emergeranno negli studi successivi, «vengono in genere minimizzati e a volte negati». Le stesse memorie dei protagonisti «appaiono lacunose e ingannevoli». Il costo della rimozione e della connessa volontà di mantenere un mito di Cefalonia — fondato per alcuni aspetti sull’occultamento della verità — «è stato altissimo», scrive Elena Aga Rossi; «fino ad oggi su Cefalonia c’è una memoria divisa, che è passata dai superstiti alle loro famiglie, ha provocato polemiche e il proliferare di versioni contrastanti». Mentre soprattutto per quelli che non sono tornati, «che sono morti facendo fino alla fine il loro dovere e combattendo contro i tedeschi», è ormai tempo «di por termine alle polemiche e di recuperare una memoria per quanto possibile unitaria di una delle prime iniziative della Resistenza, e di certo di quella che ebbe l’esito più drammatico». Come? Forse è più semplice di quanto possa apparire, sostiene Elena Aga Rossi: basta rifarsi alle «due leggi della storia» contenute nel De oratore di Cicerone. La prima è di «non asserire il falso». La seconda «che non si taccia il vero». Bibliografia. Esce il 22 settembre in libreria il saggio di Elena Aga Rossi Cefalonia. La resistenza, l’eccidio, il mito (il Mulino, pagine 272, e 22). A quella controversa vicenda della Seconda guerra mondiale sono stati dedicati molti volumi. Tra i più rilevanti: Gian Enrico Rusconi, Cefalonia. Quando gli italiani si battono (Einaudi, 2004); Giorgio Rochat e Marcello Venturi, La divisione Acqui a Cefalonia (Mursia, 2002). Sul versante tedesco: Hermann F. Meyer, Il massacro di Cefalonia e la 1ª divisione da montagna tedesca (Gaspari, 2013). Da segnalare anche la raccolta di saggi Né eroi né martiri, soltanto soldati, a cura di Camillo Brezzi (il Mulino, 2014). Sul numero dei morti: Massimo Filippini, I caduti di Cefalonia: fine di un mito (Ibn, 2006). Assai critico verso il generale Gandin: Paolo Paoletti, Cefalonia 1943: una verità inimmaginabile (Franco Angeli, 2007).

La politica usa la storia tra feste nazionali e memoria "di Stato". La proliferazione di ricorrenze e leggi chiude la porta a letture differenti dei fatti. E lo dice un uomo che ha subito il peso della Shoah..., scrive Francesco Perfetti, Sabato 14/05/2016, su "Il Giornale". Alcuni anni or sono Pierre Nora, il grande storico accademico di Francia e capostipite di un filone storiografico basato sui «luoghi della memoria», fu l'animatore insieme a René Rémond di un'associazione chiamata «Liberté pour l'histoire» che promosse un appello contro i rischi della «moralizzazione retrospettiva della storia e di una censura intellettuale». Quel documento, firmato da un gruppo di studiosi di formazione diversa da Pierre Milza a Mona Ozouf, da Marc Ferro a Paul Veyne , sosteneva che «la storia non deve essere schiava dell'attualità né essere scritta sotto dettatura da memorie concorrenti» e si rivolgeva ai politici di ogni schieramento perché comprendessero che «se hanno l'obbligo di custodire la memoria collettiva, con devono istituire, con una legge e per il passato, delle verità di Stato la cui applicazione giudiziaria» avrebbe potuto avere «gravi conseguenze per il mestiere dello storico e per la libertà intellettuale in generale». Il documento suscitò molte polemiche ma riscosse anche molti consensi, ed era un autorevole atto d'accusa contro ogni forma di «storia ufficiale» o ideologica, contro la gestione politica della memoria collettiva. Nora è uno studioso di origine ebraica che ha saputo coniugare l'attività di ricerca accademica con il lavoro di direttore editoriale di una importante casa editrice francese. La sua preoccupazione principale è sempre stata quella di contribuire al recupero del senso di appartenenza nazionale da parte dei francesi, troppo a lungo indottrinati dalla versione resistenziale della guerra imposta alla memoria collettiva e nazionale dal generale Charles de Gaulle in un famoso discorso in cui aveva sostenuto che, con l'eccezione di poche pecorelle smarrite, tutta la Francia era entrata nella Resistenza. Per Nora ciò non era vero perché un tale approccio metteva in ombra o sottovalutava tradizioni storiche diverse. Il punto fondamentale, tuttavia, era che l'imposizione di questa vulgata implicava una «politicizzazione della storia» sotto «il peso della contemporaneità» e con una «chiusura nel presente»: si consumava un «allontanamento dal passato» e si realizzava «il consumo generalizzato di una storia senza nessun possibile ricorso alla minima forma di discriminazione critica». In un piccolo ma succoso libro, introdotto da Antoine Arjakosky, dal titolo Come si manipola la memoria. Lo storico, il potere, il passato (La Scuola, pagg. 96, euro 8,50), Nora sottolinea, con riferimento alla Francia (ma il discorso può essere esteso ad altri Paesi), come fossero apparsi nell'ultimo ventennio due fenomeni, paralleli e in certa misura collegati, rivelatori della tendenza mistificatrice a leggere e considerare il passato con gli occhi della contemporaneità e della visione politica dominante. I due fenomeni sono la proliferazione delle ricorrenze nazionali e le leggi sulla memoria storica. Nora ricorda come, fra il 1880 e il 1990, fossero state istituite soltanto sei festività a carattere nazionale (tra le quali quella del 14 luglio e quella dedicata a Giovanna d'Arco), mentre nel solo periodo 1990-2005 ne fossero state create altre sei (come quelle che ricordano le persecuzioni antisemite o la fine della guerra d'Algeria). La differenza tra le prime e le seconde è, a parere dello studioso, netta e sostanziale: «le sei grandi manifestazioni nazionali del XIX e XX secolo costituivano grandi momenti collettivi di tregua nazionale; le sei più recenti non mobilitano che gruppi ristretti ed esprimono soltanto la pressione sul potere da parte dei militanti e il successo delle rivendicazioni sostenute dalle loro associazioni». Il discorso potrebbe essere traslato nella realtà italiana con riferimento a date si pensi, per esempio, al 25 aprile o al 2 giugno che per molti potrebbero apparire più divisive che unificanti. Il secondo fenomeno denunciato da Nora è quello delle cosiddette «leggi sulla memoria» volute o dalla sinistra o dalla destra, gli interventi legislativi cioè che puniscono la negazione del genocidio degli ebrei o condannano lo schiavismo e la tratta degli schiavi e via dicendo. Si tratterebbe, secondo Nora, di una deriva legislativa inquietante e pericolosa, sia perché rischia di «paralizzare la ricerca» e di «ricordare in modo spiacevole le logiche totalitarie», sia perché appare contraria a ogni forma di approccio storiografico. Scrive Nora che questa deriva legislativa esprime «la tendenza a leggere e a riscrivere l'intera storia dal punto di vista esclusivo delle vittime e una propensione, inaccettabile, a proiettare sul passato dei giudizi morali che non appartengono che al presente, senza tenere nella minima considerazione quella differenza tra periodi storici che è lo stesso oggetto della storia, la ragione del suo apprendimento e del suo insegnamento». Naturalmente Nora, la cui esistenza è stata marcata profondamente dalla Shoah, pur diffidando della legislazione francese contro il negazionismo, non propone una messa in discussione di tale normativa, perché questa ipotesi potrebbe essere vista come un incoraggiamento per chi nega il genocidio. Avverte però che il rapporto fra storia e politica è molto delicato. I politici, a suo parere, hanno il dovere di interessarsi del passato per comporre la memoria collettiva riparando i torti subiti dalle vittime e onorandone la memoria, ma «non attraverso leggi che definiscano i fatti e ne scrivano la storia». Il compito di stabilire i fatti e di cercare la verità è essenzialmente dello storico. Quella di Nora è una riflessione sofferta da parte di uno studioso di grande e riconosciuto spessore il quale, partito dalla storiografia delle Annales, è approdato, attraverso la critica alla storiografia positivistica e a quella marxista, ai lidi di una Nouvelle Histoire dai confini più ampi che recupera l'insegnamento di Marc Bloch. È una riflessione che, rifiutando le vulgate storiografiche di ogni colore e volendo liberare la ricerca dai condizionamenti del potere politico, nasce da profondo di uno spirito autenticamente libero e liberale.

Il plebiscito del Veneto fu una truffa ma la sinistra non vuole dirlo. Un saggio diffuso dalla Regione Veneto dice la verità sul plebiscito di annessione del 1866. Ed è subito polemica, scrive Carlo Lottieri, Venerdì 02/09/2016, su "Il Giornale". È polemica: ed è bene che sia così. La diffusione di un volume di Ettore Beggiato (1866: la grande truffa. Il plebiscito di annessione del Veneto all'Italia, Editrice Veneta) sul modo in cui il Veneto 150 anni fa è stato «italianizzato» dopo la terza guerra d'indipendenza, a seguito di un referendum truffaldino, disturba gli intellettuali progressisti. Sul quotidiano veronese L'Arena ieri si riportavano alcune prese di posizione negative nei riguardi del libro. Secondo Carlo Saletti saremmo di fronte a «un uso distorto della storia», piegata a ragioni politiche. Una tesi condivisa da Federico Melotto, direttore dell'Istituto veronese della storia della Resistenza, per il quale con questo volume «si vuole dare un messaggio politico partendo dal plebiscito per lanciare una critica all'Italia di oggi». Il tono è di contestazione, ma con ogni probabilità l'autore sarebbe in parte d'accordo. Già assessore regionale e appassionato cultore della storia della Serenissima, Beggiato si propone di smontare la lettura tradizionale di una popolazione veneta ben felice di lasciare l'Impero asburgico per unirsi alle popolazioni italiche. Il volume è tutt'altro che paludato: vuole interessare e farsi leggere. Chi l'ha scritto, per giunta, non cela in alcun modo la propria speranza che Venezia e gli altri territori possano presto decidere del proprio futuro (con un referendum democratico), tornando indipendenti come furono per secoli. Beggiato ha insomma esaminato il passaggio storico del 21 e 22 ottobre 1866 per illuminare l'attualità: per far comprendere ai veneti di oggi per quale motivo devono pagare le tasse a Roma, e non a Vienna. Guarda il passato per criticare il presente, senza dubbio. Ma dove sarebbe il problema? Non è forse utile leggere la storia per capire il nostro tempo? I due studiosi evocano controverse questioni di metodologia, ma le loro parole lasciano perplessi: specie pensando che per Benedetto Croce ogni storiografia è contemporanea, dato che il passato ci interessa in quanto esso ha di tuttora vivo. Una cosa non viene detta da Saletti, né da Melotti: che Beggiato racconti falsità. Il libro, in effetti, è inattaccabile e il plebiscito fu un inganno da ogni punto di vista. Non fu garantito l'anonimato, votarono soggetti che non ne avevano titolo (i soldati italiani di stanza in Veneto, ad esempio) e, soprattutto, i dati resi noti non possono corrispondere ai voti reali. È significativo che gli storici «accademici» nulla contestino, sul piano dei fatti, a quanto Beggiato afferma, né difendano la regolarità del referendum: anche perché si renderebbero ridicoli. Di fronte a risultati ufficiali che parlano di 647.246 voti favorevoli e solo 69 voti contrari (l'equivalente del 99,9%), chi conosce cosa sia l'errore statistico sa che l'annessione del Veneto all'Italia fu costruita su un imbroglio. Un argomento è usato dai due storici contro il volume di Beggiato: ed è la decisione della Regione di regalarlo alle biblioteche del Veneto, anche scolastiche. La critica potrebbe avere una sua plausibilità (può un ente pubblico sostenere un'iniziativa culturale di parte?) se solo non sapessimo che le scuole pubbliche sono «apparati ideologici di Stato», per usare la formula del marxista Louis Althusser: sono da sempre realtà schierate a difesa del potere vigente e delle sue retoriche (dal Risorgimento alla Resistenza, dall'ecologia all'Europa, dalla solidarietà alla legalità). È allora soltanto positivo che una pecora nera come Beggiato trovi spazio tra tante pecore bianche, che belano tutte nello stesso modo. È poi interessante rilevare come per Melotto il referendum fosse sì ridicolo, ma perché tale doveva essere: «L'annessione fu decisa dal punto di vista diplomatico», dato che «il plebiscito serviva a sancire una situazione di fatto». Fu insomma una truffa, come dice Beggiato, ma «non può essere definito scandaloso questo modo di procedere perché nell'800 era la diplomazia a prendere le decisioni, non il popolo». Per Melotto non ci si deve proprio scandalizzare se nell'Ottocento la gente non contava e neppure a questo punto se in varie parti del mondo c'era ancora la schiavitù. Se però i veneti conoscessero meglio la loro storia, forse anche certa retorica nazionalista avrebbe assai meno presa. E questo sarebbe solo positivo.

Così l'Italia vinse la guerra perdendo tutte le battaglie. Grazie alla Prussia ottenemmo il Veneto e parte del Friuli. Ma il disastro militare ci segnò per sempre, scrive Matteo Sacchi, Mercoledì 20/07/2016 su "Il Giornale". Si può vincere una guerra perdendone quasi tutte le battaglie. Si può anche scatenare, a cose fatte, uno psicodramma che trasformi due scontri finiti male, ma senza reali conseguenze, in un dramma nazionale con tanto di processi eccellenti, e privi di qualunque equità. Poi si può continuare a sentirsi defraudati per anni della dignità nazionale e mascherare il tutto sotto un'enorme dose di retorica che esalti il sacrificio, senza però prendersi la briga di indagare sulle magagne della propria macchina bellica. Andò così nella Terza guerra di indipendenza italiana (durata dal giugno all'ottobre 1866) di cui ricorrono i 150 anni. Una bella e approfondita analisi di quel conflitto la compie Hubert Heyriès (storico militare dell'università Montpellier III) nel suo Italia 1866. Storia di una guerra perduta e vinta (Il Mulino, pagg. 348, euro 25). Il saggio racconta come l'Italia fu abile diplomaticamente a intuire le potenzialità della montante tensione tra l'Austria e la Prussia del cancelliere Bismarck (1815-98). Era l'occasione giusta per liberarsi della presenza asburgica nella Penisola. Con i buoni uffici di Napoleone III, il conte Giulio Cesare di Barral e il generale Giuseppe Govone apposero la loro firma, in nome dell'Italia, su un trattato offensivo valido unicamente per 3 mesi. Era l'8 aprile 1866. L'Austria si sarebbe trovata chiusa in mezzo a una tenaglia di ferro. Combattere su due fronti l'avrebbe quasi di sicuro costretta alla sconfitta. Sin qui la parte logica del piano, a prescindere delle immediate diffidenze tra Firenze (allora era la capitale) e Berlino. Così il 20 giugno Vittorio Emanuele II diede ottimisticamente il via alle ostilità: «Voi potete confidare nelle vostre forze, italiani, guardando orgogliosi il florido esercito e la formidabile marina...». E su questo ottimismo si allineò subito tutta la nazione. L'entusiasmo portò con sé - come spiega Heyriès - due ulteriori buoni risultati. La mobilitazione fu rapidissima e Garibaldi si vide piombare addosso un gran numero di volontari che usò nel modo che gli era più consono: attaccare verso in Trentino in un territorio frastagliato e montagnoso. Per un genio indiscusso della guerriglia era l'ideale. Ma fuori dalle montagne trentine la macchina bellica italiana iniziò a mostrare tutti i suoi limiti. La Prussia premeva per un attacco rapido. Per colpire efficacemente a nord le serviva che le truppe austriache fossero impegnate a sud. Ma gli italiani si trovavano di fronte le fortezze del Quadrilatero e nessuno aveva sviluppato un vero piano per superarle. Un attacco dal mare con sbarco, a partire dalla netta superiorità navale italiana, era un qualcosa di cui si era solo fantasticato. Le nostre navi erano eterogenee (quanto gli equipaggi nati fondendo tre marine) e non certo adatte a un attacco di questo tipo. Così l'enorme esercito italiano (per la prima volta il Paese aveva un esercito di massa) nel dubbio e senza un chiaro piano d'attacco fu schierato in due tronconi. Centoventimila fanti e 7mila cavalieri sul Mincio comandati dal generale La Marmora. Altri 64mila fanti e 3500 cavalieri affidati invece al generale Enrico Cialdini sulla linea del Po. Gli Austriaci erano in netta minoranza numerica ma ebbero così la possibilità di giocare sulla velocità per colpire uno dei due tronconi. A questo si sommò la deficienza logistica degli italiani. Risultò un problema persino fornire le coperte. Oltre il fatto che molti soldati non avevano mai combattuto, o soltanto contro i «briganti». In più, la litigiosità degli alti ufficiali...Le truppe di La Marmora, mentre cercavano di sorprendere gli austriaci oltre l'Adige, si fecero sorprendere dal nemico appena passato il Mincio. Ne nacque uno scontro disordinato: la seconda battaglia di Custoza. Nonostante tutto gli italiani si batterono bene. Gli Ulani del battaglione «Conte di Trani» e la brigata di Cavalleria di Ludwig von Pulz vennero massacrati a Villafranca dal quadrato di fucilieri comandato dal principe Umberto. I granatieri sul Monte Torre e sul Monte Croce fecero pagare agli austriaci ogni palmo di terra. Ma nel momento più critico alcuni ufficiali, come il generale Della Rocca, non inviarono rinforzi, seppur richiesti nella zona più a rischio, Custoza. Il risultato fu che le truppe italiane dovettero ritirarsi. Gli austriaci non le inseguirono: avevano subito colpi altrettanto gravi. Gli italiani avevano perso tra morti, feriti, e prigionieri 7.403 uomini. Gli austriaci 7.956. Ma era il morale degli italiani a essere crollato. E le cose peggiorarono ancora quando i Prussiani travolsero gli austriaci a Sadowa, il 3 luglio. Ne nacque una sorta di psicosi: bisognava vincere «qualcosa» al più presto. E così ci si rivolse alla Marina. Gli italiani cercarono di attirare la flotta del contrammiraglio Tegetthoff verso Ancona. L'austriaco sapeva fare il suo mestiere e non uscì dal porto. Allora il ministro Depretis piombò ad Ancona e «sobillò» contro l'ammiraglio Carlo Pellion di Persano i suoi diretti e gelosissimi sottoposti, l'ammiraglio Vacca e l'ammiraglio Albini. Il risultato fu che venne allestito in fretta e furia l'attacco all'isola di Lissa che era ben fortificata e per di più collegata via telegrafo. Fu lì che la flotta austriaca subito allertata piombò sulle navi italiane. Anche in questo caso lo scontro (l'anniversario è oggi, 20 luglio) non era perduto a priori, anzi, alcune navi austriache come la «S.M.S. Kaiser» se la videro brutta. Ma se i rapporti tra Persano, Albini e Vacca erano pessimi in condizioni normali, si rivelarono tragici in battaglia. Le reazioni di Persano furono confuse, ma anche quando diede ordini chiari i suoi sottoposti si sforzarono di eluderli. Bilancio di 37 minuti di battaglia: l'affondamento della «Re d'Italia» e della «Palestro» e la morte di 638 marinai. Se Custoza era una quasi sconfitta trasformata in disfatta dalla stampa, Lissa fu una sconfitta senza se senza ma. Lo choc fu fortissimo e non bastarono i successi di Garibaldi in Trentino ad anestetizzarlo. Men che meno l'annessione del Veneto e del Friuli sprezzantemente ceduti dall'Austria alla Francia e dalla Francia a noi (a mezzo plebiscito) che pure fu indubitabilmente un grandissimo passo verso la completa unificazione del Paese. Gli italiani incorporarono un senso di fragilità militare che non hanno mai smesso di portarsi dietro. E per colmarlo misero sotto processo l'ammiraglio Persano che fu radiato dalla Marina. Ma quale fosse la differenza tra lui e gli altri ammiragli che gli avevano messo i bastoni tra le ruote nel bel mezzo dello scontro non fu mai chiarito. Sulle responsabilità degli ufficiali del Regio esercito invece ci si limitò alle polemiche velenose. Anche questo lavacro di coscienza collettivo a mezzo capro espiatorio si trasformò in una brutta prassi nazionale. Anzi forse è il cascame, sociologico, più grave di questa guerra vinta senza vincere.

La truffa dell’Unità d’Italia. La propaganda è sempre esistita ogni qual volta c'è stato un potere organizzato che ha operato su una massa di popolazione relativamente concentrata. Poteva trattarsi o d'integrare maggiormente i gruppi e gli individui nella società, o di stabilire la legittimità del potere politico, o di ottenere un determinato numero di comportamenti e di adesioni, o infine di lottare contro le influenze esterne. La propaganda delle società tradizionali, tuttavia, non presentava gli stessi caratteri della propaganda moderna. Si trattava allora di una propaganda generalmente legata a una persona, un capo carismatico, un propagandista che agiva per intuizione, per abilità personale. Era dunque un fenomeno occasionale e limitato, che appariva e scompariva a seconda delle circostanze. Si trattava sempre d'interventi circoscritti, fondati spesso su sentimenti religiosi, e che non presentavano nessun carattere di razionalità o, ancora meno, di tecnicità. (Enciclopedia Traccani)

Si dice che Mazzini sia stato anti monarchico e anti Savoia, scrive Giovanni Greco, su questo nutro dubbi in quanto lo reputo un massone per conto della Regina in Gran Bretagna! Un paradosso tutto Repubblicano; comunque Mazzini, ad esempio, appoggiò moralmente la spedizione dei Mille di Giuseppe Garibaldi, che egli considerava una valida opposizione a Cavour. Quindi si giungerà all'Unità d'Italia. In seguito numerosi repubblicani confluiranno nei Fasci di combattimento di epoca ormai Mussoliniana. E se ho ricostruito bene i fatti - mi auguro di non sbagliare - il progetto mazziniano era teso a favorire gli interessi inglesi nei traffici commerciali del tempo, che erano legati ai cavalli, alle carrozze, alle mongolfiere, alle navi e ai treni. Infatti il predominio nelle comunicazioni era di fondamentale importanza per l'epoca oltre ad essere stata una decisione iniziale delle famiglie di banchieri ebreo/tedesche/americane dei Rothschild e dei Rockefeller, i quali avevano finanziato la Regina inglese per l'invasione del Regno dei Borbone. Bene Mazzini, dopo la conquistata del Regno delle Due Sicilie, potè favorire i commerci della famosa "Valigia delle Indie"; e il re Borbone e le sue terre infatti erano l'unico impedimento al progetto originario dei Rothschild. Gli stessi Rothschild che con il gruppo Bilderberg regnano tutt'ora le pagine della real politik e delle primavere arabe e degli autunni italiani del III millennio.

Ciò che la storia ha sempre cercato di insabbiare. Tutti noi siamo soliti considerare l’Unità d’Italia una grande impresa e Giuseppe Garibaldi un grande eroe. Ma è davvero così? Scrive Enrico Novissimo per Collana Exoterica. Il processo che portò all’Unità d’Italia vide come protagonisti una lunga fila di uomini più o meno celebri, i cosiddetti padri del Risorgimento. Ancora oggi infatti, se si va dal nord al sud dell’’Italia, troviamo piazze o vie principali che si fregiano di nomi illustri come Garibaldi, Mazzini, Cavour, Vittorio Emanuele ecc … Consideriamo infatti questi personaggi dei veri eroi, raffigurati dagli artisti che ne esaltano il loro valore in maniera da rafforzare il mito che li circonda; innumerevoli sono infatti le opere d’arte che ritraggono l’eroe dei due Mondi ora a cavallo, ora in piedi che impugna alta la sua spada, alcune volte indossando la celebre camicia rossa, altre volte reggendosi su un paio di stampelle come un martire. Tuttavia un ritratto che di certo non vedremo mai vorrebbe il Gran Maestro massone, Giuseppe Garibaldi (ebbene sì, che lo crediate o no era massone, così come Cavour e forse Mazzini), privo dei lobi delle orecchie. Sembra incredibile eppure la vicenda sembra vera. Al nostro “falso” eroe furono davvero mozzate le orecchie; la mutilazione avvenne esattamente in Sud America, dove l’intrepido Garibaldi fu punito per furto di bestiame. Dunque il grande Garibaldi, icona della spedizione dei Mille e dell’’Unità italiana sarebbe stato un ladro di cavalli? Difficile crederlo. Naturalmente nessuna fonte ufficiale racconta questa vicenda. È dunque lecito chiedersi quante altre accuse infanghino le gesta degli eroi risorgimentali? Quante altre macchie vennero lavate a colpi d’inchiostro da una storiografia corrotta e pilotata? Ma soprattutto, quale fu il ruolo dei banchieri Rothschild nel processo di Unità d’Italia? La Banca Nazionale degli Stati Sardi era sotto il controllo di Camillo Benso conte di Cavour, grazie alle cui pressioni divenne una autentica Tesoreria di Stato; difatti era l’unica banca ad emettere una moneta fatta di semplice carta straccia. Inizialmente la riserva aurea ammontava ad appena 20 milioni di lire, ma questa somma ben presto sfumò perché reinvestita nella politica guerrafondaia dei Savoia. Il Banco delle Due Sicilie, sotto il controllo dei Borbone, possedeva invece un capitale enormemente più alto e costituito di solo oro e argento: una riserva tale da poter emettere moneta per 1.200 milioni ed assumere così il controllo dei mercati. Cavour e gli stessi Savoia avevano ormai messo in ginocchio l’economia piemontese, si erano indebitati verso i Rothschild per svariati milioni e divennero in breve due burattini nelle loro mani. Fu così che i Savoia presero di mira il bottino dei Borbone. La rinascita economica piemontese avvenne mediante un operazione militare espansionistica a cui fu dato il nome in codice di Unità d’Italia, un classico esempio di colonialismo mascherato però come un movimento patriottico. L’intero progetto fu diretto dalla massoneria britannica, vero collante del Risorgimento. Non a caso i suddetti eroi furono tutti rigorosamente massoni. La storia ufficiale racconta che i Mille guidati da Giuseppe Garibaldi, benché disorganizzati e privi di alcuna esperienza in campo militare, avrebbero prevalso su un esercito di settanta mila soldati ben addestrati e ben equipaggiati quale era l’esercito borbonico. In realtà l’impresa di Garibaldi riuscì solo grazie ai finanziamenti dei banchieri Rothschild; attraverso i soldi dei Rothschild, infatti, i Savoia corruppero gli alti ufficiali dell’esercito borbonico che alla vista dei Mille batterono in ritirata, consentendo così la disfatta sul campo. Dunque non ci fu mai una vera battaglia. Neppure la storiografia ufficiale ha potuto insabbiare le prove del fatto che molti ufficiali dell’esercito borbonico furono condannati per alto tradimento alla corona. Il Sud fu presto invaso e depredato di ogni ricchezza: in questa situazione gli stupri, le esecuzioni di massa e le violenze di ogni genere erano all’ordine del giorno. L’unica alternativa per scampare a questo fu l’emigrazione. Il popolo cominciò così a lasciare le campagne per trovare altrove una via di fuga. Ben presto il malcontento generale fomentò la ribellione dei sopravvissuti; si trattava di poveri contadini e gente di fatica che la propaganda savoiarda bollò con il dispregiativo di “briganti”, così da giustificarne la brutale soppressione. A 150 anni di distanza si parla ancora di “questione meridionale”. Enrico Novissimo per Collana Exoterica

Cavour e gli stessi Savoia avevano messo in ginocchio l’economia piemontese, indebitata verso i Rothschild per svariati milioni, scrive Enrico Novissimo. Divennero due burattini nelle loro mani. Fu così che i Savoia presero di mira il bottino dei Borbone. La rinascita economica piemontese avvenne mediante un operazione militare espansionistica a cui fu dato il nome in codice di Unità d’Italia, un classico esempio di colonialismo sotto mentite spoglie. L’intero progetto fu diretto dalla massoneria britannica, vero collante del Risorgimento. Non a caso i suddetti eroi furono tutti rigorosamente massoni. "I Mille" guidati da Giuseppe Garibaldi, benché disorganizzati e privi di alcuna esperienza in campo militare, avrebbero prevalso su un esercito di settanta mila soldati ben addestrati e ben equipaggiati quale era l’esercito borbonico. In realtà l’impresa di Garibaldi riuscì solo grazie ai finanziamenti dei Rothschild, con i loro soldi i Savoia corruppero gli alti ufficiali dell’esercito borbonico che alla vista dei Mille batterono in ritirata, consentendo così la disfatta sul campo. Dunque non ci fu mai una vera battaglia, neppure la storiografia ufficiale ha potuto insabbiare le prove del fatto che molti ufficiali dell’esercito borbonico furono condannati per alto tradimento alla corona. Il sud fu presto invaso e depredato di ogni ricchezza, l’oro dei Borbone scomparve per sempre. Stupri, esecuzioni di massa, crimini di guerra e violenze di ogni genere erano all’ordine del giorno. L’unica alternativa alla morte fu l’emigrazione. Il popolo cominciò a lasciare le campagne per trovare altrove una via di fuga. Ben presto il malcontento generale fomentò la ribellione dei sopravvissuti, si trattava di poveri contadini e gente di fatica che la propaganda savoiarda bollò con il dispregiativo di “briganti”, così da giustificarne la brutale soppressione.

La spedizione dei Mille è stato uno degli eventi cruciali per l’unificazione d’Italia. Ai tempi non c'era internet ma il telegrafo, Parigi era la Borsa di riferimento e i prestiti erano erogati dalle grandi famiglie dei banchieri e non dall’Fmi. Eppure mercati finanziari e debito pubblico ebbero un ruolo nello sgretolamento del regno borbonico e nel successo dei garibaldini. E, col senno di poi, è un po’ come se Garibaldi avesse detto obbedisco! non solo al re Vittorio Emanuele, ma anche ai Rothschild, scrive Luciano Canova. Studiando la serie storica delle quotazioni del debito pubblico borbonico, durante il 1860, è possibile rispondere a una domanda assai interessante, anche per i suoi riflessi attuali: i mercati finanziari dell’epoca avevano scontato la spedizione dei Mille? Indubbiamente, i mercati anticipano accadimenti incerti, che valutano attraverso la lente deformante delle aspettative. Se, però, nell’era di Internet, i mezzi di comunicazione consentono un aggiornamento immediato di quello che avviene ai piani alti, è lecito chiedersi se le cose funzionassero in modo simile anche in passato, in particolare per un evento che ha segnato la storia di questa penisola. Un’analisi è possibile andando a recuperare le quotazioni giornaliere della rendita di Sicilia del 1860, pubblicate sulla pagina commerciale del quotidiano dei Borbone, Il Giornale Ufficiale del Regno delle Due Sicilie, conservate presso l’Archivio storico municipale del comune di Napoli e presso l’Archivio storico della Fondazione Banco di Napoli. Come riportato dal lavoro La borsa di Napoli di Maria Carmela Schisani, anche nel diciannovesimo secolo esisteva una borsa valori in cui venivano negoziati titoli, prevalentemente del debito pubblico, dei vari stati. La borsa venne istituita a Napoli nel 1788 da Ferdinando I di Borbone e attraversò la storia del regno delle Due Sicilie fino al 1860, con la caduta di Francesco II. Il titolo del debito pubblico era emesso in ducati, la moneta del regno, e aveva una rendita fissa del 5 per cento alla scadenza. Parigi costituiva la Wall Street dell’epoca e sui suoi valori risultavano agganciate le quotazioni dei titoli napoletani. Come a dire che lo spread si sarebbe misurato sui titoli francesi. La finanza, allora, era organizzata attorno a grandi famiglie: un ruolo di primo piano, in particolare, fu esercitato dai Rothschild, che erogarono ai Borbone diversi prestiti nel corso della loro storia. In sostanza, la famiglia di banchieri agiva come una sorta di Fondo monetario internazionale ante litteram, che garantiva prestiti onerosi dietro l’impegno ad approvare riforme politiche e fiscali rigorose da parte dei beneficiari. Non è un caso se Ferdinando II, re di Napoli dal 1830, iniziò un programma radicale di modernizzazione del regno proprio in concomitanza con uno di questi prestiti. E non è un caso che, dopo il 1848, il regno cominciò a sfaldarsi, anche per via del disimpegno dei Rothschild stessi dalle finanze partenopee. Tornando all’avventura garibaldina, poco prima dell’inizio della spedizione, il titolo del debito pubblico borbonico raggiunse il suo massimo: 120,06 ducati nel 1857. Si tratta di una fase che potremmo considerare come una sorta di bolla speculativa. Prima dell’inizio della spedizione dei Mille, l’Europa guardava al Regno delle Due Sicilie come a una monarchia in crisi irreversibile. Si trattava soltanto di capire di che morte il regno dovesse morire, un po’ come capitato con la fine del governo Berlusconi. Il grafico in alto (visibile qui) mostra l’andamento della serie delle quotazioni giornaliere del debito pubblico borbonico durante il 1860. La retta verticale segna l’inizio della spedizione. Come è possibile evincere, le quotazioni del debito crollano con l’avanzare dei garibaldini. La spedizione di Garibaldi è un’impresa decisamente non lineare, che procede per salti discreti. Indubbiamente, da un punto di vista numerico, lo scontro appariva impari: un migliaio di volontari, male armati e peggio equipaggiati, contro le 100mila unità di cui contava, almeno sulla carta, l’esercito regolare di Francesco II. Seguire la spedizione attraverso le contrattazioni sul mercato ci consente di fare luce, in un modo assai originale, sull’evento... Dallo sbarco avvenuto a Marsala l11 maggio alla battaglia di Calatafimi, quattro giorni dopo (il primo grosso smacco per l’armata borbonica) il titolo perse 4,4 punti percentuali. Dopo Calatafimi, i Mille puntarono verso Palermo, dove, a protezione della città, stava il grosso del contingente borbonico sull’isola (25 mila unità). In pratica, Garibaldi conquistò la città senza combattere, sfruttando insieme la sua abilità tattica e la disorganizzazione delle truppe regie, guidate da Ferdinando Lanza. Al 19 giugno, data di caduta della città, il titolo aveva perso 10 punti percentuali, fermo a 103 ducati. Luglio fu sostanzialmente un mese di stasi: i garibaldini si organizzarono in Sicilia mentre, allo stesso tempo, pianificavano lo sbarco in continente; i borbonici, a Napoli, preparavano invece la controffensiva. Questa incertezza si concretizzò, non casualmente, in un periodo di immobilismo delle contrattazioni, con il titolo che reagisce, sì, alla battaglia di Milazzo (19 luglio) perdendo altri 5,5 punti percentuali (96 ducati), ma rimane, poi, sostanzialmente stabile, un po’ come lo spread italiano oggi, fermo da giorni sulla soglia dei 500 punti. Dallo sbarco in Calabria e fino alla caduta di Napoli e del Regno, con la battaglia del Volturno che si conclude il 1° ottobre 1860, e l'incontro tra Garibaldi e Vittorio Emanuele II a Teano il 26 ottobre, il valore del titolo scese a 87 ducati, con una perdita di altri 9,2 punti percentuali. Il crollo si arrestò nel momento in cui i Savoia proclamarono ufficialmente che, con l'istituzione del Gran Libro del Debito Pubblico, avrebbero onorato il pagamento del debito anche degli Stati pre-unitari annessi, da vero e proprio last resort lender. Il titolo borbonico, da quel momento, andò assestandosi sui valori della rendita sabauda. La scaltrezza di Cavour e della casa regnante di Torino, dapprima informalmente ostili all'avventura garibaldina e, successivamente, pronti a sfruttare l'opportunità politica offerta dal successo della spedizione, si riflesse nei corsi del debito, che fotografano come in un elettrocardiogramma le pulsazioni della finanza dell'epoca, pronta a sintonizzarsi sui ritmi di un cuore Savoia. A nulla valsero le promesse di riforma costituzionale di Francesco II, dopo il 25 giugno 1860. A nulla servì la controinformazione del regno, ben evidenziata dal Giornale Ufficiale del Regno delle Due Sicilie, che parlava di brillanti successi dell'esercito regio contro una masnada di filibustieri, proprio mentre i buoni del tesoro, inesorabili, cadevano sotto gli occhi della casa regnante in crisi. Uno degli aspetti più interessanti di questa straordinaria vicenda è appunto l'informazione, che aumentò l'incertezza attorno all'evento e, con essa, le fibrillazioni del mercato internazionale. I bookies dell'epoca avrebbero avuto le loro difficoltà a scommettere sugli eventi. Era chiara, da un lato, la decadenza del regno borbonico; meno chiara, la via d'uscita: un trionfo elettorale della coalizione Garibaldi-Mazzini o un governo tecnico Cavour, per rassicurare i mercati? Col senno di poi, è un po come se Garibaldi avesse detto obbedisco! non solo al re Vittorio Emanuele, ma anche ai Rothschild.

LUCIANO CANOVA. Docente e ricercatore alla Scuola Enrico Mattei, dove insegna i corsi di Economia Sperimentale e di Comunicazione Scientifica al Master MEDEA (Management dell’Economia dell’Ambiente e dell’Energia). Ha studiato Economia a Milano, laureandosi al DES in Bocconi nel 2002. Ha conseguito un master in Development Economics alla University of Sussex e il dottorato in Economia all’Università Cattolica del Sacro Cuore. Per due anni, è stato post-doc alla Paris School of Economics. iProf di Economia della felicità su Oilproject.org, collabora con diverse testate di divulgazione scientifica.  

Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.

Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.

La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868) 

Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.

27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia. 

11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta". 

15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura. 

27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia. 

30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani. 

31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare. 

2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo. 

17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio. 

10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.

21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore". 

1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”. 

1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.

8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia. 

15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)

1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera. 

1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta. 

1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi. 

1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc. 

4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola. 

Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6:  “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.

Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.

Si può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali. Ad oggi, per esempio, sappiamo che lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più gli avversari politici; i magistrati di destra insabbiano di più le accuse contro i loro amici e colleghi. E poi. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. "Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni". Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

LADRI ED ASSASSINI. MAFIOSI E MASSONI.

Giovanni Falcone: «La mafia non è affatto invincibile; è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine. Piuttosto, bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave; e che si può vincere non pretendendo l'eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni...La mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine. Spero solo che la fine della mafia non coincida con la fine dell'uomo. Se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia. A questa città vorrei dire: gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini...L'importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio ma incoscienza...Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l'impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad...Se poni una questione di sostanza, senza dare troppa importanza alla forma, ti fottono nella sostanza e nella forma...Credo che ognuno di noi debba essere giudicato per ciò che ha fatto. Contano le azioni non le parole. Se dovessimo dar credito ai discorsi, saremmo tutti bravi e irreprensibili...Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno...Chiunque è in grado di esprimere qualcosa deve esprimerlo al meglio. Questo è tutto quello che si può dire, non si può chiedere perché. Non si può chiedere ad un alpinista perché lo fa. Lo fa e basta. A scuola avevo un professore di filosofia che voleva sapere se, secondo noi, si era felici quando si è ricchi o quando si soddisfano gli ideali....Tre magistrati vorrebbero oggi diventare procuratore della Repubblica. Uno è intelligentissimo, il secondo gode dell’appoggio dei partiti di governo, il terzo è un cretino, ma proprio lui otterrà il posto. Questa è la mafia...Temo che la magistratura torni alla vecchia routine: i mafiosi che fanno il loro mestiere da un lato, i magistrati che fanno più o meno bene il loro dall'altro, e alla resa dei conti, palpabile, l'inefficienza dello Stato...Se un pentito rivela che un candidato è stato aiutato dalla mafia per interessamento di un alto esponente del suo partito, che invece risulterebbe un suo avversario, la rivelazione batte la logica, e si va avanti lo stesso... La certezza è che così non si fa un passo avanti nella dura lotta alla mafia...Perché una società vada bene, si muova nel progresso, nell'esaltazione dei valori della famiglia, dello spirito, del bene, dell'amicizia, perché prosperi senza contrasti tra i vari consociati, per avviarsi serena nel cammino verso un domani migliore, basta che ognuno faccia il suo dovere...L'impegno dello Stato nella lotta alla criminalità organizzata è emotivo, episodico, fluttuante. Motivato solo dall'impressione suscitata da un dato crimine o dall'effetto che una particolare iniziativa governativa può suscitare sull'opinione pubblica...Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere...Come evitare di parlare di Stato quando si parla di mafia?...Io dico che bisogna stare attenti a non confondere la politica con la giustizia penale. In questo modo, l'Italia, pretesa culla del diritto, rischia di diventarne la tomba...Il P.M. non deve avere nessun tipo di parentela con il giudice e non deve essere, come invece oggi è, una specie di paragiudice. Chi, come me, richiede che (giudice e P.M.) siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell'indipendenza del Magistrato, un nostalgico della...La magistratura ha sempre rivendicato la propria indipendenza, lasciandosi in realtà troppo spesso irretire surrettiziamente dalle lusinghe del potere politico. Sotto la maschera di un'autonomia formale, il potere ci ha fatto dimenticare la mancanza di un'autonomia reale. Abbiamo sostenuto con passione la tesi del pubblico ministero indipendente...Per lungo tempo si sono confuse la mafia e la mentalità mafiosa, la mafia come organizzazione illegale e la mafia come semplice modo di essere. Quale errore! Si può benissimo avere una mentalità mafiosa senza essere un criminale..Nei momenti di malinconia mi lascio andare a pensare al destino degli uomini d’onore: perché mai degli uomini come gli altri, alcuni dotati di autentiche qualità intellettuali, sono costretti a inventarsi un’attività criminale per sopravvivere con dignità?... La mescolanza tra società sana e società mafiosa a Palermo è sotto gli occhi di tutti e l'infiltrazione di Cosa Nostra costituisce la realtà di ogni giorno...Ci si dimentica che il successo delle mafie è dovuto al loro essere dei modelli vincenti per la gente. E che lo Stato non ce la farà fin quando non sarà diventato esso stesso un «modello vincente»...Entrare a far parte della mafia equivale a convertirsi a una religione. Non si cessa mai di essere preti. Né mafiosi...La mafia si caratterizza per la sua rapidità nell'adeguare valori arcaici alle esigenze del presente, per la sua abilità nel confondersi con la società civile, per l'uso dell'intimidazione e della violenza, per il numero e la statura criminale dei suoi adepti, per la sua capacità ad essere sempre diversa e sempre uguale a se stessa...“Il dialogo Stato/mafia, con gli alti e bassi tra i due ordinamenti, dimostra chiaramente che Cosa Nostra non è un anti-Stato, ma piuttosto una organizzazione parallela...»

Paolo Borsellino: «La lotta alla mafia dev’essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità...Se la gioventù le negherà il consenso, anche l'onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo...Non ho mai chiesto di occuparmi di mafia. Ci sono entrato per caso. E poi ci sono rimasto per un problema morale. La gente mi moriva attorno...Non sono né un eroe né un Kamikaze, ma una persona come tante altre. Temo la fine perché la vedo come una cosa misteriosa, non so quello che succederà nell'aldilà. Ma l'importante è che sia il coraggio a prendere il sopravvento... Se non fosse per il dolore di lasciare la mia famiglia, potrei anche morire sereno...È bello morire per ciò in cui si crede; chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola...La paura è umana, ma combattetela con il coraggio...Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell'amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare...Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene...A fine mese, quando ricevo lo stipendio, faccio l'esame di coscienza e mi chiedo se me lo sono guadagnato...Guardi, io ricordo ciò che mi disse Ninnì Cassarà allorché ci stavamo recando assieme sul luogo dove era stato ucciso il dottor Montana alla fine del luglio del 1985, credo. Mi disse: "Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano"... È normale che esista la paura, in ogni uomo, l'importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, altrimenti diventa un ostacolo che impedisce di andare avanti...L’impegno contro la mafia, non può concedersi pausa alcuna, il rischio è quello di ritrovarsi subito al punto di partenza...I pentiti sono merce delicata, delicatissima, sono loro che scelgono il giudice a cui confessare, non viceversa, sono degli sconfitti che abbandonano un padrone per servirne un altro, ma vogliono che sia affidabile».

Le parole. Le sue, con quella cadenza ellittica della lingua siciliana, davanti a un gruppo di studenti dall’accento vicentino. «Volevo sapere, giudice, se si sente protetto dallo Stato e ha fiducia nello Stato stesso», chiede un ragazzo. «No, io non mi sento protetto dallo Stato», risponde Paolo Borsellino. È il 26 gennaio del 1989, il video è in Rete grazie all’Archivio Antimafia. 

La ricostruzione dei giornalisti del Fatto, Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, mette i brividi: Borsellino è stato ucciso perché stava indagando, formalmente, sulla trattativa Stato-Mafia, scrive "L'Infiltrato" il 19 luglio 2016. La conferma arriva dal ritrovamento di un fascicolo assegnato a Borsellino in data 8 luglio 1992 (11 giorni prima di essere ucciso…) in cui viene fuori l’ufficialità dell’indagine e i nomi delle persone coinvolte. Nomi pesanti. Nomi di capimafia. Nomi di politici. Nomi di esponenti dei servizi segreti. In piena stagione stragista, a metà giugno del ‘92, un anonimo di otto pagine scatenò fibrillazione e panico nei palazzi del potere politico-giudiziario: sosteneva che l’ex ministro dc Calogero Mannino aveva incontrato Totò Riina in una sacrestia di San Giuseppe Jato (Palermo). Una sorta di prologo della trattativa. Ricordiamo che Mannino è stato assolto per “non aver commesso il fatto”. Su quell’anonimo, si scopre dai documenti prodotti dal pm Nino Di Matteo nell’aula del processo Mori, stava indagando formalmente Paolo Borsellino. Con un’indagine che il generale del Ros Antonio Subranni chiese ufficialmente di archiviare perché non meritava “l’attivazione della giustizia”. Il documento dell’assegnazione del fascicolo a Borsellino e a Vittorio Aliquò, datato 8 luglio 1992, insieme alle altre note inviate tra luglio e ottobre di quell’anno, non è stato acquisito al fascicolo processuale perché il presidente del Tribunale Mario Fontana non vi ha riconosciuto una “valenza decisiva” ai fini della sentenza sulla mancata cattura di Provenzano nel ‘95, quando si è deciso di assolvere Mori e Obinu, anche in appello nel 2016. Ma le note sono state trasmesse alla Procura nissena impegnata nella ricostruzione dello scenario che fa da sfondo al movente della strage di via D’Amelio. In aula a Caltanissetta, infatti, Carmelo Canale ha raccontato che il 25 giugno 1992, Borsellino, “incuriosito dall’anonimo” volle incontrare il capitano del Ros Beppe De Donno, in un colloquio riservato alla caserma Carini, proprio per conoscere quel carabiniere che voci ricorrenti tra i suoi colleghi indicavano come il “Corvo due”, ovvero l’autore della missiva di otto pagine. Quale fu il reale contenuto di quell’incontro? Per il pm, gli ufficiali del Ros, raccontando che con Borsellino quel giorno discussero solo della pista mafia-appalti, hanno sempre mentito: una bugia per negare l’esistenza della trattativa, come ha ribadito Di Matteo in aula, nell’ultima replica. Tre giorni dopo, il 28 giugno, a Liliana Ferraro che gli parla dell’iniziativa avviata dal Ros con don Vito, Borsellino fa capire di sapere già tutto e dice: “Ci penso io”. Il primo luglio ‘92, a Palermo il procuratore Pietro Giammanco firma una delega al dirigente dello Sco di Roma e al comandante del Ros dei Carabinieri per l’individuazione dell’anonimo. Il 2 luglio, Subranni gli risponde con un biglietto informale: “Caro Piero, ho piacere di darti copia del comunicato dell’Ansa sull’anonimo. La valutazione collima con quella espressa da altri organi qualificati. Buon lavoro, affettuosi saluti”. Nel lancio Ansa, le “soffiate” del Corvo sono definite dai vertici investigativi “illazioni ed insinuazioni che possono solo favorire lo sviluppo di stagioni velenose e disgreganti”. Come ha spiegato in aula Di Matteo, “il comandante del Ros, il giorno stesso in cui avrebbe dovuto cominciare ad indagare, dice al procuratore della Repubblica: guardate che stanno infangando Mannino”. Perché Subranni tiene a far sapere subito a Giammanco che l’indagine sul Corvo 2 va stoppata? Venerdì 10 luglio ‘92 Borsellino è a Roma e incontra proprio Subranni, che il giorno dopo lo accompagna in elicottero a Salerno. Borsellino (lo riferisce il collega Diego Cavaliero) quel giorno ha l’aria “assente”. Decisivo, per i pm, è proprio quell’incontro con Subranni, indicato come l’interlocutore diretto di Mannino. È a Subranni che, dopo l’uccisione di Salvo Lima, l’ex ministro Dc terrorizzato chiede aiuto per aprire un “contatto” con i boss. È allo stesso Subranni che Borsellino chiede conto e ragione di quella trattativa avviata con i capi mafiosi? No, secondo Basilio Milio, il difensore di Mori, che in aula ha rilanciato: “Quell’incontro romano con Subranni è la prova che Borsellino certamente non aveva alcun sospetto sul Ros”. Il 17 luglio, però, Borsellino dice alla moglie Agnese che “Subranni è punciuto”. Poche ore dopo, in via D’Amelio, viene messo a tacere per sempre. Nell’autunno successivo, il 3 ottobre, il comandante del Ros torna a scrivere all’aggiunto Aliquò, rimasto solo ad indagare sull’anonimo: “Mi permetto di proporre – lo dico responsabilmente – che la signoria vostra archivi immediatamente il tutto ai sensi della normativa vigente”.

Trattativa, ecco i documenti sul presunto patto fra lo Stato e Cosa nostra. La lettera a Scalfaro scritta nel 1993 dai familiari dei boss detenuti al 41bis. L'appunto in cui il direttore del Dap Nicolò Amato suggerisce l'alleggerimento del carcere duro. E l'elenco completo dei mafiosi che ne beneficiarono. Ilfattoquotidiano.it pubblica le carte al centro dell'inchiesta di Palermo sui presunti accordi segreti per fare cessare la stagione delle stragi, scrive Marco Lillo il 26 giugno 2012 su "Il Fatto Quotidiano". Questa è la storia di una trattativa iniziata con una lettera dei familiari dei boss in cui si parla di mutande e biancheria per far calare le braghe allo Stato. Una trattativa che la pubblicistica in voga vorrebbe sia stata chiusa dall’allora ministro Giovanni Conso con il rilascio di 334 mafiosi, usciti dal regime dell’isolamento nel novembre del 1993 e che invece potrebbe essere ancora aperta, come dimostra la storia di una strage mancata durante una partita di calcio: Roma-Udinese del 23 gennaio 1994. Oggi pubblichiamo i documenti che dovrebbero aprire e chiudere le danze della partita a scacchi tra istituzioni e corleonesi, cioè la lettera dei familiari dei detenuti nelle supercarceri spedita nel febbraio 1993 e l’elenco dei graziati di Conso del novembre 1993 più altri documenti disponibili sul sito internet di ilfattoquotidiano.it (guarda in fondo all’articolo) che scandiscono i momenti cruciali di quel periodo in cui la storia della mafia e quella della Repubblica si sono intrecciate inscindibilmente. Il punto di rottura degli equilibri decennali tra Stato e mafia è il 31 gennaio del 1992, quando la Cassazione infligge migliaia di anni di carcere ai boss mafiosi imputati al maxi-processo. Il 12 marzo Cosa Nostra uccide Salvo Lima. Il 23 maggio salta in aria la staffetta della scorta di Giovanni Falcone e l’onda d’urto travolge anche l’auto blindata che ospita il giudice e la sua compagna. I boss fanno circolare un elenco di vittime possibili, tra queste spiccano gli ex ministri Salvo Andò e Calogero Mannino. I Carabinieri del Ros, guidati dal generale Angelo Subranni, avviano i contatti con il Consigliori dei corleonesi, Vito Ciancimino. Paolo Borsellino, secondo le testimonianze più recenti in qualche modo è informato. Di certo, dicono tutti i suoi colleghi e amici, si sarebbe opposto con tutta la sua forza a qualsiasi forma di cedimento alla mafia. Secondo i giudici di Caltanissetta, Borsellino sapeva che lo Stato stava scendendo a patti con Cosa Nostra e anche per questa ragione, in quanto si sarebbe opposto, è stato ucciso il 19 luglio del 1992 a via D’Amelio. Cosa Nostra però non si ferma e porta il suo attacco nel “continente”. Il 14 maggio del 1993 c’è l’attentato a Maurizio Costanzo a Roma. Il 27 maggio le stragi di Firenze e Milano e il 28 luglio l’attentato contro le chiese a Roma.

Prima dell’avvio di questa seconda ondata di bombe però era arrivato un segnale che solo recentemente è stato valorizzato grazie al libro di Sebastiano Ardita, magistrato di grande esperienza, oggi procuratore aggiunto a Messina e per molti anni al Dipartimento amministrazione penitenziaria, il Dap. Nel libro Ricatto allo Stato, Ardita racconta che nel febbraio 1993 arriva una strana lettera al presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro: “Siamo un gruppo di familiari di detenuti che sdegnati e amareggiati da tante disavventure” è l’incipit (leggi il documento integrale). I familiari chiedono al presidente: “Quante volte in una settimana Lei cambia la biancheria intima? Quante volte cambia le lenzuola? Lo sa quanta biancheria in un mese noi possiamo portare al nostro congiunto? Soli cinque kg”. Poi si lamentano dei secondini di Pianosa, definiti “sciacalli” e chiedono di “togliere gli squadristi del dittatore Amato”, Nicolò Amato, direttore del Dap allora (leggi l’appunto di Amato sul 41 bis). A impressionare sono gli indirizzi a cui la lettera al presidente, che non si trova negli archivi del Quirinale secondo quello che dice al telefono mentre è intercettato, il consigliere del Capo di Stato, Loris D’Ambrosio, è spedita: il Papa, il Vescovo di Firenze e, tra gli altri, Maurizio Costanzo, oltre a Vittorio Sgarbi e ad altre istituzioni. L’elenco impressiona perché i destinatari sembrano altrettanti messaggi in codice decrittati poi dalle bombe contro Costanzo prima, a Firenze poi e infine davanti al Vicariato di Roma. Lo Stato cede: già nel giugno del 1992 il nuovo capo del Dap Adalberto Capriotti (Amato è sostituito come chiedevano implicitamente i familiari) chiede al capo di gabinetto del ministro della Giustizia di non prorogare i decreti per il 41 bis a centinaia di detenuti per i quali il trattamento di isolamento era in scadenza. A novembre del 1993, con una scelta della quale si è assunto la responsabilità davanti ai magistrati, l’allora ministro Giovanni Conso lascia decadere il 41 bis per ben 334 detenuti (leggi l’elenco completo). Tra questi boss del calibro di Vito Vitale di Partinico e Giuseppe Farinella che poi insieme ad altri 50 detenuti torneranno negli anni successivi al regime che gli spettava. Queste carte mostrano un segmento importante della sequenza, ma da sole non bastano a spiegare quello che è successo nel braccio di ferro tra mafia e Stato. Non è un caso se nella contestazione del reato di minacce a corpo dello Stato contro il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri (stessa accusa contestata anche per Calogero Mannino, all’ex capo del Ros dei Carabinieri Antonio Subranni, al suo vice dell’epoca Mario Mori e all’allora capitano Giuseppe De Donno) non sia definito dalla Procura di Palermo il momento in cui sarebbe terminata la cosiddetta trattativa, che sarebbe meglio definire minaccia allo Stato. Che la partita a scacchi sia rimasta aperta anche dopo la resa di Conso nel novembre 1993, lo dimostra proprio un’altra partita, stavolta di calcio, ignorata dai giornali di destra e dai politici del Pdl che vorrebbero attribuire la responsabilità del cedimento scellerato dello Stato (che pure per la Procura di Palermo ci fu) solo e soltanto all’ex ministro Conso, governo Ciampi, quindi uomo del centrosinistra. La partita che fa saltare questo schema è Roma-Udinese del 23 gennaio 1994. Quel giorno, come ha raccontato Gaspare Spatuzza al processo Dell’Utri, dovevano saltare in aria un centinaio di carabinieri. Per fortuna il telecomando non funzionò, ma quel tentativo di strage dimostra che la mafia non era affatto soddisfatta dei 334 detenuti liberati dal 41 bis. La trattativa non si chiude a novembre del 1993 e forse non si è chiusa ancora oggi. Da Il Fatto Quotidiano del 26 giugno 2012.

Borsellino, ecco perché ci vergogniamo. Ventiquattro anni dopo la strage il processo sta facendo emergere molti punti oscuri che riguardano investigatori e uomini delle istituzioni che non avrebbero fatto bene il proprio dovere e molti di loro, chiamati a testimoniare, hanno ripetuto ai giudici di non ricordare, scrive Lirio Abbate il 18 luglio 2016 su “L’Espresso”. Siamo arrivati a 24 anni dalla strage di via D'Amelio alla celebrazione del quarto processo per esecutori e depistatori, dopo aver avuto quello per i mandanti ed organizzatori di questo attentato avvenuto il 19 luglio 1992, in cui sono stati uccisi il procuratore aggiunto di Palermo, Paolo Borsellino e gli agenti di polizia Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli. Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. La verità però ancora non emerge su molti aspetti di questa strage. Non emergono i motivi dei depistaggi, i motivi che hanno spinto piccoli pregiudicati a diventare falsi collaboratori di giustizia, perché ci sarebbero stati "suggerimenti" investigativi che hanno spostato l'asse delle indagini lontano da quelle reali. Sono interrogativi a cui si deve dare ancora una risposta, ma che hanno portato nei giorni scorsi Lucia Borsellino, figlia del magistrato ucciso, a sostenere davanti alla Commissione antimafia presieduta da Rosi Bindi che "quello che sta emergendo in questa fase processuale (è in corso a Caltanissetta il quarto procedimento sulla strage, ndr) ci si deve interrogare sul fatto se veramente ci si possa fidare in toto delle istituzioni". Parole pesanti, che sembrano essere scivolate nel silenzio mediatico e politico. Il processo sta facendo emergere molti punti oscuri che riguardano investigatori e uomini delle istituzioni che non avrebbero fatto bene il proprio dovere e molti di loro, chiamati a testimoniare, hanno ripetuto ai giudici di non ricordare. "Il semplice sospetto che uomini dello Stato abbiamo potuto tradire un altro uomo dello Stato e lo dico da figlia, mi fa vergognare", ha detto Lucia Borsellino ai commissari antimafia, ai quali ha precisato: «Nel caso della strage che ha tolto la vita a mio padre e agli uomini della scorta non è stato fatto ciò che era giusto si facesse, se siamo arrivati a questo punto vuol dire che qualcosa non è andata. Ci sono vicende che gridano vendetta anche se il termine non mi piace». Per poi concludere: «Mi auguro questa fase processuale tenti di fare chiarezza sull’accaduto, pensare ci si possa affidare ancora a ricordi di un figlio o una figlia che lottavano per ottenere un diploma di laurea è un po’ crudele, anche perché papà non riferiva a due giovani quello che stava vivendo. Non sapevo determinati fatti, è una dolenza che vivo anche da figlia e una difficoltà all’elaborazione del lutto». Oggi le indagini della procura di Caltanissetta hanno svelato che a premere il pulsante che ha fatto esplodere l'auto carica di esplosivo è stato Giuseppe Graviano, ma non si conosce il motivo che ha portato ad accelerare la strage. Si è scoperto che nei 57 giorni che separano gli attentati di Capaci e via d'Amelio uomini delle istituzioni hanno parlato con i mafiosi, ma non si sa a cosa abbia portato questo "dialogo". Si è scoperto che le indagini dopo l'attentato del 19 luglio 1992 sono state depistate, ma non è stato individuato il movente. Nemmeno quello che ha portato tre pregiudicati a raccontare bugie ai giudici, ad autoaccusarsi della strage e rischiare il carcere a vita, a diventare falsi collaboratori di giustizia. I magistrati, grazie alla collaborazione di Gaspare Spatuzza (senza le cui dichiarazioni, riscontrate in tutti i punti, non sarebbe stato possibile avviare la nuova inchiesta dopo le sentenze definitive sulla strage) e Fabio Tranchina, un fedelissimo di Graviano, sono riusciti a trovare alcune tessere del mosaico che dal '92 avevano impedito di ricostruire la trama dell'attentato. Un attentato che a 24 anni di distanza ci continua a far star male, come dice Lucia Borsellino, "per il semplice sospetto che uomini dello Stato abbiamo potuto tradire un altro uomo dello Stato" e questo ci fa vergognare. 

Un giorno chiesi a Borsellino, un altro che conosceva la lingua siciliana, scrive Giorgio Bocca il 22 maggio 2002 su “La Repubblica”: "Che rapporto c'è tra politica e mafia?". Mi rispose: "Sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d'accordo. Il terreno su cui possono accordarsi è la spartizione del denaro pubblico, il profitto illegale sui pubblici lavori". La frase detta da Paolo Borsellino  “Mafia e Stato sono due poteri su uno stesso territorio, o si combattono o si mettono d’accordo.” Racchiude un’amara verità e riassume bene la storia del nostro Paese. Storicamente si può dire che di trattative Stato-mafia ce ne sono state varie. Sono iniziate dal 1861, con la nascita della Stato. Le indagini a ritroso della Procura di Palermo sono arrivate fino ai torbidi intrecci degli alleati con il bandito Salvatore Giuliano, che dopo la liberazione nazi-fascista è stato anche utilizzato dalle correnti filo-americane contro il “pericolo comunista”. La prima strage stato-mafia fu a Portella della Ginestra e rientrava in questi piani.

SCADUTO IL SEGRETO DI STATO SU PORTELLA E SULLA MORTE DI GIULIANO. Scrive Pino Sciumé il 5 luglio 2016 su “Siciliaonpress”. Mattina del 5 luglio 1950. A Castelvetrano, in provincia di Trapani, in un cortile ubicato nella via Mannone, un corpo senza vita, riverso bocconi e circondato da carabinieri, magistrati, giornalisti, abitanti del posto, fu mostrato all’opinione pubblica come un trofeo di guerra, la vittoria dello Stato contro il ricercato più pericoloso che per sette anni lo aveva tenuto in pugno. Quel corpo era del “bandito” Salvatore Giuliano. Autori della brillante operazione furono il Colonnello Ugo Luca e il Capitano Antonio Perenze, quest’ultimo dichiaratosi autore materiale dell’eliminazione fisica dell’imprendibile “re di Montelepre”. L’operazione militare, ordinata direttamente dall’allora ministro degli Interni Mario Scelba, siciliano di Caltagirone e inventore del famoso corpo di polizia denominato “La Celere”, sembrò mettere a tacere per sempre la questione del banditismo siciliano che, secondo le fonti governative, aveva provocato centinaia di morti nei sette anni precedenti, culminati con la strage di Portella delle Ginestre in cui la banda Giuliano provocò la morte di undici contadini e il ferimento di altre trenta persone. Poco prima della morte di Giuliano era cominciato a Viterbo il processo per la strage di Portella, definita da Scelba, opera di criminali comuni che nulla avevano a che fare con i politici, gli agrari e la mafia. La Corte non si preoccupò pertanto di ricercare eventuali mandanti, ma di accertare la responsabilità personale degli esecutori comminando loro la giusta condanna. Due anni dopo, dodici componenti della c.d. banda Giuliano furono condannati alla pena dell’ergastolo, dodici e non undici, quanti erano effettivamente presenti sul monte Pizzuta assieme a Giuliano. Ma uno in più, uno in meno… Le cronache di quei tempi riferiscono che nessun siciliano credeva alla colpevolezza di Giuliano perché quello di Portella era il suo popolo, la gente per cui aveva lottato contro uno Stato da lui considerato nemico e da cui voleva che la Sicilia si distaccasse. Umberto Santino, giornalista e attento osservatore, come lo fu il coraggioso Tommaso Besozzi (autore dell’articolo: “Di sicuro c’è solo che è morto” scritto all’indomani del 5 luglio 1950) così scrive in uno dei suoi pezzi “La verità giudiziaria sulla strage si è limitata agli esecutori individuati nei banditi della banda Giuliano. Nell’ottobre del 1951 Giuseppe Montalbano, ex sottosegretario, deputato regionale e dirigente comunista, presentava al Procuratore generale di Palermo una denuncia contro i monarchici Gianfranco Alliata, Tommaso Leone Marchesano e Giacomo Cusumano Geloso come mandanti della strage e contro l’ispettore Messana come correo. Il Procuratore e la sezione istruttoria del Tribunale di Palermo decidevano l’archiviazione. Successivamente i nomi dei mandanti circoleranno solo sulla stampa e nelle audizioni della Commissione parlamentare antimafia che comincia i suoi lavori nel 1963”. Ancora Umberto Santino, nei suoi articoli che fanno parte dell’Archivio del compianto Professor Giuseppe Casarrubea, scrive: “Nel novembre del 1969 il figlio dell’appena defunto deputato Antonio Ramirez si presenta nello studio di Giuseppe Montalbano per recapitargli una lettera riservata del padre, datata 9 dicembre 1951. Nella lettera si dice che l’esponente monarchico Leone Marchesano aveva dato mandato a Giuliano di sparare a Portella, ma solo a scopo intimidatorio, che erano costantemente in contatto con Giuliano i monarchici Alliata e Cusumano Geloso, che quanto aveva detto, nel corso degli interrogatori, il bandito Pisciotta su di loro e su Bernardo Mattarella era vero, che Giuliano aveva avuto l’assicurazione che sarebbe stato amnistiato”. E ancora: “Montalbano presenta il documento alla Commissione antimafia nel marzo del 1970, la Commissione raccoglierà altre testimonianze e nel febbraio del 1972 approverà all’unanimità una relazione sui rapporti tra mafia e banditismo, accompagnata da 25 allegati, ma verranno secretati parecchi documenti raccolti durante il suo lavoro. La relazione a proposito della strage scriveva: “Le ragioni per le quali Giuliano ordinò la strage di Portella della Ginestra rimarranno a lungo, forse per sempre, avvolte nel mistero”. La Commissione Parlamentare Antimafia istituì nel 1971 una sotto commissione sui fatti Portella presieduta da Marzio Berardinetti che tra l’altro affermò: “Il lavoro, cui il comitato di indagine sui rapporti fra mafia e banditismo si è sobbarcato in così difficili condizioni, avrebbe approdato a ben altri risultati di certezza e di giudizio se tutte le autorità, che assolsero allora a quelli che ritennero essere i propri compiti, avessero fornito documentate informazioni e giustificazioni del proprio comportamento nonché un responsabile contributo all’approfondimento delle cause che resero così lungo e travagliato il fenomeno del banditismo”. Per tali motivi, nell’intento di non andare oltre in interrogatori che potevano portare a verità scomode fu apposto il Segreto di Stato fino al 2016, fino a questo 5 luglio 2016, 66° anniversario della messinscena della morte di Salvatore Giuliano. Abbiamo sentito il nipote Giuseppe Sciortino Giuliano, figlio di Mariannina e sorella di Salvatore. “Noi della famiglia siamo sicuri dell’estraneità di mio zio sui fatti di Portella. Quella fu una Strage di Stato addossata ad arte a Giuliano. Le Autorizzo a scrivere che noi conosciamo la verità fin dal 1965. Ora se lo Stato vuole aprire quegli archivi che ben venga, anche se non credo ci possa essere ormai qualcosa che non conosciamo. Ma dalla fine del prossimo settembre sarà in distribuzione in tutta Italia prima e successivamente negli Stati Uniti, un Docufilm di circa tre ore in formato DVD che farà conoscere al mondo intero la verità su mio zio Salvatore Giuliano, eroe siciliano, colonnello dell’Evis, punto fermo dell’ottenimento del mai attuato Statuto Siciliano, anche se lui ha sempre lottato per l’Indipendenza della Sicilia”. Una pagina dell’Unità del 7 luglio 1950 mostra la cronaca della morte di Salvatore Giuliano. Potrà essere risolto nel 2016, allorché cadrà il segreto di stato sulle carte conservate negli archivi dei ministeri dell’interno e della difesa, il giallo sulla morte del bandito Giuliano, uno dei tanti misteri della storia italiana sui quali recentemente la magistratura è tornata ad indagare. Ne è convinto Giuseppe Sciortino Giuliano, nipote di Salatore Giuliano, che ha appena pubblicato un libro (“Vita d’inferno. Cause ed affetti”) che si chiude con una ricostruzione secondo la quale il cadavere mostrato all’epoca alla stampa non sarebbe stato quello del celebre bandito, bensì di un sosia.

Montelepre: una “Vita D’inferno”. Ricordato Salvatore Giuliano, nel 60° anniversario della morte, con una pubblicazione del nipote Pino Sciortino Giuliano. La vicenda di Salvatore Giuliano ci riporta ad anni particolarmente “inquieti”, complessi, della storia della Sicilia e, nonostante gli innumerevoli fiumi d’inchiostro versati, su quei fatti permangono ancora molte zone d’ombra. Sono gli anni dello sbarco degli Alleati, del separatismo, della ribellione civile frettolosamente etichettata come bieco “banditismo”. Un groviglio di rapporti nebulosi – tra americani e mafia, tra patiti politici e mafia, tra Giuliano e politici senza scrupoli –, pose le basi della nascente Repubblica Italiana. Allora tutti si incontrarono, dialogarono e si accordarono: aristocratici, politici, intellettuali, operai, contadini, servizi segreti internazionali, forze di polizia e banditi. Il “caso” Giuliano servì a ognuno fino a quando considerarono conveniente l’accordo, poi… la mattina fatidica del 5 Luglio del 1950, in un cortile di Castelvetrano, il “presunto” corpo di Turiddu venne trovato crivellato di colpi, in seguito, ad un falso conflitto a fuoco sostenuto dagli agenti del Cfrb, e nell’arco di appena un decennio tanti possibili testimoni uscirono di scena con morti alquanto misteriose. In pochi si salvarono affrontando il carcere duro e solo pochissimi resistettero e tornarono a casa a fine pena. Seguì l’inevitabile volontario silenzio degli esigui superstiti. A 60 anni dalla morte del leggendario colonnello dell’Evis, il nipote di Salvatore Giuliano, Giuseppe Sciortino Giuliano, figlio della sorella del bandito, Mariannina, ha presentato lo scorso 5 luglio (data ufficiale della morte di Turiddu), ad un folto pubblico proveniente da tutta la Sicilia ed anche dall’estero, l’ultimo suo libro “Vita d’Inferno - Cause ed effetti”. Un’opera che racconta la vita degli abitanti di Montelepre, paese natale di Giuliano, dal 1943 al 1950, periodo di forti tensioni politiche e civili, caratterizzato da arresti ingiustificati, false accuse e vessazioni da parte dello Stato nei confronti della popolazione contadina dell’area monteleprina, posta in continuo stato d’assedio ed ingiustamente colpevolizzata. «Un pregevole recupero della verità storica, troppo spesso mistificata dalla storiografia ufficiale (figlia faziosa dei poteri imperanti) – ha evidenziato il relatore, prof. Salvatore Musumeci, giornalista ed esperto di storia della Sicilia, tra l’altro presidente nazionale del Mis –, che malgrado tutto si è mantenuta, pur rimanendo per parecchio tempo in uno stato di oblio. Su Salvatore Giuliano molto è stato scritto con lo scopo di intorpidire le acque. Oggi più che mai, mentre si celebrano i falsi miti dei 150 di Stato unitario, Montelepre, e non tanto la sola figura di Turiddu, ha bisogno di conoscere e di riappropriarsi della verità storica, perché per quegli eventi è stata colpevolizzata un’intera cittadina che nulla aveva a che fare con gli accadimenti che travolsero Giuliano. Ai monteleprini è successo ciò che accadde ai meridionali all’indomani della forzata annessione piemontese e per spiegarlo cito un pensiero di Pino Aprile (dal suo recente Terroni): “È accaduto che i (monteleprini) abbiano fatto propri i pregiudizi di cui erano oggetto. E che, per un processo d’inversione della colpa, la vittima si sia addossata quella del carnefice. Succede quando il dolore della colpa che ci si attribuisce è più tollerabile del male subìto. Così, la resistenza all’oppressore, agli stupri, alla perdita dei beni, della vita, dell’identità, del proprio paese, è divenuta vergogna”». Fatti analoghi sono stati vissuti da Ciccu Peppi, il protagonista del libro “Vita d’Inferno - Cause ed effetti”, e da tre quarti della popolazione monteleprina continuamente vessata dal famigerato “don Pasquale”, il brigadiere Nicola Sganga, e dallo “Sceriffo”, il maresciallo Giovanni Lo Bianco (ambedue appartenenti alla Benemerita). Sciortino, inoltre, descrive le ipotesi più attendibili sull’uccisione di Giuliano e una ricostruzione delle circostanze in cui morì Gaspare Pisciotta, braccio destro del bandito, avvelenato in cella il 9 febbraio 1954. Parla anche della strage di Portella della Ginestra e di come la banda Giuliano sarebbe stata oculatamente coinvolta al fine di giustificare il massacro. In appendice, il volume contiene una poesia scritta da un componente della Banda Giuliano, Giuseppe Cucinella che ha ispirato l’opera di Giuseppe Sciortino Giuliano. «La poesia – ha sottolineato l’autore –, è stata in qualche modo ispiratrice della stesura del libro. Devo molta riconoscenza alla figlia di Giuseppe Cucinella (la signora Giusi Cucinella, ndr), che me l’ha messa a disposizione ed io ho voluto farle il regalo di inserirla all’interno del libro. Proprio, perché dalla lettura di questa poesia si vede il patriottismo di quest’uomo, che era comune anche a tutti gli altri, e ciò per dimostrare che gli uomini di mio zio non erano volgari delinquenti ma gente che aveva un ideale e combatteva per questo ideale. All’interno della mia famiglia mi sono dovuto caricare di una responsabilità enorme, perché dovevo in qualche modo rimuovere la macchia nera di Portella delle Ginestre che aveva colpevolizzato un’intera comunità. Per cui io stesso sono diventato ricercatore della verità e man mano che gli uomini di mio zio uscivano dal carcere li avvicinavo, chiedevo, li intervistavo perché volevo capire, io per primo, quello che veramente era successo in quegli anni. Questo mi ha permesso di avere una cognizione di causa sull’argomento e sulla vita in generale di mio zio e di tutto il periodo storico e, quindi, ho potuto scrivere diversi volumi (Mio fratello Salvatore Giuliano, scritto assieme alla madre Mariannina, e Ai Siciliani non fatelo sapere, ndr)». Allo storico monteleprino, prof. Pippo Mazzola, abbiamo chiesto: quali nuove verità apprenderemo nel 2016 quando verranno desecretati i faldoni del fondo Giuliano? «Sicuramente nessuna – sorride ironico il Mazzola –. Sappiamo da fonti attendibilissime che nel corso degli anni, via via, sono spariti tutti i documenti compromettenti, tra cui il fascicolo 29 C contenente il memoriale di Gaspare Pisciotta e i suoi quattordici quaderni. Pare che siano scomparsi durante il governo D’Alema. Oggi non possiamo provarlo, ma chi vivrà vedrà». Prima di lasciare Montelepre ci fermiamo per qualche attimo al Cimitero. Incontriamo una comitiva ed una graziosa ragazza ci chiede: «Excuse me, here is the tomb of Salvatore Giuliano?». Rispondiamo: «Yes, in the chapel on the left most». Ci ringrazia e l’ascoltiamo spiegare: «Giuliano was a hero who fought for the Sicily against the abuses of the Italian State. For the Sicily’s independence. Too bad that Sicilians like him there are not more!». Lasciamo ai lettori il piacere della traduzione. Giuseppe Musumeci. Pubblicato su “Gazzettino”, settimanale regionale, Anno XXX, n. 25, Giarre sabato 10 luglio 2010 

Magistrati & storie di corna non accadono solo a Taranto: a Roma un membro del Csm simula il furto dell’Iphone! Dopo il “gossip” di un magistrato tarantino che sarebbe diventato l’amante dell’ex-moglie del suo avvocato che lo assisteva, questa volta i tradimenti arrivano al Csm a Roma, scrive il 28 giugno 2016 Frank Cimini e Manuela D’ Alessandro su “Giustiziami”. Aveva scritto via whatsapp un messaggio all’amante inviandolo per errore alla moglie che s’infuriava e chiedeva spiegazioni e lui replicava che l’apparecchio gli era stato rubato. Il nostro nel tentativo di dimostrare di essere estraneo al fatto presentava una denuncia formale alla polizia affermando di aver subito un furto. Protagonista della vicenda un componente togato del Consiglio Superiore della Magistratura che ora è nei guai, indagato dalla procura di Roma per simulazione di reato e sotto procedimento disciplinare. Perché la denuncia si è rivelata priva di riscontri con la realtà. I controlli e gli accertamenti in un caso del genere sono molto più accurati e soprattutto più veloci rispetto a quando una denuncia del genere viene presentata da un comune mortale. Per cui emergeva immediatamente che l’apparecchio, peraltro intestato al Csm, era sempre stato nella disponibilità del consigliere e mai oggetto di un furto. Il nostro magistrato è indagato dalla procura di Roma per aver simulato un reato e sotto inchiesta disciplinare da parte del Csm. Tutto è accaduto perché il consigliere non ha avuto la forza di far fronte alla rabbia di sua moglie per quel messaggio all’amante dal contenuto diciamo “inequivocabile” e ha finito per imboccare una strada senza ritorno. La vicenda è clamorosa, considerando l’importante incarico ricoperto dall’interessato che è tuttora al suo posto a giudicare i colleghi in attesa dello sviluppo delle indagini. L’episodio avvenuto alcuni mesi fa è coperto dal massimo riserbo anche se risulta essere a conoscenza di un numero non certo piccolo di persone. Con tutti i problemi che ha il Csm mancava solo una storia di corna gestita molto male (peggio non si poteva insomma) dal protagonista principale. Adesso si tratta di stare a vedere come sarà gestita dai colleghi del nostro, a Perugia e a Roma. Mettere tutto a tacere appare francamente difficile anche se recentemente in più occasioni il cosiddetto organo di autogoverno dei giudici ha dimostrato di avere l’omertà nel suo dna. Giovanni Legnini prova a smentire la vicenda del magistrato fedifrago svelata da giustiziami.it inviando una nota ai consiglieri dell’organo di autogoverno della magistratura: “Non risulta pendente alcun procedimento penale o disciplinare a carico di componenti del Csm”. Nessuno sembra però credergli e anzi molti deridono i toni ambigui del comunicato. Legnini ha dovuto emergere dal silenzio pressato dalle centinaia di magistrati che chiedono da giorni chiarezza nelle mailing list di corrente. “Se davvero è andata così, questo signore non può continuare a sedere nel Csm”, scrivono in molti. Altri manifestano livore contro la stampa: “Quando si vuole eliminare un concorrente si prega un giornalista (è un termine improprio) e si dà origine alla notizia”.  Nei bar attorno al Tribunale di Milano all’ora di pranzo capannelli di toghe si confrontano sul nome (lo sanno tutti) e sui risvolti della vicenda.  E lo stesso accade a Roma, da dove stamattina il vicepresidente del Csm Legnini si è sentito in dovere di riportare “un clima sereno e proficuo” tra i magistrati. Ma la sua difesa non ha convinto stando alla mailing list di Anm. “E’ uno scialbo comunicato parasovietico del tipo in Urss non ci sono furti”, azzarda uno. “Legnini scrive ‘non è pendente alcun procedimento’ – osservano altri – parlando al presente. Questo significa che in passato lo era e magari è stato definito con un patteggiamento?”. E ancora: “Se non fosse per lo sputtanamento, ci sarebbe da ridere”; “Chiediamo a Signorini come sono andate le cose”. Chissà se il giornalista re del gossip sa se il Csm ha mai aperto un’inchiesta sul magistrato fedifrago, esercitando quell’azione penale che dovrebbe essere il pane della magistratura, oppure se ora sta insabbiando un’indagine conclusa con un patteggiamento o in altro modo che avrebbe dovuto portare alla rimozione dall’incarico, peraltro importante, rivestito dal magistrato.

Csm: Legnini, nessuna indagine su componente Consiglio. (Agenzia Italia – AGI) “Non risulta pendente alcun procedimento penale o disciplinare a carico di componenti del Consiglio in relazione ai fatti riportati nei citati articoli di stampa”. Cosi” il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, in una lettera inviata oggi a tutti i consiglieri dell’organo di autogoverno della magistratura, fornisce chiarimenti in merito alla vicenda, riportata da alcuni organi di stampa, che riguarderebbe un componente del Consiglio.  “Gentili consiglieri – scrive Legnini – a seguito di richieste di chiarimento formulate da diversi colleghi, vi scrivo con riferimento alla vicenda riportata dai mezzi di stampa oggi e nei giorni scorsi che ha destato in noi apprensione. Secondo ipotesi formulate da alcuni quotidiani e da talune testate giornalistiche in rete, penderebbero un procedimento penale e uno disciplinare a carico di un componente di questo Consiglio Superiore; tali procedimenti asseritamente discenderebbero da una sua denuncia concernente l’impiego abusivo di un telefono cellulare per imprecisate comunicazioni effettuate da terzi. Secondo quanto riportato sui siti e sui quotidiani, tale denuncia avrebbe dato luogo ad un’ipotesi di responsabilità” per simulazione di reato. All’esito di verifiche effettuate, posso riferirvi che non risulta pendente alcun procedimento penale o disciplinare a carico di componenti del Consiglio in relazione ai fatti riportati nei citati articoli di stampa”. Il numero due di Palazzo dei Marescialli aggiunge quindi che “alla luce di tali rilievi, non può” nascondersi il disagio per le ricostruzioni adombrate dalle suddette testate giornalistiche, le quali hanno finito con l’esporre il Consiglio e i suoi componenti a spiacevoli commenti basati su elementi privi di conferma in atti giudiziari”. Legnini, infine, auspica il “mantenimento di un clima sereno e proficuo in vista dell'impegnativo lavoro” delle prossime settimane.

Un sms agita il Csm, Legnini smonta il caso. Cimini conferma: «Storia vera». L’ex cronista giudiziario del “Mattino” a Milano: “il vicepresidente smentisce l’indagine sul consigliere? Ma la finta denuncia di furto del cellulare c’è stata, i pm hanno paura di indagare così in alto”. A proposito….ma la Legge non è uguale per tutti ?, scrive il 29 giugno 2016 Giovanni M. Jacobazzi su "Il Dubbio". Frank Cimini è uno dei cronisti che nel giornalismo italiano degli ultimi quarant’anni hanno fatto la storia della “giudiziaria”. Ex ferroviere, poi praticante al Manifesto, è stato per oltre un quarto di secolo l’inviato del Mattino al Palazzo di Giustizia di Milano. Ha vissuto gli anni ruggenti di “Tangentopoli”, gli anni del trionfo delle manette e della rivoluzione togata. In pensione dalla fine del 2013, cura un seguitissimo blog, Giustiziami.it, pieno di retroscena su quanto accade nelle austere stanze del Tribunale milanese. La testata rende bene l’essenza del Cimini pensiero, maturato dopo aver vissuto per decenni a contatto con i magistrati: “Beato chi ha fiducia nella giustizia perché sarà giustiziato”. È stato lui lo scorso fine settimana a scatenare il panico nella magistratura italiana con un articolo dal titolo eloquente: “Storia di corna, membro del Csm simula furto dell’iPhone”. In questi giorni Cimini è a Ginostra. Lo raggiungiamo telefonicamente per un’intervista dopo che il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini ha inviato a tutti i membri dell’organo di autogoverno una nota che smentisce le rivelazioni di Giustiziami.it: “A seguito di richieste di chiarimento formulate da diversi colleghi, Vi scrivo con riferimento alla vicenda riportata dai mezzi di stampa”, si legge nella comunicazione di Legnini. Il quale ricorda come, secondo “alcuni quotidiani” e “talune testate giornalistiche in rete”, penderebbero “un procedimento penale e uno disciplinare a carico di un componente di questo Consiglio superiore“. Procedimenti che “discenderebbero da una sua denuncia” sull’“impiego abusivo di un cellulare per imprecisate comunicazioni effettuate da terzi”. Si tratterebbe di un messaggio WhatsApp inviato per errore alla moglie del consigliere del Csm ed evidentissimamente destinato a un’altra donna, che avrebbe spinto il membro del Consiglio a denunciare l’uso abusivo del telefonino, rimasto in realtà sempre in suo possesso. Legnini scrive ai consiglieri che “non risulta pendente alcun procedimento”.

Cimini, hai visto che caos hai scatenato? Il tuo pezzo ripreso anche da Dagospia è stato tra i più letti del weekend. Ma la storia è vera?

«Confermo pienamente il fatto storico. Un magistrato membro del Csm, con il cellulare di servizio, ha scritto via whatsapp un messaggio all’amante inviandolo per errore alla moglie. Per tentare di placare la furia della moglie tradita si è inventato la storia che gli era stato rubato il telefonino. E, nel tentativo di dimostrare di essere estraneo al fatto presentava pure una denuncia affermando di aver subito un furto. Gli accertamenti svolti, però, hanno appurato che il cellulare era sempre rimasto nella disponibilità del consigliere togato e mai oggetto di un furto».

Quando sarebbe avvenuto l’episodio?

«Alcuni mesi fa. È coperto dal massimo riserbo anche se risulta essere a conoscenza di un numero non piccolo di persone».

Che provvedimenti hanno preso i colleghi dell’incauto consigliere?

«Questo non so dirlo. Non so quali siano le decisioni della Procura di Roma. Ma dubito seriamente che possano e vogliano procedere contro di lui».

E perché?

«Le carriere dei magistrati dipendono totalmente dal Csm. Il consigliere in questione è un potentissimo presidente di Commissione. Mi spieghi quale pm ha il coraggio di indagarlo a costo di vedere la sua carriera stroncata per sempre».

Legnini scrive che “non risulta pendente alcun procedimento penale”.

«Appunto, non risulta “pendente”. La smentita si limita a escludere attuali procedimenti penali. Non dice se il fatto è successo o meno. Se è stato archiviato oppure se è stato già definito».

Legnini ricorda anche che questa vicenda ha suscitato “apprensione” e “disagio” in tutto il Csm.

«Sarò prevenuto, ma questo Csm fu quello che, al culmine dello scontro che andava avanti da mesi fra Bruti Liberati e il suo aggiunto Robledo, annunciò il procedimento disciplinare solo quattro giorni dopo il comunicato con cui l’allora procuratore disse che di lì a poco sarebbe andato in pensione. I magistrati la devono smettere con la favola dell’indipendenza e dell’autonomia. E basta anche con questa farsa dell’obbligatorietà dell’azione penale».

Su una cosa si può convenire, Cimini: se fosse stato un politico a mandare messaggi all’amante col telefonino di servizio e poi a simularne il furto, sarebbe stato crocifisso a testa in giù.

«Sì, sarebbe stato colpito e affondato a colpi di legalità».

IL PM, LE CORNA E IL FINTO FURTO. STORIA DEL GRANDE INTRIGO CHE SCUOTE IL CSM. Di Annalisa Chirico, il Foglio, 30 giugno 2016. Il Grande Intrigo del Csm. Come in un giallo di Raymond Chandler, si mescolano il presunto colpevole, il corpo del reato, l’amante e il poliziotto, in un’ondata di sospetti, pettegolezzi e veleni che infestano i corridoi di Palazzo dei Marescialli. Nelle mailing list dei magistrati non si parla d’altro (“chiediamo a Signorini come sono andate le cose”, suggerisce qualcuno), i giornalisti si consultano tra loro, nessuno sa come uscirne, siamo tutti in fibrillazione, dateci il fedifrago, qui e ora. Tuttavia la trama piccante di amori penalmente rilevanti s’infrange contro lo scoglio abruzzese, lui, Giovanni Legnini. Dopo giorni di tam tam ambiguo, di detti e non detti, di nomi sussurrati e frasi mozzate, il vicepresidente del Csm spedisce una lettera ai consiglieri. “Non risulta pendente alcun procedimento penale o disciplinare a carico di componenti del Consiglio in relazione ai fatti riportati nei citati articoli di stampa”, chiarisce la nota. Quali sarebbero codesti fatti? Lo scorso 24 giugno Frank Cimini, storico cronista giudiziario, innesca la miccia con un post sul sito Giustiziami.it: “Storia di corna, membro del Csm simula furto iPhone”. Il racconto ha dell’incredibile: un consigliere togato avrebbe indirizzato un messaggio via WhatsApp, “dal contenuto inequivocabile”, all’amante. La moglie non la prende bene, anzi s’infuria, pretende spiegazioni e il magistrato replica che l’apparecchio gli sarebbe stato rubato. Per dare consistenza all’autodifesa sporge denuncia sostenendo che il telefono, per giunta intestato al Csm, gli sarebbe stato sottratto da un ladro. La polizia avvia le indagini e scopre che, colpo di scena, lo smartphone è sempre rimasto nelle disponibilità del consigliere. Preso atto del furto immaginario, i funzionari sono costretti a presentare un esposto alla procura di Roma per simulazione di reato con il risultato che, racconta Cimini, lo stesso si ritroverebbe sotto una duplice inchiesta, penale e disciplinare. Il racconto supera la più fervida fantasia. Dagospia lo rilancia, e la storia di corna, vere o presunte, infiamma le linee telefoniche di cronisti e magistrati. Tra togati e laici non si chiacchiera d’altro, il weekend precede la settimana “bianca” in cui i consiglieri non si riuniscono. E’ tutto un vortice di telefonate, il nome che circola è sempre lo stesso, ma nessuno capisce che cosa ci sia di vero e d’inventato, eppure qualcosa c’è. Il Tempo pubblica un pezzo garbato, senza far nomi; il Giornale non è da meno, e per l’occasione rispolvera il nom de plume Diana Alfieri, già “autrice” della patacca del caso Boffo. Il 28 giugno Legnini spedisce la nota chiarificatrice: “All’esito di verifiche effettuate, posso riferirvi che non risulta pendente alcun procedimento a carico di componenti del Consiglio”, inoltre “alla luce di tali rilievi non può nascondersi il disagio per le ricostruzioni adombrate dalle suddette testate giornalistiche le quali hanno finito con l’esporre il Consiglio e i suoi componenti a spiacevoli commenti privi di conferma in atti giudiziari”.

Dura quattro giorni l’attesa per una presa di posizione ufficiale, in quel lasso di tempo l’ombra del fedifrago si allunga minacciosa su ciascun componente maschio del Csm. “Per fortuna Legnini ha smentito – commenta il consigliere Pierantonio Zanettin al Foglio – Io sono fuori con la famiglia, mi chiamano decine di suoi colleghi ma io non so nulla di questa storia. Si figuri quanta voglia ho di disquisire di corna altrui”. Ma le corna in questa storia tengono banco. E’ possibile che la trama boccaccesca sia stata inventata di sana pianta? Cimini non ha la reputazione del pataccaro, la sua è la carriera di un uomo di trincea, per venticinque anni al Mattino, inviato al Palazzo di giustizia di Milano; nel 1992, quando i cronisti di tutta Italia scodinzolano dietro Antonio di Pietro, è tra i pochi a tenersi fuori dal coro. “La notizia – dichiara Cimini al Foglio – proviene da ambienti giudiziari, non è una patacca e si regge a dispetto della smentita burocratica di Legnini. La nota riferisce che non è pendente alcun procedimento, al tempo presente. La vicenda risale ad alcuni mesi fa, nulla esclude che il togato sia stato iscritto e poi archiviato, o che sia tuttora indagato riservatamente o che possa esserlo in futuro”. M’è dolce naufragar nell’incertezza. “Quella nota è un modo per tamponare e prendere tempo – prosegue Cimini – Che il magistrato abbia mandato per errore alla moglie il messaggio indirizzato all’amica del cuore è un fatto storicamente accaduto. La moglie ha deciso tuttavia di restare al suo fianco”. Il rapporto di coppia è faccenda privata, il punto è se un togato del Csm abbia simulato un furto. “I contorni della vicenda giudiziaria si chiariranno solo tra qualche tempo. Il fatto che la smentita giunga al termine di quattro giorni in cui i magistrati d’Italia hanno sproloquiato di corna e telefoni rubati la dice lunga”. Il vicepresidente Legnini è maestro di prudenza, difficilmente si sarebbe esposto senza un’accurata valutazione dei rischi. “Se tra qualche mese venisse fuori che il tal magistrato era effettivamente sotto indagine, basterebbe spiegare che all’epoca della smentita l’indagine era secretata”, chiosa Cimini. Intanto i pettegolezzi si rincorrono, il nome che circola è sempre lo stesso ma nessun giornale lo riporta. Le notizie sono centellinate perché a bruciarsi le fonti s’impiega un attimo. Ieri la Stampa riporta la smentita del numero due del Csm condita, per la prima volta, dal nome che tutti sanno ma nessuno pronuncia. L’Innominabile si chiama Lucio Aschettino, è lui il protagonista, suo malgrado, del Grande Intrigo. E’ lui a sperimentare sulla propria pelle i guasti di un processo mediatico. Su Facebook, della serie “colleghi serpenti”, il giudice Clementina Forleo traccia l’identikit: “La commissione che presiede è quella che decide gli incarichi direttivi”, la quinta. Nelle mailing list togate c’è chi lo difende (“Quando si vuole eliminare un concorrente si prega un giornalista – termine improprio – e si dà origine alla notizia”) e c’è pure chi lo attacca (“Getta discredito su tutto il consiglio”, “è fonte d’imbarazzo per l’intera magistratura”). Aschettino non è un quisque de populo. Già presidente della Sezione penale del Tribunale di Nola, presiede la quinta commissione del Csm, quella che presenta relazioni e proposte per il conferimento e la conferma degli incarichi direttivi e semidirettivi. Non c’è nomina che non passi da lui. Dopo una carriera di provincia alle prese con la criminalità mafiosa e in perenne sottorganico, Aschettino viene eletto al Csm, due anni or sono, insieme al compagno di corrente Piergiorgio Morosini, entrambi in quota Md, confluiti in Area (il cartello elettorale nato dalla fusione con il Movimento per la giustizia). Lo spiffero di un suo eventuale coinvolgimento in una vicenda dai contorni foschi desta non pochi malumori tra gli avversari interni. Non manca chi solleva una questione di opportunità: può un alto magistrato, con un ruolo di responsabilità e prestigio, restare saldamente dov’è? Chi sa far di conto evidenzia che, se Aschettino si dimettesse, subentrerebbe al suo posto Francesco D’Alessandro, Unicost, presidente di sezione della Corte d’appello di Catania, che alle ultime elezioni del Csm raccolse 454 suffragi (contro i 467 di Nicola Clivio, Area, ultimo degli eletti). D’Alessandro, già presidente della sezione catanese dell’Anm, rappresenta la fazione interna di Unicost che osteggia il gruppo dirigente nazionale. Per questo il suo arrivo a Roma non sarebbe gradito all’area che fa riferimento al consigliere togato Luca Palamara. Inoltre, la fuoriuscita di Aschettino – ragione per cui qualche suo avversario interno potrebbe aver amplificato la portata del piccolo giallo – muterebbe gli equilibri interni alla componente togata del Csm dove attualmente la sinistra giudiziaria detiene la maggioranza. In seguito a un suo eventuale passo indietro i membri di Area passerebbero dagli attuali sette a sei e quelli di Unicost da cinque a sei, siglando un sostanziale pareggio tra le correnti. Com’è noto, i rapporti di forza contano. Che le nomine seguano una meccanica spartitoria e non un principio meritocratico è un fatto assodato. Al di là dei buoni propositi, il nuovo testo unico sulla dirigenza non ha neutralizzato il potere correntizio. La riprova si è avuta attorno alla nomina del procuratore capo di Milano: dopo essersi sapientemente astenuta in occasione della votazione in quinta commissione lo scorso 14 aprile, Unicost è divenuta l’ago della bilancia e in plenum ha votato per Greco soltanto dopo aver ottenuto la nomina di un proprio capocorrente, Giuseppe Amato, al vertice della procura di Bologna. Scambio di toghe e favori, di ciò sembra consapevole pure il numero uno dell’Anm, Piercamillo Davigo, che recentemente ha definito “prassi orribile” quella delle “nomine a pacchetto: uno a me, uno a te, uno a lui”. La questione della spartizione correntizia emerge periodicamente, ogni volta che qualcuno rilascia dichiarazioni choc (vedi Raffaele Cantone) o scoppia il caso eclatante (nel 2012 l’allora consigliere del Csm Francesco Vigorito, Md, rese pubblica, per errore, una email indirizzata ai colleghi in cui lamentava “qualche pressione interna” che li aveva indotti a convergere sulla “giovane candidata napoletana di Area” ai danni del candidato concorrente). Adesso il “caso Aschettino” precipita su piazza dell’Indipendenza. Il magistrato, con una nota interna, ieri ha dichiarato: “non sono stato mai indagato né archiviato, dalla Autorità giudiziaria competente, per simulazione di reato o per ogni altra ipotesi delittuosa o contravvenzionale che anche la più fervida delle fantasie possa immaginare. Rilevo invece, che su di un mio esposto riguardante un accesso abusivo al mio cellulare, mirante a tutelare la funzione che svolgo, si è innestato un totale rovesciamento della realtà con l’effetto di rappresentarmi come l’accusato di un grave reato”. La storia andrà avanti. Per Legnini è l’ennesima matassa da sbrogliare. Per i cittadini, patacca o non patacca che sia, è l’ennesima riprova che qualcosa, nel sistema di autogoverno della magistratura, forse non va. Annalisa Chirico, il Foglio, 30 giugno 2016.

E poi ancora. Magistrati: papponi ed evasori?

“Un’alcova nei pressi di Piazza Mazzini a Lecce mascherata per un Bed end Breakfast e trasformata in una casa per appuntamenti. Uno scandalo a luci rosse travolge una coppia di insospettabili professionisti leccesi: lui, Giuseppe Caracciolo, 59 anni, magistrato originario di Lecce e in servizio a Roma presso la Corte di Cassazione Civile; la compagna, una poliziotta in pensione, in servizio per anni fuori dal Salento”. Così riporta il sito de “Il Corriere Salentino” dell’1 luglio 2016. Unico giornale ad aver avuto il coraggio di dare il nome del magistrato. I colleghi pavidi se fosse stato un povero cristo l’avrebbero messo immediatamente alla gogna.

«Bed & breakfast» di un magistrato trasformato in casa d’appuntamento. Il titolare dell’immobile sapeva e pubblicizzava l’abitazione anche come «casa vacanze» dopo le segnalazioni dei vicini è scattata la trappola dei poliziotti che si sono finti clienti, scrive Antonio Della Rocca l’1 luglio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Un magistrato ordinario di origini leccesi, ma in servizio a Roma presso la Corte di Cassazione, e la sua compagna sono indagati dalla Procura della Repubblica di Lecce per favoreggiamento della prostituzione. L’uomo, secondo gli investigatori della Squadra mobile del capoluogo salentino, coordinati dal sostituto procuratore Maria Vallefuoco, avrebbe affittato un’abitazione di sua proprietà situata nella zona di piazza Mazzini, nel pieno centro di Lecce, a giovani donne rumene che lì si prostituivano. Lo stesso proprietario avrebbe preteso un canone di locazione ben superiore a quello di mercato, del quale richiedeva l’immediato pagamento in contanti, senza rilascio di alcuna ricevuta e senza inoltrare le comunicazioni previste all’autorità di pubblica sicurezza. Nelle scorse ore i poliziotti della Squadra mobile hanno eseguito il sequestro preventivo dell’abitazione, come disposto dal gip Vincenzo Brancato, su richiesta del pm Vallefuoco. Nel corso degli ultimi mesi erano pervenute alla Squadra mobile numerose segnalazioni riguardanti il presunto esercizio della prostituzione all’interno di uno stabile del centro cittadino pubblicizzato su numerosi siti internet come casa vacanze. Gli autori delle denunce lamentavano un continuo viavai di persone di sesso maschile che, a tutte le ore del giorno, dopo avere sostato dinanzi all’immobile e avere fatto alcune telefonate, vi entravano per uscirne dopo poche decine di minuti. La polizia, durante una serie di appostamenti, ha appurato la veridicità delle segnalazioni, rilevando un continuo avvicendarsi di visitatori. Due di questi, bloccati in tempi diversi e sentiti per sommarie informazioni, hanno detto di avere ottenuto una prestazione sessuale a pagamento da una ragazza contattata dopo averne visto la foto e rilevato il numero di telefono sul sito internet «bakekaincontri». Fingendosi clienti, i poliziotti sono riusciti ad entrare nell’appartamento situato al primo piano dell’edificio, dove hanno trovato una ragazza che indossava solo reggiseno e tanga, la quale li ha invitati a seguirla all’interno, dove gli agenti si sono qualificati come ufficiali di polizia giudiziaria. Nell’appartamento sono state identificate tre giovani di nazionalità rumena, una delle quali stava consumando una prestazione sessuale con un cliente. Quest’ultimo ha riferito di avere contattato la donna attraverso lo stesso sito internet indicato dai clienti sentiti in precedenza. L’appartamento era composto, oltre che da una zona soggiorno, da due camere all’interno delle quali sono stati rinvenuti numerosi profilattici, confezioni di lubrificante intimo, salviette e rotoli di carta assorbente. L’appartamento era, peraltro, collegato attraverso una porta interna all’abitazione del proprietario indagato. Secondo quanto riferito dalle ragazze straniere, il proprietario e la compagna erano soliti accedere liberamente nell’alloggio confinante nel quale veniva esercitata la prostituzione, per raggiungere la terrazza comune dove stendevano i panni. All’interno di una stanza adibita a lavanderia, anche questa comune ai due appartamenti, era presente la collaboratrice domestica del proprietario e della sua convivente. Ciò, secondo la polizia, fa presumere che i due non potessero non essere informati dell’attività di prostituzione. Tale convincimento degli inquirenti sarebbe peraltro corroborato dalle dichiarazioni rese a verbale dalle ragazze ascoltate. Queste ultime, nonostante avessero pagato l’affitto nelle mani del proprietario, non possedevano alcuna ricevuta. L’unico documento in loro possesso era una piantina della città di Lecce che riportava la zona nella quale si trova l’immobile, con l’annotazione a penna dei numeri telefonici del proprietario, della sua convivente e della collaboratrice domestica. Non solo. Sempre secondo gli investigatori, anche il prezzo pagato da ciascuna delle ragazze sarebbe sintomatico della consapevolezza da parte del proprietario dell’attività di prostituzione che veniva svolta. Per una sola stanza, ciascuna di esse pagava dai 300 ai 350 euro. Inoltre, la stanza spesso veniva contemporaneamente affittata a più persone che non si conoscevano e che dormivano nello stesso letto. Grazie alle dichiarazioni rese dalle ragazze straniere, la polizia, ha anche appreso che il proprietario, il giorno precedente a quello della perquisizione, si era recato nell’appartamento per consegnare loro i prodotti per le pulizie, annunciando, nella stessa occasione, che nei giorni successivi avrebbero dovuto condividere la stanza con altre ragazze appena giunte. Una delle ragazze ha riferito ancora che, contattato il proprietario dopo avere trovato su internet il suo numero di telefono quale titolare di un bed and breakfast, e lamentatasi per il prezzo di affitto elevato, l’interlocutore avrebbe risposto alla giovane che «non avrebbe avuto problemi a pagare una tale cifra». L’indagato, dopo avere diviso in due l’appartamento di sua proprietà, ricavandone quello poi concesso in locazione, aveva piazzato solo all’esterno di questo, e senza l’autorizzazione dei condomini, una telecamera che ne vigilava l’ingresso. Gli inquilini dell’immobile hanno riferito di avere più volte notato l’indagato accompagnare ragazze in ascensore all’appartamento, portando loro le valigie. Infine, nonostante l’appartamento fosse pubblicizzato sul web come casa vacanze o bed and breakfast, nessuna insegna era stata posta all’esterno dello stabile.

Pagano le intercettazioni coi soldi dei detenuti, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 22 luglio 2016 su “Il Dubbio”. Venne stabilito un indennizzo pari a 8 euro per ogni giorno di detenzione trascorso in condizione inumane, ma dei 20 milioni stanziati solo 500mila sono stati utilizzati. Sono passati oltre tre anni da quando, nel 2013, l’Italia venne condannata dalla CEDU con l’ormai storica sentenza “Torreggiani” per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani, cioè il divieto di tortura o di trattamenti disumani e degradanti. La condanna, come si ricorderà, nasceva dal ricorso di alcuni detenuti delle carceri di Busto Arsizio e Piacenza che lamentavano di essere stati costretti a vivere in meno di tre metri quadrati a testa, di non aver potuto regolarmente usufruire delle docce e di non aver avuto sufficiente illuminazione nella cella. I giudici di Strasburgo, con quella sentenza, aprirono di fatto una nuova emergenza carceri nel Paese, affermando che il sovraffollamento carcerario rappresentava ormai un “problema sistemico risultante da un malfunzionamento cronico del sistema penitenziario italiano”. Il governo italiano, costretto a misure d’emergenza per evitare ulteriori conseguenze a livello europeo e, soprattutto, altre condanne, varò una seria di provvedimenti legislativi. Il più celebre fu senza dubbio il decreto legge n. 92 del 26 giugno 2014 che, recependo le prescrizioni della Corte di Strasburgo, stabiliva un “risarcimento” per i detenuti reclusi in condizione di sovraffollamento. Tale risarcimento, su domanda dell’interessato, sarebbe consistito in uno sconto di pena di un giorno ogni 10 giorni di carcerazione subita in condizione inumane. I magistrati di sorveglianza vennero incaricati di provvedere al riguardo, valutando le istanze presentate dai detenuti. Per i detenuti già scarcerati, invece, venne stabilito un risarcimento pari ad 8 euro per ogni giorno di detenzione trascorso in condizione di sovraffollamento. Sempre a domanda dell’interessato da presentarsi, questa volta, al tribunale civile che avrebbe deciso in composizione collegiale. La norma prevedeva, infine, che questi rimedi risarcitori fossero soggetti a decadenza se non richiesti entro sei mesi dalla data della scarcerazione. Leggendo i dati sui risarcimenti erogati, aggiornati al primo semestre del 2016, sembra che in Italia non ci sia però mai stata alcuna “emergenza carceri”, e che tutto sia stato il frutto di una strumentalizzazione mediatica orchestrata dai radicali, da sempre particolarmente sensibili su questo tema, o dalle associazioni che si occupano dei problemi dei detenuti. In questi anni, degli oltre 20 milioni di euro che il governo aveva stanziato nel 2014 temendo una valanga di ricorsi, ne sono stati erogati per i risarcimenti appena 500 mila. I motivi? Molteplici. In primo luogo le varie sentenze della Cassazione che si sono succedute nel tempo e che hanno ingenerato confusione sul concetto di “attualità” del trattamento inumano e degradante. Nel senso che se al momento della presentazione del ricorso il detenuto non era più ristretto in un loculo, essendo venuta meno l’attualità della domanda, questo veniva dichiarato inammissibile. Poi la difficoltà intrinseca nel ricostruire la “storia” carceraria del detenuto. Nei casi di lunghe carcerazioni, ad esempio, con frequenti spostamenti di cella o, addirittura, di carcere, non è affatto facile risalire al momento preciso della condizione di recluso in un contesto sovraffollato. Ma, ed è questo l’aspetto principale su cui bisogna soffermarsi, e che i più maliziosi dicono sia stato fatto apposta per scoraggiare la presentazione dei ricorsi, la procedura prevista dalla legge per l’ottenere il risarcimento. Cioè la causa civile da predisporre davanti al giudice. Causa che di per se comporta un costo per il detenuto fra contributo unificato da versare direttamente ed onorario dell’avvocato che deve curare il procedimento davanti al tribunale. Il detenuto, infatti, oltre al normale avvocato penalista, in molti casi deve affiancarlo anche da un civilista per la trattazione di questo genere di ricorso. Senza considerare, poi, che molti di questi sono detenuti sono soggetti estremamente fragili. Con problemi di tossicodipendenza o di clandestinità. E quindi portati a rinunciare ad affrontare un nuovo contenzioso. Per far fronte alla complessità della procedura risarcitoria, in questo periodo, si è sopperito con l’aiuto di associazioni di volontariato o con la meritoria attività di avvocati che, senza compenso alcuno, hanno seguito il procedimento civile. Al danno per i mancati risarcimenti, però, a breve potrebbe aggiungersi la beffa. Come ventilato da molti, il governo sarebbe intenzionato a “stornare” dal capitolo di bilancio questi milioni di euro che non sono stati spesi. Soldi che, pare, dovrebbero essere destinati per i pagamenti delle attività di intercettazione telefonica. Da sempre un pozzo senza fondo per il bilancio del ministero della Giustizia. Ci auguriamo di essere smentiti.

Caso Cucchi, un'insostenibile mancanza di giustizia, scrive Giuseppe Anzani il 20 luglio 2016 su "Avvenire”. ​Stefano Cucchi non è morto per colpa dei medici dell’ospedale Pertini, dice daccapo la Corte d’Assise d’appello di Roma in fase di rinvio. Accusati di aver lasciato in abbandono quell’uomo incapace dal povero corpo stremato, condannati in primo grado per omicidio colposo, poi assolti in appello con una formula ricavata dalla «mancanza di certezze sulla causa della morte», rimessi ancora alla sbarra dalla Corte Suprema che aveva cassato la sentenza, imponendo un nuovo processo, escono ora di scena (salvo ennesimo ricorso) i sanitari, i camici bianchi ai quali è affidata la salute degli uomini. Non conosciamo ancora il percorso argomentativo col quale i giudici hanno risposto al puntiglioso dettato della Cassazione, i cui princìpi ancora si stagliano: il medico è il garante della tutela della salute per ogni paziente, il medico è tenuto a fare «tutto ciò che è nelle sue capacità per la salvaguardia dell’integrità del paziente», il medico di cui non è mai giustificabile, neppure nelle situazioni complesse, l’inerzia o l’errore diagnostico. Non abbiamo ragioni nostre per dire che questa rinnovata assoluzione è giusta o sbagliata. È ribadita e ferma. E così la morte di Stefano Cucchi resta un grido che chiede ancora perché. Un grido che non si spegne nel segmento terminale delle ipotesi fatte dai periti e dai vari consulenti di parte (tutti di chiara fama, ma così divergenti); ben prima di incrociare responsabilità personali dirette, ora escluse, interroga il senso dell’ingresso in una struttura di ricovero e di terapia, da parte di un uomo in vinculis, infragilito e a rischio di morte, col corpo ferito. Senza che quel "sistema" lo scampi dal morire, pur senza la colpa penale di nessun camice bianco. È questo lo scacco, il fallimento inaccettabile, che la cronaca ha unito alla crudeltà burocratica della solitudine del ragazzo rispetto ai genitori in attesa di permesso, cui fu dato accesso il giorno dell’autopsia. Il riverbero dell’esclusione della colpa dei sanitari rilancia l’immagine del corpo sfinito per le percosse. Gli agenti di polizia penitenziaria mandati a processo sono stati assolti, in primo secondo e terzo grado. Ma le botte ci sono; la Cassazione commenta persino la «disarmante sicurezza e semplicità di un carabiniere» che testimonia: «Era chiaro che era stato menato». Quelle botte sono un delitto vergognoso, commesso all’interno degli apparati dello Stato. Di quel delitto nessuno sta rispondendo, e il colpevole non si trova e forse non si troverà. È vero che c’è in corso un’altra inchiesta, riguardo ai carabinieri che ebbero tra le mani Stefano Cucchi dall’arresto in poi. Dico "tra le mani" di proposito, come figura di ciò che l’arresto, il fermo, la cattura fisicamente produce, sul piano del possesso o della padronia di un corpo in ceppi, quando legge e forza si fanno tutt’uno. Da quel momento deve scattare una cautela che ha in sé qualcosa di sacro, una salvaguardia per la dignità umana dell’arrestato, una garanzia per la sua incolumità e sicurezza, una responsabilità dello Stato che lo ha in custodia. Purtroppo non accade sempre così, e le trasgressioni sono difficili da smascherare, e talvolta è persino rischioso denunciarle, c’è chi preferisce tenersi l’occhio pesto perché «caduto dalle scale» piuttosto che rischiare una controdenuncia per calunnia. Ci vuole un salto di civiltà, un soprassalto di coscienza. La morte di Stefano Cucchi ha sparigliato molte carte, c’è qualcosa di più importante da fare, che macinare altre doverose sentenze su cenci residui. C’è da rifare luce nel mondo della legge, togliendo ogni opacità e ipocrisia. La vita d’un uomo vale la vita del mondo.

Caso Cucchi, nuova assoluzione per i medici nel processo di appello bis. La terza corte d'Appello di Roma scagiona i cinque imputati di omicidio colposo nel quarto processo per il caso del geometra romano morto il 22 ottobre del 2009 all'ospedale Pertini: "Il fatto non sussiste", scrive "La Repubblica" il 18 luglio 2016. Nuova assoluzione per i medici dell'ospedale Sandro Pertini dove era ricoverato Stefano Cucchi, il geometra romano di 32 anni morto il 22 ottobre del 2009 dopo un ricovero di cinque giorni. La terza Corte d'assise d'appello di Roma ha scagionato dall'accusa di concorso in omicidio colposo, il primario Aldo Fierro e i sanitari Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis e Silvia Di Carlo perchè il fatto non sussiste. Il pg Eugenio Rubolino, aveva chiesto quattro anni di carcere per Fierro, primario all'epoca dei fatti, e tre anni e sei mesi per gli altri quattro medici imputati. Al processo che arriva dopo l'annullamento dell'assoluzione deciso dalla Corte di Cassazione nel dicembre scorso, probabilmente seguirà un nuovo appello presso la Suprema Corte. "Ciao Stefano, tu eri già così - è il commento che Ilaria, la sorella di Stefano, affida a Facebook -. Lo sei sempre stato. Noi non ce ne siamo mai accorti ma non abbiamo colpe perché in fin dei conti tu eri già così. Eri già morto quando stavi con noi alla tua ultima festa di compleanno, eri già morto quando ti hanno visto il giorno prima del tuo arresto varcare la soglia degli uffici del comune e della provincia. Eri già morto quando ti hanno visto correre ed allenarti 4 ore prima del tuo arresto. Eri già morto quando ti hanno arrestato. Non se ne era accorto nessuno. Magari sei deperito e dimagrito dopo morto. Magari diranno così. Ma tu sei sempre stato morto". I familiari di Stefano Cucchi che hanno ricevuto un risarcimento di un milione e trecentomila euro dall'ospedale romano non erano presenti come parte civile al processo. Intanto è ancora in corso la perizia medico legale sul caso nell'ambito dell'inchiesta bis sulla morte del giovane che vede indagati cinque carabinieri. Il nuovo incidente probatorio ha il compito di rivalutare il quadro di lesività sul corpo del giovane anche al fine di stabilire la sussistenza o meno di un nesso di causalità tra le lesioni subite a seguito del pestaggio e la sua morte. Nell'inchiesta bis sono indagati Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro, Francesco Tedesco per lesioni personali aggravate e abuso d'autorità, e Vincenzo Nicolardi e Roberto Mandolini per falsa testimonianza. Nicolardi risponde anche di false informazioni al pm.  Secondo la nuova indagine della procura di Roma, Stefano Cucchi fu pestato dai carabinieri e ci fu una strategia scientifica per ostacolare la corretta ricostruzione dei fatti. Stefano Cucchi è morto il 22 ottobre del 2009, all'ospedale Pertini di Roma. Era stato arrestato una settimana prima per detenzione di droga, la sera del 15 in via Lemonia, nei pressi del Parco degli Acquedotti.

Riccardo Magherini, un’altra "sentenzina" per omicidio colposo, scrive Susanna Marietti, coordinatrice associazione Antigone, il 13 luglio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Un altro omicidio colposo. Di nuovo c’è stata negligenza, imprudenza o imperizia in quelle manette messe dietro la schiena e quella faccia buttata sul terreno per circa mezz’ora in una posizione che impediva a Riccardo Magherini di respirare. “Aiuto, aiuto, sto morendo”, sono state le ultime parole pronunciate da Riccardo in quella notte tra il 2 e il 3 marzo 2014 a Firenze, registrate dal cellulare di un uomo affacciato a una finestra lì vicino. Arriva ora la sentenza di primo grado nella quale tre carabinieri vengono condannati per omicidio colposo, uno di loro a otto mesi di carcere e gli altri due a sette. Per il primo era stato chiesto ben un mese di più. Sapete perché? Perché mentre Magherini era a terra ammanettato e soffocante lui lo ha preso a calci. Ma il giudice non ha voluto procedere per l’accusa di percosse. Un altro omicidio colposo, come quello di Federico Aldrovandi, pericolosissimo ragazzino di diciotto anni, persino un po’ mingherlino, che tornava dalla discoteca a Ferrara una notte del settembre 2005 ed è stato picchiato a morte da quattro poliziotti. Lui urlava “basta, aiutatemi, sto morendo” e loro lo prendevano a manganellate e a calci. Cosa c’è di colposo nella condotta tenuta dai poliziotti? Lo stesso pubblico ministero affermò al processo: “Chiedeva aiuto, diceva basta, rantolava, e i quattro imputati non potevano non accorgersi che stava morendo, eppure non lo aiutarono ma lo picchiarono”. Un evidente omicidio preterintenzionale, punito con il carcere dai dieci ai diciotto anni, per come viene descritto in queste parole. Eppure è lo stesso pm a chiedere una condanna a tre anni e otto mesi, con il crimine derubricato a omicidio colposo (scusate, non l’ho fatto apposta…). E all’indomani della sentenza dicevamo tutti che finalmente Federico aveva avuto giustizia, che ora si sapeva chi erano i suoi assassini. Il papà di Federico affermava: “Sono fiero che in Italia ancora esistano magistrati così”. Oggi accade lo stesso per il processo relativo alla morte di Riccardo Magherini. Il fratello è contento della “sentenzina”, sa che di più non può aspettarsi per rendere giustizia a Riccardo. Tutti noi lo sappiamo. Diamo per scontato che quando di mezzo ci sono le forze dell’ordine la scelta sia tra impunità completa o “sentenzine” esemplari. Ci hanno abituato che in Italia è così. Eppure i crimini compiuti da funzionari dello Stato sono tra i più odiosi che si possano immaginare. Quei poliziotti e quei carabinieri erano lì a nome di tutti noi. Il loro non è un crimine privato.

Se al processo per omicidio la Corte si ritira (al ristorante). Indagato dalla procura di Bologna il presidente Reinotti che aveva portato i giudici a pranzare prima della sentenza. Verdetto (di condanna) a rischio. L’imputata: «Li ho visti pranzare allegramente». Reinotti: «Non commento ma non esistono norme specifiche», scrive Andrea Pasqualetto il 20 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". Trieste non è New York e le Corti italiane non sono le giurie americane. Nel senso che non hanno gli stessi doveri di isolamento, segretezza e candore rispetto al giudizio. Ma neppure possono andare allegramente al ristorante quando si ritirano in Camera di consiglio per decidere se condannare un imputato di omicidio. E siccome nel capoluogo giuliano sembra sia andata un po’ così, ecco che il processo si rovescia e sotto accusa finiscono i giudici. Anzi, il primo giudice di quel processo, cioè il presidente della Corte d’assise d’appello di Trieste, Pier Valerio Reinotti, indagato per falso ideologico in atto pubblico proprio in relazione alla scelta di andare al ristorante con l’intera Corte. L’accusa è mossa dalla procura di Bologna, competente a indagare sui magistrati triestini, che ha chiuso di recente l’inchiesta depositando gli atti. Dai quali emerge l’intera vicenda, che sta peraltro mettendo a rischio un processo per omicidio. Succede tutto il 26 giugno del 2015, il giorno della sentenza d’appello Feltrin. Sul banco degli imputati c’è Fiorella Fior, la dipendente delle Poste che nella notte del 10 febbraio 2012, al culmine di un litigio, uccide con una coltellata il compagno Carlo Feltrin nella sua casa di Udine. I giudici di primo grado l’avevano condannata a quattro anni di reclusione per omicidio colposo, riconoscendole l’eccesso di legittima difesa. In secondo grado, il 26 giugno, è stata invece una stangata: nove anni e quattro mesi per omicidio volontario. La cronaca di quel giorno è stata ricostruita ora per ora. Alle 11.40 la Corte d’Assise d’appello dichiara chiuso il dibattimento e si ritira in camera di consiglio per deliberare. Il presidente rinvia tutti al pomeriggio per la lettura della sentenza: «Dopo le 14.30». É in quelle tre ore che accade l’anomalia. Perché ti aspetteresti un lungo, riservatissimo consulto fra giudici, magari intervallato da un pasto frugale portato con cautela in camera di consiglio. La Corte decide invece di prendersi del tempo per pranzare al ristorante. Sia chiaro, non il Cosme di New York: Peperino Pizza & Grill. Il fatto è che in quel locale è capitata anche l’imputata che ricorda così la scena: «In un grande tavolo in fondo alla sala esterna del locale c’erano tutti i miei giudici che serenamente e allegramente pranzavano, mentre il presidente, capotavola, sembrava animare la conversazione». Sfortuna ha poi voluto che in un altro tavolo ci fossero anche i suoi avvocati, testimoni pure loro del curioso banchetto. I quali hanno naturalmente colto la palla al balzo per urlare allo scandalo. «Abbandono collettivo della camera di consiglio!», ha scritto Federica Tosel, difensore di Fiorella Fior. Di più: «Dell’intero Palazzo di giustizia». «Compromesso il processo». «Sentenza illegittima». Chiudendo la denuncia con la battuta graffiante: «Ristorante di consiglio». Inevitabile l’esposto al Csm che si è però dichiarato incompetente. E inevitabile anche il ricorso per Cassazione contro la condanna. Nel frattempo a Bologna si muoveva il pm Luca Tamperi che ora ha chiuso l’indagine. Il presidente Reinotti preferisce non commentare: «Dico solo che non ci sono norme specifiche che regolamentano la materia». Gli inquirenti ritengono che anche se non siamo in America l’assenza va quantomeno verbalizzata e giustificata da buoni motivi. Resta dunque un dubbio: è o non è un buon motivo d’abbandono quel languorino che ha spinto i giudici al ristorante?

Ma credete veramente che la Legge sia uguale per tutti? Noi abbiamo qualche dubbio…Magistrato insulta carabiniere. ​Ma i pm salvano il collega. Il militare aveva chiesto i documenti al magistrato, che lo aveva apostrofato: “Ma vaffanculo”. L’accusato conferma, ma i pm chiedono l’archiviazione. Una notizia data dal quotidiano milanese il Giornale il 19 luglio 2016, che ha raccontato ieri l’ennesimo fenomeno di malcostume della magistratura che conferma di sentirsi sempre più una “casta intoccabile”. Un magistrato è entrato senza badge in una zona del Tribunale di Palermo, particolarmente vigilata, ed è stato fermato da un militare dell’Arma dei Carabinieri – facendo semplicemente il suo dovere – il quale gli ha chiesto i documenti per identificarlo, il pm si è innervosito e lo ha mandato caldamente, ma soprattutto vergognosamente, a quel paese con l’affermazione: “Ma vaffanculo. Questa, è l’offesa “testuale” rivolta dal pubblico ministero all’appuntato dei carabinieri. Un insulto che il militare ha ritenuto, giustamente secondo noi, di dover denunciare alla Procura della Repubblica. E che i pm non hanno mancato di archiviare, confermando di essere una “casta” intoccabile salvando il collega dal processo. L’insulto del magistrato al carabiniere. È questa la sintesi dettagliata della vicenda che ha investito la procura di Palermo e un appuntato del reparto scorte Carabinieri della città siciliana. Ma facciamo un passo indietro. È dicembre 2015 quando il magistrato in questione entra nell’area blindata della Direzione Distrettuale Antimafia senza usare il badge. L’appuntato, non conoscendo di vista il pm, non poteva chiudere un occhio. E giustamente ha chiesto quindi più volte i documenti alla toga, evidentemente infastidita da tanta insistenza. Il magistrato peraltro, dopo aver rifiutato l’identificazione, comportamento che per un normale cittadino costituisce un reato previsto dal Codice Penale, ha persino apostrofato il rigoroso e bravo carabiniere, dicendogli: “Vaffanculo”. Questo lo dedichiamo noi a certi magistrati che dimenticano di essere davanti alla Legge dei cittadini come gli altri. La vicenda, come scrive il sito di informazione su sicurezza, difesa e giustizia grnet.it, che ha rivelato l’incredibile farsa giudiziaria, sarebbe stata confermata da altri tre carabinieri presenti al momento dell’insulto ed anche dal pm stesso nella relazione di servizio. Ma non è bastato a far rispettare il teorema secondo cui “la legge è uguale per tutti”. La Procura di Caltanissetta cui è stato inviato il fascicolo, per competenza territoriale sulla procura di Palermo, infatti, ha deciso che non è possibile punire il pubblico ministero, chiedendo l’archiviazione del caso. Il motivo? Il militare avrebbe sbagliato a insistere nel chiedere i documenti “quando appariva ormai chiaro che si trattava di un magistrato e quando lo aveva certamente valutato come un soggetto inoffensivo dal punto di vista della sicurezza del magistrato da lui protetto”. Insomma: i pm ce l’hanno scritto in faccia che sono magistrati e possono così mandare a quel paese un carabiniere. Senza rischiare di essere puniti.

Essere i paladini della legalità. Il lavaggio del cervello delle toghe. L’Anm indottrina i giovani. E il dogma “impresentabili” spopola, scrive "Il Foglio" il 10 Maggio 2016. "Portatore sano di legalità", era scritto sulle magliette distribuite con il pasto al sacco sabato 7 maggio a 1.500 studenti dall’Associazione nazionale magistrati per la “Notte bianca della legalità”, tour serale al tribunale romano culminato in un intervento del direttore del Fatto quotidiano Marco Travaglio e nel “Viaggio del fascicolo”, simulazione dell’iter di un’indagine dal pm al gip, poi al gup, e infine al giudice. Chissà se è stato anche spiegato che il “viaggio” è tra le stesse carriere, spesso le stesse persone, inquadrate dallo stesso sindacato, l’Anm appunto, oggi protagonista di un’offensiva mediatico-manettara con il suo presidente Piercamillo Davigo, con esponenti della corrente di Magistratura democratica che intendono “fermare” il governo, con pezzi da novanta, come il procuratore di Torino, Armando Spataro, che rivendicano il diritto-dovere di fare campagne politiche. Nel 2011, al Palasharp anti Cavaliere di Milano, fu mandato sul palco un tredicenne; stavolta l’operazione coinvolge i liceali (ma il 23 a Palermo si ripete, elementari comprese), ed è in apparenza più istituzionale: ministri, avvocati, sponsorizzazioni di Coni e Rai, Ambra Angiolini e Laura Morante. E Travaglio guest star. L’uso pedagogico-militante degli adolescenti ricorda sempre un po’ il sabato fascista o la Corea del nord; non è come le visite (al peggio noiosissime) al Parlamento, qui è un sindacato che organizza, come se la Cgil istruisse i giovani sul Jobs Act o il governo illustrasse la legge di Stabilità nelle scuole. C’è aria di lavaggio del cervello: Rosy Bindi, presidente della commissione parlamentare Antimafia, ideatrice dell’etichetta di “impresentabili” per candidati con accuse magari crollate in giudizio – il governatore campano Vincenzo De Luca, che era stato bollato come “impresentabile”, si è visto chiedere dal pm l’archiviazione per il reato di abuso d’ufficio, mentre quello di peculato è già stato archiviato – dice che “le forze politiche hanno fatto a gara a portare alla Commissione le liste elettorali”, e tanto basta. L’equilibrio dei poteri, la parità tra accusa e difesa, quello che in Inghilterra è da 300 anni l’habeas corpus, e che si studia sui banchi di scuola tra le libertà naturali di ognuno; insomma lo stato di diritto: tutto questo non va bene per il pm unico nazionale, e niente notti bianche.

La legge non è uguale per tutti Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità. E le toghe di Md si salvano, scrive Stefano Zurlo, Lunedì 19/08/2013, su "Il Giornale". La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei giudici. Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle intercettazioni telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel caso di Paolo Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo Scardaccione, altro attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe italiane, se la cava anche se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al collega, prima dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica. Assolto pure lui, mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema corte, si vede condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa da quasi sette anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così: spesso i giudici al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza pietà. Quelli che invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra, magari dentro Md, trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito dalla Sezione disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore, alle Sezioni unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i titoli dei film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti. E proprio le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno teorizzato il principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i procedimenti disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva anche se la mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una ragione. Testuale. Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto Preden, dei Verdi, l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e composto da eminenti giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di Md, e Antonio Segreto di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente centrista ma spesso orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo Brancato, giudice di Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle sentenze e di altri provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni unite civili confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per tutti. O meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di Lecce, fa notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito indenne dal processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il tribunale di secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel verdetto del 25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e non dal raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice». Chiaro? Si può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due misure convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E poiché Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro, apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche, sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14 vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento, mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono uguali davanti alla legge.

E poi...

L’ombra di Gomorra sui concorsi di Polizia penitenziaria e Ps. Gli accertamenti riguardano anche la ditta che si era aggiudicata l’appalto per le selezioni, con sede in Campania, e le idoneità fisiche ottenute dai candidati, scrive Damiano Aliprandi il 22 giugno 2016 su “Il Dubbio”. Ripetere al più presto le prove del concorso con video sorveglianza e assumere 800 agenti. È quello che chiede il sindacato autonomo della polizia penitenziaria (il Sappe) in merito alla questione riguardante la sospensione del concorso per gli agenti penitenziari tenuto nello scorso mese di aprile. “Abbiamo invitato il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria a rompere gli indugi e, a prescindere dalla pronuncia o meno dell’Avvocatura della Stato, annullare le procedure di svolgimento delle prove in regime di autotutela”, spiega Donato Capece, segretario generale del Sappe. “Allo stesso tempo – continua il segretario del sindacato - il Sappe ha proposto all’Amministrazione di avviare immediatamente le procedure per la ripetizione delle prove che devono essere espletate prima della fine dell’estate nella Sala concorsi della Scuola di Polizia penitenziaria di Roma, anche avvalendosi di un sistema di controllo mediante telecamere a circuito chiuso con registrazione video, allo scopo di escludere ogni candidato ripreso a commettere irregolarità”. Il Sappe denuncia che i reparti di polizia penitenziaria hanno bisogno di rinforzi al più presto e per questo chiede non solo la ripetizione del concorso, ma anche di avviare lo scorrimento delle graduatorie ancora valide degli idonei non vincitori dei concorsi precedenti al fine di avviare ai corsi di formazione almeno 800 ulteriori agenti. Ma che cosa è accaduto durante l’esame e perché è stato sospeso? Il concorso si era svolto alla Nuova Fiera di Roma il 20, 21 e 22 aprile. Vi avevano partecipato 11 mila uomini per 300 posti e duemila donne per cento posti. I dubbi su possibili irregolarità erano emersi già nei giorni precedenti visto che voci in merito giravano da qualche tempo: per questo l’amministrazione penitenziaria aveva disposto una task force composta da agenti del Nic (Nucleo investigativo centrale) e da due commissari. A quel punto è uscito fuori lo scandalo: 88 candidati sono stati denunciati perché durante le prove hanno utilizzato radiotrasmittenti, auricolari, bracciali con le risposte ai quiz, cellulari contraffatti, cover dei telefonini con le soluzioni. Ma c’è di più. Grazie alle dichiarazioni di alcuni concorrenti finiti sotto accusa, sono usciti fuori i nomi di terze persone coinvolte che puntano diritto alla camorra. Il sospetto degli inquirenti è che la criminalità organizzata abbia tentato di infiltrarsi nelle carceri italiane tramite la via ordinaria del concorso ministeriale. Secondo una ricostruzione de Il Messaggero pare che le indagini puntino anche ad accertare eventuali complicità all’interno del Dap. A suscitare allarme e forti dubbi sulla possibilità di infiltrazioni della criminalità organizzata sono state anche le cifre che sarebbero state pagate per ottenere le soluzioni ai test: in alcuni casi raggiungerebbero i 25mila euro. Soldi che difficilmente un normale concorrente, che abbia la licenza media, può permettersi di pagare per superare un concorso. Gli accertamenti riguardano pure la ditta che si era aggiudicata l’appalto per le selezioni, anche quella con sede in Campania e le idoneità fisiche ottenute dai candidati. Ma non finisce qui. Lo stesso sospetto riguarda un altro recente concorso riguardante la polizia di stato. Il 4 maggio si sono tenute le prove scritte del concorso Polizia di Stato 2016. Terminato il primo step, il 13 maggio, ufficiosamente, è stata pubblicata la graduatoria di merito. Intanto sui gruppi Facebook sono apparse le prime segnalazioni da parte dei candidati che hanno riscontrato irregolarità e procedure poco chiare. Tutto il materiale è sul tavolo del numero uno dell’anticorruzione Raffaele Cantone. A lui e al ministro dell’Interno Angelino Alfano ha scritto il sindacato Autonomo di Polizia su segnalazione dell’associazione “Militari in congedo”. In poche parole sono emerse delle anomalie appena sono uscite le graduatorie del concorso. Nonostante non fosse stata resa pubblica la banca dati su cui allenarsi per prepararsi alla prova scritta, ci si è trovati di fronte a un alto numero di ragazzi che hanno superato la stessa prova senza commettere alcun errore. Ben 194 candidati non hanno sbagliato nemmeno una delle ottanta risposte, 134 hanno commesso un solo errore e 93 ne hanno sbagliate appena due. La totalità degli idonei provengono tutti dalla Campania, regione in cui ha sede la ditta – la stessa che si è occupata anche del concorso per agenti penitenziari – che prepara la banca dati utilizzata per la somministrazione dei quiz. Gente preparatissima, al limite della genialità, oppure dei furbi? Ci penserà forse Raffaele Cantone con una indagine conoscitiva.

Partigiano trucidò 54 innocenti e il governo gli dà una medaglia. La Difesa ha decretato "eroe" della Resistenza Valentino Bortoloso, che partecipò all'eccidio partigiano di Schio, scrive Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 17/06/2016, su "Il Giornale". Se da partigiano hai ucciso 54 persone, se sei entrato nelle carceri e hai scaricato l'intero caricatore di mitra su quelle persone inermi, lo Stato italiano ti premia. Ti dà una medaglia. Ti inserisce nel novero degli eroi. Anche se alle spalle hai una condanna a morte a certificare che quella azione "eroica" fu in realtà un eccidio. Non è uno scherzo. Uno dei protagonisti dell'eccidio di Schio del 6-7 luglio del 1945 (la guerra era già finita) è stato insignito della lodevole "medaglia della Liberazione". Il ministero della Difesa, infatti, in onore dei 70 anni della Repubblica italiana ha pensato fosse necessario istituire una nuova onorificenza per chi prese parte alla Resistenza partigiana. E così nel vicentino, il prefetto Eugenio Soldà non ha potuto che eseguire gli ordini ricevuti dal ministro Pinotti e consegnare la medaglia a 84 partigiani vicentini. Peccato che, non si sa se per errore oppure per dolo, tra i premiati ci sia finito anche Valentino Bortoloso. Teppa, questo il suo nome di battaglia, nel curriculum vanta la partecipazione all'eccidio di Schio. Era uno dei componenti del commando della brigata garibaldina "Martiri Valleogra" che penetrò nelle carceri della guerra civile e colpì a suon di mitra 54 persone. Delle quali, ricorda il Gazzettino, 15 erano donne e 7 dei bambini. Bortoloso venne riconosciuto responsabile e condannato a morte dagli alleati. Anche se poi la pena decadde successivamente in altri processi. La consegna della medaglia ha scatenato una nuvola di proteste a Schio, e anche il sindaco della città ha cercato di prendere le distanze da quanto deciso dalla Difesa. "Se l'ex partigiano fosse realmente pentito per quanto fatto nel luglio del '45, avrebbe dovuto, quanto meno, rifiutare il riconoscimento come vero e concreto gesto di riappacificazione - dice Alex Cioni, responsabile del comitato Prima Noi - Invece, accogliendo questa onorificenza, il partigiano Teppa ha premuto nuovamente il grilletto scaricando idealmente una nuova mitragliata di pallottole su uomini e donne inermi".

Fu condannato a morte per l’Eccidio, ora premiato il partigiano Teppa, scrive Venerdì 17 Giugno 2016 Vittorino Bernardi su “Il Gazzettino”. Un protagonista dell’Eccidio di Schio del 6-7 luglio 1945 ha ricevuto dallo Stato l’onorificenza “Medaglia della Liberazione”. Per il 70° della fine della seconda guerra mondiale il ministero della Difesa ha istituito una nuova onorificenza dedicata agli eroi della Resistenza: la “Medaglia della Liberazione”. A palazzo Leoni Montanari il prefetto Eugenio Soldà ha convocato per premiarli 84 vicentini. Tra loro a spiccare è stato Valentino Bortoloso, legato a uno dei fatti più drammatici della storia di Schio: l’eccidio partigiano della notte tra il 6 e 7 luglio 1945 (a guerra finita) nelle allora carceri mandamentali e ora biblioteca civica Renato Bortoli. Quella notte un commando partigiano penetrò arbitrariamente nelle carceri ammazzando con sventagliate di mitra 54 persone (14 donne e 7 minorenni) ree di essere fasciste o collegare al regime. Uno dei protagonisti del commando partigiano, ora unico vivente, è stato Valentino Bortoloso, 93 anni: Teppa il suo nome da partigiano, componente della brigata garibaldina “Martiri Valleogra”. È stata una figura discussa Valentino Bortoloso, condannato a morte dagli alleati per la partecipazione all’Eccidio, pena successivamente decaduta in successivi processi. Valentino Bortoloso ha ricevuto l’onorificenza dalle mani del prefetto Eugenio Soldà e di Anna Donà, assessore allo sviluppo del Comune di Schio in rappresentanza del sindaco Valter Orsi.

2 giugno 1946: monarchia o repubblica? Nord e Sud sempre divisi su tutto. Gli italiani al voto, scrive Giancarlo Restelli. Per decidere se l’Italia sarebbe stata una repubblica o ancora una monarchia gli italiani andarono alle urne il 2 giugno del ’46 con un referendum. Il risultato fu la vittoria della repubblica ma con uno scarto poco ampio di voti: 12.717.923 per la repubblica e 10.719.284 per la monarchia a cui dobbiamo aggiungere un milione e mezzo di schede bianche e nulle. La repubblica ottiene quindi poco più del 54 per cento dei voti. A esprimersi nel referendum è un’Italia spaccata tra Nord e Sud. Il Nord vota a maggioranza repubblicana mentre il Sud è compattamente monarchico. Vediamo qualche percentuale. In Piemonte, culla dei Savoia, la repubblica ottiene il 57 per cento, in Lombardia il 64 per cento, in Toscana il 71; percentuali simili l’Umbria e le Marche. La regione dove il consenso alla repubblica è più alto è il Trentino con l’85 per cento. Per la monarchia la percentuale più elevata è nella circoscrizione Napoli-Caserta con il 79.9 per cento. I partiti di sinistra (Partito comunista, Partito socialista, Partito d’Azione) si espressero decisamente per la repubblica mentre la Dc non diede indicazioni di voto perché nel partito c’era una forte spaccatura sulla questione istituzionale. La chiesa dà indicazioni di voto a favore della monarchia. Gli americani cautamente si esprimono per la repubblica. Churchill per la monarchia, ma Churchill non è più al potere in Gran Bretagna. Perché questa spaccatura tra Nord e Sud? A parte le storiche differenze tra le due parti d’Italia contarono molto le diverse esperienze delle due aree durante la guerra: il Nord conobbe la Resistenza (il “vento del Nord”) e una presa di coscienza politica che invece il Sud non ebbe perché l’avanzata anglo-americana fu relativamente rapida almeno fino a Montecassino e quindi non ebbe tempo di formarsi la resistenza ai nazifascisti. Ma dietro il voto monarchico si celava il timore che le forze di sinistra mutassero l’Italia sulla base dei propri obiettivi. Spaventava molto il legame fortissimo tra il Pci e l’Unione Sovietica e nello stesso tempo il forte radicamento del partito di Togliatti tra gli operai del Nord e i contadini del Centro-Sud. La monarchia era vista quindi come baluardo conservatore di fronte alle incognite del dopoguerra. Dopo aver appoggiato il fascismo per i propri interessi, ora masse di borghesia piccola e media votavano a favore della conservazione politica identificandosi con i Savoia. Vittorio Emanuele III tentò un colpo a sorpresa per “lavare” l’immagine fosca della monarchia in Italia: abdicò a favore del figlio Umberto (molto meno compromesso con il fascismo rispetto al padre), che così divenne Umberto II. Il passaggio di potere avvenne alla vigilia del referendum nel maggio ’46, così Umberto II divenne il “re di maggio”. Nonostante l’estremo e tardivo tentativo di salvare il trono, la monarchia è sconfitta perché ha dato il potere al fascismo al tempo della Marcia su Roma, non ha agito contro Mussolini quando Matteotti fu assassinato, ha accolto con soddisfazione la nascita dell’“Impero”, ha firmato senza battere ciglio le Leggi Razziali, ha voluto la guerra al pari di Mussolini e si è dissociata da Mussolini e dal fascismo solo quando la guerra era compromessa (25 luglio ’43) per conservare il trono. Con l’8 settembre del ‘43 il re, fuggendo vergognosamente da Roma, condannava il Paese al caos dell’armistizio. È una delle tante leggende che continuano a circolare nel nostro Paese: la presenza di brogli che avrebbero favorito la vittoria della repubblica. Oggi non c’è storico serio che dia credito a questa tesi. Furono i monarchici a sostenere l’idea di una vittoria ottenuta manipolando i voti perché in quei giorni ci fu, dopo il voto, una imbarazzante confusione agli alti livelli dello Stato. Basta pensare che i risultati definitivi furono proclamati dalla Cassazione solo il 18 giugno (!), sedici giorni dopo il voto. Altro fatto sconcertante, dopo la conta le schede furono subito bruciate in tutta Italia, quindi fu impossibile il riconteggio. Mentre la Cassazione tardava a fornire i risultati definitivi corsero voci di golpe da parte delle forze monarchiche che cercarono di coinvolgere Umberto II nel rovesciamento del governo retto in quel momento da De Gasperi. Non ci fu nessun tentativo significativo di colpo di Stato probabilmente perché Umberto II si rese conto che l’eventuale azione militare non avrebbe riscosso molto successo nell’esercito e nel mondo economico; anche gli americani non volevano che l’Italia precipitasse di nuovo nella guerra civile. Fu così che il “re di maggio” lasciò l’Italia il 13 giugno per il Portogallo non attendendo neppure il risultato definitivo del referendum. L’entusiamo per la nascita della Repubblica durò pochi giorni perché sempre nel giugno ’46 Togliatti (leader e figura storica del Pci), in quel momento ministro di Grazia e Giustizia, emanò la famosa amnistia grazie alla quale migliaia di fascisti furono scarcerati e tornarono a occupare posti di potere. La reazione di molti partigiani fu prima di incredulità e poi di aperta protesta ma le cose non cambiarono. Fu così che Togliatti diventò “ministro della Grazia ma non della Giustizia”. Altra delusione di quei giorni fu l’elezione a Capo provvisorio dello Stato dell’avvocato Enrico De Nicola, notorio monarchico così come per la monarchia si era espresso il suo partito, il Partito liberale italiano. De Nicola, esponente di quella classe dirigente liberale che con troppa facilità aveva ceduto al fascismo al tempo della Marcia su Roma, è colui che aveva spedito a Benito Mussolini un telegramma di auguri per il Congresso di Napoli dei Fasci che preparò gli avvenimenti del 28 ottobre 1922. Ma De Nicola fu anche colui che elogiò il re Vittorio Emanuele III quando conferì a Mussolini l’incarico di formare il primo governo di fascisti e liberali nei giorni convulsi della Marcia. Insomma un monarchico a capo della repubblica! Contemporaneamente il 2 giugno del ’46 si votò a favore della Costituente, ossia di quella assemblea che avrebbe avuto il compito di redigere la nuova Carta costituzionale (1 gennaio ’48). I risultati sono a favore della Dc che ottiene il 35 per cento mentre il Pci è fermo al 19 e il Psi al 20. Scompare il Pd’A di Parri, Valiani, Bauer, Calamandrei, ossia un partito che nella Resistenza espresse quadri politici e militari di notevole livello e fu a capo di numerose organizzazioni partigiane. Ormai il sistema politico ruota attorno ai tre partiti di massa mentre monarchici, repubblicani, liberali sono ridotti a percentuali irrisorie. L’anno dopo, il 1947, le sinistre sarebbero state escluse dal governo (maggio ’47, quarto governo De Gasperi) e la prima repubblica italiana si preparava a una lunga egemonia democristiana.

“La costituzione più brutta del mondo” di Federico Cartelli. Libro pubblicato nella collana “Fuori dal Coro" de “Il Giornale” il 19 maggio 2016. La Costituzione «nata dalla Resistenza», concepita settant’anni fa ed entro un contesto culturale dominato da ideologie illiberali, continua ad apparire qualcosa di sacro e intoccabile. Mettere in discussione la più bella del mondo è un’eresia. Ma una Costituzione non dev’essere bella: dev’essere efficiente. La nostra invece è la radice di ogni male italiano, dal debito pubblico al fisco, dai giochi di palazzo agli eccessi sindacali. La Carta è la pietra angolare del conservatorismo che protegge quello status quo politico ed economico che tutti, a parole, vorrebbero cambiare. 

“Costituzione, Stato e crisi”, intervista a Federico Cartelli di Riccardo Ghezzi del 31 agosto 2015 su "Quelsi”. La Costituzione italiana è davvero la più bella del mondo? Non secondo Federico Cartelli, direttore del sito The Fielder, che nel suo libro “Costituzione, Stato e crisi – Eresie di libertà per un paese di sudditi”, disponibile su Amazon, mette sotto processo uno dei miti della nostra società: la Costituzione “nata dalla Resistenza”. Un libro con la prefazione del filosofo liberale Carlo Lottieri. In questa intervista con l’autore ne approfondiamo le tematiche.

Federico, innanzitutto, come è nata l’idea di questo libro?

«Stavo preparando un articolo sui difetti della nostra Costituzione e stavo ricercando del materiale. Dopo un po’ mi sono accorto che trovare libri o paper critici nei confronti della Carta era pressoché impossibile. Praticamente tutte le fonti che stavo consultando non osavano metterne in dubbio la sacralità, né muovevano dei rilievi su quelle parti che sono palesemente superate dalla Storia. A quel punto, con un po’ di sana incoscienza e senza prendermi troppo sul serio, ho deciso che mi sarei impegnato personalmente per colmare questa lacuna. Avevo sempre pensato di scrivere un libro, e questa è stata l’occasione giusta».

Non ti sembra azzardato che una persona “qualunque” possa scrivere un libro di critica nei confronti di quella che è pur sempre la nostra Costituzione?

«Senz’altro. È molto azzardato. Però credo che in questo libro, più che altro un manifesto, si possano cogliere sia lo spirito polemico delle mie osservazioni, sia l’intenzione di discostarmi da certi modelli populisti in salsa grillina che non sanno andare oltre il pensiero breve. In verità, “Costituzione, Stato e crisi” è proprio un manifesto contro il pensiero breve, più precisamente quel pensiero breve sessantottino e progressista che da decenni blocca l’Italia e le impedisce di diventare un Paese moderno. È un manifesto contro la retorica collettivista, contro il benecomunismo che si respira in ogni articolo della nostra Carta e che ogni giorno ci viene propinato da certi giornali e da certi politici. Bisogna dirlo forte è chiaro: no, non è la Costituzione più bella del mondo. Anzi, è una delle peggio riuscite».

Credi che i lettori abbiano apprezzato questo messaggio?

«Per adesso, direi proprio di sì. Sono rimasto sorpreso dai molti messaggi ricevuti e dalle valutazioni lasciate su Amazon. Alcuni mi hanno scritto in privato per complimentarsi e hanno apprezzato il fatto di poter leggere, finalmente, una critica alla “più bella del mondo”. Posso già ritenermi soddisfatto, e spero che le mie “eresie” si diffondano in più possibile».

Ma secondo te, perché c’è sempre questa ossessiva retorica adulatoria nei confronti della Costituzione?

«Perché la Costituzione è di fatto il lucchetto che mantiene tutto com’è. È la suprema garanzia dello status quo. In nessun altro Paese europeo c’è questa ossessione nei confronti della Costituzione sacra e intoccabile. Perché sì, è vero che è stata cambiata nel corso degli anni: ma non sono mai state toccate né la parte riguardanti i rapporti economici, né i principi fondamentali (che in ogni caso non posso essere soggetti a modifiche). Non è mai stato toccato quel nucleo che rappresenta, di fatto, l’Italia dell’immediato dopoguerra che vedeva nello Stato un padre-padrone. La parte riguardante i rapporti economici è, di fatto, un imbarazzante manifesto socialista. Servirebbe un’assemblea costituente, perché questa Carta è davvero tutta da rifare».

C’è un capitolo del libro al quale sei più legato?

«Il quinto, senza dubbio, “Il lavoro non è un diritto”. Ed è anche il capitolo che più ha suscitato la curiosità nei lettori. Molti, lasciandosi ingannare dal titolo – evidentemente provocatorio – si sono detti: questo è matto, perché mai il lavoro non dovrebbe essere un diritto? In realtà poi, una volta letto il capitolo, si sono ricreduti».

Nel capitolo 8 fai una lunga critica al cosiddetto “federalismo all’italiana”. Ha ancora senso parlare di federalismo in Italia?

«Sì, e aggiungo che in Italia si deve parlare di federalismo. Ma di vero federalismo, non di quel pasticcio compiuto dal centrosinistra nel 2001 e poi degenerato definitivamente con Monti. Il federalismo all’italiana non è vero federalismo, è solo un altro salasso fiscale ai danni dei contribuenti, che si sono visti aumentare le tasse e moltiplicare i centri di spesa, mentre certe regioni e certi comuni in completo dissesto finanziario continuano a battere cassa a Roma. È per questo che ho dedicato un capitolo al federalismo: perché ho voluto mettere un po’ d’ordine e far capire ai lettori che una rivoluzione federalista è l’unica vera possibilità di cambiare il Paese. Credo che anche in futuro tornerò su questo argomento».

Come vedi l’attuale situazione politica ed economica dell’Italia?

«Faccio parte di quelli che il nostro magnifico presidente del Consiglio definisce “gufi”. Purtroppo sono affetto da una malattia molto grave: il realismo. E non riesco davvero ad emozionarmi per i tweet del nostro Matteo, che pensa di coprire i fallimenti di questo governo con un modus operandi da bulletto di periferia. I numeri dicono il tanto decantato Jobs Act è in realtà un Flop Act, e nonostante tutti i fattori esterni favorevoli – politiche accomodanti dalla Banca Centrale Europea, costo delle materie prime ai minimi storici solo per citarne alcuni – non c’è stata alcuna reale ripresa, ma solo qualche “zero virgola” che in termine concreti non vuol dire nulla. Dall’altra parte, non c’è alcune reale opposizione. Il cosiddetto “centrodestra” è solo un cumulo di macerie, senza alcun piano maggioritario per governare il Paese a lungo termine. Insomma, di questo passo tra qualche anno l’Italia diventerà l’Argentina dell’Europa».

A proposito di Europa, cosa pensi dell’attuale Unione Europea?

«Dieci anni fa, ai tempi dell’università, ero un convinto sostenitore dell’Unione Europea e della moneta unica. Ma davanti ai fatti – sempre a causa di quella malattia, il realismo – mi sono dovuto ricredere. Quest’Unione non funziona più, è una caricatura di se stessa, persa tra vertici infiniti dagli esiti mai chiari, divisa in politica estera, sempre più lontana dai cittadini. Basta vedere come, in questi giorni, viene gestito il problema dell’immigrazione: ognuno per sé, con l’Italia che rischia – come spesso accade – di pagare il prezzo più alto. Poi è inutile piangersi addosso perché aumenta il consenso ai cosiddetti partiti populisti. Per ciò che concerne l’euro, è evidente che sono necessari aggiustamenti, perché le calende greche dell’estate appena conclusa sono destinate a ripetersi».

La Costituzione italiana: la più brutta del mondo, si legge su “Risveglio nazionale” il 09/05/2015. La costituzione che garantisce l’impunità e la protezione all’eletto che tradisce i suoi elettori!… Ovvero: la costituzione più antipopolare, più immorale, più demagogica, massonica, ebraica, rothschildiana e tracotantemente truffaldina del mondo!…La nostra “sacra costituzione” voluta da Rothschild è davvero la più brutta del mondo. Una costituzione a sovranità limitatissima, che il popolo non può cambiare. I nostri “padri costituzionalisti”, seguendo alla lettera le direttive di Rothschild, ci hanno fatto credere di averci dato in eredità qualcosa di sacro, che se viene cambiato ci farà solo del male. Oggi la Costituzione, oltre ai più che ambigui “principi fondamentali”, presuppone un sistema decisionale lento, se non completamente bloccato e un gioco di pesi e contrappesi a tutti i livelli che non dà una chiara definizione di chi debba decidere cosa e praticamente permette tutto ed il contrario di tutto al soggetto socialmente più forte: Rothschild. E’ ora di riflettere, guardarci in faccia e di ammettere una volta per tutte che l’assetto istituzionale italiano, sancito dalla Costituzione del 1948 e dalle successive modifiche, comprese quelle sull’assetto regionalista del 1999, è il più grande nemico del Paese, poiché i tempi sono evidentemente cambiati. Infatti, non dobbiamo più leccarci le ferite morali e materiali aperte dai bombardamenti e incancrenite per la fame e la miseria e avvelenate dalla umiliazione della sconfitta e dalla paura di fronte ai vincitori e per la brutale invasione e la feroce occupazione “alleata”, quindi l’assemblearismo estremo non è mai stato e meno che mai è adesso un valore aggiunto. L’Italia non ha affatto bisogno di superpartiti “assopigliatutto”, con annessi supersindacati, supertraditori e superassociazioni varie che intrallazzano in tutti i modi, che sono sempre in disaccordo fra loro per spartirsi qualche osso. Persone docili e ubbidienti col loro signore e padrone Rothschild per fare le “riforme” contro il popolo più povero per fargli buttare sangue a pagare l’usuraio, enorme, crescente ed eterno “debito pubblico”. E’ necessario avere governi che governino realmente a favore del popolo e non per finta, e di un legislatore controllato veramente dal popolo, e che sia costretto dal popolo a fare leggi giuste per il bene del popolo e non per il bene dei “mercati” di Rothschild. Siamo arrivati al punto da capire sulla nostra pelle e di dire, e di urlare, che la “nostra” costituzione non è affatto “nostra” e non è affatto la “costituzione più bella del mondo”, perché non si salva neanche… uno… dei malignamente ambigui e contraddittori articoli fondamentali, e che quella che gli scagnozzi di Rothschild ci hanno appioppato è “la Costituzione più brutta del mondo”.

Questo volere difendere ad ogni costo questa loro demagogica e truffaldina costituzione serve proprio, e solo, alle alte sfere del potere antipopolare per potere preparare un ritorno forzato all’autoritarismo più biecamente capitalista e schiavista assoluto. E’ bene ricordare che la restaurazione “democratica” rothschildiana, seguita alla sconfitta della prima guerra mondiale, regalò al povero popolo tedesco la corrotta, tirannica, terribile e mostruosa “Repubblica di Weimar” con il popolo minuto che faceva la fame molto, molto, molto peggio che in seguito gli ebrei ad Auschwitz e con gli avidi, viziosi e debosciati capitalistoni ebraici, vassalli al seguito del satanico Rothschild che debordavano a vista d’occhio in tutto e per tutto, dappertutto nella società come porci da ingrasso scatenati e lasciati liberi in un campo di grano!… Voglio solo ricordare: Art. 1: L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Tralasciando il “non sense” del primo comma, fondata sul lavoro, che non vuol dire assolutamente nulla, faccio solo notare che nel secondo con la mano destra dà ciò che con la mano sinistra toglie (nello spazio di una virgola). Art. 8: Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. Quindi, la religione cattolica può avere teoricamente norme in contrasto con l’ordinamento italiano. Ergo, non tutte le confessioni sono egualmente libere (vedi a questo proposito anche l’art. 7). Ultimamente abbiamo assistito a polemiche sulle croci e sui presepi e ad attacchi contro la religione cattolica e contro la religione islamica, che vengono spesso vilipese volgarmente, oscenamente e pesantemente in pubblico anche dai mass media. Malgrado questo, si vede chiaramente che la magistratura massonica ebraica rothschildiana, di questo regime coloniale vigente in Italia, in Europa e in tutto l’Occidente, è estremamente tollerante. Una magistratura che non dice nulla, chiude tutti e due gli occhi, non interviene o, se lo fa, interviene addirittura a favore di chi le vilipende, creando le premesse tra le masse popolari di forti contraddizioni ideologiche e religiose, di profondo scontento e di gravi ed anche gravissimi e tragici incidenti. Invece, ecco che dall’altra parte c’è tutto un fiorire di iniziative mediatiche e legislative per conferire uno status privilegiato alla religione ebraica, alla etnia ebraica, al sionismo, allo stato di Israele, a tutta la questione dell’olocausto, della “shoah”, etc. Guai se ci si permette anche solo di dire, di sussurrare o di pensare qualcosa anche solo di costruttivamente critico nei confronti di questi argomenti, perché scatta subito l’accusa di “antisemitismo”, e sono cavoli amari, condanne pesantissime, discriminazioni addirittura odiosamente razziste e comunque seccature di ogni genere!… Ma da tutto questo movimento di legiferazione e di attività giudiziarie scandalosamente improntate al criterio dei due pesi e delle due misure, anche i più ignoranti, i più ottusi ed i più ipocriti, capiscono e son costretti ad ammettere che a quanto pare, anche se costituzionalmente si afferma formalmente che “tutte le confessioni sono egualmente libere”, invece, gli ordini di scuderia del vigente regime massonico, ebraico, rothschildiano sono prioritariamente orientati a tenere un atteggiamento di estremo riguardo per i soggetti e gli argomenti talmudici sopra accennati. Sembra quindi che questo articolo della costituzione non valga un fico. Art. 13 comma V: la legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva. Il mio diritto alla libertà personale, il mio diritto a non essere privato di essa prima di un regolare processo e di una condanna definitiva è nelle mani di deputati e senatori (la parte migliore del paese, vero?), anziché essere fissati almeno nelle linee guida. Art. 68. I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. Questo articolo, tanto breve quanto apparentemente “innocente”, è in realtà il nocciolo della truffa rothschildiana sedicente “democratica” e quindi della profonda ed anzi essenziale rothschildianità di questa costituzione truffaldina ed antipopolare. Infatti è ovvio anche per uno sprovveduto che il parlamentare, pur eletto a seguito di suoi solenni giuramenti e grandi promesse ai suoi elettori che farà gli interessi, i loro interessi,… invece, il neo eletto, strafregandosene altamente di giuramenti e promesse ha già voltato gabbana e peggio di Giuda Iscariota si è già venduto al miglior offerente anche per meno di trenta denari d’argento. Ovvero, trattandosi di soldi, chi più di Rothschild, l’uomo più ricco e potente del mondo, potrà comprare chi vuole a qualsiasi prezzo e dominare qualsiasi parlamento corrompendolo come gli pare? In effetti succede sistematicamente ormai dal 1861, cioè da quando, più di un secolo e mezzo fa, Rothschild impose a mano armata, e poi reimpose sempre “manu militari” nel 1943 la sua truffaldina e farsesca “democrazia” massonica, ebraica, antipopolare, proprio congegnata per fregare il popolo, appunto in nome della “libertà di coscienza” di poter tradire impunemente il popolo, ovvero i più poveri; e per poterlo fare a cuor leggero, sancì, beffa delle beffe, che il tradimento potesse essere fatto proprio protetti dalla “sacra ed inviolabile” costituzione e dalle “democraticissime” leggi conseguenti, invocate ed applicate zelantemente da giudici, forze dell’ordine , massmedia, etc. In Italia, ormai, tutti massonicamente condizionati e opportunamente assoggettati con le buone o con le cattive agli ordini del più ricco, ovvero del solito Rothschild, ovvero del più pericoloso associato a delinquere: il capo supremo di tutte le massonerie del mondo!… e cioè sempre e comunque Rothschild. Tutto questo è tanto vero che è famosissima la frase appunto: “datemi il controllo della moneta di una nazione e non mi importa di chi farà le sue leggi”- Mayer Amschel Rothschild 1815. Art.75 comma II: Non è ammesso il “referendum” per le leggi tributarie e di bilancio (quelle appunto che riguardano i… soldi… e sono proprio quelle che interessano più di tutte a Rothschild), di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali. Decisamente il mio articolo preferito. La Costituzione spiega come, per quanto riguarda le cose davvero importanti (proprietà e soldi, libertà personale, ecc.), il cittadino italiano sia troppo stupido per esprimere serenamente la propria opinione. Meglio negargli la possibilità solo a chiacchiere e per modo di dire (ma non era una repubblica democratica secondo l’art. 1?). La Costituzione della Repubblica Italiana è la legge fondamentale della Repubblica italiana, ovvero il vertice nella gerarchia delle fonti di diritto dello Stato italiano. Approvata dall’Assemblea Costituente il 22 dicembre 1947 e promulgata dal capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola il 27 dicembre 1947, fu pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 298, edizione straordinaria, del 27 dicembre 1947 ed entrò in vigore il 1º gennaio1948.

I Rothschild sono una famiglia europea di origini tedesco-giudaiche. Cinque linee del ramo austriaco della famiglia sono stati elevati alla nobiltà austriaca, avendo ricevuto baronie ereditarie dell'Impero asburgico dall'Imperatore Francesco II nel 1816. Un'altra linea, del ramo inglese della famiglia, fu elevata alla nobiltà britannica su richiesta della regina Vittoria. Nel corso dell'Ottocento, quando era al suo apice, la famiglia si ritiene abbia posseduto di gran lunga il più grande patrimonio privato del mondo. Oggi, i business dei Rothschild sono su scala più ridotta anche se comprendono una vasta gamma di settori, tra cui: gestione dei patrimoni privati, consulenza finanziaria, policoltura.

La Costituzione italiana: ambigua, immorale, demagogica, antipopolare. La costituzione che garantisce l'impunità e la protezione agli eletti che tradiscono i propri elettori!... Ovvero: la costituzione più immorale, più demagogica, più antipopolare, massonica, ebraica, rothschildiana e tracotantemente truffaldina del mondo!...La “sacra” costituzione dell’attuale classe dominante, al di là della messa in scena retorica di facciata, è a limitatissima sovranità popolare, anche se i suoi “padri costituzionalisti” hanno cercato di farci credere, con la complicità del monopolio mediatico del loro regime, di aver scritto la costituzione più bella del mondo. Anche i principi fondamentali in essa contenuti sono talmente ambigui, contraddittori ed indeterminati che la classe dominante può permettersi tutto ed il contrario di tutto a tutti i livelli, con le buone o con le cattive, in modo tale da detenere sempre e comunque la stragrande parte del potere possibile nelle sue mani. Infatti, perfino quando le sue leggi elettorali truffa, i suoi brogli ed imbrogli senza fine, non permettessero ai suoi politicanti di avere la maggioranza in parlamento e senato, le permetterebbero comunque senza particolari difficoltà di ricorrere, di nuovo come in passato, alle maniere forti di un regime apertamente militare con tanto di coprifuoco e di leggi marziali per salvare il suo Stato, ovvero per salvaguardare il primato del suo potere egemone sul popolo e contro il popolo. La nostra costituzione è stata scritta nel 1947, ed è andata in vigore nel 1948. Già l'art. 1 della Costituzione è una vera e propria presa in giro.

Art. 1: “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Tralasciando il primo comma, che è una formula ambigua che si fonda su una idea astratta e indeterminata di lavoro, invece che sulle precise e concrete persone fisiche dei lavoratori o dei cittadini. Nel secondo comma, a proposito della sovranità popolare, si dà con una frase quello che, subito dopo una virgola, si toglie con una frase sostanzialmente opposta.

Art. 8: “Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge.” Anche su questo articolo potremmo discutere a lungo. Oltre alle polemiche, alle prevaricazioni e alle ingiustizie che specie in questi ultimi tempi si fanno contro i cristiani e contro gli islamici, avallate dai mass media e dalla magistratura del regime, si assiste anche a tutto un fiorire di leggi e controleggi, che privilegiano, contro la stessa costituzione e contro lo stesso diritto di libertà di pensiero e di parola, la religione ebraica, l'etnia ebraica, la shoah, l'olocausto, ecc... 

Art. 59: “È senatore di diritto e a vita, salvo rinunzia, chi è stato Presidente della Repubblica. Il Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cinque cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario. In parlamento, in senato ed a capo dello Stato, in rappresentanza del popolo sovrano, dovrebbero stare solo i rappresentanti eletti direttamente dal popolo, e nessun altro.

Art. 67. “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato.”

Art. 68. ”I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni”. Questi due articoli 67 e 68, tanto brevi quanto apparentemente "innocenti", sono in realtà il nocciolo centrale della truffa e della sedicente "democrazia" rothschildiana. Questi articoli garantiscono l'impunità e la protezione agli eletti che tradiscono i propri elettori, svuotando la vera rappresentatività popolare e democratica di qualsiasi eletto ed annullando il reale e sovrano potere del popolo in qualsiasi e sedicente democrazia.

Art.75 comma II: “Non è ammesso il “referendum” per le leggi tributarie e di bilancio.” Ecco un altro articolo truffaldino nei confronti del popolo, a cui viene sottratta la possibilità di esercitare un controllo diretto su questioni economiche, che lo riguardano direttamente e che spesso sono vitali. La Costituzione infatti afferma con detto art. 75 come, per quanto riguarda le questioni economiche concrete e davvero importanti (appunto proprietà e soldi, libertà personale, ecc.), il cittadino italiano debba essere di proposito e maliziosamente trattato come se fosse troppo stupido per essere in grado di esprimere saggiamente una giusta opinione. Meglio quindi dargli, solo a chiacchiere e per modo di dire, la possibilità di esprimersi, ma poi, perfidamente, negargliela nei fatti!...(ma non era una repubblica "Democratica"?... che, all’art. 1, spiega che il Popolo è Sovrano?).

Non lasciamoci ingannare dalle parole dolci, suadenti, sentimentali dei lupi travestiti da pecore...e se l'Italia ha la Costituzione più bella del mondo come mai ha generato la classe politica e dirigente più ladra, più corrotta, più criminale, più infame, più delinquente, più mafiosa? La risposta si trova in un passo evangelico: «Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro son lupi rapaci. Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi? Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni. Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco. Dai loro frutti dunque li potrete riconoscere». Mt 7, 15-20. Sarebbe il caso di ammettere una volta per sempre che l'assetto costituzionale, sancito dalla Costituzione del 1948 e dalle successive modifiche, in particolare quelle sull’assetto regionalista del 1999, è il più grande nemico del Paese. (s. brosal - d. mallamaci).

LA COSTITUZIONE ITALIANA VOLUTA DAI MASSONI.

Costituzione, Diritto al Lavoro e Sistema Massonico.

Rapporti tra costituzione italiana e massoneria, secondo Paolo Franceschetti.

Sommario. 1. Premessa. 2. La prima falla: gli organi costituzionali. 3. La seconda falla. Il sistema dei referendum. 4. La terza falla: la Corte Costituzionale. 5. La quarta falla: i valori massonici della costituzione. 6. Il cosiddetto "diritto al lavoro". 7. L'effettivo stato di cose. 8. Effetti della normativa a tutela dei lavoratori. 9. Considerazioni conclusive e di diritto comparato.

1. Premessa.

La nostra Costituzione è considerata dalla maggior parte dei costituzionalisti come una legge molto avanzata, fortemente protettiva delle classi deboli e con un bilanciamento quasi perfetto tra i vari poteri. Rappresenta la legge fondamentale per la tutela dei diritti di qualunque cittadino, nonché il parametro di legittimità cui rapportare tutte le altre leggi. All’università questa era l’idea che mi ero fatta sui vari autori, Mortati, Martinez, Barile. Solo da qualche anno ho cominciato a riflettere sul fatto che qualcosa non va nel modo in cui tutti ci presentano la Carta Costituzionale. Vediamo cosa. In effetti la storia (quella vera e non quella ufficiale) ci insegna che la Carta Costituzionale fu voluta dalla massoneria. Oltre due terzi dei padri costituenti erano ufficialmente massoni (e sospetto anche quelli che non lo erano ufficialmente). E la massoneria rivendica a sé altre leggi importanti, come la dichiarazione dei diritto dell’Uomo. Dato che il fine ultimo della massoneria è il nuovo ordine mondiale, riesce difficile pensare che abbiano voluto consegnare ai cittadini, al popolo cioè, una legge che tutelasse davvero tutti, e che non fosse invece funzionale agli interessi massonici. Infatti, leggendo la Costituzione senza preconcetti, e sgombrando il campo da tutte le sciocchezze che ci insegnano all’università, è possibile farsi un’idea diversa della Costituzione. Essa è una legge illiberale, pensata apposta per opprimere i cittadini anzichè tutelarli. Però il punto è che è scritta così bene che è difficile capirne l’inganno. Apparentemente infatti sembra una legge progredita e che tutela i diritti di tutti. Ma la realtà è ben altra. E’ noto infatti che nessuno è così schiavo come quelli che pensano di essere liberi senza sapere di essere schiavi. Ora, la Costituzione è fatta apposta per questo: renderci schiavi, facendoci credere di essere liberi. Purtroppo per capirlo occorre essere molto esperti di diritto, e contemporaneamente conoscere anche la politica, la cronaca, l'economia, ecc.; una cosa impossibile finchè si è giovani, e quindi una preparazione universitaria non è sufficiente per individuare dove stanno le immense falle di questa legge – burla. Bisogna inoltre avere alcune conoscenze del sistema massonico. I laureati in legge quindi escono dall’università senza avere la minima conoscenza del sistema reale, ma avendo a malapena mandato a memoria i pochi libri che hanno letto per gli esami universitari. Vediamo dove stanno queste falle, iniziando dalle meno importanti. Per finire poi occupandoci della presa in giro più evidente, che non a caso è proprio quella contenuta nell’articolo 1 della costituzione.

2. La prima falla. Gli organi costituzionali.

Anzitutto nella costituzione sono previste efficaci garanzie per tutti i poteri dello stato meno uno. Sono previste garanzie per il governo, parlamento, la Corte Costituzionale, la magistratura, ma non per i servizi segreti che, come abbiamo spiegato in un articolo precedente, sono l’organo dello stato più potente e il più pericoloso. Quindi i servizi segreti possono agire fuori da coperture costituzionali. Ciò ha una duplice valenza a mio parere, una giuridica e una psicologica. Dal punto di vista giuridico infatti questa mancanza consente ai servizi di operare nell’illegalità. Dal punto di vista psicologico, invece, tale omissione fa sembrare i servizi segreti quasi una sorta di organo secondario che svolge ruoli di secondo piano per il funzionamento della Repubblica; si dà al lettore, allo studioso di legge, e all’operatore del diritto in genere, l’impressione che essi non siano in fondo così importanti; allo stesso tempo ci si assicura che nessuno studente approfondirà mai la figura dei servizi dal punto di vista giuridico, cosicchè ogni laureato esce dall’università con un’idea solo immaginaria e fantastica di questo organo dello stato, quasi come fosse inesistente, da relegare nelle letture romanzesche dell’estate o dei film di James Bond, e non uno dei poteri più importanti del nostro stato, con un numero di dipendenti da far impressione a una qualsiasi altra amministrazione pubblica.

3. La seconda falla. Il sistema dei referendum.

Un'altra mancanza gravissima è quella del referendum propositivo. Il referendum, che è un istituto importantissimo per la sovranità popolare, può solo abrogare leggi esistenti, ma non proporle. Il che, tradotto in parole povere significa che se con un referendum è stata abrogata una legge, il parlamento può riproporla tale e quale, oppure con poche varianti, solo per prendere in giro i cittadini a fingere di adeguarsi alla volontà popolare. Una presa in giro bella e buona.

4. La terza falla: la Corte costituzionale.

Un’altra immensa presa in giro è il funzionamento della Corte Costituzionale. Tale organo dovrebbe garantire che le leggi siano conformi alla Costituzione, annullando le leggi ingiuste. Il problema è che il cittadino non può ricorrere direttamente contro le leggi ingiuste. E questo potere non ce l’hanno neanche i partiti o le associazioni di categoria. Per poter arrivare ad una dichiarazione di incostituzionalità di una legge infatti è previsto un complesso sistema per cui bisogna dapprima che sia instaurato un processo (civile o penale); dopodiché occorre fare una richiesta al giudice che presiede il processo in questione (che non è detto che la accolga). In gergo tecnico questo sistema si chiama “giudizio di rilevanza costituzionale effettuato dal giudice a quo”; in gergo atecnico e popolare potremmo definirlo “sistema per paralizzare la giustizia costituzionale”. Ne consegue che è impossibile impugnare le leggi più ingiuste, per due motivi:

1) o perché per qualche motivo giuridico non è possibile materialmente instaurare il processo (ad esempio: non è possibile impugnare le leggi che prevedono gli stipendi e le pensioni dei parlamentari; non è possibile impugnare le leggi elettorali; non è possibile impugnare le leggi con cui la Banca d’Italia è stata di fatto privatizzata);

2) o perché – anche quando le legge è teoricamente impugnabile - il cittadino non ha nessuna voglia di instaurare un processo per poi andare davanti alla Corte Costituzionale. Ad esempio; ipotizziamo che un cittadino voglia impugnare l’assurda legge che prevede che ogni professionista debba versare allo stato il 99 per cento del reddito dell’anno futuro, per incassi ancora non percepiti; in tal caso bisogna dapprima rifiutarsi di pagare (quindi commettere un illecito); poi occorre aspettare di ricevere la cartella esattoriale da parte dell’agenzia delle entrate con le relative multe e sovrattasse; e solo dopo queste due mosse si poi impugnare la cartella, peraltro senza nessuna certezza di vincere la causa. Se invece si volesse impugnare l’assurda legge sul falso in bilancio prevista dagli articoli 2621 e ss. Cc. (legge chiaramente incostituzionale perché rende di fatto non punibile questo reato, con la conseguenza che chi ruba una mela in un supermercato rischia diversi anni di galera, mentre chi ruba qualche milione di euro da una grande azienda non rischia quasi nulla), la cosa diventa praticamente impossibile, perché prima commettere il reato, poi occorre aspettare di essere processati per quel reato, e che in tale processo colui che impugna sia parte in causa. Una follia!

A tutto ciò occorre aggiungere i rilevanti costi di un giudizio davanti alla Corte, tali da scoraggiare qualunque cittadino con un reddito medio. La conseguenza è che la Corte Costituzionale si occupa in genere della costituzionalità delle leggi più stupide, ma i cittadini sono impotenti di fronte ai fatti più gravi. E il risultato finale è che la Corte Costituzionale sostanzialmente ha le mani completamente legate contro le leggi più ingiuste e più gravemente lesive dei diritti del cittadino.

5. La quarta falla: i valori massonici introdotti dalla Costituzione.

Ci sono poi altre lacune molto gravi come quella relativa alla possibilità per lo stato di espropriare beni dei cittadini senza corrispondere il valore di mercato. Ma l’aspetto più grave della nostra Costituzione, e allo stesso tempo anche quello più difficile da percepire, è relativa ai valori tutelati dalla Costituzione. Ci raccontano sempre che la Costituzione tutela la persona umana. Ma è falso, perché in realtà a ben guardare essa mortifica la persona umana relegandola a poco più che uno schiavo. Vediamo perché.

6. Il cosiddetto diritto al lavoro.

Il perché è in realtà sotto gli occhi di tutti, messo in modo plateale, bene evidenziato già nell’articolo 1 della Costituzione, ove è detto che: “la repubblica italiana è fondata sul lavoro”. Nessuno si sofferma mai a riflettere sull’assurdità logica, giuridica, e filosofica, di questa norma. Cosa significa che una repubblica è fondata sul lavoro? Nulla. Giuridicamente una repubblica si fonda su tante cose. Sulla legalità. Sulla giustizia. Sull’equilibrio dei diritti. Sul rispetto delle leggi. Sull’equilibrio tra poteri dello stato. Ma non si fonda, né dovrebbe fondarsi, sul lavoro. Non a caso credo che il nostro sia l’unico caso al mondo di una Costituzione che abbia messo il lavoro all’articolo 1, tra i fondamenti della Repubblica. Non a caso neanche repubbliche dittatoriali come la Cina o la Russia contengono una disposizione tanto demenziale. L’idea di uno stato fondato sul lavoro è infatti una sciocchezza per vari motivi. Prima di tutto perché ciò presuppone che il giorno che venga trovato un modo per far avere a tutti, gratuitamente, cibo e un tetto, e la gente fosse dispensata dal lavorare, lo stato dovrebbe crollare. Il che ovviamente è giuridicamente un non senso. Quindi il primo dei presupposti errati di questa norma è proprio quello giuridico. In secondo luogo perché se la repubblica fosse fondata sul lavoro, ne deriverebbe che i soggetti peggiori della società sarebbero i preti, i monaci e le suore di clausura, il Papa, il Dalai Lama, gli asceti, coloro che vivono di rendita, chi si dedica solo al volontariato, i politici (la maggior parte dei quali non ha mai lavorato in vita sua) ecc. L’articolo 1 della nostra Costituzione si apre insomma con un concetto assurdo, ma straordinariamente nessuno ne ha rilevato il non senso. Anzi, autori come Mortati (il costituzionalista più famoso) hanno addirittura plaudito a questo articolo. La nostra Costituzione poi prosegue con altri articoli dedicati al lavoro, e tutti inevitabilmente basati su presupposti teorici sbagliati. Il lavoro infatti è considerato un diritto. Ma riflettendoci bene, il lavoro non è un diritto. Il lavoro è – o dovrebbe essere - una libera scelta per esplicare la propria personalità. Il lavoro è un dovere per coloro che non hanno abbastanza denaro per vivere. Il lavoro è poi una scelta di vita, in quanto dovrebbe essere l’espressione della personalità del soggetto. Chi ama dipingere vivrà di pittura; chi ama la giustizia cercherà di fare il giudice o l’avvocato; chi ama i soldi cercherà di lavorare in banca e così via. Ma ben possono esserci scelte alternative altrettanto nobili. Basti ricordare che le più grandi religioni del mondo si basano sulla figura dei loro fondatori, che non erano certamente lavoratori e che i primi discepoli di queste persone tutto erano tranne che lavoratori. Cristo non era un lavoratore e i anche i discepoli non erano tali ; o meglio, lo erano proprio finchè non hanno incontrato Cristo. La stessa cosa vale per Budda e i suoi discepoli che erano dei mendicanti, e tutt’oggi i monaci buddisti vivono sempre di carità. Una persona che accudisce i propri figli e fa vita solo casalinga non fa una scelta meno nobile di un dipendente delle poste, o di un funzionario di banca, o di un magistrato o un avvocato (che spesso passa la vita a dirimere questioni condominiali e cause assicurative, cioè occupandosi di cose infinitamente meno nobili dell’educazione di un figlio). Ricordiamo poi che la maggior parte dei politici non ha mai lavorato in vita sua. D’Alema e Bertinotti, che difendono i diritti dei lavoratori, non hanno mai lavorato né hanno mai creato veramente lavoro (al di fuori di quello delle cooperative rosse che serviva e serve per mantenere i partiti di sinistra). Quindi il concetto del lavoro come diritto, e come fondamento della Repubblica, non sta in piedi né filosoficamente né giuridicamente, né dal punto di vista logico. E’ una delle balle giuridiche più colossali che ci abbiano mai raccontato. A questo punto occorre capire perché al lavoro è stata data un’importanza così grande, introducendo nella Costituzione dei concetti falsi e che non hanno alcune attinenza con la realtà.

7. L’effettivo stato di cose.

Il reale significato delle norme sul lavoro previste dalla nostra Costituzione possono essere capite se si conosce il meccanismo effettivo con cui il nostro sistema massonico funziona. Il sistema massonico funziona, effettivamente sul lavoro. Il lavoro è infatti il grosso problema della società attuale. Se voi chiedete a qualcuno qual è la più grande preoccupazione oggi, in Europa, vi diranno: il lavoro. Non c’è lavoro. Cosa promette un politico in cambio di voti? Un lavoro. Perché la mafia al sud è tenuta in considerazione più dello stato? Perché dà lavoro. Perché la maggior parte delle persone, oggi, è spinta ad entrare in massoneria? Per cercare lavoro o per aumentare quello che ha. Se non ti allinei alle direttive del sistema qual è la punizione più immediata che subisci? La perdita del lavoro. Perché un magistrato copre un omicidio, un poliziotto non indaga, un dipendente pubblico commette una scorrettezza, un giornalista non pubblica una notizia importante? Perché altrimenti perdono il lavoro. Perché si danno le mazzette per avere gli appalti? Perché altrimenti l’appalto non ti viene assegnato (ovverosia non hai lavoro). Perché la maggior parte della gente non sa cosa è il signoraggio, cosa sono le scie chimiche, cos’è la massoneria? Perché la TV non informa su questo, per informarsi da soli ci vuole troppo tempo, e la gente non ha tempo perché “deve lavorare”. In altre parole, il lavoro, con i suoi perversi meccanismi per il suo mantenimento, è lo strumento che viene usato dai poteri occulti e dalla politica per poter piegare i cittadini. In tal senso, allora, l’articolo 1 è perfettamente coerente col sistema attuale e allora acquista un senso. La repubblica (massonica) si fonda sul lavoro. In altre parole l’articolo 1 dovrebbe più correttamente essere letto in questo modo: L’Italia è una repubblica massonica, fondata sul lavoro, e il potere massonico, per mantenersi, ha bisogno di gente che sgobbi 12 ore al giorno senza mai alzare la testa per pensare, altrimenti capirebbe l’inganno in cui la teniamo”.

8. Effetti della normativa a tutela dei lavoratori.

A questo stato di cose si sono aggiunte le leggi che proteggono il lavoratore a scapito del datore di lavoro. Queste leggi sono l’attuazione dell’articolo 4 della Costituzione, che dice espressamente che “la repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che favoriscono il loro diritto”. Il risultato delle leggi che hanno promosso la condizioni che favoriscono i diritti dei lavoratori è sotto gli occhi di tutti: l’impossibilità per il lavoratore di licenziare in tronco il lavoratore sgradito (anche se ha rubato, se è un nullafacente, ecc.), nonché la nostra demenziale politica fiscale, che ci fa pagare tasse anche per l’aria che respiriamo, hanno prodotto lavoro in nero, stipendi ridicoli, e lo sfruttamento sistematico di intere categorie di lavoratori da parte dei datori di lavoro. Questa normativa ha raggiunto il risultato esattamente contrario a quello programmato dall’articolo 4; infatti danneggia il lavoratore, perché distorce il rapporto di forza tra lavoratori e datori di lavoro. Mi spiego. Il rapporto di lavoro dovrebbe essere basato sulla parità delle parti. Io lavoratore ho bisogno di lavorare per vivere; ma anche tu, datore di lavoro, hai bisogno del lavoratore altrimenti la tua azienda non funziona. Il sistema di leggi che riguardano il mondo del lavoro invece, tassando dissennatamente gli imprenditori, facendo mancare il lavoro ovunque grazie alla crisi, e impedendo il licenziamento arbitrario, ha prodotto come risultato un sistema in cui la gente va a mendicare il lavoro da datori di lavoro che il più delle volte lo concedono come se fosse un favore; favore di cui i lavoratori devono ringraziare, spesso facendosi umiliare pur di non perdere il lavoro, subendo ricatti sessuali e non, ecc. La corruzione nei concorsi pubblici, volta a selezionare non i migliori, ma i più corrotti e i più raccomandati in tutti i settori della vita pubblica, nella magistratura, in polizia, negli enti pubblici, ecc., ha portato come ulteriore conseguenza una classe di lavoratori demotivata; la maggior parte di essi infatti non hanno scelto il lavoro in base alle loro capacità, ma in base ai posti che ha reso disponibile il sistema. Il risultato di questa politica del lavoro durata nei decenni è la perdita di dignità di tutte le categorie di lavoratori, anche di quelle dirigenziali. Ovverosia:

- la maggior parte dei lavoratori fa lavori che non sono adatti a loro;

- la maggior parte dei lavoratori accetta di essere sottopagata;

- la maggior parte dei lavoratori pur di lavorare accetta anche umiliazioni e trattamenti disumani;

- spesso si sente dire “non ho lavoro, quindi non ho dignità”; i valori massonici del lavoro infatti hanno instillato nella gente l’idea che un disoccupato non abbia dignità: a ciò contribuisce anche il demenziale detto, accettato da tutti, che “il lavoro nobilita l’uomo”, brocardo che non so chi l’abbia inventato, ma certamente doveva essere un imbecille;

- poliziotti, carabinieri, magistrati, fanno il loro lavoro non per missione di vita, come dovrebbe essere, ma dando la prevalenza allo stipendio, ai problemi di mobilità, di avanzamento di carriera, ecc.

- i datori di lavoro sono costretti dalla dissennata legislazione italiana ad assumere lavoratori in nero, sottopagarli, ecc.

- Nella massa delle persone si instillano concetti distorti; ad esempio non è raro sentir lodare una persona con la frase “è un gran lavoratore, lavora tutti i giorni anche dodici ore al giorno” come se questo fosse un pregio. E ci si dimentica che chi lavora dodici ore al giorno non ha tempo per i figli, per riflettere, per evolvere. Anche Pacciani, infatti, per dare di sé un’immagine positiva, al processo sul mostro di Firenze disse che era “un gran lavoratore”. Tutto questo sistema fa si che il cittadino sia un docile e remissivo strumento del sistema in cui viviamo, ove la frusta è stata sostituita dallo spauracchio della perdita del lavoro.

9. Considerazioni conclusive e di diritto comparato.

In conclusione, la nostra Costituzione è organizzata e strutturata in modo molto abile, per favorire l’illegalità e l’ingiustizia, grazie ai suoi principi e alle sue lacune, difficilmente riscontrabili ad una prima lettura. Tra i vari partiti politici e i costituzionalisti, non mi risulta che nessuno abbia mai rilevato questo stato di cose, ad eccezione della Lega Nord, che nel 1993 aveva fatto una proposta di modifica dell’articolo 1 per cambiarlo in: L’Italia è una repubblica democratica basata sul mercato e sulla solidarietà. Ovviamente la proposta è stata contestata dalla sinistra. Perché si sa. La sinistra è a favore di lavoratori. E infatti il risultato della politica di sinistra si è visto nei pochi anni in cui abbiamo avuto governi di questo colore. Uno sfascio se possibile anche peggiore di quello di destra, perché in effetti il più acerrimo nemico dei lavoratori, in questi decenni, non è stata la destra, ma la sinistra. In compenso, anche la costituzione del Sudafrica è più progredita della nostra, ove il diritto al lavoro non compare, ma compaiono invece la tutela della dignità umana e compare il diritto dei datori di lavoro. In altre parole l’Italia è seconda anche a stati che, culturalmente, in teoria dovrebbero essere più arretrati di noi. L’articolo 1 della Costituzione del Sudafrica (all. 4), molto più avanti del nostro, recita: La costituzione del Sudafrica provvederà all’istituzione di uno Stato sovrano, di una comune cittadinanza sudafricana e di un sistema di governo democratico, mirante a realizzare l’uguaglianza tra uomini e donne e fra genti di tutte le razze. Tra gli stati europei, invece, sarebbe sufficiente citare il caso della Spagna. La Spagna ha in gran parte mutuato dal nostro sistema i principi giuridici più importanti. Tuttavia, non a caso, l’articolo 1 della Costituzione spagnola non fa cenno al lavoro e dichiara di fondarsi – molto più intelligentemente di noi – su libertà, giustizia e uguaglianza. Infatti, mi disse un professore universitario di Lima, che aveva la docenza anche in Spagna, un certo Juan Espinoza Espinoza: in Spagna nessuno si prostituisce per avere un semplice posto da portiere o da cameriere, come da voi. Da voi occorre essere raccomandati anche per avere un lavoro a termine per sei mesi alle poste. Non a caso da loro il lavoro è collocato all’articolo 35, che dice il contrario di quanto dice la nostra Costituzione: tutti i lavoratori spagnoli hanno il dovere di lavorare e il diritto alla libera scelta di una professione o di un mestiere. E non a caso nel campo di concentramento di Auscwitz compariva una scritta all’entrata: arbeit macht frei. Il lavoro rende liberi. Più o meno lo stesso concetto contenuto nell’articolo 1 della nostra Costituzione.

E’ il dio denaro e le ricchezze che da sempre fanno muovere il mondo e le montagne religiose ed ideologico.

Le masse si smuovono dalla loro apatia solo se indotti dai loro bisogni primari, non conoscendo altri virtù.

Già i romani indicavano in “Panem et Circenses” le aspirazioni della plebe. Gli illuminati, pochi ricchi e potenti, sin dall’antichità usano i bisogni della plebe per disegnare il loro Ordine Mondiale. Gli strumenti per attuare le loro mire di destabilizzazione: religioni ed ideologie, prime tra tutte il comunismo.

Marxismo e immigrazione proletaria (da «il comunista»; N° 113; Luglio 2009). Il fenomeno dell'immigrazione dei proletari non ha nulla di nuovo e i marxisti hanno spessissimo trattato questo tema, a cominciare da Engels nel 1845 nel suo libro su «La situazione della classe operaia in Inghilterra». Marx ne parla nel Capitale, fra gli altri nel passaggio seguente: «Il progresso industriale che segue la marcia dell'accumulazione, non soltanto riduce sempre più il numero degli operai necessari per mettere in moto una massa crescente di mezzi di produzione, aumenta nello stesso tempo la quantità di lavoro che l'operaio individuale deve fornire. nella misura in cui esso sviluppa le potenzialità produttive del lavoro e fa dunque ottenere più prodotti da meno lavoro, il sistema capitalista sviluppa anche i mezzi per ottenere più lavoro dal salariato, sia prolungando la giornata lavorativa, sia aumentando l'intensità del suo lavoro, o ancora aumentando in apparenza il numero dei lavoratori impiegati rimpiazzando una forza superiore e più cara con più forze inferiori e meno care, l'uomo con la donna, l'adulto con l'adolescente e il bambino, uno yankee con tre cinesi. Ecco diversi metodi per diminuire la domanda di lavoro e rendere l'offerta sovrabbondante, in un parola per fabbricare una sovrapopolazione. «L'eccesso di lavoro imposto alla frazione della classe salariata che si trova in servizio attivo ingrossa i ranghi della riserva aumentandone la pressione che quest'ultima esercita sulla prima, forzandola a subire più docilmente il comando del capitale» (Il Capitale, Libro, I, 7,25). Riassumendo, la borghesia utilizza l'importazione di lavoratori stranieri allo scopo di ingrossare l'esercito industriale di riserva e aumentare la concorrenza, questa «guerra di tutti contro tutti», fra proletari. Marx dettaglia questo fenomeno della concorrenza fra operai «nazionali» e immigrati con i casi degli operai irlandesi in Inghilterra e le sue osservazioni sono estremamente ricche di insegnamento: «A causa della concentrazione crescente della proprietà della terra, l'Irlanda invia la sua sovrabbondanza di popolazione verso il mercato del lavoro inglese, e fa abbassare così i salari degradando la condizione morale e materiale della classe operaia inglese. «E il più importante di tutto: Ogni centro industriale e commerciale in Inghilterra possiede ora una classe operaia divisa in due campi ostili, i proletari inglesi e i proletari irlandesi. L'operaio inglese medio odia l'operaio irlandese come un concorrente che abbassa il suo livello di vita. Rispetto al lavoratore irlandese egli si sente un membro della nazione dominante, e così si costituisce in uno strumento degli aristocratici e dei capitalisti del suo paese contro l'Irlanda, rafforzando in questo modo il loro dominio su lui stesso. Si nutre di pregiudizi religiosi, sociale e nazionali contro il lavoratore irlandese. La sua attitudine verso di luiè molto simile a quella dei poveri bianchi" verso i "negri" degli antichi Stati schiavisti degli Stati Uniti d'America. L'Irlandese gli rende la pariglia, e con gli interessi. Egli vede nell'operaio inglese nello stesso tempo il complice e lo strumento stupido del dominio inglese sull'Irlanda. «Questo antagonismo è artificialmente mantenuto e intensificato dalla stampa, dagli oratori, dalle caricature, in breve da tutti i mezzi di cui dispongono le classi dominanti. Questo antagonismo è il segreto dell'impotenza della classe operaia inglese, a dispetto della sua organizzazione. E' il segreto grazie al quale la classe capitalista mantiene il suo potere. E questa classe ne è perfettamente cosciente» (Lettera di K. Marx a S. Meyer e A. Vogt, 9/4/1870). Anche oggi la classe capitalista è perfettamente cosciente che la divisione fra proletari immigrati e italiani è un fattore chiave della paralisi della classe operaia, e naturalmente fa di tutto per mantenere e rafforzare questa divisione, questa ostilità, questo razzismo, questo sentimento di superiorità nazionale. Anche nel caso in cui, come succede ora in Italia col governo Berlusconi, in cui ha una certo peso la Lega Nord, il governo borghese si prenda il gusto di tormentare la popolazione proletaria immigrata con leggi vessatorie sulle loro condizioni di esistenza. Mai era successo che la situazione fisica di esistenza, come sbarcare in territorio italiano alla ricerca di una sopravvivenza meno precaria, fosse trasformata in reato penale (mentre sono stati depennati dal penale i falsi in bilancio, bancarotta ecc.!). Un altro punto, il ruolo potenzialmente molto importante per la lotta proletaria e per il suo internazionalismo che gioca l'immigrazione, è sottolineato da Lenin: «Il capitalismo ha creato un tipo particolare di migrazione di popoli. I paesi che si sviluppano industrialmente in fretta, introducendo più macchine e soppiantando i paesi arretrati nel mercato mondiale, elevano il salario al di sopra della media e attirano gli operai salariati di quei paesi. «Centinaia di migliaia di operai si spostano in questo modo per centinaia e migliaia di verste. Il capitalismo avanzato li assorbe violentemente nel suo vortice, li strappa dalle località sperdute, li fa partecipare al movimento storico mondiale, li mette faccia a faccia con la possente, unita classe internazionale degli industriali. «Non c'è dubbio che solo l'estrema povertà costringe gli uomini ad abbandonare la patria e che i capitalisti sfruttano nella maniera più disonesta gli operai immigrati. Ma solo i reazionari possono chiudere gli occhi sul significato progressivo di questa migrazione moderna dei popoli. La liberazione dall'oppressione del capitale non avviene e non può avvenire senza un ulteriore sviluppo del capitalismo, senza la lotta di classe sul terreno del capitalismo stesso. E proprio a questa lotta il capitalismo trascina le masse lavoratrici di tutto il mondo, spezzando il ristagno e l'arretratezza della vita locale, distruggendo le barriere e i pregiudizi nazionali, unendo gli operai di tutti i paesi nelle più grandi fabbriche e miniere dell'America, della Germania, ecc.» E vi aggiunge: «La borghesia aizza gli operai di una nazione contro gli operai di un'altra, cercando di dividerli. Gli operai coscienti, comprendendo l'inevitabilità e il carattere progressivo della distruzione di tutte le barriere nazionali operata dal capitalismo, cercano di aiutare a illuminare e a organizzare i loro compagni dei paesi arretrati» (Lenin, Il capitalismo e l'immigrazione operaia, 1913). Ecco quale deve essere l'attitudine costante dei proletari e delle loro organizzazioni di classe, ecco qual è la nostra prospettiva!

Il rapporto Chilcot, bufera sull’invasione dell’Iraq. Una paese in guerra e un paese fuori controllo: questi i risultati della decisione presa da Blair e Bush nel 2003, scrive il 7 luglio 2016 Luciano Tirinnanzi su "Panorama". Quella di ieri, mercoledì 6 luglio 2016, è stata una giornata difficile per la politica britannica e, in buona parte, anche per quella americana. Mentre Londra faceva la conta del numero di politici dimissionari dopo lo tsunami della Brexit, e mentre a Washington l’FBI scagionava dalle accuse sull’emailgate Hillary Clinton, sulla scena internazionale irrompevano le conclusioni del rapporto Chilcot, ovvero la commissione d'inchiesta britannica sulla partecipazione del Regno Unito all’intervento militare in Iraq del 2003.  “Abbiamo concluso che la scelta del Regno Unito di partecipare all’invasione in Iraq è stata compiuta prima che fossero esaurite tutte le altre opzioni pacifiche per il disarmo. Abbiamo altresì concluso che la minaccia delle armi di distruzione di massa in possesso dell’Iraq, rappresentata come una certezza, non era giustificata. Nonostante gli avvertimenti, le conseguenze dell’invasione sono state sottovalutate e la preparazione del dopo Saddam è stata del tutto inadeguata”. Sono queste in sostanza le osservazioni di John Chilcot, l’uomo che presiede l’inchiesta sul ruolo britannico nell’invasione. Parole che verosimilmente scateneranno una serie di polemiche destinate ad ampliare il terremoto in corso nel mondo politico inglese e che hanno già fatto breccia nella campagna elettorale americana. Anche se il rapporto Chilcot - dopo sette anni di lavori, centinaia di testimonianze raccolte e 150mila documenti vagliati - ci racconta delle ovvietà, poiché evidentemente tutti hanno sotto gli occhi i risultati di cosa ha comportato, non può sfuggire l’importanza simbolica delle sue conclusioni. L’ufficialità del rapporto pone, infatti, una questione politica non da poco sia per il Regno Unito sia per la comunità internazionale, soprattutto per il verdetto schiacciante che condanna in toto l’attività dell’allora premier britannico Tony Blair, il quale “era stato avvertito” dell’inopportunità di entrare in guerra e nonostante ciò ha perseverato nel disastro, ma anche la decisione degli americani. Secondo gli storici, Blair agì in questo modo per non rovinare il buon rapporto tra il Regno Unito e gli Stati Uniti che si era cementato durante la presidenza Clinton e che rischiava di sgretolarsi con l’arrivo del nuovo presidente repubblicano. In questo senso, la commissione suggerisce che Blair avrebbe promesso a George W. Bush che lo avrebbe affiancato nell'impresa bellica “a ogni costo”, convinto di poter gestire il rapporto con l’inquilino della Casa Bianca. Mentre secondo il diretto interessato, che non ha perso tempo e ha risposto immediatamente alle accuse, il rapporto Chilcot per quanto lo riguarda afferma che non vi è stata “nessuna falsificazione o uso improprio dell’intelligence” e neanche “alcun inganno nei confronti del governo”, così come non è stato siglato “nessun patto segreto” tra lui e il presidente George W. Bush per l’entrata in guerra britannica. Nonostante la difesa di Tony Blair, però, il risultato non cambia. La parabola politica dell’ex premier inglese si conclude con una bocciatura storica non da poco da parte di un’inchiesta ufficiale. E non va meglio dall’altra parte dell’oceano, dove il candidato repubblicano Donald Trump non ha perso tempo nel commentare alla sua maniera il caso: “Saddam Hussein era un cattivo ragazzo. Davvero cattivo. Ma sapete cosa? Ha fatto qualcosa di buono. Ha ucciso i terroristi”. E ha poi aggiunto: “Guardate cos’è diventato oggi l’Iraq, è l’Harvard del terrorismo”. Insomma, se a Londra ci si domanda come gestire il rapporto Chilcot e come assorbire l’impatto di questa inchiesta, in America la questione è già spostata in avanti. Il New York Times in un cupo editoriale si è sentito in dovere di citare le parole pronunciate poche settimane fa dal capo della CIA John Brennan il quale, commentando la forza dello Stato Islamico, si è spinto a dire: “Abbiamo ancora molta strada da fare prima di poter affermare che abbiamo fatto dei progressi significativi contro di loro”. Dunque, seguendo le osservazioni di Londra e Washington: la guerra per deporre Saddam Hussein fu un errore; la gestione del dopo-invasione ha generato il terrorismo; il terrorismo a sua volta ha prodotto il Califfato; il Califfato è vivo e vegeto e gli Stati Uniti non hanno idea di come fermarlo. Ma la cosa che più spaventa è l’ammissione che l’Occidente da quindici anni a questa parte ha sbagliato tutto sul Medio Oriente e ancora oggi non ha idea di come gestire il genio (del male) fuoriuscito dalla lampada. E, come insegna la fiaba de Le mille e una notte, una volta fuori è difficile ricacciarlo dentro. Il rapporto Chilcot incide sulla pietra il fatto che l’invasione dell’Iraq fu un vero fallimento e che le conseguenze negative di quella scelta sciagurata si stanno protraendo fino a oggi. Questo significa anche ufficializzare il de profundis per la politica occidentale nel Medio Oriente, e in Iraq in misura ancora maggiore, proprio mentre Baghdad è ostaggio del tritolo dello Stato Islamico. Infatti il Califfo Al Baghdadi, che con il Ramadan 2016 ha inaugurato una nuova strategia del terrore, ha deciso di incrementare le azioni suicide sulla capitale per costringere il governo sciita di Haider Al Abadi a far rientrare in città le truppe che oggi combattono l’ISIS a nord e che minacciano Mosul (ancora in mano allo Stato Islamico), per difendere dalle azioni dei kamikaze una capitale quasi fuori controllo. La sicurezza a Baghdad, infatti, non esiste più e anche se il Califfato non è arrivato mai a minacciare militarmente la città, ciò non significa che tenerla in ostaggio con le bombe non produca lo stesso risultato: quello di danneggiare il governo Al Abadi fino al punto da provocare una sua caduta. In questo, il Califfato potrebbe trovare un alleato inconsapevole nello sceicco Moqtad Al Sadr, il leader che a Baghdad comanda il gigantesco quartiere sciita di Sadr City (impenetrabile anche alle autorità irachene e già protagonista della resistenza all’invasione americana), che osteggia tanto i sunniti di Al Baghdadi quanto il governo sciita in carica, accusandolo di corruzione e di complicità con il terrorismo. Non più di due giorni fa, infatti, Al Sadr ha affermato: “Questi attentati non avranno fine, perché molti politici stanno capitalizzando sulle bombe” e ha poi aggiunto una frase che suona come una minaccia diretta all’attuale governo: “solo il popolo iracheno potrà mettere fine a questa corruzione”. Come a dire che, se Al Abadi non è in grado di proteggere la popolazione, qualcun altro presto dovrà farlo. In ogni caso, metaforicamente Baghdad è davvero la nuova Babilonia.

Così la guerra in Iraq ha sconvolto il Medio Oriente e rafforzato il terrorismo. Lo scenario. Dal rapporto della commissione chilcot emerge che Blair e Bush jr. ignorarono la Storia e non ascoltarono i diplomatici: l'invasione spezzò i fragili equilibri regionali, scrive Bernardo Valli il 7 luglio 2016 su “La Repubblica”. Ci sono voluti 7 anni, 12 volumi, più di 2 milioni e mezzo di parole, quante ne ha scritte Tolstoj in Guerra e Pace (ha calcolato il New York Times), per stabilire, infine, che l'invasione dell'Iraq voluta da Bush Jr, con Tony Blair al suo fianco, era non solo inutile, ma anche disastrosa. La titanica fatica della commissione presieduta, a Londra, da John Chilcot ha condotto a una verità già nota dal 2003, quando cominciò il conflitto. Aveva tuttavia bisogno di una conferma solenne. La quale assomiglia a una sentenza, benché non preveda alcun processo per "crimine di guerra" a carico dell'inquisito Blair, come chiedevano ieri i manifestanti londinesi. La commissione Chilcot non aveva poteri giudiziari. E del resto Blair ebbe l'autorizzazione del Parlamento, sia pur strappata con quella che si può chiamare una menzogna. La questione delle responsabilità penali è affiorata sempre ieri per iniziativa dei familiari dei morti. Che furono duecento britannici (di cui centosettantanove militari), quattromila cinquecento americani e più di 140mila iracheni. Limitando il bilancio alla prima fase della guerra. Ai Comuni, dove non è stato tenero con il suo predecessore alla testa del Labour, Jeremy Corbyn ha chiesto scusa a nome del suo partito per "l'aggressione militare basata su un falso pretesto". E ha parlato di "violazione della legge internazionale", da parte di un primo ministro laburista, quel era all'epoca Blair. Il rapporto Chilcot equivale a una condanna politica e morale per quanto riguarda l'inquisito britannico, e in modo indiretto la stessa condanna vale anche per George W. Bush. Del quale, si disse allora che l'obbediente Tony Blair fosse il "barboncino". Il risultato della commissione britannica non arriva con tredici anni di ritardo rispetto alla guerra del 2003. Il conflitto è ancora in corso. La mischia nella valle del Tigri e dell'Eufrate ne è la conseguenza. Il detonatore di quel che accade oggi, terrorismo compreso, è stata l'invasione di allora. La situazione era pronta per un'esplosione. È vero. La guerra nell'Afghanistan, occupato dai sovietici, aveva rafforzato il jihadismo di Al Qaeda, irrobustitosi con il decisivo aiuto americano. Nella guerra fredda l'Islam servì agli Stati Uniti come arma contro l'Urss. E il lungo conflitto, durante quasi tutto il decennio degli Ottanta, tra l'Iraq di Saddam Hussein, a forte governo sunnita, e l'Iran sciita di Khomeini, aveva risvegliato la tenzone tra le due grandi correnti dell'Islam adesso in aperto confronto. Nonostante gli avvertimenti insistenti di esperti e diplomatici, la coppia Bush-Blair si è inoltrata nel Medio Oriente incandescente dichiarando di volervi portare la democrazia e al tempo stesso annientare le armi di distruzione di massa, non meglio precisate se chimiche o nucleari, ma delle quali non c'era prova. E che comunque si rivelarono immaginarie. Noi cronisti, a Bagdad, la prima notte dei bombardamenti, indossammo le tute e le maschere che avrebbero dovuto proteggerci dall'iprite e da non so quale altro veleno. Dopo qualche ora ci liberammo di tutto, accorgendoci che tra i tanti pericoli che ci attendevano non c'erano quelli propagandati dagli invasori in arrivo. L'uso dei gas nella sterminata e popolata Bagdad sarebbe equivalso a un auto-olocausto. La commissione di inchiesta accusa Blair, e di riflesso Bush jr, di non avere approfittato di tutte le opzioni pacifiche a disposizione per arrivare a un disarmo concordato. È un appunto di rilievo perché Blair rivendica il fatto di avere comunque contribuito ad abbattere un dittatore feroce qual era Saddam Hussein. Gli inquirenti, in sostanza, sostengono che restasse uno spazio per trattare con il rais di Bagdad, considerato tra l'altro, quando era in guerra con l'Iran, un alleato obiettivo. L'irresponsabilità più grave denunciata da John Chilcot è quella dimostrata nella prima fase del dopo guerra, quando gli occidentali Bush e Blair proclamano anzi tempo la vittoria. L'ignoranza è sottolineata più volte. Il saccheggio delle città da parte della popolazione, sia a Bagdad dove c'erano gli americani, sia a Bassora dove c'erano i britannici, toglie ogni fiducia negli invasori stranieri. I quali risultano incapaci di garantire la sicurezza. L'esercito nazionale viene sciolto, ma non disarmato. Il partito Baath, funzionante da Stato, è subito disperso e i suoi dirigenti imprigionati e privati dei loro beni. Giusta punizione ma il paese resta senza un'amministrazione. I militari sunniti si danno alla macchia con ufficiali e cannoni, presto raggiunti dai jihadisti provenienti da tutti i paesi arabi. I saddamisti laici si alleano con i salafiti. Gli americani e gli inglesi hanno offerto un campo di battaglia su cui affrontarli. Le milizie sciite, emerse dopo una lunga sottomissione alla minoranza sunnita, sfidano spesso gli occupanti. Che non considerano liberatori perché hanno cacciato il dittatore che li opprimeva, ma invasori. L'impatto dell'intervento occidentale sgretola i fragili confini disegnati sulle rovine dell'impero ottomano alla fine della Grande Guerra. Nel 1918. I paesi del Medio Oriente si decompongono. Prima l'Iraq poi la Siria. Nel frattempo le primavere arabe mettono in crisi i regimi dei rais che funzionavano da gendarmi. L'intervento americano con l'appoggio britannico spezza gli equilibri regionali. Il rapporto Chilcot, nei suoi dodici volumi, non è soltanto un atto d'accusa sul piano politico e morale, ma l'analisi sul come si è giunti al conflitto medio orientale di oggi. Bush jr e l'amico Blair hanno ignorato la Storia.

«Sarò con te, sempre». Scrive il 6 luglio 2016 “Il Corriere della Sera”. Tra le carte, fino ad oggi top secret, analizzate e rese pubbliche nel rapporto di Sir John Chilcot sulle responsabilità britanniche nella guerra in Iraq, ci sono anche alcune note che l’allora premier Tony Blair scrisse a George W. Bush. In una di queste, datata 28 luglio 2002 (otto mesi prima che il 20 marzo 2003 prendesse il via la guerra) Blair già promette appoggio incondizionato all’allora presidente Usa per l’invasione dell’Iraq. Il dossier Chilcot contiene vari messaggi tra Blair e Bush prima, durante e dopo il conflitto. In questa lettera, scritta a mano, l’ex premier si complimenta con il presidente Usa per un suo «brillante discorso» in merito alla necessità dell’intervento in Iraq. In tutto sono 29 le lettere inviate dall’ex primo ministro del Regno Unito Tony Blair all’ex presidente Usa George W. Bush e sono centinaia i documenti desecretati e pubblicati nel Rapporto Chilcot. Il rapporto tra i due leader è considerato cruciale nella decisione dell’invasione. Il rapporto Chilcot è un’inchiesta britannica portata avanti dalla commissione parlamentare presieduta dall’ex diplomatico Sir John Chilcot sulla guerra in Iraq. Istituita da Gordon Brown nel 2009, ha lo scopo di far chiarezza sulle circostanze che portarono il governo di Tony Blair a entrare in guerra assieme agli Stati Uniti contro Saddam Hussein Durante i lavori della commissione sono stati analizzati oltre 150.000 documenti e sono stati sentiti più di 150 testimoni, tra cui l’ex premier Tony Blair. È suddiviso in 12 volumi e contiene 2,6 milioni di parole.

Iraq, come sarebbe il mondo oggi se Saddam non fosse caduto? Dopo tredici anni e un’infinita serie di attentati e violenze, cinque domande provano a creare una realtà alternativa in cui il raìs sarebbe ancora al potere, scrive Michele Farina il 6 luglio 2016 su “Il Corriere della Sera”. E se non avessero invaso l’Iraq? O se almeno avessero preparato meglio il dopo guerra? Per il rapporto Chilcot fu un intervento «sbagliato» e «le sue conseguenze perdurano ancora oggi». Tony Blair dice che senza quell’intervento il mondo sarebbe peggiore, meno sicuro. E che almeno adesso gli iracheni hanno una chance di libertà che sotto Saddam Hussein non avevano. La libertà di morire a centinaia, una sera d’estate del 2016, per l’esplosione di un camion bomba dell’Isis tra i negozi e i ristoranti di Bagdad affollati di famiglie e bambini? Khaddim al-Jaburi dice che, se incontrasse Blair oggi, «gli sputerebbe in faccia». Al Jaburi è l’uomo che buttò già la prima statua di Saddam alla caduta di Bagdad. Faceva il meccanico, riparava le moto del dittatore. Cadde in disgrazia, gli uccisero 15 familiari. Eppure oggi intervistato a Bagdad dalla Bbc dice che se potesse tornare indietro, sapendo quanto è successo in questi tredici anni, lui quella statua «la rimetterebbe in piedi». I curdi del nord e gli sciiti del Sud, per decenni vittime dichiarate del regime, hanno una prospettiva differente. Senza l’invasione del 2003 Saddam o chi per lui (Qusay, il figlio più astuto) gaserebbe ancora bambini e avversari? Avrebbe fatto un’altra guerra con l’Iran? E se la primavera araba nel 2011 avesse attecchito anche sulla riva al Tigri oggi l’Iraq sarebbe comunque preda — come lascia intendere Blair — di una sanguinosa guerra civile modello siriano? E il mondo sarebbe comunque alle prese con l’Isis e il suo terrorismo in franchising? Tornare indietro. Immaginare la storia provando a rimettere insieme i tasselli secondo un’altra combinazione, seguendo il cartello del «what if», cosa sarebbe successo se. Lo fa l’ex premier Blair e il meccanico al-Jaburi. E’ una tentazione che ognuno di noi sperimenta nel proprio piccolo, a ogni angolo. E se Pellè non avesse provocato Neuer? Più seriamente, pensando in grande: e se non avessero invaso l’Iraq? Un gioco distopico per romanzieri, un esercizio per provare a non sbagliare direzione in futuro.

1 Se avessero trovato le armi di distruzione di massa? Tutto a posteriori sarebbe stato giustificato. Bush e Blair candidati al Nobel per la pace?

2 Se Blair non si fosse legato al carro armato di Bush? L’America sarebbe andata da sola all’invasione. La Gran Bretagna non sarebbe stata meno sicura. Vedi Francia: nel 2003 con Chirac all’Eliseo disse no all’intervento armato in Iraq. Ma questo non le ha risparmiato le ferite degli attentati di Parigi.

3 Se la guerra fosse stata preparata meglio? Il rapporto Chilcot accusa Londra (e di riflesso Washington) di impreparazione e sottovalutazione. Anche da un punto di vista militare. Fin da subito gli stessi comandi alleati dissero (inascoltati) che servivano più soldati e più mezzi. Gli Usa rimasero con gli Humvees colabrodo che saltavano in aria sulle bombe improvvisate, gli inglesi al Sud giravano con i gipponi che i soldati chiamavano «bare mobili». Pensare che la Cia arrivò a Bagdad con casse di bandierine a stelle e strisce: da distribuire alla popolazione che si immaginava festante. Altro che resistenza. Gli Usa prospettavano un rapido «mordi e fuggi», o in alternativa qualcosa di simile alla serena occupazione del Giappone dopo la Seconda Guerra Mondiale.

4 Se non avessero sciolto l’esercito iracheno? Una questione spinosa e complicata. Ma certo quella decisione presa dal governatore Usa Paul Bremer non favorì la riconciliazione nazionale. Anzi.

5 Se avessero aspettato l’Onu? Francia e Russia erano contro l’intervento armato. Di fronte alla paralisi diplomatica non c’era un attimo da perdere, sostiene Blair. Ma le prove di intelligence contro Saddam Hussein, come riafferma oggi la commissione Chilcot dovevano apparire gravemente insufficienti anche 13 anni fa. E allora, prendere tempo sarebbe stato saggio e non avrebbe necessariamente rafforzato Saddam. Questa era anche la posizione tedesca. Una linea di prudenza che, con scenario tutto diverso, Angela Merkel va applicando anche alla questione Brexit. La politica del «Schweigen»: calma e silenzio. Meglio che «shock and awe», colpisci e terrorizza (la tattica adottata nel primo giorno di attacco all’Iraq nel 2003). Il rapporto Chilcot (volendolo guardare attraverso il filtro della diplomazia comunitaria) per certi versi prova e allarga il solco tra Gran Bretagna ed Europa continentale. Un solco a geometrie variabili, considerando per esempio l’impazienza francese nell’attaccare la Libia di Gheddafi. Anche se i tedeschi mai l’ammetterebbero, l’attendismo di Berlino sulla Brexit (aspettiamo l’estate) può ricordare il nostro adda passà ‘a nuttata. Molto italiano, e anche molto iracheno: il sentimento di un popolo che, 13 anni dopo la sua liberazione, si ritrova a rimpiangere l’orco Saddam.

Massoneria. Rivoluzioni e conquiste.

La Brexit come disegno ordito dalla massoneria.

L’opinione del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

«Non voglio passare per un complottista, ma la saggistica scrive che la massoneria anglosassone, non anglicana, non atea, ma pagana, ha sempre complottato contro la chiesa cattolica per estirpargli l’egemonia di potere che esercita sul mondo occidentale. Per avere il primato d’imperio sulla civiltà e sui popoli e per debellare questa forza internazionale, prima temporale e poi spirituale, la massoneria ha manipolato le masse povere ed ignoranti contro le dinastie regnanti cristiane. Ha fomentato la rivoluzione francese, prima, americana, poi, ed infine, russa, inventando il socialismo ateo e anticlericale, da cui è scaturito fascismo, nazismo e comunismo, fonte di tante tragedie. La chiesa, ciononostante, non ha capitolato. Non riuscendo nel suo intento, la massoneria, si è inventata, attraverso i media ed i governi fantoccio, le guerre di democratizzazione del Medio Oriente e Nord Africa, foraggiando, al contempo, gruppi estremistici e terroristici, e contestualmente ha intensificato l’affamamento dell’Africa, con lo sfruttamento delle sue risorse a vantaggio di tiranni burattini, con il fine ultimo di incentivare l’invasione islamica dell’occidente, attraverso gli sbarchi continui sulle coste dell’Europa di migranti, rifugiati e terroristi infiltrati. L’islamizzazione dell’Europa come fine ultimo per arrivare all’estinzione della cristianità.

La sinistra nel mondo è soggiogata e manipolata da questo disegno di continua destabilizzazione dell’ordine mondiale, di fatto favorendo l’invasione dell’Europa, incitando il diritto ad emigrare.

“Nel contesto socio-politico attuale, però, prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra” afferma il Santo Padre Benedetto XVI nel suo Messaggio per la 99ma Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, che sarà celebrata domenica 13 gennaio 2013, sul tema “Migrazioni: pellegrinaggio di fede e di speranza”.

Il monopoli o domino massonico destabilizzante continua il 23 giugno 2016. Il Regno Unito ha votato la sua uscita dall'Unione Europea. Ma la domanda è: Il Regno Unito ci è mai entrato nell'Unione Europea? E se lo ha fatto con quali intenzioni? Sia l’entrata che l’uscita dall’Unione Europea dell’Union Jack non è forse un tentativo di destabilizzare la normalizzazione dei rapporti tra gli Stati europei ed impedire la loro unificazione politica, economia e monetaria, oltre che ostacolare l’espandersi dei rapporti amichevoli con la Russia che è vista come antagonista degli Usa nell’egemonizzazione del mondo?

Dominato dall'orgoglio francese, ma anche perché non li considerava "europeizzabili", Charles de Gaulle non voleva gli inglesi nella comunità. Li sospettava di essere una quinta colonna degli Stati Uniti massoni.

"Leggo dello sconforto di Jacques Delors, ex presidente della Commissione: «Avremmo fatto meglio a lasciare fuori gli inglesi». Ero a Parigi nel 1966, quando si discuteva già se permettere o no l’ingresso della Gran Bretagna nella Cee. De Gaulle era contrarissimo, mentre la maggior parte degli altri partner europei erano favorevoli. In uno dei tanti discorsi che soleva tenere alla tv, De Gaulle fece questa profezia: «Fate entrare l’Inghilterra e l’Europa non sarà mai fatta». Può dirmi, alla luce di quanto sta accadendo, se «l’Europa delle Patrie» dallo stesso De Gaulle tanto auspicata, avrebbe intrapreso forse un cammino più rapido verso una vera Unione europea simile a quella degli Usa?" Domanda di Rocco Caiazza a Sergio Romano del 5 dicembre 2012 su “Il Corriere della Sera”. “Caro Caiazza, Non ricordo la frase da lei citata, ma sul problema dell’adesione della Gran Bretagna alla Comunità europea la posizione di De Gaulle fu sempre chiara ed esplicita. Era convinto che Londra sarebbe stata il «cavallo di Troia» dell’America nell’organizzazione europea e non esitò a boicottare i negoziati con una clamorosa conferenza stampa il 14 gennaio 1963.” Fu la risposta di Romano. In effetti, dal 1975, da quando cioè il Regno Unito attraverso un altro referendum convocato sulla permanenza nell'Ue ad appena tre anni dal suo ingresso ufficiale ha optato per il «sì» a Bruxelles, le relazioni tra Londra e il blocco comunitario non sono mai state idilliache, scrive Arianna Sgammotta su “L’Inkiesta” il 22 giugno 2016. Non soltanto. Oltremanica l'Unione europea è sempre stata o ignorata o accusata di tutto quello che non funzionava in patria. Non stupisce quindi che fino al 2008, agli anni precedenti la crisi economica e finanziaria, l'etichetta euroscettico fosse a uso e consumo dei britannici, quasi a porsi come un sinonimo del carattere nazionale. In trent'anni di convivenza difficile il Regno Unito ha ottenuto una serie di deroghe all'implementazione di vari regolamenti validi invece per tutti gli altri Stati membri. Questo grazie alla cosiddetta clausola dell'opt-out. Ma non basta, grazie alla leader di ferro, Margaret Tatcher, Londra gode di un deciso sconto sul contributo annuale al bilancio comunitario. All'origine della diatriba tra Regno Unito e resto delle capitali Ue, la visione stessa del progetto comunitario. Per Londra una mera area di libero scambio solo se per sé vantaggiosa, per i Paesi fondatori - tra cui l'Italia - le basi di un'unione politica, economica e monetaria. Tant’è che il Regno Unito non è nell’area Euro né nello spazio Schenghen.

Allora, anziché rammaricarci del risultato, perchè non brindiamo per la vittoria che gli europeisti continentali hanno ottenuto ed analizziamo le notizie ed i dati offerteci dai media con maggior approfondimento e distacco ideologico? Come chiederci: gli antieuropeisti come gli europeisti fallimentisti, che con il formalismo e la burocrazia minano le basi dell’Unione, sono mica massoni?»

Massoneria come entità sopranazionale e trasversale, comunque vincente, checchè ne dicano i soliti idioti che stanno sempre lì a commentare le ovvie verità nei miei scritti. Ecco perché a Strasburgo vediamo che il Parlamento Europeo vota per l’uscita immediata dalla UE del Regno Unito ed a votare contro troviamo il leader inglese che ha fomentato la Brexit e con lui hanno votato il Movimento 5 Stelle, ed i movimenti di Le Pen e Salvini.

Ed i precedenti italiani di destabilizzazione?

Per scaricare Renzi i poteri forti rispolverano la massoneria, scrive il 20 febbraio 2016 Stefano Sansonetti su “La Notizia Giornale”. Ormai non c’è giorno senza che arrivi un pessimo segnale per la tenuta del Governo guidato da Matteo Renzi. Se poi questi segnali arrivano direttamente dall’estero, o sono comunque veicolati da profili legati a centri di potere internazionali, per il premier l’effetto non può che essere allarmante. Soprattutto quando tra le accuse viene ritirata in ballo la “massoneria”. Tra quelli che stanno lanciando missili c’è senza dubbio Mario Monti, ex commissario europeo, molto stimato da alcune cancellerie nonché membro dei comitati esecutivi delle più influenti e chiacchierate lobby mondiali, dalla Trilateral all’Aspen. Ebbene, qualche giorno fa Monti aveva dato un antipasto a Montecitorio criticando il presidente del consiglio per la strategia assunta in Europa. “Presidente Renzi, lei non manca occasione per denigrare le modalità concrete di esistenza della Unione Europea, con la distruzione sistematica a colpi di clava e scalpello di tutto quello che la Ue ha significato finora”, aveva detto Monti in quell’occasione, aggiungendo che “questo sta introducendo negli italiani, soprattutto in quelli che la seguono, una pericolosissima alienazione nei confronti della Ue. Con il rischio di un benaltrismo su scala continentale molto pericoloso”. Ieri, in un colloquio con il Corriere della sera, Monti è stato ancora più affilato, evocando addirittura la massoneria. Senza mai citare direttamente Renzi, l’ex premier ha spiegato che “molti politici nazionali, che sovente si professano europeisti – e magari perfino credono di esserlo – sono diventati maestri muratori della decostruzione europea”. E’ appena il caso di far notare che in termini storici la massoneria viene fatta risalire proprio alle corporazioni dei muratori del Medioevo. Lo stesso termine “massoneria” deriva dal francese “maçon”, che significa appunto muratore. Senza contare che in genere il “gran maestro” rappresenta il ruolo di vertice all’interno della gerarchia massonica. Insomma, ci sono sin troppi indizi che fanno capire come non sia stato certo casuale il riferimento di Monti ai “maestri muratori”. Questa durissima insinuazione, seppur indiretta, ha peraltro trovato spazio sulle colonne del Corriere della sera, non nuovo a lanciare accuse di questo tipo. Nel settembre del 2014, in un editoriale dell’allora direttore Ferruccio de Bortoli, il patto del Nazareno tra Renzi e gli emissari di Silvio Berlusconi venne accostato allo “stantio odore della massoneria”. Ma non è finita qui. Se nei giorni scorsi il Financial Times aveva scritto che “la fortuna di Renzi si sta esaurendo”, ieri in un’intervista a Qn è stato il politologo americano neocon, Edward Luttwak, a dare al premier italiano l’avviso di sfratto: “Renzi ha fallito perché doveva fare riforme importanti e non le ha fatte. Non ha fatto la spending review e non ha messo mano alla burocrazia della pubblica amministrazione”. Quanto al possibile complotto Ue contro Renzi, per Luttwak “non esiste, c’è stato sicuramente per Berlusconi, ma non nei confronti di Renzi”. Infine la superstoccata finale, quella che può aiutare a capire cosa si agiti nella mente di alcuni osservatori internazionali. Basti leggere il modo in cui, secondo Luttwak, Renzi dovrebbe andare avanti: “Innanzitutto lasciando a casa le ragazzine e i dilettanti e circondandosi di personaggi qualificati”. Riferimento neanche troppo velato a Maria Elena Boschi e a Marianna Madia. E chi dovrebbe essere recuperato da Renzi? “Pierluigi Bersani per le liberalizzazioni, poi Romano Prodi ed Enrico Letta. E anche Giorgio Napolitano, che potrebbe avere un ruolo nella riforma della giustizia italiana”. Ora, da che pulpito vengano queste richieste è domanda più che legittima. Ma è il contesto generale di pressione a dover far riflettere. Una spia di come certi poteri stiano scaricando il premier può essere ravvisata anche dal trattamento riservatogli da alcuni giornali. Per carità, il presidente del consiglio può ancora “consolarsi” con il sostegno mediatico fornitogli da La Repubblica del gruppo De Benedetti, da La Stampa della famiglia Agnelli, e da Il Messaggero dell’immobiliarista Francesco Gaetano Caltagirone. Ma certo un bel po’ di preoccupazione sarà indotta nel premier dagli strali lanciati dal Corriere della sera nelle ultime 48 ore. E non è solo per via di Mario Monti. Due giorni fa un editoriale di Antonio Polito era eloquentemente titolato “la spinta smarrita di Renzi”. Ieri un commento economico del vicedirettore, Federico Fubini, ha accusato Renzi si sbagliare completamente strategia quando minaccia di opporsi alla proposta tedesca di mettere un tetto al possesso dei titoli di Stato da parte delle banche. L’assunto è che Berlino “non sosterrà mai un sistema europeo di garanzie sui depositi bancari”, a cui l’Italia dice di tenere molto, “finché le banche stesse saranno così esposte sul debito dei rispettivi governi”. La sintesi, allora, è che “quando Renzi respinge la richiesta tedesca, di fatto rinuncia proprio a ciò che fino a ieri lui stesso chiedeva con urgenza”. Per carità, da tutto questo dedurre un avviso si fratto al premier sarà esagerato. Ma siamo molto vicini a una messa in mora.

L'ultimo tassello che dimostra il complotto di Napolitano & C. Le carte pubblicate da Repubblica sono solo la conferma dello scenario sul golpe del 2011. Prima l'attacco speculativo sui mercati, poi le manovre per far cadere il governo Berlusconi, scrive Renato Brunetta, Mercoledì 24/02/2016 su “Il Giornale”. Un fatto di gravità inaudita è stato rivelato ieri da Repubblica, che ha attinto da Wikileaks la notizia provata delle intercettazioni che uno Stato amico e alleato ha compiuto ai danni del nostro Paese e della sua legittima autorità di governo, rubando le telefonate del nostro presidente del Consiglio e dei suoi più stretti collaboratori. Questo Stato si chiama Stati Uniti d'America, negli anni di Barack Obama, e il presidente del Consiglio italiano è Silvio Berlusconi. Si tratta di una violazione che si configura come attacco alla nostra sovranità nazionale. Ma a questo credo che saprà (o no?) rispondere da par suo (ahinoi!) Matteo Renzi. Il quale, visto che chiama gli oppositori interni gufi, come minimo dovrà dare della iena a Obama. Figuriamoci. Qui restringiamo il campo a chi ha fornito le prove di questo scempio: Repubblica. E Repubblica, se possibile, è peggio degli spioni. Infatti la chiave di lettura che essa dà di questo crimine è di compiacimento, poiché vuol convincere il mondo che questa infamia fornisce nuovi proiettili contro il nemico storico, Silvio Berlusconi e il suo governo. In particolare nell'editoriale di Claudio Tito usa le telefonate carpite per negare l'esistenza di qualsivoglia complotto contro l'ultimo premier legittimato dal voto e di conseguenza contro il nostro Paese. Lo scopo è chiaro: volgarmente si direbbe, mettere le mani avanti. Più raffinatamente, trattasi della classica operazione di disinformacija. Tito, e Calabresi-De Benedetti, vogliono creare il mainstream, il pensiero unico su questa vicenda, obbligando tutti i commenti a instradarsi su questi binari, ad accettare l'agenda proprio di coloro che ordirono il complotto, i quali stavano e stanno non solo all'estero, ma in Italia, e proprio molto vicino all'area politico-culturale di Repubblica-Espresso. Perché queste intercettazioni sono solo nelle loro mani? Hanno per caso pagato per averle? Perché non le hanno anche gli altri giornali? Si fa per caso un uso selettivo di WikiLeaks? L'asino però casca sull'ignoranza, voluta o determinata dal pregiudizio proprio e della casa madre, qui non importa. Il diavolo sta nei dettagli. E i dettagli dicono topiche clamorose nell'impostazione delle fondamenta di una tesi smentita dalla realtà. Ma è proprio questa miseria morale e deontologica a essere la caratteristica espressiva non solo del giornalismo del gruppo editoriale di De Benedetti, ma della sinistra intellettuale e politica in quanto tale. Uno spirito di diserzione rispetto agli interessi nazionali, abbandonando quel minimo di patriottismo che sarebbe naturale riscontrare in chiunque ami il proprio Paese e lo veda ferito con strumenti di scasso che mettono in pericolo la sicurezza di tutti. Il Giornale ha, nel maggio del 2014, pubblicato e diffuso un libro che porta la mia firma e si intitola Berlusconi deve cadere. Cronaca di un complotto. Le rivelazioni odierne forniscono in realtà totale conferma della mia narrazione di quegli eventi che videro l'Italia, soprattutto nel secondo semestre del 2011, sotto attacco speculativo. Prima partì l'aggressione finanziaria ai titoli di Stato, mentre i fondamentali della nostra economia erano stati ben valutati dalla Commissione europea. Dal complotto finanziario si passò senza soluzione di continuità al complotto politico, bene assecondato in Italia dal Quirinale (e da Repubblica). Dalle telefonate intercettate in particolare al consigliere politico e deputato Valentino Valentini, che partecipò ai colloqui riservati di Berlusconi con i leader franco-tedeschi, si evince che Sarkozy e Merkel misero sotto pressione fortissima Berlusconi anche in privato. Contemporaneamente ordirono nei corridoi e in incontri riservati al vertice del G20 di Cannes quello che il segretario del Tesoro americano Tim Geithner ha definito nelle sue memorie the scheme, il complotto. A cui si sottrasse, non volendosi «macchiare le mani del sangue» di Berlusconi. Ps. Ecco a uso della scuola di giornalismo e magari alla attenzione dell'Ordine dei giornalisti per la diffusione di notizie false. Prima il testo di Tito, poi la confutazione delle topiche. «Il governo venne umiliato in Parlamento: incapace di approvare la legge di Stabilità... La paura di essere travolti dal buco nero italiano diventava il vero incubo dell'Unione europea e di tutti gli alleati internazionali. Non è un caso che in quei giorni (autunno 2011, ndr) la Deutsche Bank - allora ancora solida - si liberava in un colpo solo dell'88% dei titoli di Stato italiani che aveva in cassaforte. Quasi in contemporanea, dal vertice europeo di Nizza di ottobre arrivava un altro schiaffo. La Cancelliera tedesca Merkel e il presidente francese Sarkozy ironizzavano con un sorriso eloquente sulla capacità dell'esecutivo berlusconiano di mettere al riparo i conti dello Stato». Il governo non era «incapace di approvare la legge di Stabilità». La legge di Stabilità non era allora in questione. Si trattava, invece, del voto sul rendiconto generale dello Stato, un atto dovuto, e peraltro approvato dalla Camera. La Deutsche Bank non vende «per paura di essere travolti dal buco nero italiano» dopo l'estate, ma sono le decisioni dei suoi vertici a causare ad arte questa paura innescando la tempesta perfetta sui mercati. La Deutsche Bank cedette i titoli di Stato italiani tra marzo e giugno 2011. La Bundesbank impose lo stesso comportamento a tutti gli istituti presenti sul suolo tedesco ai primi di luglio. Fu questa vendita preordinata e in blocco a causare la crescita artificiosa dello spread. I sorrisetti di Merkel e Sarkozy non furono «durante il vertice europeo di Nizza», ma durante una conferenza stampa a Bruxelles il 23 ottobre 2011. Il vertice europeo di Nizza si svolse un po' prima, esattamente tra il 7 e il 9 dicembre 2000, e c'erano Giuliano Amato, Jacques Chirac e Gerhard Schröder. In effetti lì non ci fu nessun complotto. Lo spread non ha mai «sfiorato» 600 punti base, ma al massimo 529 il 15 novembre 2011, quando Berlusconi, tra l'altro, si era già dimesso. Ciò detto, a chi giova oggi questa divulgazione di informazioni? Chi è il vero obiettivo di questa campagna? È l'operazione verità rispetto al passato, per cui noi abbiamo già chiesto l'istituzione di una Commissione parlamentare d'inchiesta, oppure l'obiettivo è l'attuale governo? È un avvertimento a Renzi? Domande inquietanti, che chiedono risposte immediate. Ha niente da dire il solitamente ciarliero presidente del Consiglio italiano?

Napolitano e tutto il PD hanno approvato un piano massonico sequestrato nel 1981. Il senatore del Movimento 5 Stelle Sergio Puglia, con un video pubblicato su “Libero Quotidiano Tv” il 13 ottobre 2015, accusa l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di aver portato avanti il programma della P2. Il senatore del Movimento registra un video nel transatlantico di Palazzo Madama, dopo che il suo gruppo è uscito dall’aula, quando l’ex presidente della Repubblica ha preso la parola. Puglia dice: “Napolitano ha preso il programma della loggia massonica P2 e lo ha imposto ai presidenti del Consiglio. Lui è l’autore di tutto questo macello istituzionale”.

La sinistra massone lo sa che con i suoi apparati politici, mediatici e culturali, influenza le masse ignoranti. E la massa vota con la pancia, non con la testa.

Ed allora parliamo del Gruppo Bilderberg.

I massoni e la sinistra italiana, scrive Andrea Cinquegrani, tratto da "La Voce della Campania". Il Gruppo Bilderberg nasce nel 1952, ma viene ufficializzato due anni più tardi, a giugno del 1954, quando un ristretto gruppo di vip dell’epoca si riunisce all’hotel Bilderberg di Oosterbeek, in Olanda. Da quel momento le riunioni si sono svolte una o due volte all’anno, nel più totale riserbo. In occasione di una delle ultime, nella splendida e appartata resort di Sintra, in Portogallo, il settimanale locale News riportò una notizia secondo cui il Governo avrebbe ricevuto migliaia di dollari dal Gruppo per organizzare «un servizio militare compreso di elicotteri che si occupasse di garantire la privacy e la sicurezza dei partecipanti». Ma torniamo agli esordi. I primi incontri si sono svolti esclusivamente nei paesi europei, ma dall’inizio degli anni ’60 anche negli Usa. Tra i promotori - precisano alcuni studiosi della semi sconosciuta materia - occorre ricordare due nomi in particolare: sua maestà il principe Bernardo de Lippe, olandese, ex ufficiale delle SS, che ha guidato il gruppo per oltre un ventennio, fino a quando, nel 1976, è stato travolto dallo scandalo Lockheed; e Joseph Retinger, un faccendiere polacco al centro di una fittissima trama di rapporti con uomini che per anni hanno contato sullo scacchiere internazionale della politica e dell’economia. «La loro ambizione - viene descritto - era quella di costruire un’Europa Unita per arrivare a una profonda alleanza con gli Stati Uniti e quindi dar vita a un nuovo Ordine Mondiale, dove potenti organizzazioni sopranazionali avrebbero garantito più stabilità rispetto ai singoli governi nazionali. Fin dalla prima riunione vennero invitati banchieri, politici, universitari, funzionari internazionali degli Usa e dell’Europa occidentale, per un totale di un centinaio di personaggi circa». Ecco cosa hanno scritto alcuni giornalisti investigativi inglesi nel magazine on line di Bbc News a pochi giorni dal meeting di Stresa. «Si tratta di una delle associazioni più controverse dei nostri tempi, da alcuni accusata di decidere i destini del mondo a porte chiuse. Nessuna parola di quanto viene detto nel corso degli incontri è mai trapelata. I giornalisti non vengono invitati e quando in qualche occasione vengono concessi alcuni minuti a qualche reporter, c’è l’obbligo di non far cenno ad alcun nome. I luoghi d’incontro sono tenuti segreti e il gruppo non ha un suo sito web. Secondo esperti di affari internazionali, il gruppo Bilderberg avrebbe ispirato alcuni tra i più clamorosi fatti degli ultimi anni, come ad esempio le azioni terroristiche di Osama bin Laden, la strage di Oklaoma City, e perfino la guerra nella ex Jugoslavia per far cadere Milosevic. Il più grosso problema è quello della segretezza. Quando tante e tali personalità del mondo si riuniscono, sarebbe più che normale avere informazioni su quanto sta succedendo». Invece, tutto top secret. Scrive un giornalista inglese, Tony Gosling, in un giornale di Bristol: «Secondo alcune indiscrezioni che ho raccolto, il primo luogo nel quale si è parlato di invasione dell’Iraq da parte degli Usa, ben prima che ciò accadesse, è stato nel meeting 2002 dei Bilderberg». Di parere opposto un redattore del Financial Times, Martin Wolf, più volte invitato ai meeting: «L’idea che questi incontri non possano essere coperti dalla privacy è fondamentalmente totalitaria; non si tratta di un organismo esecutivo, nessuna decisione viene presa lì». Fa eco uno dei fondatori, anche lui inglese, lord Denis Healey: «Non c’è assolutamente niente sotto. E’ solo un posto per la discussione, non abbiamo mai cercato di raggiungere un consenso sui grandi temi. E’ il migliore gruppo internazionale che io abbia mai frequentato. Il livello confidenziale, senza alcun clamore all’esterno, consente alle persone di parlare in modo chiaro». Ed ecco cosa scrive un altro studioso di ordini paralleli e di gruppi e associazioni che agiscono sotto traccia, Giorgio Bongiovanni. «Bilderberg rappresenta uno dei più potenti gruppi di facciata degli Illuminati (una sorta di super Cupola mondiale, ndr). Malgrado le apparenti buone intenzioni, il vero obiettivo è stato quello di formare un’altra organizzazione di facciata che potesse attivamente contribuire al disegno degli Illuminati: la costituzione di un Nuovo Ordine Mondiale e di un Governo Mondiale entro il 2012. Sembra che le decisioni più importanti a livello politico, sociale, economico-finanziario per il mondo occidentale vengano in qualche modo ratificate dai Bilderberg». «Il Gruppo - scrive ancora Bongiovanni - recluta politici, ministri, finanzieri, presidenti di multinazionali, magnate dell’informazione, reali, professori universitari, uomini di vari campi che con le loro decisioni possono influenzare il mondo. Tutti i membri aderiscono alle idee precedenti, ma non tutti sono al corrente della profonda verità ideologica di alcuni membri principali». I veri “conducator”- secondo questa analisi - i quali a loro volta fanno anche parte di altri segmenti strategici nell’organigramma degli Illuminati. Due in particolare: la Trilateral e la Commission of Foreign Relationship, nata nel 1921, la quale riunisce a sua volta tutti i personaggi che hanno fra le loro mani le leve del comando negli Usa. «Questi membri particolari - prosegue Bongiovanni - sono i più potenti e fanno parte di quello che viene definito il ‘cerchio interiore’. Quello “esteriore”, invece, è l’insieme degli uomini della finanza, della politica, e altro, che sono sedotti dalle idee di instaurare un governo mondiale che regolerà tutto a livello politico e economico: insomma, le ‘marionette’ utilizzate dal cerchio interiore perché i loro membri sanno che non possono cambiare il mondo da soli e hanno bisogno di collaboratori motivati e mossi anche dal desiderio di danaro e potere». Passiamo, per finire, alla Trilateral, vero e proprio luogo cult del Potere nascosto, in grado comunque di condizionare i destini del mondo. Ovviamente ‘sponsorizzato’ della star dell’imprenditoria multinazionale, come Coca Cola, Ibm, Pan American, Hewlett Packard, Fiat, Sony, Toyota, Mobil, Exxon, Dunlop, Texas Instruments, Mutsubishi, per citare solo le più importanti. L’associazione nasce nel 1973, sotto la presidenza “democratica” di Jimmy Carter e del suo consigliere speciale per la sicurezza, Zbigniew Brzezinsky, il vero deux ex machina. A ispirare il progetto, le famiglie Rothschield e Rockfeller, i Paperoni d’America. Un progetto che ha irresistibilmente attratto i potenti del mondo, a cominciare proprio dai presidenti Usa, con un Bill Clinton in prima fila. Così descriveva Giovanni Agnelli la Trilateral: «Un gruppo di privati cittadini, studiosi, imprenditori, politici, sindacalisti delle tre aree del mondo industrializzato (Usa, Europa e Giappone, ndr) che si riuniscono per studiare e proporre soluzioni equilibrate a problemi di scottante attualità internazionale e di comune interesse». Il solito ritornello. Di diverso avviso il giornalista Richard Falk, che già nel 1978 - quindi a pochissimi anni dalla nascita - scrive sulle colonne della Monthly Review di New York: «Le idee della Commissione Trilaterale possono essere sintetizzate come l’orientamento ideologico che incarna il punto di vista sopranazionale delle società multinazionali, che cercano di subordinare le politiche territoriali a fini economici non territoriali». E’ la filosofia delle grandi corporation, che stanno privatizzando le risorse di tutto il pianeta, a cominciare dai beni primari, come ad esempio l’acqua: non solo riescono a ricavare profitti stratosferici ma anche ad esercitare un controllo politico su tutti i Sud - e non solo - del mondo. La logica della globalizzazione. E i bracci operativi di questo turbocapitalismo sono proprio due strutture che dovrebbero invece garantire il contrario: ovvero la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. «Entrambi - scrive uno studioso, Mario Di Giovanni - sotto lo stretto controllo del ‘Sistema’ liberal della costa orientale americana. Agiscono a tutto campo nell’emisfero meridionale del pianeta, impegnate nella conduzione e ‘assistenza’ economica ai paesi in via di sviluppo». E proprio sull’acqua, la Banca Mondiale sta dando il meglio di sé: con la sua collegata IFC (Internazionale Finance Corporation) infatti sta mettendo le mani sulla gran parte delle privatizzazioni dei sistemi idrici di mezzo mondo, soprattutto quello africano e asiatico, condizionando la concessione dei fondi all’accettazione della privatizzazione, parziale o più spesso totale, del servizio. Del resto, è la stessa Banca a calcolare il business in almeno 1000 miliardi di dollari… Scrive ancora Di Giovanni: «Le decisioni assunte dai vertici della Trilateral riguarderanno sempre di più quanti uomini far morire, attraverso l’eutanasia o gli aborti, e quanti farne vivere, attraverso un’oculata distribuzione delle risorse alimentari. Decisioni che riguarderanno l’ingegneria genetica, per intervenire nella nuova ‘umanità’. In una parola, tutto ciò che definitivamente distrugga il ‘vecchio’ ordine sociale, cristiano, per la creazione di un nuovo ordine. Ma tutto questo senza particolari scossoni. Non vi sarà bisogno di dittature, visto che le democrazie laiche e progressiste, condotte da governi di ‘centrosinistra’, servono già così efficacemente allo scopo. Governi che riproducono - conclude - una formula già sperimentata lungo l’intero corso del ventesimo secolo e plasticamente rappresentata dal passato governo Prodi-D’Alema: l’alleanza fra la borghesia massonica e la sinistra, rivoluzionaria o meno».

LE 13 FAMIGLIE CHE COMANDANO IL MONDO, scrive “Informare per resistere” l'8 agosto 2012. “Illuminati” o “portatori di luce”. Appartengono a tredici delle più ricche famiglie del mondo e sono i personaggi che veramente controllano e comandano il mondo da dietro le quinte. Vengono, da molti, anche definiti la “Nobiltà Nera”. La loro caratteristica principale è quella di essere nascosti agli occhi della popolazione mondiale. Il loro albero genealogico va indietro migliaia di anni, alcuni dicono che risale alla civiltà sumera/babilonese o addirittura che siano ibridi, figli di una razza extraterrestre, i rettiliani. Sono molto attenti a mantenere il loro legame di sangue di generazione in generazione senza interromperla. Il loro potere risiede nel controllo specie quello economico (gruppo Bilderberg ecc…), “il denaro crea potere” è la loro filosofia. Il loro controllo punta a possedere tutte le banche internazionali, il settore petrolifero e tutti i più potenti settori industriali e commerciali. Sono infiltrati nella politica e nella maggior parte dei governi e degli organi statali e parastatali. Inoltre negli organi internazionali primo fra tutti l’ONU e poi il Fondo Monetario Internazionale. Ma qual è l’obiettivo degli Illuminati? Creare un Nuovo Ordine Mondiale (NWO) con un governo mondiale, una banca centrale mondiale, un esercito globale e tutta una rete di controllo totale sulle masse. A capo ovviamente loro stessi, per sottomettere il mondo ad una nuova schiavitù, non fisica, ma “spirituale” ed affermare il loro credo, quello di Lucifero. Questo progetto va avanti, secondo alcuni, da millenni ma ebbe un incremento nella prima metà del 1700 con l’incontro tra il “Gruppo dei Savi di Sion” e Mayer Amschel Rothschild, l’abile fondatore della famosa dinastia che ancora oggi controlla il Sistema Bancario Internazionale. L’incontro portò alla creazione di un manifesto: “I Protocolli dei Savi di Sion”. Suddiviso in 24 paragrafi, viene descritto come soggiogare e dominare il mondo con l’aiuto del sistema economico. Rothschild successivamente aiutò e finanziò l’ebreo Adam Weishaupt, un ex prete gesuita, che a Francoforte creò il famigerato gruppo segreto dal nome “Gli Illuminati di Baviera”. Weishaupt prendendo spunto dai “Protocolli dei Savi di Sion” elaborò verso il 1770 “Il Nuovo Testamento di Satana” un piano che porterà una piccola minoranza di persone al controllo globale. La sua strategia si basava sulla soppressione dei governi nazionali e alla concentrazione di tutti i poteri sotto unici organi da loro controllati. Loro hanno un piano ben preciso che portano avanti a piccoli passi, proprio per non destare alcun sospetto. Creare la divisione delle masse, è un passo fondamentale, in politica, nell’economia, negli aspetti sociali, con la religione, l’invenzione di razze ed etnie ecc… Scatenare conflitti tra stati, così da destabilizzare l’opinione pubblica sui governi, l’economia e incutere timore e mancanza di sicurezza nella popolazione.  Corrompere con denaro facile, vantaggi e sesso, quindi rendere ricattabili i politici o chi ha una posizione di spicco all’interno di uno stato o di un organo statale. Scegliere il futuro capo di stato tra quelli che sono servili e sottomessi incondizionatamente. Avere il controllo delle scuole: dalla scuola infantile all’Università per fare in modo che i giovani talenti siano indirizzati ad una cultura internazionale e diventino inconsciamente parte del complotto. Indottrinando la popolazione su come si può o non può vivere, su quali sono le regole da rispettare, gli usi e i costumi ecc… Infiltrarsi in ogni decisione importante (meglio a lungo termine) dei governi degli stati più potenti del mondo. Facendo coincidere queste decisioni con il progetto finale. Controllare la stampa e l’informazione in generale, creando false notizie, false emozioni, paura ed instabilità. Abituare le masse a vivere sulle apparenze ed a soddisfare solo il loro piacere ed il materialismo così da portare la società alla depravazione, stadio in cui l’uomo non ha più fede in nulla. Arrivare a creare un tale stato di degrado, di confusione e quindi di spossatezza, che le masse avrebbero dovuto reagire cercando un protettore o un benefattore al quale sottomettersi spontaneamente. Uno dei loro obbiettivi è scippare la popolazione così da manipolare il loro pensiero ed il loro comportamento, oltre che rendere molto facile la loro identificazione e localizzazione. Tutto questo con la scusante della sicurezza personale. Nel 1871 il piano di Weishaupt viene ulteriormente confermato e completato da un suo seguace americano, il gran maestro, Albert Pike che elaborò un documento per l’istituzione di un Nuovo Ordine Mondiale (NWO) attraverso tre Guerre Mondiali. Lui sosteneva che attraverso questi tre conflitti la popolazione mondiale, stanca della violenza e della sofferenza, avrebbe richiesto spontaneamente protezione e pace e la creazione di organi mondiali che controllassero ciò. Dopo la Seconda Guerra Mondiale venne fatto il primo passo in questa direzione con la formazione dell’ONU. Per Pike, la Prima Guerra Mondiale doveva portare gli Illuminati, che già avevano il controllo di alcuni Stati Europei e stavano conquistando attraverso le loro trame gli Stati Uniti di America, ad avere anche la guida della Russia. Quest’ultima sarebbe poi servita alla divisione del mondo in due blocchi. La Seconda Guerra Mondiale sarebbe dovuta partire dalla Germania (cosa che accadde), manipolando le diverse opinioni tra i nazionalisti tedeschi e i sionisti politicamente impegnati. Inoltre avrebbe portato la Russia ad estendere la sua zona di influenza e reso possibile la costituzione dello Stato di Israele in Palestina. La Terza Guerra Mondiale sarà basata sulle divergenze di opinioni che gli Illuminati avranno creato tra i Sionisti e gli Arabi (occidente cristiano contro l’Islam cosa che si sta avverando e anche velocemente), programmando l’estensione del conflitto a livello mondiale. Ovviamente non potevano pensare di conseguire i loro obiettivi da soli, avevano ed hanno bisogno di una “struttura operativa”, composta da organizzazioni o persone che esercitando del potere ed operino più o meno consapevolmente nella stessa direzione. La loro strategia ha fatto leva su 2 capisaldi: la forza del denaro, loro hanno costituito e controllano il sistema bancario internazionale; la disponibilità di persone fidate, ottenuta attraverso il controllo delle società segrete (logge massoniche). Gli Illuminati e chi con loro controlla queste società, sono pressoché Satanisti e praticano la magia nera e sacrifici umani. Il loro Dio è Lucifero e attraverso pratiche e riti occulti manipolano e influenzano le masse. Molti asseriscono che è anche da questa scienza di tipo occulto che gli Illuminati hanno sviluppato la teoria sul controllo mentale delle masse. Poco tempo fa sono emersi anche i nomi delle suddette famiglie: ASTOR, BUNDY, COLLINS, DUPONT, FREEMAN, KENNEDY, LI, ONASSIS, ROCKFELLER, ROTHSCHILD, RUSSELL, VAN DUYN, MEROVINGI.

Famoso discorso, fatto da John Fritzgerald Kennedy, il 27 aprile 1961, sulla reale minaccia, che le società segrete, costituiscono per tutto il mondo, e per la libertà, di ogni essere umano. Kennedy denunciò apertamente i poteri occulti che nell’ombra governano il mondo, poi quando decise di stampare una banconota di stato svincolata dalla FED fu fatto fuori. Casualità???

L’INGHILTERRA E’ CONTROLLATA DAI ROTHSCHILD, scrive “I Complottisti” il 30/06/2016. L’Inghilterra è un’oligarchia finanziaria gestita dalla corona che si riferisce alla City of London e non alla Regina. La City of London è gestita dalla Banca d’Inghilterra, una società privata. La City è uno stato sovrano, come il Vaticano del mondo finanziario, e non è soggetta alla legge britannica, al contrario i banchieri danno gli ordini al Parlamento Britannico. Nel 1886 Andrew Carnegie scrisse che "6 o 7 uomini possono spingere il paese in una guerra senza consultare il Parlamento”. Vincenzo Vickers direttore della Banca d’Inghilterra dal 1910 al 1919 ha accusato la City per le guerre nel mondo. L’impero britannico era un’estensione degli interessi finanziari dei banchieri. In effetti, tutte le colonie non bianche (India, Hong Komg, Gibilterra) erano corone colonie. Appartenevano alla City e non erano soggetti alla legge inglese. La Banca d’Inghilterra ha assunto il controllo degli USA durante l’amministrazione Roosevelt (1901-1909) quando il suo agente J.P. Morgan acquisì oltre il 25% del business americano. Secondo l’American Almanac i banchieri fanno parte di una rete chiamata club of Isles che è un’associazione informale di famiglie reali prevalentemente europee tra cui la Regina. Il club of Isles gestisce una cifra stimata di 10 miliardi di dollari in assets come la Royal Dutch Shell, Imperial Chemical Industries, Lloyds of London, Unilever, Lonrho, Rio Tinto Zinc, e anglo americana De Beers. Domina la fornitura mondiale di petrolio, oro, diamanti, e molte altre materie prime vitali ed impiega questi assets a disposizione della propria agenda geopolitica. Il loro obiettivo è ridurre la popolazione mondiale ad 1 miliardo di persone entro le prossime 2/3 generazioni, per mantenere il proprio potere globale e feudale. La storia Jeffrey Steinberg scrisse: “Inghilterra, Scozia, Galles ed in particolare l’Irlanda del Nord sono oggi poco più di piantagioni di schiavi e laboratori di ingegneria sociale per soddisfare le esigenze della City of London”. Queste famiglie costituiscono un’oligarchia finanziaria e sono il potere dietro il trono Windsor. Considerano se stessi come eredi dell’oligarchia veneziana che si sono infiltrati ed hanno sovvertito l’Inghilterra dal periodo 1509-1715 ed ha stabilito un nuovo più virulento ceppo anglo-olandese svizzero del sistema oligarchico dell’impero di Babilonia, Persia, Roma e Bisanzio…La City of London domina i mercati speculativi del mondo. Un gruppo strettamente interdipendente di imprese, materie prime coinvolte nell’estrazione, finanza, assicurazioni, trasporti e produzioni di cibo, fa la parte del leone nel controllo del mercato mondiale. Sembra che molti membri di questa oligarchia erano ebrei. Cecil Roth scrisse “il commercio di Venezia è stato il nodo schiacciante concentrato nelle mano degli ebrei, i più ricchi della classe mercantile (La storia degli ebrei a Venezia 1930). William Guy Carr nel libro Pawns in the game spiega che sia Oliver Cromwell che Gugliemo d’Orange sono stati finanziati da banchieri ebrei. La Rivoluzione Inglese (1649) è stata la prima di una serie di rivoluzioni progettate per dare loro egemonia mondiale. L’Inghilterra è stato uno stato ebraico per oltre 300 anni.

I 25 PUNTI SCRITTI DAI ROTHSCHILD PER LA CONQUISTA DEL MONDO, scrive “I Complottisti” il 22/03/2016. PREMESSA: I ROTHSCHILD, SONO UNA DELLE POCHE FAMIGLIE A CONTROLLARE SIN DAGLI ALBORI LE BANCHE, QUINDI LE ECONOMIE E QUINDI I GOVERNI MONDIALI. Anno 1773. Poco prima di presentare il suo piano, in 25 punti, per “dominare le ricchezze, le risorse naturali e la forza lavoro di tutto il mondo”, Amschel Mayer Rothschild, ai suoi dodici ascoltatori, svelò «come la Rivoluzione Inglese (1640-60) fosse stata organizzata e mise in risalto gli errori che erano stati commessi: il periodo rivoluzionario era stato troppo lungo, l’eliminazione dei reazionari non era stata eseguita con sufficiente rapidità e spietatezza e il programmato “regno del terrore”, col quale si doveva ottenere la rapida sottomissione delle masse, non era stato messo in pratica in modo efficace. Malgrado questi errori, i banchieri, che avevano istigato la rivoluzione, avevano stabilito il loro controllo sull’economia e sul debito pubblico inglese». Rothschild mostrò che questi risultati finanziari non erano da paragonare a quelli che si potevano ottenere con la Rivoluzione francese, a condizione che i presenti si unissero per mettere in pratica il Piano rivoluzionario che egli aveva studiato e aggiornato con grande cura. Questi 25 punti sono:

1. Usare la violenza e il terrorismo, piuttosto che le discussioni accademiche.

2. Predicare il “Liberalismo” per usurpare il potere politico.

3. Avviare la lotta di classe.

4. I politici devono essere astuti e ingannevoli – qualsiasi codice morale lascia un politico vulnerabile.

5. Smantellare “le esistenti forze dell’ordine e i regolamenti. Ricostruzione di tutte le istituzioni esistenti.”

6. Rimanere invisibili fino al momento in cui si è acquisita una forza tale che nessun’altra forza o astuzia può più minarla.

7. Usare la Psicologia di massa per controllare le folle. “Senza il dispotismo assoluto non si può governare in modo efficiente.”

8. Sostenere l’uso di liquori, droga, corruzione morale e ogni forma di vizio, utilizzati sistematicamente da “agenti” per corrompere la gioventù.

9. Impadronirsi delle proprietà con ogni mezzo per assicurarsi sottomissione e sovranità.

10. Fomentare le guerre e controllare le conferenze di pace in modo che nessuno dei combattenti guadagni territorio, mettendo loro in uno stato di debito ulteriore e quindi in nostro potere.

11. Scegliere i candidati alle cariche pubbliche tra chi sarà “servile e obbediente ai nostri comandi, in modo da poter essere facilmente utilizzabile come pedina nel nostro gioco”.

12. Utilizzare la stampa per la propaganda al fine di controllare tutti i punti di uscita d’ informazioni al pubblico, pur rimanendo nell’ombra, liberi da colpa.

13. Far sì che le masse credano di essere state preda di criminali. Quindi ripristinare l’ordine e apparire come salvatori.

14. Creare panico finanziario. La fame viene usata per controllare e soggiogare le masse.

15. Infiltrare la massoneria per sfruttare le logge del Grande Oriente come mantello alla vera natura del loro lavoro nella filantropia. Diffondere la loro ideologia ateo-materialista tra i “goyim” (gentili).

16. Quando batte l’ora dell’incoronamento per il nostro signore sovrano del Mondo intero, la loro influenza bandirà tutto ciò che potrebbe ostacolare la sua strada.

17. Uso sistematico di inganno, frasi altisonanti e slogan popolari. “Il contrario di quanto è stato promesso si può fare sempre dopo. Questo è senza conseguenze”.

18. Un Regno del Terrore è il modo più economico per portare rapidamente sottomissione.

19. Mascherarsi da politici, consulenti finanziari ed economici per svolgere il nostro mandato con la diplomazia e senza timore di esporre “il potere segreto dietro gli affari nazionali e internazionali.”

20. L’obiettivo è il supremo governo mondiale. Sarà necessario stabilire grandi monopoli, quindi, anche la più grande fortuna dei Goyim dipenderà da noi a tal punto che essi andranno a fondo insieme al credito dei dei loro governi il giorno dopo la grande bancarotta politica.

21. Usa la guerra economica. Deruba i “Goyim” delle loro proprietà terriere e delle industrie con una combinazione di alte tasse e concorrenza sleale.

22. Fai si che il “Goyim” distrugga ognuno degli altri; così nel mondo sarà lasciato solo il proletariato, con pochi milionari devoti alla nostra causa e polizia e soldati sufficienti per proteggere i loro interessi.

23. Chiamatelo il Nuovo Ordine. Nominate un Dittatore.

24. Istupidire, confondere e corrompere e membri più giovani della società, insegnando loro teorie e principi che sappiamo essere falsi.

25. Piegare le leggi nazionali e internazionali all’interno di una contraddizione che innanzi tutto maschera la legge e dopo la nasconde del tutto. Sostituire l’arbitrato alla legge.

 “COME (NON) FUNZIONA LA DEMOCRAZIA DELL’UNIONE EUROPEA. INDAGINE SUI TRATTATI EUROPEI” – SPECIALE COMPLETO in TRE PARTI (a cura dell’avvocato Giuseppe PALMA del 3 luglio 2016).

PREMESSA. Dopo il voto britannico sulla Brexit (cioè sulla volontà del popolo del Regno Unito di restare o meno all’interno dell’Unione Europea), giornalai di regime e professoroni universitari, visto l’esito, hanno scatenato il putiferio! Il referendum in Gran Bretagna di giovedì 23 giugno si è concluso con una inequivocabile vittoria del LEAVE (fatta eccezione per Londra, il resto dell’Inghilterra e del Galles hanno votato per uscire dall’UE, mentre Scozia e Irlanda del Nord per rimanere). Ciò ha determinato, come ci si aspettava, un terremoto sui mercati. Ed ecco che il “vero potere” ha scatenato un’offensiva senza precedenti contro la democrazia. C’è addirittura chi, dall’alto del proprio ruolo di docente universitario ordinario, ha follemente ipotizzato la necessità di sostituire il voto eguale (cioè una testa un voto) con il voto ponderato (cioè che alcuni voti valgano più di altri a seconda dell’età e/o del titolo di studio). A questo punto, c’è da chiedersi: ma se è vero (e non lo è) che l’Unione Europea si fonda sui principi di democrazia, pace e benessere, per quale motivo una semplice consultazione elettorale (per di più di natura consultiva e non vincolante) ha determinato il crollo dei mercati e la reazione scomposta dell’establishment? Sarà mica l’Unione Europea ad essere INCOMPATIBILE con la democrazia? Giudicate Voi.

PARTE PRIMA. PERCHE’ LE NORME GIURIDICHE DELL’UNIONE EUROPEA PREVALGONO SU QUELLE NAZIONALI?

Il rapporto gerarchico nel sistema delle Fonti del diritto: gravi problematiche. Fatta salva – nei termini che si esporranno di seguito – la supremazia gerarchica della Costituzione nei confronti delle norme europee di qualunque fonte (supremazia meramente formale visto che le norme costituzionali sono state sostanzialmente superate dal contenuto dei Trattati), la produzione legislativa nazionale di rango ordinario (le leggi e gli atti aventi forza di legge) si colloca su un livello inferiore (rapporto gerarchico) rispetto alla produzione legislativa dell’UE, tant’è che, qualora una norma nazionale non fosse conforme ad una norma europea, il giudice nazionale (al quale i cittadini si rivolgono per ottenere giustizia) deve disapplicare la norma nazionale e applicare quella europea, anche se questa è antecedente alla norma interna. Ma andiamo per gradi. Cosa vuol dire rapporto gerarchico? Vuol dire che un atto giuridico deve essere conforme ad un altro atto giuridico posto su un livello superiore nella scala gerarchica delle Fonti del diritto, cioè – ad esempio – un regolamento del Governo deve essere conforme alla legge ordinaria, questa deve essere conforme al Regolamento dell’UE (che è un atto giuridico che fa parte del diritto derivato dell’Unione) e quest’ultimo non deve essere in contrasto con i Principi Fondamentali dell’ordinamento costituzionale, con la Parte Prima della Costituzione e con la forma repubblicana (intesa nel suo significato più ampio). La conformità alla Costituzione è richiesta anche al diritto europeo originario (rappresentato dai Trattati dell’UE), e a tal riguardo va evidenziato che gli atti legislativi dell’Unione sono adottati attraverso le procedure stabilite dai Trattati che nulla hanno a che fare con le procedure democratiche dettagliatamente stabilite dalla Parte Seconda della nostra Costituzione, la quale attribuisce la funzione legislativa esclusivamente ad un Parlamento eletto direttamente dal popolo (fatta eccezione per i casi del decreto legge e del decreto legislativo che sono invece di competenza del Governo, la cui funzione legislativa è comunque limitata al verificarsi di specifiche condizioni). Ciò detto, i cittadini italiani sono soggetti a norme europee (che superano quelle nazionali) adottate attraverso procedure legislative meno garantiste e meno democratiche di quelle stabilite dalla Costituzione, le quali sono costate milioni di morti. Capito adesso perché la Costituzione è stata – di fatto – esautorata sin dalle sue viscere? Come si fa a dire di essere europeisti di fronte a tali verità? Come si può accettare che la Commissione europea e il Consiglio dell’UE (quindi funzione esecutiva, iniziativa legislativa e funzione legislativa), deputati rispettivamente a proporre e ad emanare atti legislativi direttamente vincolanti e superiori alle leggi nazionali, siano composti da soggetti nominati (e quindi non eletti) che non ricevono neppure un vero e proprio voto di fiducia da parte del Parlamento, unico organismo europeo eletto direttamente dal popolo? In pratica, se la Rivoluzione francese aveva strappato la funzione legislativa dalle mani del re (e del suo “Consilium Principis”) per attribuirla ad un’assemblea elettiva che rappresentasse ed esercitasse la sovranità popolare, l’UE ha annullato le conquiste rivoluzionarie attribuendo sostanzialmente la potestà legislativa dell’Unione (il cui frutto supera la produzione legislativa nazionale) ad un organismo – il Consiglio dell’UE – i cui componenti (al pari dei componenti della Commissione), non essendo eletti dai cittadini, rispondono unicamente a logiche di potere e di interesse del tutto contrapposte alle “naturali” esigenze dei popoli. I Trattati europei (da ultimo quello di Lisbona) prevedono che la funzione legislativa dell’UE sia esercitata congiuntamente da Parlamento europeo e Consiglio dell’UE, ma la potestà legislativa del Parlamento europeo è circoscritta al mero ruolo di “compartecipe” o di “notaio in differita”. Nella sostanza, gli atti giuridici dell’Unione sono adottati dal Consiglio e dalla Commissione, due organi non eletti dal popolo e che non rispondono a criteri democratici! La funzione legislativa dell’Unione mira esclusivamente alla tutela del capitale internazionale (anche attraverso l’euro), al perseguimento degli scopi delle multinazionali e alla salvaguardia degli interessi dei mercati. Il rispetto della sovranità popolare e la tutela dei diritti fondamentali non fanno parte dell’agenda politica e legislativa dell’UE! Ma entriamo nello specifico. Ferma restando la palese manipolazione interpretativa dell’art. 11 Cost. La nostra Corte Costituzionale, già nel 1964, affermava che le norme comunitarie sono da porre sul medesimo piano delle leggi ordinarie, e che un eventuale conflitto tra norma interna e norma comunitaria si sarebbe dovuto risolvere attraverso il criterio della successione delle leggi nel tempo (il c.d. principio lex posterior derogat priori), ossia che la norma successiva deroga (sostituisce) quella precedente (Sent. n. 14 del 7 marzo 1964 – Costa c. Enel). Successivamente, nel 1973, la Consulta si spinge addirittura oltre riconoscendo sia il primato del diritto comunitario sul diritto interno che l’efficacia diretta dei Regolamenti (Sent. n. 183 del 1973 – conosciuta come Sentenza Frontini). Forse toccata da un sussulto di indipendenza, nel 1975 sempre la nostra Corte Costituzionale (con Sentenza n. 232/1975) enuncia il principio che, affinché potesse essere disapplicata, la norma nazionale doveva essere abrogata o dichiarata costituzionalmente illegittima dall’organo costituzionale competente, lasciando in tal modo allo Stato (attraverso se stessa) un minimo di controllo sull’efficacia della normativa comunitaria nell’ordinamento giuridico nazionale. Ma nel 1978 interviene un’importante Sentenza della Corte di Giustizia europea (causa Simmenthal – Sent. 9 marzo 1978) che risolve ogni empasse in favore della legislazione comunitaria: “il giudice nazionale, incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le disposizioni del diritto comunitario, ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere od ottenere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale”. Trascorrono circa sei anni durante i quali la Consulta mantiene sostanzialmente le proprie posizioni, ma nel 1984 il conflitto tra la giurisprudenza della Corte di Giustizia e quella della Corte Costituzionale viene definitivamente risolto da quest’ultima con l’emanazione della Sentenza n. 170 dell’8 giugno 1984 (causa Granital c. Ministero delle Finanze), con la quale la nostra Consulta si è allineata totalmente alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, stabilendo che il giudice nazionale è tenuto a disapplicare addirittura anche la normativa nazionale posteriore confliggente con le disposizioni europee, superando in tal modo l’obbligo previsto nel 1975 di un preventivo giudizio di legittimità costituzionale. Successivamente, nel 1985 (Sent. del 23 aprile 1985 n. 113 – causa BECA S.p.A. e altri c. Amministrazione finanziaria dello Stato), la Consulta – oltre a ribadire quanto già affermato con Sentenza n. 170/1984 – chiarisce che la normativa europea entra e permane in vigore in Italia senza che i suoi effetti siano intaccati dalla legge ordinaria dello Stato, ogni qualvolta la normativa europea soddisfa il requisito dell’immediata applicabilità, quindi i Regolamenti UE e – per espressa previsione – le statuizioni risultanti dalle Sentenze interpretative della Corte di Giustizia. Tuttavia, l’applicazione e l’efficacia diretta delle norme del diritto europeo incontrano un limite invalicabile (quanto meno da un punto di vista formale) rappresentato dai Principi Fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dai diritti inalienabili della persona, infatti la stessa Corte Costituzionale – con Sentenza del 13 luglio 2007 n. 284 – afferma: “Ora, nel sistema dei rapporti tra ordinamento interno e ordinamento comunitario, quale risulta dalla giurisprudenza di questa Corte, consolidatasi, in forza dell’art. 11 della Costituzione, soprattutto a partire dalla sentenza n. 170 del 1984, le norme comunitarie provviste di efficacia diretta precludono al giudice comune l’applicazione di contrastanti disposizioni del diritto interno, quando egli non abbia dubbi – come si è verificato nella specie – in ordine all’esistenza del conflitto. La non applicazione (del diritto interno – nda) deve essere evitata solo quando venga in rilievo il limite, sindacabile unicamente da questa Corte, del rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona”. A tal proposito, Luciano Barra Caracciolo sostiene che tra i limiti che incontra la prevalenza del diritto europeo rispetto al diritto interno, anche in relazione all’interpretazione dell’art. 11 Cost., non vi sono solo quelli di parità con gli altri Stati o di promozione della pace e della giustizia fra le Nazioni, ma anche quello sancito dall’art. 139 Cost. (La forma repubblicana, intesa nella sua accezione più vasta) e quello – come stabilito anche dalla Consulta – del rispetto dei Principi Fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona. Il novero di questi limiti (cosiddetti CONTROLIMITI), inoltre, non si ferma ai diritti inalienabili della persona, ma si estende – come si è visto –, oltre che ai Principi Fondamentali dell’ordinamento costituzionale, anche alle disposizioni di cui alla Parte Prima della Costituzione che rappresentano la proiezione programmatica dei Principi Fondamentali. Sempre in merito ai rapporti tra ordinamento costituzionale italiano e prevalenza del diritto comunitario, Barra Caracciolo riporta un’illuminante argomentazione di uno dei Padri Costituenti, il calabrese Costantino Mortati, tra i più importanti giuristi italiani del XX Secolo: “Passando all’esame dei limiti, è da ritenere che essi debbano ritrovarsi in tutti i principi fondamentali, sia organizzativi che materiali, o scritti o impliciti, della Costituzione: sicché la sottrazione dell’esercizio di alcune competenze costituzionalmente spettanti al Parlamento, al Governo, alla giurisdizione,…dev’essere tale da non indurre alterazioni del nostro Stato come Stato di diritto democratico e sociale”; il che renderebbe fortemente dubbia – scrive Barra Caracciolo – la stessa ratificabilità del Trattato di Maastricht e poi di Lisbona. Tutto ciò premesso, chiarita la subordinazione gerarchica del diritto europeo ai Principi Fondamentali dell’ordinamento costituzionale, alla Parte Prima della Costituzione e alla forma repubblicana (dove per “forma repubblicana” non si intende solo la forma di Stato opposta alla monarchia, ma anche quell’ampio spazio creativo del concetto di Repubblica necessariamente assunto come inscindibile da quello di democrazia e di uguaglianza sostanziale), “non mi spiego” come sia stato possibile che si siano poste le basi per il superamento della legislazione nazionale a vantaggio di una legislazione sovranazionale adottata (secondo quanto previsto dai Trattati, quindi dal diritto europeo originario) attraverso meccanismi meno democratici e meno garantisti di quelli dettati dalla nostra Carta Costituzionale, cioè quelli sanciti nella Parte Seconda. La nostra Costituzione, tutta, rappresenta la madre delle Fonti del diritto dell’ordinamento giuridico italiano, quindi è la Carta fondamentale dello Stato alla cui difesa deve provvedere (da un punto di vista giuridico) la Corte Costituzionale. Pertanto, considerato che la Consulta ha la funzione di sindacare sulla conformità delle leggi alla Costituzione, si può affermare che essa non è stata sufficientemente “vigile” nei confronti del diritto europeo originario (e, nello specifico, nei confronti delle leggi nazionali di autorizzazione alla ratifica dei Trattati), il quale, nonostante sia anch’esso posto nella scala gerarchica delle Fonti del diritto su un livello inferiore rispetto alla Costituzione, ha sostanzialmente sostituito le norme costituzionali che disciplinano la funzione legislativa e il procedimento di adozione delle leggi (contenute nella Parte Seconda della nostra Costituzione) con norme meno garantiste che, anche da un punto di vista formale, tradiscono addirittura tutte quelle conquiste democratiche (costate milioni di morti) che sono l’essenza stessa dello Stato di Diritto[5]. Una su tutte quella dell’attribuzione della funzione legislativa unicamente ad un’assemblea eletta direttamente dal popolo, pilastro di civiltà costituzionale che l’Unione Europea (insieme ai Parlamenti nazionali che hanno approvato con larghe maggioranze le leggi di autorizzazione alla ratifica dei Trattati) ha palesemente tradito attribuendo la predetta funzione ad organismi sovranazionali non eletti e sostanzialmente immuni dai processi elettorali.

PARTE SECONDA: L’ASSETTO ISTITUZIONALE DELL’UE E LA MANCANZA DI DEMOCRAZIA NELLE PROCEDURE DI ADOZIONE DEGLI ATTI GIURIDICI DELL’UNIONE.

La FUNZIONE LEGISLATIVA dell’Unione Europea. Secondo quanto previsto dai Trattati dell’Unione Europea (TUE e TFUE) la FUNZIONE LEGISLATIVA dell’Unione (vale a dire il potere legislativo, cioè quello di fare e leggi) è esercitata – nella sostanza – dal duo Commissione europea/Consiglio dell’Unione Europea (quest’ultimo detto anche Consiglio dei Ministri o semplicemente Consiglio). In pratica la Commissione – che esercita il potere esecutivo – ha anche la titolarità dell’iniziativa legislativa, cioè sottopone sia al Consiglio dell’UE (da non confondere con il Consiglio europeo) che al Parlamento europeo le proprie proposte degli atti giuridici da adottare e, nella sostanza, il Consiglio adotta l’atto uniformando quasi sempre la sua posizione alla proposta della Commissione. Nella realtà, infatti, benché sia formalmente prevista una procedura legislativa consistente nell’adozione congiunta dell’atto da parte di Consiglio e Parlamento (che in passato era chiamata “procedura di codecisione”), quest’ultimo è di fatto esautorato da quella che dovrebbe essere la sua “funzione naturale”, cioè l’esercizio esclusivo della potestà legislativa (fare le leggi). L’aspetto drammatico, tra tutti i gravissimi aspetti di criticità evidenziabili, è quello che sono morte milioni di persone perché si giungesse alla conquista del sacrosanto principio che a fare le leggi fosse esclusivamente un’assemblea eletta direttamente dal popolo ed esercitante la sovranità popolare, ma, con l’avvento dell’Unione Europea, tale principio è stato quasi del tutto calpestato e tradito. La conquista democratica del binomio inscindibile “Parlamento eletto – Legge” ha quindi avuto attuazione attraverso le disposizioni contenute in ciascuna delle Costituzioni nazionali degli Stati membri dell’Unione, ma i Trattati dell’UE (per ultimo il Trattato di Lisbona) ne hanno – non solo sostanzialmente – evirato l’essenza! Il Consiglio dell’UE, infatti, è composto da un rappresentante per ciascuno Stato membro, a livello ministeriale, di volta in volta competente per la materia trattata, il quale é abilitato ad impegnare il governo dello Stato membro che rappresenta e ad esercitare il diritto di voto, ma trattasi di soggetti non eletti che il popolo il più delle volte neppure conosce; e stesso discorso dicasi anche per la Commissione, un organismo potentissimo composto da soggetti non eletti da nessuno (fatta eccezione per quanto si dirà più avanti). Riassumendo questi concetti, è bene che il lettore ricordi che la Commissione europea (esercitante sia il potere esecutivo che l’iniziativa legislativa) e il Consiglio dell’UE (esercitante la funzione legislativa), essendo entrambi composti da membri non eletti dai cittadini, sono totalmente immuni dagli eventuali “scossoni” scaturenti dai processi elettorali. E il Parlamento? Pur essendo l’unica Istituzione europea eletta direttamente dal popolo, e quindi alla quale sarebbe dovuta legittimamente spettare – come ci insegnano le conquiste democratiche costate milioni di morti –l’esercizio esclusivo della funzione legislativa, svolge sostanzialmente il ruolo di “assistente” alle decisioni del duo Commissione – Consiglio! Per di più, considerato che i due grandi partiti europei sono il PSE (Partito del Socialismo Europeo) e il PPE (Partito Popolare Europeo), in Parlamento v’è e vi sarà sempre la maggioranza assoluta per non bloccare le decisioni di Commissione e Consiglio! Ma non è finita qui: mentre la nostra Costituzione prevede che il Governo (al quale è affidato sia l’esercizio della funzione esecutiva che l’iniziativa legislativa) debba godere necessariamente della fiducia del Parlamento (altrimenti non può esercitare a pieno le sue funzioni ed è addirittura obbligato a dimettersi), in Europa non è così! Il Parlamento europeo, nella sostanza, non vota e non revoca alcuna fiducia alla Commissione (e neppure al Consiglio), la quale esercita la funzione esecutiva e l’iniziativa legislativa unicamente per volere di coloro che hanno scritto i Trattati e senza alcun controllo – neppure indiretto – da parte dei rappresentanti del popolo (in merito all’argomento fiducia/sfiducia Parlamento/Commissione, leggasi l’approfondimento tecnico a seguire). Il Parlamento europeo, per la prima volta a partire dal 2014, ha solo il diritto di eleggere (a maggioranza dei suoi membri) il Presidente della Commissione europea: considerato che alle ultime elezioni del maggio 2014 nessuno tra PSE e PPE ha ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi, questi hanno “pensato bene” di mettere insieme i propri numeri in Parlamento esprimendo un voto corale in favore del candidato del PPE Jean-Claude Juncker (sulla base del fatto che il PPE ha ottenuto la maggioranza relativa dei seggi). Quindi a nulla – o quasi – sono valse le vittorie elettorali di Marine Le Pen in Francia e di Nigel Farage in Inghilterra: nel suo complesso, il sistema elettorale per l’elezione del Parlamento europeo è stato concepito e realizzato proprio perché siano sempre il PSE e/o il PPE a farla da padrona!

APPROFONDIMENTO TECNICO. I Trattati dell’UE, oltre a prevedere che il Presidente della Commissione europea sia eletto dal Parlamento europeo a maggioranza dei membri che lo compongono e tenuto conto dei risultati elettorali per l’elezione del Parlamento medesimo (circostanza sopra evidenziata), prevedono anche che quest’ultimo (cioè il Parlamento) esprima un VOTO DI APPROVAZIONE nei confronti della Commissione (e più precisamente nei confronti del Presidente, dell’Alto rappresentante per gli affari esteri e degli altri commissari collettivamente considerati), il quale non equivale assolutamente ad un voto di fiducia come quello che – ad esempio – il Parlamento italiano esprime nei confronti del Governo; si tratta infatti di una cosa ben diversa che, nella sostanza, si traduce in un mero “giudizio di gradimento” del tutto ovvio e scontato in quanto il voto di approvazione del Parlamento è preceduto dal voto con cui questo ha già eletto il Presidente della Commissione. Per di più, dopo che il Parlamento europeo ha espresso il voto di approvazione nei confronti della Commissione, è necessario un ulteriore passaggio consistente nella nomina ufficiale della Commissione da parte del Consiglio europeo (da non confondere con il Consiglio dell’UE), e ciò dimostra come il voto di approvazione espresso dal Parlamento nei confronti della Commissione non possa considerarsi tecnicamente come un vero e proprio voto di fiducia.  Per quanto riguarda, invece, un eventuale “voto di sfiducia” del Parlamento nei confronti della Commissione (che obbligherebbe quest’ultima alle dimissioni), è opportuno anzitutto evidenziare che è del tutto azzardato parlare di “sfiducia” perché è quasi impossibile che ciò possa verificarsi nella realtà: la cosiddetta MOZIONE DI CENSURA prevista dai Trattati è una mera previsione formale del tutto irrealizzabile nella sostanza, infatti perché il Parlamento europeo possa “sfiduciare” la Commissione occorre che l’eventuale mozione di censura venga approvata con una maggioranza di addirittura i 2/3 dei voti espressi dall’aula parlamentare, sempre che il predetto risultato non sia inferiore alla maggioranza dei membri che compongono il Parlamento. Una vera e propria “truffa” che rende la forma palesemente soccombente al cospetto della sostanza. E in democrazia, si sa, la forma è elemento fondamentale e irrinunciabile. E’ pur vero che – nella forma – il Trattato di Lisbona prevede l’esercizio congiunto della funzione legislativa da parte del Consiglio dell’UE e del Parlamento europeo (posti formalmente sullo stesso piano quanto meno nella procedura legislativa ordinaria), ma è altrettanto vero che – nella sostanza – il Parlamento non esercita a pieno la funzione legislativa come invece avviene per tutte le assemblee legislative di ciascuno degli Stati membri. Il Parlamento europeo ha – di fatto – un misero ruolo di “compartecipe” o di “notaio in differita”.

Le procedure legislative dell’UE per l’adozione degli atti giuridici dell’Unione. Le procedure legislative di adozione degli atti giuridici dell’Unione Europea si distinguono in ordinaria e speciali.

LA PROCEDURA LEGISLATIVA ORDINARIA (che rappresenta la regola nella formazione degli atti giuridici dell’UE) è composta di quattro fasi:

Iª FASE (fase della prima lettura) – La Commissione europea presenta una proposta congiuntamente sia al Consiglio dell’UE che al Parlamento europeo, e su di essa quest’ultimo formula la sua posizione (cioè il Parlamento può presentare o meno una serie di emendamenti) e la invia al Consiglio. Qualora quest’ultimo non elabori proposte di emendamento, ovvero accetti gli emendamenti (la posizione) proposti dal Parlamento, l’atto viene adottato senza ulteriori adempimenti. Se invece il Consiglio non approva la posizione del Parlamento, adotta una propria posizione in prima lettura e la trasmette al Parlamento;

IIª FASE (fase della seconda lettura) – Se entro un termine di tre mesi da tale comunicazione il Parlamento: a) approva la posizione espressa dal Consiglio in prima lettura oppure non si pronuncia, l’atto in questione si considera adottato nella formulazione che corrisponde alla posizione del Consiglio; b) respinge, a maggioranza dei membri che lo compongono, la posizione espressa dal Consiglio in prima lettura, l’atto proposto si considera non adottato; c) propone, sempre a maggioranza dei membri che lo compongono, emendamenti alla posizione espressa dal Consiglio in prima lettura, il testo così emendato è inviato al Consiglio e alla Commissione che formula un parere su tali emendamenti. A questo punto (cioè in quest’ultima ipotesi), entro un termine di tre mesi dal testo così emendato, il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, può: 1) approvare tutti gli emendamenti e quindi l’atto in questione si considera adottato; 2) non approvare tutti gli emendamenti e il suo Presidente, d’intesa con il Presidente del Parlamento, convoca entro sei settimane un organo denominato Comitato di conciliazione;

IIIª FASE (fase della Conciliazione) – Il Comitato di conciliazione (composto da membri o rappresentanti del Consiglio e del Parlamento) ha il compito di giungere ad un accordo su un progetto comune (“testo di compromesso”) sulla base delle posizioni del Parlamento e del Consiglio in seconda lettura. Se entro un termine di sei settimane dalla sua convocazione il Comitato di conciliazione non approva un progetto comune, l’atto in questione si considera non adottato;

IVª FASE (fase della terza lettura) – Qualora entro il termine di sei settimane il Comitato di conciliazione riesce invece ad approvare un progetto comune, il Parlamento e il Consiglio dispongono ciascuno di un termine di sei settimane (a decorrere dall’approvazione del progetto comune da parte del Comitato di conciliazione) per adottare l’atto in questione in base al progetto comune. Il Parlamento delibera a maggioranza dei voti espressi mentre il Consiglio a maggioranza qualificata. Se entrambe le Istituzioni deliberano l’adozione dell’atto in questione, questo si intende adottato e la procedura si conclude; in mancanza invece di una decisione, ovvero qualora l’atto non venga adottato con le maggioranze predette, lo stesso si considera non adottato e la procedura si conclude.

LE PROCEDURE LEGISLATIVE SPECIALI, invece, non godono di una descrizione analitica da parte dei Trattati quindi, in mancanza di specifiche indicazioni e in attesa che si consolidi una prassi nel merito, si ritiene che si possa parlare di procedure legislative speciali tutte le volte che i Trattati prevedono procedure legislative differenti da quella ordinaria. Nell’ambito delle procedure speciali, ritengo sia necessario soffermarsi sull’ipotesi in cui è il Consiglio ad adottare l’atto con la partecipazione del Parlamento. In questo caso si hanno due tipi di procedure: la “procedura di consultazione” e la “procedura di approvazione”:

La procedura di consultazione: prima che il Consiglio adotti un atto, è necessaria la consultazione del Parlamento (in tal caso la consultazione può essere obbligatoria o facoltativa, a seconda di quanto prevedono i Trattati). Il parere espresso dal Parlamento non è vincolante né per la Commissione (che non è obbligata ad uniformare la sua proposta alle osservazioni ivi contenute), né per il Consiglio, che può disattenderlo;

La procedura di approvazione: il Consiglio non può validamente legiferare in talune materie se il Parlamento non concorda pienamente, a maggioranza assoluta dei suoi membri, con il contenuto dell’atto. In mancanza di tale approvazione l’atto non può essere adottato. In pratica si tratta di un diritto di veto da parte del Parlamento nei confronti del Consiglio.

Concentrando l’analisi sulla PROCEDURA LEGISLATIVA ORDINARIA, uno dei suoi aspetti di maggiore criticità è quello che nella fase della seconda lettura il Parlamento può respingere la posizione espressa dal Consiglio in prima lettura solo a maggioranza dei suoi membri (cioè a maggioranza assoluta), quindi occorre un voto del 50% più uno dei componenti l’assemblea, una maggioranza che – come abbiamo visto – è possibile raggiungere solo se si sommano i deputati di PSE e PPE. Considerato che si tratta di partiti (entrambi) sui quali si fonda l’intero apparato eurocratico, è praticamente impossibile per le opposizioni parlamentari trovare la forza numerica (che ricordo è della metà più uno dei membri del Parlamento) per respingere una posizione espressa dal Consiglio. Inoltre, come il lettore ha avuto modo di rendersi conto, in seconda lettura l’atto si intende adottato nel testo corrispondente alla posizione espressa dal Consiglio in prima lettura se il Parlamento, entro il termine di tre mesi, non si pronuncia sulla predetta posizione. Oppure, rimanendo sempre nell’esempio della fase della seconda lettura, il Parlamento può, sì, proporre emendamenti alla posizione espressa dal Consiglio in prima lettura, ma solo e sempre a maggioranza dei suoi membri. Appare dunque evidente che, rispetto ad esempio alla normale procedura di adozione delle leggi prevista dalla nostra Costituzione (artt. 70 e segg. Cost.), le procedure dettate dai Trattati europei presentano un pericoloso deficit di democrazia, tanto più che non è previsto neppure un controllo come quello che la nostra Costituzione assegna al Presidente della Repubblica, il quale ha la facoltà di rinviare la legge alle Camere per chiederne una nuova deliberazione (art. 74 Cost.)! Il Parlamento italiano ha autorizzato la ratifica del Trattato di Lisbona con un voto all’unanimità nel luglio 2008, senza alcun adeguato dibattito né parlamentare né mediatico. Tutto quanto sinora premesso prova che la DEMOCRAZIA COSTITUZIONALE è stata ormai superata dai Trattati dell’UE, nati non per fare gli interessi dei popoli ma per esautorarne – nella sostanza – la sovranità e l’autodeterminazione!

TERZA ed ULTIMA PARTE: MONETA UNICA E PAREGGIO DI BILANCIO: LA MORTE DELL’UE.

I principali aspetti di criticità della moneta unica. Rapporto €uro/lavoro. Abraham Lincoln, Presidente degli Stati Uniti d’America dal 1861 al 1865, ebbe modo di affermare che: “Il Governo non ha necessità né deve prendere a prestito capitale pagando interessi come mezzo per finanziare lavori governativi ed imprese pubbliche. Il Governo deve creare, emettere e far circolare tutta la valuta ed il credito necessari per soddisfare il potere di spesa del Governo ed il potere d’acquisto dei consumatori. Il privilegio di creare ed emettere moneta non è solamente una prerogativa suprema del Governo, ma rappresenta anche la maggiore opportunità creativa del Governo stesso. La moneta cesserà di essere la padrona e diventerà la serva dell’umanità. La democrazia diventerà superiore al potere dei soldi”. Era il 1865. Quello stesso anno Lincoln venne assassinato. Tra i maggiori aspetti di criticità di questo euro, oltre a quello che trattasi di moneta da prendere in prestito dai mercati dei capitali privati (es. banche private) ai quali va restituita con gli interessi (costringendo i Governi ad aumentare le tasse, inasprire gli strumenti di accertamento fiscale, porre limiti troppo bassi all’utilizzo del denaro contante e tagliare selvaggiamente lo stato sociale), v’è quello che è un accordo di cambi fissi, per cui, nei periodi di crisi economica, gli Stati sono costretti – non potendo far leva sulla svalutazione monetaria – a SVALUTARE IL LAVORO, quindi a contrarre le garanzie contrattuali e di legge, a ridurre i salari e a rendere eccessivamente flessibile il rapporto di lavoro (vedesi Riforma Fornero e  Jobs Act). Il tutto a scapito dei diritti fondamentali e del principio supremo del lavoro sul quale la Costituzione stessa fonda la Repubblica. L’euro è una moneta costruita non per la realizzazione concreta dei principi supremi sanciti dalla Costituzione (uno su tutti il lavoro), bensì per la tutela del capitale internazionale, e ciò comporta la necessità – addirittura ammessa esplicitamente – di mantenere tendenzialmente alto il tasso di disoccupazione (o comunque di non ridurlo sotto una certa soglia), ovvero di conseguire un più alto livello occupazionale ma mantenendo salari bassi e comprimendo le garanzie contrattuali e di legge in favore del lavoratore: se non si comprende questo concetto è impossibile rendersi conto di quanto è accaduto. L’UE nasce, come espressamente scritto nei Trattati, su principi del tutto in contrasto con quelli sui quali trovano fondamento le Costituzioni degli Stati membri: l’art. 3, comma 3, del TUE stabilisce infatti – tra gli obiettivi dell’Unione –la stabilità dei prezzi in un’economia di mercato fortemente competitiva, e ciò lede palesemente l’obiettivo della piena occupazione sul quale la Repubblica italiana trova fondamento (art. 1 co. I e art. 4 Cost.) e verso il quale tendono (ipocritamente) addirittura anche gli stessi Trattati europei, i quali prevedono il perseguimento della piena occupazione e del progresso sociale ma all’interno della cornice (davvero assurdo!) della stabilità dei prezzi e della competitività selvaggia: in pratica, per dirla con parole povere, l’UE persegue principalmente due obiettivi: da un lato la piena occupazione e il progresso sociale, dall’altro la stabilità dei prezzi e l’economia di mercato competitiva, i quali non possono coesistere senza che l’uno non divori l’altro! Inoltre, a completamento dell’orribile quadro sin qui delineato, va sottolineato che la BCE (Banca Centrale Europea) – come previsto dal suo stesso Statuto (quindi chi ha costruito l’UE e l’euro sapeva benissimo cosa stava facendo) – NON FUNGE DA PRESTATRICE DI ULTIMA ISTANZA, cioè non può garantire – come invece hanno sempre fatto tutte le Banche Centrali prima dell’introduzione dell’euro – i debiti pubblici di ciascuno degli Stati dell’Eurozona, i quali, trovandosi espropriati di una delle funzioni fondamentali di politica monetaria ed economica, sono continuamente assoggettati al terrore del famigerato debito pubblico! Negli Stati che invece conservano la sovranità monetaria, il debito pubblico non costituisce affatto un problema perché, potendo la Banca Centrale (o il Tesoro) fungere da prestatrice di ultima istanza, essa sarà sempre in grado di “acquistare” (e quindi di garantire) l’intero ammontare del debito pubblico senza che il Governo scarichi il relativo peso su cittadini, imprese e stato sociale. Ed è proprio da questa argomentazione che nasce l’esigenza di spiegare, seppur brevemente, la funzione delle “tasse”: se negli Stati privi di sovranità monetaria l’imposizione fiscale serve principalmente per far fronte alla spesa pubblica (le cui voci più sensibili quali la sanità, gli stipendi dei dipendenti pubblici e le pensioni sono ovviamente soggetti a tagli selvaggi) e per “ripagare” – con gli interessi – i mercati dei capitali privati che hanno dato in prestito la moneta, negli Stati che godono di sovranità monetaria le tasse servono invece per non creare altro debito pubblico (ovvero per tenerlo “sotto controllo”) e a controllare la massa monetaria in circolazione, quindi il Governo può benissimo evitare di scaricare il peso del debito su popolo e welfare. Ciò premesso, la domanda sorge spontanea: chi svolge la funzione di prestatrice di ultima istanza negli Stati che hanno adottato l’euro? Ovviamente il popolo, attraverso l’aumento della tassazione, l’inasprimento dei sistemi di accertamento fiscale, l’abbassamento della soglia massima per l’utilizzo del denaro contate e soprattutto i tagli selvaggi alle voci di spesa pubblica più delicate (istruzione, pensioni, stipendi, sicurezza, sanità, giustizia etc…). Tutto ciò premesso, i 19 Stati dell’Eurozona – non potendo più creare moneta dal nulla – devono pertanto andarsi a cercare la moneta. In che modo? Prendendola in prestito dai mercati dei capitali privati (ai quali va restituita con gli interessi) e/o andando a prenderla da cittadini e imprese attraverso le tasse, la lotta selvaggia all’evasione fiscale di sopravvivenza e i tagli allo stato sociale. Inoltre, tanto per intenderci, l’euro è una moneta fiat, cioè creata dal nulla dalla BCE (nello specifico da ciascuna Banca Centrale dei Paesi dell’Eurozona ma su decisione della BCE), quindi il crimine è doppio, infatti ciascuno Stato è costretto – nonostante l’euro sia creato dal nulla – a farsi prestare la moneta dalle banche private che, prima di prestarla, valutano con la lente di ingrandimento la capacità finanziaria dello Stato richiedente a poterla restituire. Ecco perché c’è il terrore della spesa e del debito pubblico; ecco perché l’evasione fiscale costituisce un problema… tutto questo perché si è deciso di adottare l’euro, una moneta completamente sbagliata! Ma torniamo al rapporto euro/lavoro/diritti fondamentali. Ecco un esempio pratico di come questa moneta unica – per sopravvivere – imponga ai Paesi che l’hanno adottata la SVALUTAZIONE DEL LAVORO: se la Riforma Fornero (Legge n. 92/2012) – in merito ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo – rendeva il reintegro nel posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato un’ipotesi residuale circoscritta a sole tre circostanze (licenziamenti orali, discriminatori e nei casi di carente motivazione o manifesta infondatezza del motivo addotto), il Jobs Act (Legge delega n. 183/2014 e successivi decreti attuativi del 2015) cancella del tutto la tutela del reintegro (sia per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo che per quelli per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa), fatte salve le ipotesi meramente residuali dei licenziamenti orali, discriminatori e – solo per i licenziamenti per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa – nel caso di insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, lasciando fuori dal perimetro della tutela reale (reintegro) la sproporzionalità tra fatto contestato al lavoratore e provvedimento di licenziamento. Il Jobs Act riduce anche la forbice della tutela obbligatoria (economica), infatti, per entrambe le tipologie di licenziamento sopra indicate, la predetta tutela passa dalle 12-24 mensilità previste dalla Fornero alle 4-24 mensilità del Jobs Act! Per dirla con parole più semplici, l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori è stato quasi interamente smantellato in risposta alle criminali esigenze di sopravvivenza di questa moneta unica sbagliata. E a farlo è stata una politica di centro-sinistra che ha trovato asilo in un Parlamento di nominati, “eletto” con meccanismi elettorali dichiarati incostituzionali (Corte Costituzionale, Sent. n. 1/2014), oltre che per volontà di un Governo presieduto dal terzo Presidente del Consiglio dei ministri consecutivo privo di qualsivoglia legittimazione democratica. La folle costituzionalizzazione del vincolo del pareggio di bilancio. Possibili rimedi giuridici. In ordine a tutto quanto predetto nel precedente paragrafo, si precisa altresì che se i “principi supremi” sui quali trova fondamento il nostro ordinamento costituzionale (in parte coincidenti con i Principi Fondamentali rubricati dall’art. 1 all’art. 12 della Costituzione) non possono essere soggetti a procedura di revisione costituzionale(limite implicito al quale va aggiunto quello esplicito della forma repubblicana di cui all’art. 139 Cost.), la Parte Prima della Costituzione – rappresentando la proiezione programmatica dei Principi Fondamentali – è anch’essa sottratta da eventuale procedura di revisione, se non in melius! A tal riguardo mi preme portare all’attenzione del lettore quanto accaduto con la Legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1 (“Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale”), attraverso la quale il Parlamento italiano (pur rispettando la procedura di revisione costituzionale dettata dall’art. 138 Cost.) ha inserito in Costituzione il vincolo del pareggio di bilancio (art. 81 Cost., quindi Parte Seconda della Costituzione e pertanto soggetta a revisione), ledendo – se non addirittura esautorando – uno dei “principi supremi” dell’ordinamento costituzionale che è il lavoro (artt. 1 co. I, 4 e 35 e seguenti della Costituzione). In pratica, pur rispettando la forma (COSTITUZIONE FORMALE), il Legislatore ha palesemente violato e tradito la sostanza (COSTITUZIONE MATERIALE). Partiamo da un presupposto inconfutabile: l’art. 1, primo comma, della Carta costituzionale (“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”) rappresenta la norma più importante della nostra Costituzione, il faro dell’intera legislazione, il limite supremo ad ogni sopruso, la rotta maestra che tutte le Istituzioni della Repubblica devono necessariamente percorrere sia nell’esercizio del potere legislativo ed esecutivo, sia nell’esercizio della funzione giurisdizionale! Se i Padri Costituenti decisero di fondare la Repubblica sul lavoro (avrebbero potuto fondarla benissimo, ad esempio, sulla democrazia rappresentativa o sulla lotta ai totalitarismi) vuol dire che ammettevano senz’ombra di dubbio che lo Stato possa spendere a deficit al fine di creare piena occupazione e tutelare il diritto al lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Se così non fosse, per quale motivo i Padri Costituenti avrebbero fondato la Repubblica “sul lavoro”? Per quale motivo avrebbero scritto la parola “lavoro” addirittura al primo comma del primo articolo? E’ ovvio che l’intenzione dell’Assemblea Costituente era quella di creare uno Stato democratico che garantisse a tutti la possibilità di vivere liberi dal bisogno, garantendo a chiunque un medio benessere non scaturente dalla rendita o dalla proprietà, bensì dal lavoro (sia manuale che intellettuale)! Ma la Costituente, indomita, si spinse addirittura oltre e scrisse anche sia l’art. 4 co. I e II (“La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”), sia gli artt. 35 e seguenti (sulla tutela del lavoro, della libertà sindacale e del diritto di sciopero). Il “principio supremo” del lavoro, rubricato sia nei Principi Fondamentali (artt. 1 co. I e 4 Cost.) che nella Parte Prima della Costituzione (artt. 35-40 Cost.), e quindi non soggetto a revisione costituzionale (se non in melius per quel che concerne la rubricazione che va dall’art. 35 all’art. 40 Cost.), di fronte alla costituzionalizzazione del vincolo del pareggio di bilancio (avvenuta – come si è già evidenziato – nel rispetto formale della procedura di revisione costituzionale dettata dall’art. 138 Cost.) perde di efficacia sostanziale! Ciò detto, il nostro Parlamento ha volutamente calpestato i principi inderogabili della Costituzione (Costituzione primigenia) rendendo la Repubblica non più fondata sul lavoro bensì sulla stabilità (si fa per dire!) dei conti pubblici, mutandone completamente – con un atto di forza formalmente corretto ma sostanzialmente illegittimo – sia l’anima che l’impianto! Ciò premesso, la costituzionalizzazione del vincolo del pareggio di bilancio è del tutto incompatibile con i “principi supremi” dell’ordinamento costituzionale. L’obbligo del pareggio di bilancio, introdotto in Costituzione nel 2012, sarebbe dovuto entrare in vigore a partire dal 2014, tuttavia il Governo Renzi – in cambio delle cosiddette riforme strutturali [soprattutto della riforma del mercato del lavoro (Jobs Act) e dell’avvio a ritmi serrati della revisione della Parte Seconda della Costituzione] – ha ottenuto da Bruxelles prima un rinvio al 2018, poi al 2019. In pratica lo “schiavo”, dopo essersi flagellato da solo convincendosi che flagellarsi fa bene, e dopo aver spontaneamente rinunciato alla libertà che gli è stata donata dai suo Padri, attende consapevole e felice la data della sua “morte” ch’egli già conosce. Tutto ciò premesso, i rimedi che offre il nostro ordinamento giuridico al fine di risolvere le gravi problematiche sinora esposte sono due: a) che il Parlamento, attraverso la procedura aggravata di cui all’art. 138 Cost., provveda all’abrogazione dell’art. 81 della Costituzione con la quale esso stesso ha introdotto il vincolo del pareggio di bilancio; b)che la Corte costituzionale, chiamata secondo le norme vigenti ad esprimersi sulla legittimità costituzionale della Legge costituzionale 20 aprile 2012 n. 1, dichiari l’incostituzionalità della nuova formulazione dell’art. 81 Cost. per palese violazione dei principi inderogabili della Costituzione primigenia. Alla luce di tutto quanto sinora argomentato, appare quindi sufficientemente dimostrato come la moneta unica e il pareggio di bilancio incidano negativamente (se non di peggio!) non solo nei confronti del principio fondamentale del lavoro, ma anche nei confronti della DEMOCRAZIA di tutti gli Stati dell’Eurozona. Provi uno Stato che ha adottato l’euro ad indire un referendum (anche solo consultivo) sull’abbandono della moneta unica: la democrazia sarebbe soggetta ad un attacco spietato sia da parte dei mercati e della finanza, sia da parte dell’establishment eurocratico (Istituzioni europee, media, giornalisti, politici e professoroni… quelli a libro paga del sistema). Avvocato Giuseppe PALMA

LE BOLLE PAPALI CHE HANNO CAMBIATO IL MONDO: SIAMO SCHIAVI DAL 1302 D. C. LO SAPEVATE?

Il quaderno di Giorgio da Batiorco su Veja del 5 aprile 2013…Vivi libero…e fai le domande che non hanno risposta. Il Sistema delle Bolle Papali costituisce storicamente il fondamento giuridico della nostra attuale schiavitù finanziaria. Perché ha senso parlarne espressamente in questo momento, in cui un papa ha appena annunciato le proprie dimissioni? Perché il precedente storico dell’evento attuale, rappresentato di Celestino V, Papa che fu costretto a dimettersi nel 1294, rappresenta l’inizio della storia che ci ha condotto fino alla critica situazione che stiamo vivendo oggi. Facciamo un passo indietro e vediamo come. Celestino V, che le note della ormai notoriamente “addomesticatissima” Wikipedia ci fanno passare per uno sprovveduto ignorante, era invece un papa che intendeva rivoluzionare la Chiesa basandola nuovamente su un cristianesimo profondo. Per passare da un cristianesimo corrotto e di potere – la “ecclesia carnalis” – ad un cristianesimo aperto, pieno di veri valori spirituali sul modello del Cristo: l’ “ecclesia spiritualis”. Tuttavia la chiesa di potere operò su più livelli per difendersi e bloccare l’opera di Celestino Quinto. E il manovratore cardinal Caetani (stranamente via Caetani è la via in cui fu trovato il corpo esanime di Aldo Moro, statista italiano che aveva osato uscire dalle righe del controllo finanziario internazionale n.d.r.) lo indusse alle dimissioni nel dicembre del 1296. Caetani poi, diventato Papa con il nome di Bonifacio VIII, lo fece imprigionare ed infine uccidere con un chiodo piantato nel cranio. La fine di Celestino Quinto e la conseguente fine dei Templari qualche anno dopo, mutarono profondamente la chiesa, facendola diventare solamente chiesa di potere e cancellando la gran parte delle correnti autenticamente spirituali. A Bonifacio VIII, uno dei papi più oscuri e controversi della storia, che Dante nell’inferno pone nella bolgia dei Simoniaci, ossia i corrotti che fanno commercio di cose spirituali, si deve la redazione della famosa bolla “Unam Sanctam Ecclesiam” che istituì il primo fondamento giuridico dell’infame sistema che ora ci ha ridotto nella schiavitù finanziaria di cui ognuno di noi, ogni santo giorno della nostra vita, si trova a patire le vessazioni. Le tre Bolle e l’istituzione dei Trust. Le informazioni che di qui in poi leggerete sono particolarmente dense e, dato che hanno il potere di trasformare letteralmente la visione della realtà che viviamo, è bene affrontarne la lettura con calma ed attenzione. Noi siamo qui essenzialmente in veste di compilatori, altri prima di noi hanno fatto un egregio lavoro di ricerca, sintesi e divulgazione. Il nostro compito nel momento attuale, è quello di distribuire questi materiali in modo che quante più persone possibile abbiano l’opportunità di comprendere che sotto l’apparenza più o meno rassicurante della realtà che conosciamo c’è qualcosa di diverso, che difficilmente potremmo immaginare.

LE BOLLE PAPALI CHE HANNO CAMBIATO IL MONDO. La lettura di questo articolo è impegnativa ma ha un’importanza vitale nella comprensione del mondo occidentale moderno e dei fatti storici che lo hanno portato allo status quo. Parla di come la legge universale del Libero Arbitrio nel corso della storia sia stata sfruttata e distorta dalla forze del Male per imprigionare ed asservire gli esseri umani. Se oggi le cose non vanno come vorremmo, è perchè noi abbiamo dato il nostro consenso affinchè accadessero, anche se non ne siamo consapevoli perchè questo ci è stato estorto in malafede con l’inganno. Tutto ha avuto inizio il 18 novembre del 1302, la data della pubblicazione della Bolla Papale di Papa Bonifacio VIII intitolata “Unam Sanctam Ecclesiam” le cui ripercussioni storiche fanno ancora oggi in modo che noi alla nascita diamo il nostro consenso per essere di fatto sfruttati come schiavi per tutta la vita. Armatevi di pazienza e scoprirete come…Perché stiamo diventando sempre più poveri? Perché siamo governati da un individuo non eletto o nominato da altri (non eletti di nuovo), per tassarci e versare il nostro denaro o valore equivalente direttamente nelle casse dei banchieri internazionali privati? Perché anche l’Italia ha ceduto ogni sovranità nazionale ad un gruppo di potere europeo privato? Perché questa bancarotta di tutte le economie occidentali pianificata a tavolino dai primissimi anni ’30, viene fatta col nostro consenso, di cui apparentemente non sappiamo nulla? La prima cosa da fare è capire come ottengono o come hanno ottenuto il nostro consenso e perciò, una volta compreso, saremo in grado di attuare una strategia per ritirarlo e per spezzare definitivamente questo gioco al massacro. Cos’è questo consenso? Se non partiamo da qui, prima di parlare di recupero della sovranità monetaria, di elezioni democratiche e di riforme, siamo disarmati e non ne usciremo mai. Qualsiasi cosa vorremmo o potremmo fare sarà inutile, inefficace, avremo già perso in partenza. Perciò la seconda cosa su cui ragionare è: perché per il potere mondiale chiamato anche Cabala nera è fondamentale il nostro consenso? Perché costoro sanno benissimo che esiste una legge universale, una legge suprema, che regola e domina tutto l’Universo, che va al di sopra di tutte le possibili leggi umane, che è la legge del Libero Arbitrio.

LA STORIA DEL CONSENSO E LA LEGGE UNIVERSALE DEL LIBERO ARBITRIO. Prima di parlare della storia dell’applicazione della legge del Libero Arbitrio, facciamo qualche esempio di applicazione di questa legge Universale, partendo da casi semplici, per arrivare a quelli che riguardano più da vicino ognuno di noi quotidianamente. Se tu hai firmato un contratto di mutuo con la banca, che poi ti porta via la casa in caso d’insolvenza, hai dato il tuo consenso (= libero arbitrio) a quel contratto. Nessuno ti ha mai costretto. Se poi ti rechi in tribunale per la causa di pignoramento e riconosci quegli organi legislativi e quindi quei tribunali e così facendo li legittimi, hai dato il tuo consenso (= libero arbitrio) a quelle legittimazioni.  Quindi, in parole povere, siamo noi a rinnovare il contratto con questo “sistema” ogni giorno, utilizzando quei mezzi “impropri e fraudolenti” che loro ci hanno fatto credere, con un ingegnoso mezzo-inganno, indispensabili. La prima reazione spontanea a queste affermazioni è la seguente: tutta la nostra società funziona così e nessuno di noi per vivere, lavorare, comprarsi la casa, la macchina, andare in vacanza, sposarsi, fare dei figli, educarli e farli studiare potrebbe fare altrimenti. Ma dunque è giusto, immediatamente dopo, chiedersi: “Perché funziona così?” (Domanda che ci facciamo troppo poco, quando invece è la DOMANDA fondamentale da farsi, ma siamo programmati per benino proprio per non farcela mai). Per rispondere torniamo indietro di parecchi anni, secoli, millenni…Vi esorto a leggere i libri e a guardare i video di Mauro Biglino, che ha tradotto letteralmente dall’ebraico antico, con tanto di testo originale a fronte, tutto l’Antico Testamento della Bibbia. Le sue traduzioni sono convalidate dagli anziani delle comunità ebraiche e sono divenute incontrovertibili, perché letterali e non interpretate.  Con rivelazioni davvero, davvero, davvero, davvero per menti… “aperte”.  Nel nostro caso lo studio di ciò che viene rivelato nella vera Bibbia, ci serve per capire l’importanza del “libero arbitro” nei giochi di potere e del legame indissolubile che esiste tra diritto, denaro, RELIGIONE E POLITICA. Questa incredibile scoperta, con la traduzione letterale del testi, rivela la vera natura della Bibbia, che in realtà è un Codice di Diritto Mercantile Marittimo, VALIDO, APPLICATO ANCORA OGGI, pressoché inoppugnabile in qualsiasi tribunale del mondo. Si racconta, nelle “cronache” dell’Antico testamento che il “dio” Jahvè (che si trova riportato in altri testi come Jahwe, Yahweh, Yahveh… poi vedremo chi sia questo “dio” perché non lo è affatto, ma nella traduzione “manipolata” diffusa dalla Chiesa è stato tradotto come Dio) non può obbligare Mosè a seguirlo nel cammino per la Terra Promessa (una conquista quindi, con la necessità di un piccolo esercito?). Jahvé infatti non è “Dio”, ma è precisamente descritto come un ALTO E POTENTE “Eloah” (da cui poi deriva il termine Allah).  È quindi UNO DEI TANTI Elohìm (plurale di Eloah), la stirpe che governava quei territori, forse discendente da un altro pianeta (molto probabile, da verificare, ma non è essenziale per noi adesso…). Una civiltà rappresentata da una gerarchia di individui di cui la Bibbia ci dà conto quando distingue Elohìm, Malachìm, Nefilìm, Anakìm, Refaìm, Emìm, Zamzummìm… Individui che si sono divisi il controllo del pianeta, come ci narrano il Libro della Genesi ed il Deuteronomio, combattendo tra di loro per affermare ed incrementare il loro potere utilizzando i popoli sottomessi. Sta di fatto che di questi Elohìm ce n’erano tantissimi, appunto, sparpagliati sulla Terra e organizzati in accampamenti (formati da due settori in genere, uno per l’autorità, l’Eloah, e l’altro per le “truppe”…angeli fiammeggianti e dotati di spada?). N.d.r – Conferma esatta di queste cronache si trovano anche nei testi sumerici antecedenti alla Bibbia stessa. Questo Jahvè, anche se dotato di un arma potentissima, che dalla dettagliatissima descrizione biblica sembrerebbe un’arma al plasma (Arca dell’Alleanza?), capace d’incenerire ogni cosa, non poteva comunque obbligare Mosè a seguirlo. Fu costretto perciò a stipulare “un’alleanza” con il popolo ebraico, con delle regole e delle clausole precise reciproche (io ti dò tanto, tu mi ridai tanto), tra le quali il sacrificio del primogenito di ogni coppia ecc… di cui ormai sappiamo bene la “versione” che è arrivata fino ai nostri giorni. Sempre nella Bibbia si racconta che quando decisero quindi di seguire Jahvè e furono condotti alle porte della Terra Promessa, si riunirono in assemblea per decidere se continuare a seguirlo o meno, o se ritornare sotto i vecchi Elohìm, o se affidarsi ai nuovi Elohìm che comandavano in questa nuova terra in cui erano arrivati. Questo era l’o.d.g dell’assemblea. Così, ancora una volta col loro libero arbitrio decidono di seguire Jahvè, che con la sua potentissima arma scatena la carneficina e distrugge tutte le città che incontrano nel loro cammino, uccidendo uomini, donne, vecchi e bambini (tra le quali Sodoma e Gomorra… e ci sono aneddoti significativi sulla “scelta dei giusti” da salvare dalla distruzione da parte di Jahvè e l’origine della circoncisione, oltre al mito negativo della sodomizzazione praticata in quelle regioni). Tutta questa lunga premessa, apparentemente divagatoria, oltre a segnalare una lettura diversa della Bibbia e quindi delle nostre origini e della storia dell’Umanità, serve per definire meglio la necessità del Potere di avere il consenso, perché possa perdurare e agire. Ma serve soprattutto per porre le basi del primo legame indissolubile, come dicevo, tra la legge del Libero Arbitrio, la religione, la politica, il Codice di Diritto Mercantile Marittimo, il denaro e quel che viviamo oggi. Ovviamente, come ogni regola e legge ha le proprie eccezioni, che in questo caso sono i massimi livelli di “disonore” che l’umanità ha raggiunto nel disattendere la legge del Libero Arbitrio:

– la riduzione in schiavitù degli africani, in secoli abbastanza recenti, perché non hanno ricevuto il beneficio di essere avvisati e quindi di scegliere che reazione avere (che è alla base di questa legge, come abbiamo detto);

– senza andare troppo lontano, la strategia della tensione, qui in Italia, negli anni di piombo, perché le stragi sono state fatte in modo totalmente disonorevole.

Ma questo è il comportamento più autodistruttivo e meno sostenibile che il potere possa compiere e l’élite lo sa benissimo. Perché perfino il peggiore dei satanisti massoni, che si appresta ad effettuare un sacrificio umano – la cosa più aberrante a cui noi umani comuni possiamo pensare – è obbligato a seguire queste regole e quindi a scegliere la prima vittima che si offre volontariamente, spinta da un’inspiegabile attrazione. Oppure, un esercito che sta per invadere una nazione straniera è obbligato a dare un avvertimento allo Stato che sta per mettere a ferro e fuoco, spiegando tutte le proprie richieste. Il governo dello Stato assediato ha il libero arbitrio di rispondere sì o no. Orribile o meno, c’è stato comunque un preavviso, quindi l’onore è stato mantenuto. Abbiate pazienza, non stiamo divagando, tutto serve per arrivare al punto focale, perché comprendere l’universalità della legge del consenso, è alla base di ciò che viviamo oggi, e andando avanti sarà dimostrato che l’élite mondiale dominante sta seguendo questa legge fin dall’inizio e la mette in pratica in ogni momento e in ogni aspetto della nostra vita. Se non la conoscessero così dettagliatamente e se non la seguissero così scrupolosamente, il loro potere non sarebbe durato fino ad oggi. Ecco perché Jahvè aveva bisogno del consenso per agire, ecco perché, i governanti oggi, ci fanno votare. Poiché hanno quindi bisogno assoluto del nostro consenso, come fanno ad aggirare il sistema (rendendolo però meno chiaro e decifrabile possibile) e a preservarlo nei secoli? Hanno ideato un sistema perfetto che funziona secondo i principi descritti precedentemente: “avvertimento” e “silenzio assenso”; se non mi rispondi vuol dire che sei d’accordo e quindi peggio per te. Facciamo un esempio banale che capita a tutti noi: quando la banca cambia le condizioni e lo fa spessissimo, è obbligata a mandarti un documento di trasparenza bancaria – avvertimento – che credo pochissimi di noi leggano (purtroppo!). Se tu non rispondi è silenzio assenso. Tutta la storia del nostro mondo da millenni funziona secondo questo principio.

LE LEGGI CANONICHE E LE BOLLE PAPALI. Per capire come funziona questo principio, che regola la nostra intera vita abbiamo bisogno di fare ulteriori premesse. Cosa sono le leggi? Tutte le leggi derivano da Canoni, ovvero dal Diritto Canonico, perché tutte le leggi, direttamente o indirettamente, hanno a che fare con la Legge Divina ed Ecclesiastica. Ma i Canoni in particolare sono norme o principi che traggono valore dal fatto di non essere mai stati contestati (tacito assenso). Ecco alcuni canoni, norme o principi, universalmente riconosciuti, perché nessuno ha mai detto che non lo debbano essere (molti sono per altro condivisibili perché sono alla base della civile convivenza).

1) tutti debiti devono essere pagati;

2) tutti i contratti devono essere onorati;

3) tutte le controversie portate di fronte alla legge, devono essere risolte di fronte alla legge (ovvero, se tu ricevi un’accusa, per quanto infondata, per quanto ingiusta, per quanto immorale, per quanto illegale non puoi ignorarla. E tuo l’onere di dimostrare l’infondatezza di quella accusa davanti alla legge di fronte alla quale è stata portata);

4) qualsiasi affermazione, se non viene contestata diventa valida. (Importantissimo punto! Ricevi una multa, una sanzione ingiusta, viene fissata un’udienza e tu non ti presenti, cavoli tuoi, sarà chi di dovere a decidere per te e senza di te).

• Nota al punto 4): il 99% delle procedure giudiziarie si basa sulla presupposizione di qualcosa, ma il 99% degli esseri umani non si preoccupa di comprendere quali siano queste presupposizioni, o non si preoccupa di rifiutarle. In altre parole il Sistema è ancora adesso basato sul sacramento della confessione, proprio come ai tempi dell’Inquisizione, cioè è indispensabile che tu accusi te stesso. In mancanza di questo atto di auto accusa non si può procedere. Il Diritto è gerarchico, discende sempre e comunque dal Diritto Divino: sopra a tutto c’è il Diritto Divino che, come tale, discende dal Divino Creatore, poi c’è il Diritto Naturale e poi il Diritto Positivo (leggi nazionali, internazionali, amministrative, private ecc…), il Diritto Positivo appartiene al gradino più basso nella scala gerarchica.

• Nota al punto 5): ogni proprietà costituisce un diritto associato ad un trust, cioè ad un sistema fiduciario. I potenti, l’élite mondiale, sanno da sempre che la proprietà è un concetto fittizio. Infatti come puoi possedere un pezzo di terra?

La terra, i fiumi, i laghi, i mari appartengono al Pianeta. Ma anche una casa; come puoi fisicamente possedere una casa o un’automobile? Sono tutte cose per cui esistono “titoli di proprietà” e sono titoli fittizi, costituiscono cioè diritto d’uso della casa, dell’automobile e della terra finché sei vivo. Quando sarai morto, cosa succederà a quella casa, a quell’automobile o a quel pezzo di terra, se non esistono disposizioni testamentarie, non dipende più da te. Così la casa, intesa come muri, mattoni e intonaco e la casa intesa come titolo e cioè come trust, o come sistema fiduciario, sono quindi DUE COSE BEN DIVERSE. Il sistema fiduciario, il titolo, prevede tre parti in gioco: un esecutore, un amministratore e un beneficiario. L’esecutore è sempre quello che “concede il titolo” e in questo caso è sempre lo Stato, l’amministratore è quello che amministra il titolo (catasto o Comune), il beneficiario, in questo caso sei tu, cioè il cosiddetto “proprietario” di quel bene. Fin qui tutto più o meno normale, è tutto chiaro e non c’è nulla di strano; rimane da capire se e come, questo sistema, venga usato contro di noi. Facciamo un enorme passo indietro nel tempo. L’attuale sistema, che è basato sul concetto di proprietà, è stato creato dagli antichi romani, i quali hanno disseminato il loro “diritto” in giro per il mondo e sappiamo come (è un karma pesantissimo che noi “italici” dobbiamo espiare nei confronti di tutto il mondo). Ogni terra conquistata e distrutta veniva iscritta in un “registro” conservato a Roma e ogni nuova terra dell’Impero poteva essere di proprietà solo di un cittadino romano.  Ancora oggi quindi noi viviamo in un sistema che si tramanda dall’esistenza dell’Impero Romano che di fatto, non è mai finito.  Con le invasioni longobarde, Papa Leone III, incorona Pipino il Breve come Re dei Franchi e poi Carlo Magno come Imperatore del Sacro Romano Impero. Quindi il sistema che abbiamo oggi nell’organizzazione della proprietà e del diritto e quindi del denaro e quindi della politica, nasce nel 1302 (il 18 novembre), che è la data della pubblicazione della Bolla Papale scritta da Papa Bonifacio VIII, che aveva come titolo “UNAM SANCTAM ECCLESIAM”. Bonifacio VIII è considerato uno degli uomini più corrotti, malvagi e potenti della storia della Chiesa e del mondo, tanto che lo stesso Dante lo mette nei gironi più bassi dell’Inferno. Questa Bolla Papale determina il primo sistema fiduciario ancora valido oggi. Bonifacio VIII, in questa Bolla, afferma che Dio aveva affidato tutti i titoli e le proprietà della Terra al Vaticano. Questa affermazione non venne mai contestata e quindi, in base al punto 4) del Canone di Diritto (vedi sopra) divenne valida. Il Vaticano perciò, nomina l’esecutore, l’amministratore e il beneficiario di questo sistema fiduciario. L’Esecutore è l’Ordine Minore dei Francescani unito con L’Ordine dei Gesuiti (braccio armato?) ed è ben visibile nello stemma sulla pubblicazione dell’enciclica. L’amministratore è il Papa e i beneficiari di questo trust sono tutti gli uomini del mondo. In pratica e tradotto in altri termini, la Bolla Papale del 1302 usa la metafora del Diritto Marittimo e dell’Ammiragliato (Bibbia) affermando che l’Unam Sanctam Ecclesiam e quindi la Prima e Unica Santa Chiesa è l’Arca di Noè, perché mentre tutto il mondo era sommerso dalle acque, l’unica cosa che si elevava al di sopra era l’Arca. Quindi tutti gli esseri umani, a partire da quel giorno, certificato dalla Bibbia come Codice di Diritto Nautico, sono dispersi in mare. E il Papa dunque reclama tutta l’autorità, tutta la proprietà, sia spirituale che temporale, fino a quando i “dispersi” torneranno a reclamare i loro diritti. Cosa che finora, dal 1302, non è mai avvenuta, perché tutte le Nazioni si basano su quel sistema giuridico. Questo Diritto proclamato da Papa Bonifacio VIII si basa per Diritto Divino, ecco perché non possiamo parlare di politica senza parlare di religione o di economia e finanza senza parlare di religione. Il secondo trust, creato sempre in Vaticano, risale al 1455, cioè circa 150 dopo la Bolla di Bonifacio VIII (quindi ancora mai contestata dopo 150 anni). Questa seconda Bolla è di natura testamentaria, cioè il Papa dispone, al momento della sua morte e della morte dei futuri Papi, come deve funzionare il diritto d’uso di tutti i privilegi e di tutte le proprietà derivanti dalla Bolla precedente di Bonifacio VIII. Testamento di cui l’esecutore è la Curia Romana, l’amministratore è il Collegio dei Cardinali e il Beneficiario, questa volta è il Re, sulla terra di proprietà del Papa. Quindi in due parole Dio ha dato tutto il mondo al Papa e il Papa concede pezzi di questo mondo ai Re. Per cui da quel momento i Re del mondo hanno un mandato divino. Questa enciclica del 1455 (l’8 gennaio) si chiama “ROMANUS PONTIFEX” e fu emanata da Papa Niccolò V. Cito un breve estratto significativo: “Poiché abbiamo concesso precedentemente, con altre lettere nostre, fra le altre cose, piena e completa facoltà al Re Alfonso V di invadere, ricercare, catturare, conquistare, soggiogare tutti i Saraceni e qualsiasi pagano e gli altri nemici di Cristo, ovunque essi vivano, insieme ai loro regni e ducati, principati, signorie, possedimenti e qualsiasi bene, mobile e immobile, che sia di loro proprietà e di gettarli in schiavitù perpetua e di occupare, appropriarsi e volgere ad uso e profitto proprio, signorie, possedimenti e beni, in conseguenza della garanzia data dalla suddetta concessione, il Re Alfonso V (di Portogallo n.d.r), o il detto infante a suo nome, hanno legittimamente e legalmente occupato isole, terre, porti , acque e le hanno possedute e le posseggono e ad essi appartengono e sono di proprietà “de jure” del medesimo Re Alfonso V e dei suoi successori, possono compiere e compiano questa pia e bellissima opera, degna di essere ricordata in ogni tempo, che noi essendo da essa favoriti per la salvezza delle anime e il diffondersi della fede e la sconfitta dei suoi nemici, consideriamo un compito che concerne Dio stesso, la sua fede, la Chiesa Universale, con tanta maggiore perfezione, in quanto rimosso ogni ostacolo, diverranno consapevoli di essere fortificati dai più grandi favori e privilegi concessi da noi e dalla Sede Apostolica.” Appena 30 anni dopo circa, nel 1481 (il 21 giugno), viene emanata la terza Bolla, il terzo trust, o diritto fiduciario da Papa Sisto IV, chiamata “AETERNIS REGIS CLEMENTIA”, che si diversifica dalla Bolla precedente di poco, in quanto il “bene” concesso ai Re non è più la terra, ma sono gli esseri umani che abitano quella terra, che da quel momento vengono considerati incompetenti, incapaci e dunque soggetti ad amministrazione coatta. In realtà questa Bolla di Sisto IV realizza la visione illuminata di Bonifacio VIII per cui gli esseri umani sono dispersi in mare e quindi nulla ci appartiene, siamo in bancarotta, perché non siamo mai tornati a reclamare i nostri averi e diritti e quindi è lo Stato che si deve prendere cura di noi per il nostro bene. Questo è il sistema in vigore ancora oggi. [piccola postilla: gli originali delle Bolle del 1302, del 1455 e del 1481, non sono visibili, questo perché fino al XVIII secolo, il Vaticano scriveva le proprie Bolle non su carta, considerata un mezzo privo di vita e quindi privo di valore: a quei tempi (solo due secoli fa!) un documento per essere valido doveva essere scritto su un materiale vivente. Era perciò firmato con il sangue ed era scritto su una pergamena di pelle umana. Parentesi nella parentesi: la recentissima firma della Regina Elisabetta del – criminale! – trattato di Lisbona, è stata fatto su una pergamena di capretto, poiché la Regina, come beneficiaria di un diritto divino, non può firmare un documento “morto”. Non è tutto, la storia notifica, che le Bolle Papali erano scritte su pergamene di pelle di bambini, questo spiegherebbe perché sarebbe imbarazzante per il Vaticano mostrare gli originali.] Approfitto di questa piccola interruzione del racconto per sottolineare che non c’è nessun riferimento negativo a tutte le persone di Buon Cuore (con la B e C maiuscole!) che seguono e vivono secondo l’etica giusta e generosa della Chiesa Cattolica. Il riferimento semmai è solo rivolto a quella “setta” che gestisce il mondo all’interno della Città del Vaticano. E sarebbe importante invitare i Veri Cristiani che si riconoscono in un Dio giusto e misericordioso, a pretendere, indagare e far luce su quello che avviene all’interno di quelle mura. Altrimenti, davvero, non ne usciremo mai!

COSA SIAMO NOI E COSA È LA REPUBBLICA ITALIANA. Nel  1933 c’è stata la peggiore bancarotta concordata, ormai famigerata: furono azzerati i debiti e fu anche proibito il possesso dell’oro da parte dei privati (vi ricordate “l’oro alla patria”?) e gli Stati hanno conferito tutto il proprio oro, insieme a quello confiscato e raccolto, in un unico fondo globale, per custodire il quale è stata fondata la BIS, Bank for International Settlements (Banca per le Transazioni Internazionali) — che darà il via ad un’altra sconcertante storia, come il Sukarno Trust e le denunce attualissime tuttora in corso alla Federal Reserve, (ma ora non è il caso di parlarne, altrimenti rischiamo di mettere troppa carne al fuoco) — che ha sede a Basilea, in Svizzera e fu fondata e controllata dai Gesuiti e dai Cavalieri di Malta. Come per tutto il resto, è facilmente verificabile e certificato, sempre per la legge del Libero Arbitrio. Vi esorto a fare tutte le verifiche possibili e se vi va anche a fare ricerche su quel che sta succedendo con il fondo di oro globale e le richieste di risarcimento alla Federal Reserve. Ma, sempre nel 1933 (udite, udite!) le Nazioni diventano Società di Diritto Privato, registrate presso la SEC (Security Exchange Commission) con sede a Washington D.C., che è l’equivalente della nostra CONSOB (organismo che controlla la Borsa). Queste Società di Diritto Privato chiamate Nazioni, apparentemente pubbliche e repubbliche, ma in realtà privatissime, in base alle tre Bolle Papali, possiedono oggi il DIRITTO DI PROPRIETÁ sulle persone nate in quello stato. La prima istintiva reazione è: non l’Italia! Che è una Repubblica fondata sul lavoro e che ha la sua meravigliosa Costituzione! Purtroppo invece è vero. Andate a controllare voi stessi (cliccate qui → www.sec.gov): c’è la registrazione e il numero di registrazione di “ITALY REPUBLIC OF” – Company Registration Number 0000052782, con tanto di documenti di quotazioni di borsa, cessioni di quote ecc…Il “Business Address è: “Ministero dell’Economia e delle Finanze – Via XX Settembre, 97 – Roma” e il mailing Address è: “C/O Studio Legale Bisconti, Via A. Salandra, 18 – Roma”. Quindi l’Italia NON è una Repubblica libera e pubblica, ma una Private Company e lo Stato possiede il diritto di proprietà delle persone (noi tutti) nate sul suo territorio. Ma abbiamo detto che la proprietà costituisce un diritto associato ad un trust, un atto fiduciario. Perché i potenti sanno che la proprietà è un concetto fittizio e quindi anche le persone puoi possederle solo con un titolo di proprietà che conferisca il diritto d’uso. Al momento della tua nascita, senza avvisarti, è stato creato un trust, cioè un sistema fiduciario, che ha per oggetto la tua esistenza in vita. E i tuoi genitori hanno avvallato e firmato questo trust (io ho tre figli e mi sento morire per averlo fatto tre volte!) senza essere stati avvisati. Infatti è proprio negli anni ’30 che diventa obbligatorio, guarda caso, registrare le nascite, appropriandosi così del consenso, anche se in questo caso senza essere stati doverosamente “avvisati”. Ecco perché questo sistema è, in parte, fraudolento. In realtà il Certificato di Nascita è un avvertimento, perché è la costituzione di una personalità fittizia, che non appartiene a te, ma a loro. Infatti se erroneamente si potesse pensare che il Certificato di Nascita appartenga a noi, basterebbe provare ad andare in una qualsiasi anagrafe di competenza a chiederne l’originale: possiamo averne una copia, un estratto, ma MAI l’originale. Come a dire che dal momento della creazione del Certificato di Nascita esistono due entità (ricordate la casa di mattoni e il titolo di proprietà su quella casa che ha bisogno di un esecutore, di un amministratore e di un beneficiario?), che sono l’essere umano in carne ed ossa e la persona, cioè un intermediario fittizio o una finzione giuridica, quindi un trust. Questo trust è creato secondo le Leggi Marittime e dell’Ammiragliato (Bibbia) che trascendono sempre le leggi delle varie nazioni e che è la giurisprudenza segreta dei potenti e dell’élite. Di questo trust che viene creato al momento della nascita, sulla tua esistenza in vita, l’esecutore è sempre un organo dello Stato, ma chi è il beneficiario di questo certificato di nascita?  È la Società di Diritto Privato chiamata Repubblica Italiana (un’azienda quindi). Ma beneficiario di cosa? È beneficiario di un bond, di un titolo di possesso, o di una quota societaria che attualmente viene stimato approssimativamente intorno ai 2 milioni di dollari. In pratica lo Stato Italiano crea alla tua nascita due milioni di dollari a mezzo di un bond o titolo e il collaterale di questo bond è la tua esistenza in vita, che significa: produttività, forza lavoro (sempre meno pagata e tutelata così ci guadagnano di più), valore reale! L’equivalenza perversa è: nascita = creazione di un bond e di denaro fittizio = collaterale la tua esistenza in vita e quindi il tuo futuro lavoro (pagato pochissimo se possibile e come stanno evidentemente facendo) = schiavitù! Il “tuo bond” è depositato alla S.E.C, come security, o titolo fiduciario ed entra a far parte del patrimonio di quella Private Company registrata in modo ingannevole come Repubblica Italiana. Per favore verificate tutto ciò che vi è stato detto, bastano pochi secondi su Google. Ma manca ancora la terza parte per dar vita a questa finzione giuridica: l’amministratore, quello che per contratto (trust o certificato di nascita in questo caso) si accolla l’obbligo di prendersi cura del “bene”. Chi è che ha questo ruolo? Ogni qual volta, qualsiasi autorità (dal vigile urbano, al giudice della Corte Costituzionale) ti domanda “è lei Pinco Pallino?” e tu rispondi “sì”, in quel preciso momento ti sei autonominato amministratore di quel trust.  Sei quindi caduto nel tranello in cui ti hanno messo fin dalla nascita, perché nella finzione hanno bisogno che tu ti creda l’amministratore di quella “esistenza in vita”, nella realtà invece, tu e quel trust che porta il tuo nome siete due entità completamente distinte e separate.  L’essere umano in carne ed ossa si scrive con le iniziali maiuscole e le altre lettere minuscole (come ci hanno sempre insegnato anche a scuola), la persona giuridica invece, fittizia, si scrive con tutte le LETTERE MAIUSCOLE. Controllate tutti i vostri documenti d’identità, le comunicazioni bancarie, le notifiche erariali, il tesserino sanitario ecc…Se provaste ad andare per esempio in banca e chiedeste all’impiegato di scrivere il vostro nome con le iniziali maiuscole e il resto minuscolo, se è un ignorantone ci proverà, ma sarà costretto a rispondervi che è impossibile perché il “sistema” non lo permette.  Quindi, ricapitolando: se il 99% del diritto è basato sulla presupposizione, si presuppone che qualcosa sia vero e nessuno mette in discussione quella presupposizione perché il sistema è ancora basato sul meccanismo della “confessione”, esattamente come ai tempi dell’Inquisizione; per funzionare il sistema ha bisogno che tu accusi te stesso e quindi tutto è basato sul tuo consenso, sul tuo libero arbitrio! È necessario infatti che tu accusi te stesso, ma di cosa? Del “peccato originale”. E che cos’è? La frode! L’utilizzo del nome che non ti appartiene, quel nome che da quando sei nato è stato scritto a lettere maiuscole e che è una proprietà intellettuale dello Stato, che ti ha messo in condizioni di usare fraudolentemente. Nel momento in cui lo usi dichiari: che sei nato privo di diritti, che sei in bancarotta, perché la tua vita, il tuo nome e la tua esistenza sono gestiti da altri che non sei tu; sei, perciò, da quando sei nato, in un regime di amministrazione controllata, dove il tuo nome non appartiene a te ma ad altri. Ma è ancora peggio di così! Secondo il Codice dell’Ammiragliato, o Codice Marittimo (Bibbia), sei nato disperso in mare, perché questo dicono le Bolle Papali, sulle quali si basa tutto il sistema; tu, al momento della nascita e attraverso il canale uterino, sei caduto in acqua e sei disperso in mare e non sei mai riuscito a raggiungere la terra ferma, in modo da poterti alzare in piedi e affermare “io sono un essere umano libero davanti a Dio”. Poiché le Bolle Papali si giustificano secondo mandato divino. Perché sono loro che usano la parola Dio, sono loro che hanno chiamato in causa Dio, sono loro che hanno tradotto la Bibbia con il termine Dio, che originariamente non viene mai citato (a proposito la Bibbia diventa Codice di Diritto Nautico sostituendo la parola “peccato” con “debito” n.d.r).  Il diritto quindi è sempre di provenienza divina, noi siamo perciò creature “divine” (vedi. vera traduzione della Bibbia) e loro lo sanno benissimo; non possono quindi creare un diritto fittizio, hanno assoluto bisogno di far discendere il loro diritto da Dio. Quindi loro usano questo Dio (diritto) e se tu usi il loro stesso Dio, ti sei autodefinito incapace, disperso, senza diritti. Pensate la perversione, se tu utilizzi quello che loro ti hanno detto, imposto di utilizzare, dichiari e confermi di essere incapace di prenderti cura di te stesso. Quindi, ricapitoliamo: usano una Società di Diritto Privato, quotata, fingono che sia uno Stato, un ente pubblico, in realtà è privatissimo, e lo usano per fare business (quattrini, denaro, profitto! E ci chiedono anche di pagare le tasse per mantenere una Società di Diritto Privato che non è nostra!) attraverso la tua esistenza, oggetto di quell’entità fittizia scritta tutta a lettere maiuscole, quotata alla S.E.C. di Washington D.C. Il concetto è, quindi, che se tu accetti questo presupposto, ti autodefinisci incapace, bisognoso di essere amministrato in modo coatto, perché oltre ad essere disperso in mare, quindi senza diritti e in bancarotta (non hai mai reclamato ciò che è tuo), non sai neanche chi sei! Per assurdo, ogni autorità, infatti, deve chiederti chi sei, altrimenti non ti può toccare nemmeno con un dito. Non avrebbe la giurisdizione per farlo (si parla di diritto amministrativo, tributario, civile ecc… se uccidi qualcuno, quindi codice penale, è un po’ diverso, ma non troppo…). I nostri tribunali infatti sono tribunali di diritto privato, quindi tribunali aziendali! Stessa cosa vale per il denaro, le banconote “euro”: siamo stati avvertiti, sopra c’è scritto “proprietà della Banca Centrale Europea”, non è nostro è della BCE, ma se noi accettiamo di usarlo, come per il nome fittizio, ci autoproclamiamo incapaci e incompetenti ai loro occhi (disperso in mare, ecc…). Hanno creato quindi un sistema di governo chiamato Cosa Pubblica, che invece è privatissima, che include partiti, Parlamento, Governo, elezioni e se tu accetti di partecipare a questo gioco ti autodefinisci di nuovo incapace e incompetente (disperso in mare, ecc…), bisognoso di amministrazione coatta.  A fronte di questo lungo e, immagino sconvolgente racconto per molti di voi, la prima riflessione è: Come facciamo a cambiare in meglio una cosa che non ci appartiene affatto? Ma del resto il nostro inconscio ce lo dice, nelle ultime amministrative ha votato il 50% degli aventi diritto; una persona su due considera offensivo per la propria intelligenza andare a votare. Quindi a questo punto, se è tutto chiaro, gli interrogativi sono solo due:

1. Cosa possiamo fare per sottrarre il nostro consenso a questa frode che ci vede protagonisti “involontari” fin da quando siamo nati? “Cosa possiamo fare” comprende il salvare il salvabile, dai pignoramenti per esempio, da Equitalia, perché non siamo noi, persona fisica in carne ed ossa a dover pagare le tasse, ma è l’entità fittizia che noi legittimiamo nel momento che la usiamo fraudolentemente (lettere maiuscole). Quindi, in modo individuale possiamo utilizzare noi le loro stesse leggi, Codice Nautico e dell’Ammiragliato (Bibbia) in maniera tale che siano loro a cadere in disonore? Conoscendo la legge possiamo fare qualcosa?

2. Cosa possiamo fare invece collettivamente per creare un’alternativa a questo sistema marcio, fraudolento che è stato creato a loro favore a nostro totale sfavore? Come possiamo modificarlo se non ci appartiene? Intanto, mentre ci pensiamo, possiamo soltanto smettere di partecipare. Concludendo, i nodi cruciali sono due: il denaro e come si prendono le decisioni, che è sinonimo di politica. Ma c’è un punto in più che è diventato chiarissimo: non si possono trattare separatamente denaro (economia, finanza, crisi ecc…), la politica, cioè il modo in cui si prendono le decisioni, la religione e il diritto, perché per i potenti, l’élite, sono la stessa identica cosa.

INDIANI D’AMERICA: “NOI NON DERIVIAMO DALLE SCIMMIE, MA DALLE PLEIADI…” Articolo di Bisonte Che Corre (Enzo Braschi) su “Il Mondo alla rovescia” del 31 maggio, 2016. Gli Indiani e la Conoscenza perduta sulle origini dell’uomo a causa dei colonizzatori criminali europei. I Cherokee (Ani Yonwiyah) ovvero “Il popolo capo” è antico come le pietre. “Ne ho conosciuti alcuni – biondi e con gli occhi azzurri – durante la "Danza del Sole" del 1998, nella Riserva dei Lakota Sicangu di Rosebud, in Sud Dakota. Erano un padre e due figli”. “Sembrate inglesi, scozzesi, non so… ” dissi, “ma non Cherokee”. I tre risero: “Veniamo da Atlantide, e prima ancora dalle Pleiadi.” “Raccontami” dissi. Il ragazzo spiegò: “La nostra lingua, la sua radice originaria, oggi parlata da un’esigua minoranza di ultra ottantenni, si chiama Elati. Io non la so parlare, qualcuno ancora la ricorda, ma contiamo quel qualcuno sulla punta delle dita. Si tratta di suoni crescenti e decrescenti che vengono pronunciati senza quasi muovere la bocca. Ciò che ne scaturisce possiede una bellezza e una musicalità del tutto particolari, considerato che si tratta di una lingua gutturale”. “Più che di parole si deve parlare di suoni di potere che racchiudono una forte energia spirituale. Per i Cherokee parlare significa infatti essere più che comunicare. Questa lingua, Elati, è detto "il linguaggio degli Antenati" o "il linguaggio delle Stelle", un modo di esprimersi che i vecchi uomini sacri della nostra gente consideravano provenire da lassù, dall’alto. La tradizione orale della tribù puntualizza infatti che i Cherokee arrivarono sulla Terra 250.000 anni fa dalle Pleiadi, che nella nostra antica lingua vuole dire per l’appunto Antenati.” “A tal proposito vorrei precisare che l’uomo non discende affatto dalla scimmia ma dal Popolo delle Stelle. Nella cosmologia cherokee, la Terra è detta il Pianeta dei Bambini, ovvero il Pianeta dei Figli delle Stelle.” “Il sapere della nostra antica Società dei Capelli Intrecciati ha inizio al tempo in cui esistevano dodici pianeti abitati da esseri umani, i cui progenitori si riunivano su un pianeta chiamato Osiriaconwiya, vale a dire il quarto pianeta della costellazione del Cane Maggiore, cioè Sirio. Su quel pianeta grandi sapienti si trovarono un giorno a discutere delle sorti dell’Ava Terra, la nostra terra, detta in lingua cherokee Eheytoma, il pianeta dei figli, ovvero il tredicesimo pianeta”. “Poiché il nostro mondo era il meno evoluto rispetto agli altri, quei dotti stabilirono di trasferire tutta la loro conoscenza all’interno di dodici teschi di cristallo, che chiamarono Arca di Osiriaconwiya, che portarono sulla nostra Terra, affinché un giorno potessimo consultarli e sapere tutto delle nostre vere origini”. “I nostri avi fecero di più: aiutarono infatti i loro figli a fondare quattro civiltà: Lemuria, Mu, Mieyhun e Atlantide, servendosi della conoscenza dei teschi, per dare avvio alle grandi scuole del mistero, veri centri di sapienza arcana, e alle segrete società di medicina.” “Queste informazioni giunsero circa 750.000 anni fa e cominciarono a diffondersi sul nostro pianeta tra i 250 e i 300.000 anni fa. I dodici teschi corrispondenti ai dodici pianeti, venivano sistemati in cerchio attorno a un tredicesimo teschio di ametista di dimensioni più grandi, che raccoglieva la consapevolezza collettiva di tutti quei mondi”. Ma poi…arrivarono Cortès e i suoi assassini (i nostri antenati europei) che interruppero lo sviluppo della conoscenza. “Coloro che furono incaricati di compiere il viaggio sulla Terra per farci dono dei teschi di cristallo furono detti Olmechi. Questi passarono quella conoscenza ai Maya, quindi agli Aztechi e infine ai Cheorkee e a tutti gli altri indiani del Nord America. Pare che l’Arca si trovasse ancora a Teotihuacan, allorché arrivarono Cortès e i suoi assassini che interruppero lo sviluppo della conoscenza” concluse il Cherokee. La cosa non sembra essere priva di fondamento: risulta infatti che Cortès venne a conoscenza di qualcosa di potentemente misterioso e che arrivò quasi a impossessarsi dell’Arca, grazie all’aiuto di un traditore; ma i sacerdoti giaguaro e i guerrieri aquila riuscirono a trarla in salvo. Alcuni teschi di cristallo vennero nascosti in America Meridionale, altri andarono dispersi nel mondo. La Terra attenderebbe che la conoscenza sia finalmente svelata al genere umano attraverso la riunione dei tredici teschi di cristallo. Secondo i Lakota Sioux, la Prima Sacra Pipa fu portata loro in tempo remoto da Ptesan Win, “Donna Bisonte Bianco”, una donna proveniente dal cielo, probabilmente dalle Pleaidi. Tayamni è il nome che i Lakota danno a una costellazione che equivale a un bisonte bianco nel cielo. Tayamni è infatti formato dalle Pleiadi come testa, le tre stelle della cintura di Orione come spina dorsale, le stelle Betelgeuse e Rigel come costole, e Sirio come coda. Unendo tutti questi punti, in cielo si forma l’immagine di un bianco bisonte…Miti, favole. Miti e favole come sempre, vero? Ma certo. A proposito di “fantascienza”… perché non vi riguardate l’ultimo film di Indiana Jones relativo ai tredici teschi di cristallo? Fantasia, miti e favole come sempre. Ma la NASA e il potere occulto amano la fantascienza, vi pare?

Un Mondo Impossibile ..."“Contra factum non valet argumentum”. Ciò che sappiamo è una goccia, ciò che ignoriamo un oceano!" Isaac Newton. In questo blog si vuole commentare ed analizzare l'attualità e la storia ma sopratutto scoprire ed evidenziare le ipocrisie, le falsità ed i soprusi di questo mondo appunto ormai impossibile da vivere, scrive martedì 19 gennaio 2016 Arturo Navone su  “Un Mondo Impossibile”. “La storia ha due volti: quello ufficiale, mendace e quello segreto e imbarazzante, in cui però sono da ricercarsi le vere cause degli avvenimenti occorsi”. Honorè de Balzac. Propaganda, Stereotipi e Lavaggio del Cervello, l'Allontanamento dalla Soluzione e come Ritrovarla. Carl Gustav Jung e gli Indiani d'america ... Il delirante percorso della civiltà occidentale e dell'uomo bianco come è noto ha causato danni incalcolabili, dove sempre per interessi reconditi ma sempre più chiari ci viene raccontato che siamo vicini al punto di non ritorno che nulla si può fare. E' un chiaro esempio di propaganda e lavaggio del cervello, che ho già evidenziato in altri articoli, studiato a tavolino che aggiunto a degli stereotipi fa il gioco di chi ora lasciamo comandare. Un esempio ne sono proprio i pellerossa che ci han voluto far credere essere dei demoni quando invece lo eravamo noi, è il nostro mondo, quello che è nero lo dipingono per bianco e viceversa, con l'uso poi dei vari sistemi ormai fin troppo conosciuti, cinema, televisione, media, opinionisti, influencer, pubblicità e messaggi subliminali ti incatenano la menzogna alla coscienza, ne viene poi difficile venirne fuori, ci sono degli esempi incredibili, filmati dove le vittime sono poi finite ad essere i carnefici, le montagne di morti non hanno la targa di circolazione, poi l'ha detto "la televisione", le immagini dei cadaveri del popolo X uccisi da Y li han rappresentati come morti di Z et voilà X erano i criminali e Y e Z santi e martiri, poi un X si vede in un documentario rieducativo in un posto che nemmeno sapeva esistesse perchè in effetti così come era stato rappresentato non esisteva, non stò nemmeno a dire i protagonisti è fin troppo evidente per chi ha occhi, orecchie e soprattutto cervello .... pochi ma così è la vita. Questo scritto era iniziato con un altro intento poi cammin facendo si è evoluto, andremo a vedere come quelli che crediamo "barbari" non lo siano affatto e che la soluzione l'hanno sempre culturalmente avuta, abbiamo cercato di distruggerli ma ora gioco forza cerchiamo di recuperare ciò che è l'unica salvezza ...Il noto psicologo Carl Gustav Jung, nel suo scritto Ricordi, sogni, riflessioni racconta di un suo incontro con un capo pellerossa Taos Pueblos mentre era alla ricerca della propria ombra. La conversazione che ne seguì è significativa per comprendere i nostri condizionamenti culturali. «Vedi - diceva il capo indiano - i bianchi vogliono sempre qualcosa, sono sempre scontenti, irrequieti. Noi non sappiamo cosa vogliono. Non riusciamo a capirli. Pensiamo che sono pazzi». Jung chiese a questo capo perché mai pensasse che l’uomo bianco fosse pazzo. E l’indiano gli rispose, mostrando tutta la sua meraviglia: «Dicono di pensare con la testa!». «Ma certamente pensano con la testa! – disse Jung - E tu, con cosa pensi?». E lui: «Noi pensiamo qui!», disse, indicando con la mano il cuore. E Jung conclude: «Mi immersi in una lunga meditazione. Per la prima volta nella mia vita, così mi sembrava, qualcuno mi aveva tratteggiato l’immagine del vero uomo bianco. Era come se, fino a quel momento, non avessi visto altro che stampe colorate, abbellite dal sentimento. Quell’indiano aveva centrato il nostro punto debole. Aveva svelato una verità, alla quale siamo ciechi»."il mondo dell'Uomo bianco è Koyaanisqatsi, un Mondo Disarmonico, privo di equilibrio, un Mondo malato al quale la saggezza degli Indiani d'America può arrecare giovamento, affinchè l'Uomo Bianco possa vivere le stagioni.....nel cuore della vita...in armonia con sè stesso e la Natura!!!!!" Nella cultura indiana il percorso di risanamento dell’anima ha delle tappe ben precise che devono essere rispettate: innanzitutto le quattro direzioni dei punti cardinali e, poi, il rapporto con la terra come madre dell’universo e con il cielo come dimora degli spiriti. Il processo si completa nel cerchio sacro, una forma che diventa il simbolo dell’armonia tra gli uomini e ciò che li circonda. Questo viaggio senza fine, perché il miglioramento fisico, emotivo, mentale e spirituale non può mai essere completato, è lo scopo dell’esistenza di ogni Indiano, qualunque sia il gruppo tribale d’appartenenza. Le quattrocento nazioni originarie del continente nordamericano erano caratterizzate da differenze marcatissime a livello geografico, sociale, linguistico e culturale. I Lakota-Sioux si muovevano liberamente nel grande oceano d’erba, le praterie e pianure sconfinate che si estendevano dalla Valle del Mississippi alle Montagne Rocciose. Erano nomadi che, spostando le proprie tende (tepee), seguivano le migrazioni del bisonte in cerca di nuovi pascoli. Gli Zuni e gli Hopi, stanziati nell’arida terra del sud-ovest americano, ricavarono le loro case dal deserto. I Cherokee praticavano l’agricoltura. Avevano un sistema sociale preciso basato su principi democratici e si organizzarono in insediamenti piuttosto ampi. Gli Tsimshian vivevano sulle coste nordoccidentali del Canada. I Chippewa e i Wintu appartenevano al gruppo degli Indiani dei boschi. Ma un filo comune emerge dalle loro parole, dal ricchissimo patrimonio orale di canti, miti, leggende, narrazioni sacre e profane: la consapevolezza che la Terra è madre e deve essere rispettata. La meta di questa avventura spirituale è la comprensione che l’uomo è parte integrante di un cerchio che comprende le piante, gli animali, i minerali, la Terra, il Cielo, l’acqua, le stelle, la notte e il giorno, la Luna e il Sole. Il corpo umano è tutt’uno con la terra che lo nutre e lo sostiene: «Noi siamo la terra. Noi le apparteniamo. Noi siamo una parte della terra e la terra fa parte di noi. I fiori profumati sono nostri fratelli. Il cervo, il cavallo, la grande aquila sono nostri fratelli. Le coste rocciose, il verde dei prati, il calore dei pony e l’uomo appartengono tutti alla stessa famiglia». Non c’è separazione tra mondo naturale e mondo umano. L’uomo non è il Signore del Creato e il mondo non è a suo beneficio. Ogni creatura ha un eguale diritto all’esistenza e merita rispetto semplicemente perché è viva. Il ritmo della natura porta la salute, l’equilibrio, l’armonia la bellezza. Il ciclo annuale delle stagioni è garanzia di ordine e di benessere: il tepore primaverile verrà sempre a riscattare il gelo invernale. Non bisogna spezzare il fluire del cielo naturale, altrimenti ne deriveranno malattia, paura, incubi e insicurezza. La natura batte il tempo, il suo orologio regola la vita del pianeta e dell’uomo. L’uomo non stabilisce quindi solamente un rapporto equilibrato con la natura ma arriva a conoscere se stesso grazie a questa armonia. Joseph Bruhac ci racconta una storia che riassume questo viaggio interiore: «Dopo che Wakan Tanka, il Grande Spirito, ebbe messo in ordine le altre sei direzioni, l’est, il sud, l’ovest, il nord, il cielo e la terra, restava sempre una direzione senza destinazione. Ma poiché la settima direzione era la più potente di tutte, in quanto racchiudeva la saggezza e la forza più grandi, Wakan Tanka, il Grande Spirito, desiderò metterla in un luogo dove non sarebbe stato facile trovarla. Ecco perché la nascose nell’ultimo posto dove gli uomini generalmente pensano di guardare: nel loro cuore». Nonostante siano stati privati della propria terra, della propria cultura e della propria identità, gli Indiani d’America sono riusciti a trasmettere la loro fede in questo modo di vivere. Hanno parlato con il cuore, di padre in figlio, per indicare il sentiero che porta alla rigenerazione e la loro voce è rimasta. Anche con queste parole: Accanto alla montagna, spianato dai nostri passi, il terreno del campo risuona. Ti dice: la terra è un tamburo, pensaci. Noi, per seguirne il ritmo, dobbiamo fare attenzione ai nostri passi.

I DIECI COMANDAMENTI INDIANI:

La Terra è la nostra Madre, abbi cura di Lei.

Onora (rispetta) tutti i tuoi parenti.

Apri il tuo cuore ed il tuo Spirito al Grande Spirito.

Tutta la vita è sacra, tratta tutti gli esseri con rispetto.

Prendi dalla Terra solo ciò che è necessario e niente di più.

Fai ciò che bisogna fare per il bene di tutti.

Ringrazia costantemente il Grande Spirito per ogni giorno nuovo.

Devi dire sempre la verità, ma soltanto per il bene degli altri.

Segui i ritmi della natura, alzati e ritirati con il sole.

Gioisci nel viaggio della vita senza lasciare orme.

Trovo delle straordinarie similitudini con la fisica quantistica e le filosofie orientali, se una cosa la trovi in più culture e studi è inequivocabilmente segno che è la strada giusta, personalmente credo che la grandezza di Jung sia anche provata dalla capacità di aprirsi allo studio delle altre culture, prova ne è che la coscienza collettiva, la sincronicità quindi, è trattata anche nella Bhagavad gītā, testo millenario, sacro indù. L’amore è un concetto estensibile che va dal cielo all’inferno, riunisce in sé il bene e il male, il sublime e l’infinito.

Incontro Occidente-Oriente di Mario Thanavaro. Tratto da “Spiritualità Olistica” (Venexia Editore). “E’ giunto il momento in cui dobbiamo lasciar cadere questa divisione tra esterno e interno, tra ciò che è inferiore e ciò che è superiore, tra la mano destra e la mano sinistra. Dobbiamo lasciar perdere questa divisione fra l’uomo e la donna, fra l’Oriente e l’Occidente. Dobbiamo creare un essere umano integro, abile in entrambe le dimensioni”. Osho Rajneesh. Il principio dei vasi comunicanti afferma che quando in un’area si crea il vuoto e in un’altra c’è il pieno, il travaso dal pieno verso il vuoto si produce inevitabilmente. Viviamo oggi in un’epoca straordinaria, il grande progresso tecnologico ci ha dato i mezzi e gli strumenti per spostarci da una parte all’altra del pianeta, permettendoci di entrare in contatto con altre etnie, tradizioni e culture. Tutto il mondo ci entra in casa via satellite grazie al piccolo e al grande schermo e questo ci consente di analizzare la grande diversità tra le varie culture, la diversità della loro organizzazione socio-politica ed economica. Con la scienza e la tecnologia abbiamo assistito al prevalere della secolarizzazione e del modernismo sulle antiche istituzioni religiose, ma lo sviluppo tecnologico ha preso la direzione di uno sconsiderato utilitarismo senza riguardo ai valori e ai diritti umani, accentuando la disparità tra nazioni, popoli e culture. Per quanto la tecnologia ci dia l’impressione di essere vicini l’uno, le leggi di mercato ci impongono il Super Dollaro come sola unità di misura valida nel quantificare il valore di un individuo o di un popolo. La grande famiglia umana è stata inesorabilmente divisa in ricchi e poveri, e i grandi flussi migratori, oggi come in passato, sono la risposta spontanea della natura che tende al riequilibrio. Il problema demografico ed economico spinge i Paesi più poveri verso l’Occidente, il quale, da sempre in contatto con altre civiltà, prima con i grandi viaggi e scoperte poi con il colonialismo, ha fatto delle fortune degli altri Paesi la sua fonte di ricchezza. Il primo contatto con l’Oriente risale al principio dell’800 e avviene sul piano ideologico dell’intellettualismo filosofico e religioso. A quel periodo risalgono le prime traduzioni degli antichi testi sacri dell’India, i Veda, le Upanishad e il canone buddhista. Già da quei primi approcci risultò evidente la grandezza del messaggio spirituale dell’Oriente, per molti versi incomprensibile agli occidentali, tanto che gli Inglesi, dopo un secolo di dominazione coloniale, dovettero ammettere di non aver capito il modo di pensare degli indiani. L’Inghilterra spinse le sue colonizzazioni fino in Cina, in Birmania e nel lontano Tibet. Il Museo Britannico di Londra conserva molti dei tesori letterari e artistici presi durante quella dominazione. Gli studiosi autentici di quei cimeli ci hanno insegnato a guardare all’Oriente con rispetto e forse in modo un po’ onirico. Il fascino che ancora oggi l’Oriente esercita sulla mente degli occidentali risponde forse a un’esigenza di libertà, sempre più difficile da esperire per l’uomo del XXI secolo, chiuso in una società tecno-virtuale, afflitto da un senso di solitudine e alienazione senza pari. L’avvicinamento delle varie culture presenta degli aspetti molto positivi, ci può indirizzare verso un’apertura di mente e cuore, un dialogo e una comunicazione veramente nuovi se vissuti come scelta consapevole, fino a un cambiamento radicale delle secolari impalcature e strutture concettuali, fino allo movimento di pensieri coscienti e non coscienti secondo il principio dei vasi comunicanti. Tutti possono beneficiare dell’apporto di altre culture e tradizioni. Ci può arricchire in tutti i sensi e contribuire al risveglio di una Nuova Civiltà. Il messaggio dei saggi del Medio ed Estremo Oriente così pure delle antichissime tradizioni sciamaniche (le origini dello sciamanesimo si possono far risalire a circa 30.000 anni fa) può offrire una nuova visione, permettendo di riprendere contatto con le radici spirituali e finalmente uscire dal vicolo cieco. Il riemergere oggi della cultura e filosofia degli indiani d’America sotto la spinta dell’Occidente è indicativo dell’estremo tentativo da parte dell’uomo bianco di ritrovare un collegamento diretto con la Natura. È proprio a causa della separazione dell’uomo bianco dal principio del rispetto della Terra e di ogni essere vivente che ci troviamo di fronte a problemi ecologici enormi, effetto del suo agire sconsiderato. Secondo diversi ricercatori e scienziati, a causa della pressione ambientale, nel 2050 le condizioni di vita sul pianeta saranno pessime. È per questo motivo che in diverse culture spirituali è stata profetizzata una grande Purificazione Planetaria. In un antico testo del buddhismo tibetano, le preghiere rivolte a una divinità protettrice sono precedute dal seguente testo: «In quest’epoca degenerata la contraddizione tra le intenzioni e gli atti degli esseri e le perturbazioni degli elementi esterni e interni provocano epidemie e malattie finora sconosciute che colpiscono uomini e animali, sofferenze causate da pianeti, naga (una categoria di esseri intelligenti con volto umano e lunga coda di serpente, n.d.t.),demoni ed esseri elementari cattivi. I raccolti sono colpiti da malattie, gelo e grandine, sono annate dure nelle quali scoppiano dispute, lotte e guerre. Le piogge sono irregolari, la neve cade troppo abbondante e appaiono calamità causate dai roditori. Vi sono terremoti, incendi e disastri dovuti ai quattro elementi». Oggi come in passato la confusione e la sofferenza che proviamo è imputabile prima di tutto a una situazione di disequilibrio. Mentre la saggezza millenaria dell’Oriente ci insegna a guardare dentro per le risposte ai problemi dell’uomo, l’Occidente guarda fuori. In cerca di soluzioni e risposte, l’uomo moderno occidentale ha cercato la verità assoluta nella razionalità. È convinto di garantirsi una vita comoda, sul piano sociale e politico semplicemente rafforzando l’economia e, sicuro del suo modello di sviluppo, lo ha promosso e molto spesso imposto in tutti i Paesi del mondo. Dominato dal delirio della scienza, pensa di occultare ancora per molto la sua paura della morte affidando le sue speranze di immortalità all’ingegneria genetica. Il suo agire imprudente sull’ambiente non lo ha messo al riparo dagli elementi, anzi ha accentuato la precarietà della sua esistenza, esponendolo a disastri naturali di ogni tipo che lo colgono fragile e psicologicamente impreparato ad affrontare il dolore della tragedia. Nel campo religioso, la ferrea convinzione di essere il detentore dell’unica verità assoluta, ha accentuato la sua distanza dal prossimo e da Dio al quale si affida in modo fideistico per allontanarsene ogni qualvolta non trova risposta ai suoi mille ‘perché’. Il suo smarrimento è grande e ha bisogno dell’aiuto dell’intuito della antica saggezza dell’Oriente per tornare alla riflessione, alla meditazione, alla contemplazione della bellezza del creato, per ritrovare pace e armonia con se stesso, i suoi simili, la terra e il cosmo. Ho scritto questo articolo per evidenziare come con dei mezzi banali, se vogliamo, si può far credere tutto ed il contrario di tutto e che la soluzione ai "nostri problemi" non sia poi chissà cosa, è semplicemente dentro di noi, quello è il difficile, è ovviamente più facile dare la colpa ad altri e far finta di nulla. Parecchi anni fa, tanti, dopo la lettura di quanto segue avevo intuito che quella era la soluzione ed ora me la ritrovo confermata anche da Jung tra gli altri, chiaramente c'era arrivato prima ma non ne ero a conoscenza ... "Non vi potrà mai essere una rivoluzione socio-politica, finché non avrà luogo una rivoluzione individuale, perché la rivoluzione deve nascere dall’interno di ciascun singolo essere umano perché poi può diventare collettiva, del resto, si può privare l’essere umano della libertà politica, senza fargli alcun male, ma se lo si priva della sua libertà di essere o sentire, lo si distrugge. La nostra cultura occidentale disprezza le culture primitive ma quei popoli vivono in armonia con la terra, le foreste e gli animali. Occorre una rivoluzione interiore radicale, occorre varcare le proprie porte interiori, per poter essere davvero liberi, liberi di essere e sentire, occorre spazzare via dal proprio intimo tutta l’immondizia che ci è stata inserita dentro nel corso degli anni, fin dal momento in cui siamo nati. Ma la stragrande maggioranza della gente, questo non lo vuole fare, non è disposta a cambiare nulla". !!!!!!!!!! Jim Morrison.

La Storia Segreta Dell’Unione Europea: Il Piano Kalergi, scrive “No Censura” il 7 novembre 2013. Pertanto per comprendere meglio il fenomeno paneuropeista è necessario non fermarsi ai falsi miti (multi-culturalismo, multietnicismo, distruzione degli Stati Nazione, favoreggiamento del regionalismo, ecc.) propinati da questo contenitore estremamente influente e pericoloso, bensì è necessario capire chi finanziò questo istituto globalista. Oltre agli agenti industriali e finanziari, Richard Coudenhove-Kalergi ebbe il sostegno del banchiere Max Warburg, che rappresentava la banca tedesca di Amburgo (la Banca Warburg). All’epoca suo fratello, (trasferitosi negli Usa) Paul Warburg, era stato uno dei fondatori della FED (la Federal Reserve statunitense) oltre che leader del Council on Foreign Relation (il CFR). Esistono due storie che raccontano la nascita dell’Unione Europea. Una ufficiale, di facciata, sponsorizzata dall’intero apparato accademico che narra di un gruppo eterogeneo di persone, i cosiddetti padri fondatori della “nuova Europa”, il quale successivamente al conflitto mondiale iniziò a progettare la pace, l’unità e la prosperità nel Vecchio continente per poi dare vita ad una comunità di Stati in cooperazione tra di loro. E poi c’è una storia reale ma oscurata, che rivela il progetto di un uomo, l’aristocratico Richard Koudenove-Kalergi (giapponese di madre e austriaco di padre), il quale non fu mai protagonista degli eventi ma che fu, nel retroscena, artefice allo steso modo dei vari De Gasperi, Shuman, Monnet e Adenauer, probabilmente ancor più influente poiché a differenza di questi ultimi, aveva una visione planetaria e non europea. Nel 1922, Koudenove-Kalergi fonda la Paneuropa (o Unione Paneuropea) con lo scopo apparente di impedire un nuovo conflitto continentale, tuttavia nel 1925 in una relazione presentata alla Società delle Nazioni i fini dell’austro-giapponese si manifestano chiaramente. Il suo obiettivo primario era quello di unificare l’Europa, al fine di integrarla all’interno di un’organizzazione mondiale politicamente unificata, in poche parole un governo mondiale, che a sua volta federasse nuove federazione continentali (“continenti politici”, proprio come la “Paneuropa”). Inoltre nel suo libro «Praktischer Idealismus» pubblicato nel 1925, Kalergi espone una visione multiculturalista e multi-etnicista dell’Europa, dichiarando che gli abitanti dei futuri “Stati Uniti d’Europa” non saranno i popoli originali del Vecchio continente, bensì una sorta di subumanità resa bestiale dalla mescolanza razziale”, e affermando senza mezzi termini che “è necessario incrociare i popoli europei con razze asiatiche e di colore, per creare un gregge multietnico senza qualità e facilmente dominabile dall’elite al potere. L’uomo del futuro sarà di sangue misto. La razza futura eurasiatica-negroide, estremamente simile agli antichi egiziani, sostituirà la molteplicità dei popoli, con una molteplicità di personalità”. Nel 1926 Koudenove-Kalergi organizzò la prima conferenza paneuropea di Vienna, sotto gli auspici del suo presidente onorario, il presidente Aristide Briand (1862-1932) e fu proprio in questo convegno che si decise di scegliere l’inno europeo, l’Inno alla gioia di Beethoven, che in seguito diventerà l’inno ufficiale dell’Unione Europea. Ma è durante questo primo congresso che sono esposti in modo chiaro, lucido, gli obiettivi a breve, medio e lungo termine di questo contenitore di idee: “l’Unione Pan-europea ribadisce il suo impegno al patriottismo europeo, a coronamento dell’identità nazionale di tutti gli europei. Nel momento dell’interdipendenza e delle sfide globali, solo una forte Europa unita politicamente è in grado di garantire il futuro dei suoi popoli ed entità etniche. L’Unione Paneuropea riconosce il diritto all’autodeterminazione dei gruppi etnici allo sviluppo (…) culturale, economico e politico”. Negli anni Trenta, Koudenove-Kalergi condanna fermamente il modello nazional-socialista di Adolph Hitler e quello sovietico di Stalin, tanto che l’industria tedesca revoca definitivamente i finanziamenti all’Unione paneuropea, mentre gli intellettuali filo-sovietici lasciano l’associazione. Durante la Seconda Guerra Mondiale il fondatore della Paneuropa si rifugia negli Stati Uniti, nei quali insegnò in un seminario presso la New York University – “La ricerca per una federazione europea del dopoguerra” – a favore del federalismo europeo. Nel 1946, Koudenove-Kalergi torna in Europa e la sua personalità gioca un ruolo di estrema rilevanza. La Paneuropa riprende le forze e si creano in tutti Paesi europei delle delegazioni (Paneurope France, Paneuropa Italia, ecc.) che in pochi mesi diffusero gli ideali paneuropeisti a quelli che poi furono considerati i “padri fondatori della nuova Europa”. Queste delegazioni contribuirono alla realizzazione dell’Unione parlamentare europea, che successivamente consentì la creazione nel 1949, del Consiglio d’Europa. Il suo “impegno” intellettuale e politico gli permisero di aggiudicarsi nel 1950 il prestigioso premio prettamente continentale “Carlo Magno” e, persino in suo onore fu stato istituito il premio europeo Coudenhove-Kalergi che ogni due anni premia gli europeisti che si sono maggiormente distinti nel perseguire il suo “ideale” confederativo e mondialista. Tra questi troviamo nomi come Angela Merkel e Herman Van Rompuy. Pertanto per comprendere meglio il fenomeno paneuropeista è necessario non fermarsi ai falsi miti (multi-culturalismo, multietnicismo, distruzione degli Stati Nazione, favoreggiamento del regionalismo, ecc.) propinati da questo contenitore estremamente influente e pericoloso, bensì è necessario capire chi finanziò questo istituto globalista. Oltre agli agenti industriali e finanziari, Richard Coudenhove-Kalergi ebbe il sostegno del banchiere Max Warburg, che rappresentava la banca tedesca di Amburgo (la Banca Warburg). All’epoca suo fratello, (trasferitosi negli Usa) Paul Warburg, era stato uno dei fondatori della FED (la Federal Reserve statunitense) oltre che leader del Council on Foreign Relation (il CFR). Da qui vediamo lo stretto legame tra Wall Street, quindi gli Stati Uniti d’America e la volontà già negli Venti di federare l’Europa sotto una sola guida politica, probabilmente per dominarla meglio. Richard Coudenhove-Kalergi non fu un visionario del suo tempo proprio perché egli fu un manovratore della partita. Non a caso l’Europa sognata dall’aristocratico austro-giapponese è la stessa di oggi, quella del terzo millennio.

Ecco la condanna a morte che ci attende. Pubblicato il testo del TPP. Pubblicato il 6 novembre 2015 da Claudio Messora su “Byo Blu”. “Peggiore di qualunque cosa avessimo mai immaginato”. “Un atto di guerra al clima”. “Un omaggio all’agricoltura intensiva”. “Una condanna a morte per la libertà della rete”. “Il peggior incubo”. “Un disastro”. Questo è il tenore dei commenti di chi ha letto e studiato il testo del TPP, il fratello gemello del TTIP, l’accordo di libero scambio commerciale tra Usa e Ue, negoziato in segreto, di cui vi ho parlato mercoledì sera a La Gabbia. Il TTIP fa parte di una gigantesca strategia globale degli Usa, le cosiddette “Tre T”, che comprendono anche il TTP e il TISA. Il TTIP è l’accordo di liberalizzazione commerciale che stanno negoziando (in segreto) Usa e UE. Il Tisa (Trade in Services Agreement) è l’accordo, anche peggiore, sulla liberalizzazione dei servizi e il TPP (Trans Pacific Partnership), è l’omologo del TTIP sul fronte pacifico, che includerà 12 paesi, tra cui Singapore, la Nuova Zelanda, gli Stati Uniti, l’Australia, il Messico, il Giappone e il Canada. Caso vuole che in nessuno dei tre accordi siano presenti i cosiddetti Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica). Caso vuole? No, in effetti non è un caso, ma esattamente lo scopo per cui le Tre T sono state create: aggirare il peso che i paesi emergenti hanno assunto nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), isolare la Cina (con la strategia militare e commerciale definita “Pivot to Asia”) e assicurare il dominio delle grandi corporation USA nell’economia mondiale. Questi trattati sono negoziati in segreto (perché se no non glieli lasceremmo fare): per la UE ci pensa quella simpaticona indefessa adoratrice dei più stringenti principi democratici che si chiama Cecilia Malmström (la signora io-non-rispondo-ai-cittadini). Solo le lobby hanno libero accesso al testo del negoziato. Se gli europarlamentari vogliono visionarlo, devono chiamare l’ambasciata americana, farsi dare un appuntamento che è disponibile solo due volte a settimana, in una fascia oraria di sole due ore, solo due alla volta, all’ingresso devono consegnare ogni dispositivo elettronico, firmare un impegno di riservatezza e finalmente possono avere davanti agli occhi intere sezioni di codici e codicilli legali, per due ore, senza poter prendere appunti e guardati a vista da due guardie americane. Se questo lo chiamate democrazia, fatevi visitare da uno bravo! Lato Usa invece usano la Fast Track Negotiating Authority for Trade Agreement, che è uno strumento che consente al Presidente degli Stati Uniti d’America di negoziare trattati commerciali per i fatti suoi, e poi presentare un pacchetto fatto e finito al Congresso, che può solo approvarlo o respingerlo in toto, a maggioranza semplice, (un po’ come la nostra fiducia): i deputati USA non possono in alcun modo proporre emendamenti o fare ostruzionismo. E’ nato per consentire l’approvazione di trattati commerciali che altrimenti non avrebbero mai visto la luce, e per consentire ai deputati di votare a favore senza perdere la poltrona (negli Usa c’è il recall), dato che chi li ha eletti ne sarebbe probabilmente scontento. Figuratevi quanta democrazia ci sia anche da quelle parti: hanno creato uno strumento per fare in modo di poter votare quello che democraticamente non potrebbero! Chapeau! (E questa è la più grande democrazia del pianeta, figuriamoci le altre!). Dunque cosa succede? Succede che il testo del TPP finalmente è stato rilasciato, dopo essere stato finalizzato dalle ultime negoziazioni di Atlanta, in Georgia. La pubblicazione dei contenuti del trattato ha così avviato il periodo di tre mesi che precede il suo atterraggio al Congresso, chiamato ad approvarlo. Ecco il testo ufficiale: TPP FINAL TABLE OF CONTENTS. La reazione di chi ha avuto lo stomaco di leggerselo è stata questa: “Dai leaks, avevamo saputo qualcosa sull’accordo, ma capitolo dopo capitolo la lettura del testo finale è peggiore di quello che ci aspettavamo: le richieste di 500 lobbisti che rappresentano gli interessi delle corporation sono state soddisfatte a svantaggio dell’interesse pubblico. Questo accade quando le lobby possono negoziare in privato, nell’oscurità, e i cittadini vengono tagliati fuori”. “Il TTP è un disastro per il lavoro, per l’ambiente e per la democrazia. E’ l’ultimo passo verso la resa della nostra società alle corporation. L’enorme accordo tra 12 nazioni sulle coste del Pacifico ha meno a che fare con la vendita delle merci di quanto, piuttosto, abbia a che fare con la riscrittura delle regole dell’economia globale in favore del grande business. Esattamente come il North American Free Trade Agreement (il NAFTA), 20 anni fa, sarà una cosa ottima per i più ricchi e un disastro per chiunque altro. Il NAFTA ha radicato le disuguaglianze e causato la perdita di un milione di posti di lavoro negli USA. E il TPP non è altro che una versione del NAFTA iperpotenziata”. “Ora che abbiamo visto il testo definitivo, viene fuori che il TTP, vero e proprio assassino dell’occupazione, è peggiore di qualunque altra cosa che sia mai stata immaginata. Questo accordo abbatterà i salari, inonderà il nostro Paese di alimenti importati e non sicuri, innalzerà i prezzi delle medicine salva-vita, e tutto questo mentre si faranno affari con paesi dove gli omosessuali e le mamme single possono essere lapidate”. “Il testo è pieno di sussidi per le società che fanno affari sui combustibili fossili e di incredibili possibilità per queste compagnie di fare causa ai singoli governi che cercano di diminuire l’uso dei combustibili fossili. Se una provincia mette una moratoria sul fracking, le corporation possono perseguirla legalmente; se una comunità cerca di fermare una miniera di carbone, le corporation possono prevalere in punta di diritto. In breve, queste leggi minano la capacità dei singoli stati di attuare quello che gli scienziati dicono che sia la sola cosa più importante da fare per combattere la crisi climatica: abbattere i consumi di carburanti fossili”. “E’ un accordo disegnato per proteggere il commercio libero di prodotti energeticamente sporchi come i depositi non convenzionali di catrame e bitume, depositi di carbone e gas naturale liquefatto spedito dai porti della costa occidentale. Il risultato sarà un’accelerazione dei cambiamenti climatici derivante delle emissioni di CO2 in tutto il Pacifico. Il presidente Obama ha venduto agli americani false promesse: il TTP tradisce la promessa di Obama di fare dell’accordo un trattato amico dell’ambiente”. “Il capitolo ambientale conferma molti dei peggiori incubi dei gruppi ambientalisti e degli attivisti contro il cambiamento climatico”. “Con le sue disposizioni che tagliano le mani agli ispettori alimentari sulle frontiere e danno più potere alle compagnie che operano nella biotecnologia, il TPP è un regalo alle grandi multinazionali del settore dell’agricoltura intensiva e del cibo biotech. Questo genere di società useranno gli accordi come il TPP per attaccare le misure di sicurezza sugli alimenti sensibili, per indebolire le possibilità di ispezionare il cibo importato e per bloccare ogni sforzo di rafforzare gli standard di sicurezza alimentare degli Stati Uniti. Innanzitutto quelli per etichettare correttamente gli alimenti OGM. Inoltre, qualunque criterio di sicurezza alimentare sull’etichettatura dei pesticidi o degli additivi che sia più elevato rispetto agli standard internazionali, potrà essere additato come una barriera commerciale illegittima. Sotto al regime del TTP, il business dell’agricoltura intensiva e le multinazionali biotech delle sementi hanno adesso un modo più semplice per sfidare a quei paesi che vietano l’importazione di alimenti geneticamente modificati, che controllano la contaminazione OGM, che non approvano prontamente nuovi prodotti OGM o anche solo richiedono un’etichettatura adeguata”. “Se il Congresso degli Stati Uniti firmerà questo accordo malgrado la sua sfacciata pericolosità, firmerà la condanna a morte per la rete internet aperta e metterà il futuro della libertà di opinione a repentaglio. Tra le molte sezioni del documento che destano gravi preoccupazioni, ci sono quelli relative ai marchi commerciali, ai brevetti delle case farmaceutiche, alla protezione del copyright e ai segreti commerciali. La sezione J, che riguarda gli internet service providers, è una delle sezioni peggiori che impatta sulla libertà della rete. Richiede ai fornitori di servizi internet di comportarsi come poliziotti della rete e collaborare con le richieste di oscuramento, ma non obbliga i paesi a dotarsi di un sistema di contestazione. Così, una società potrebbe ordinare a un sito web di essere oscurato in un altro paese e non ci sarebbe nessuno strumento per il proprietario del sito di confutare la legittimità della richiesta nel caso, per esempio, dei blog di critica politica che usano materiale protetto da copyright sotto il regime del fair use. La sezione J è scritta in maniera tale che gli internet service provider non saranno perseguibili per nessuno degli errori che dovessero commettere sull’oscuramento dei contenuti, incentivandoli così a “sbagliare” a favore dei detentori di copyright invece che a favore di chi esercita la libertà di opinione”. “Anche una parte dell’opinione pubblica canadese è molto preoccupata sulle conseguenze dell’accordo commerciale sui diritti umani, sulla salute, sull’occupazione e sulla democrazia. Il Consiglio dei canadesi, un’organizzazione alla testa di un largo network impegnata nella difesa dell’equità sociale, ha chiesto formalmente al nuovo primo ministro Trudeau di organizzare una consultazione pubblica che includa un ampia analisi indipendente del testo, dal punto di vista dei diritti umani, delle conseguenze economiche e di quelle ambientali, prima di procedere oltre nella ratifica. Trudeau è sottoposto a enormi pressioni per adottare l’accordo il più presto possibile, con numerose insistenti telefonate da Barack Obama e dal presidente giapponese Shinto Abe, ma una approfondita revisione pubblica dell’accordo è necessaria prima di poter stabilire se il TPP è nell’interesse del Canada”.

State molto attenti, perché quello che c’è nel TPP è con grandissima probabilità quello che troveremo nel TTIP, quando la nostra Malmströmavrà finito di farsi i cazzi suoi in privato con le lobby e deciderà finalmente di pubblicare un testo che poi il Parlamento Europeo sarà chiamato ad approvare. Per quella data, dobbiamo essere pronti a fargli un culo così.

Ecco perché hanno ammazzato Gheddafi. Le email Usa che non vi dicono, scrive Claudio Messora il 9 gennaio 2016 su "Byo Blu". Il 31 dicembre scorso, su ordine di un tribunale, sono state pubblicate 3000 email tratte dalla corrispondenza personale di Hillary Clinton, transitate sui suoi server di posta privati anziché quelli istituzionali, mentre era Segretario di Stato. Un problema che rischia di minare seriamente la sua corsa alla Casa Bianca. I giornali parlano di questo caso in maniera generale, senza entrare nel dettaglio, ma alcune di queste email delineano con chiarezza il quadro geopolitico ed economico che portò la Francia e il Regno Unito alla decisione di rovesciare un regime stabile e tutto sommato amico dell’Italia, come la Libia di Gheddafi. Ovviamente non saranno i media mainstream generalisti a raccontarvelo, né quelli italiani né quelli di questa Europa che in quanto a propaganda non è seconda a nessuno, tantomeno a quel Putin spesso preso a modello negativo. A raccontarvelo non poteva essere che un blog, questa volta Scenari Economici di Antonio Rinaldi e del suo team, a cui vanno i complimenti. “Due terzi delle concessioni petrolifere nel 2011 erano dell’ENI, che aveva investito somme considerevoli in infrastrutture e impianti di estrazione, trattamento e stoccaggio. Ricordiamo che la Libia è il maggior paese produttore africano, e che l’Italia era la principale destinazione del gas e del petrolio libici. La email UNCLASSIFIED U.S. Department of State Case No. F-2014-20439 Doc No. C05779612 Date: 12/31/2015 inviata il 2 aprile 2011 dal funzionario Sidney Blumenthal (stretto collaboratore prima di Bill Clinton e poi di Hillary) a Hillary Clinton, dall’eloquente titolo “France’s client & Qaddafi’s gold”, racconta i retroscena dell’intervento franco-inglese. Li sintetizziamo qui. La Francia ha chiari interessi economici in gioco nell’attacco alla Libia. Il governo francese ha organizzato le fazioni anti-Gheddafi alimentando inizialmente i capi golpisti con armi, denaro, addestratori delle milizie (anche sospettate di legami con Al-Qaeda), intelligence e forze speciali al suolo. Le motivazioni dell’azione di Sarkozy sono soprattutto economiche e geopolitiche, che il funzionario USA  riassume in 5 punti: Il desiderio di Sarkozy di ottenere una quota maggiore della produzione di petrolio della Libia (a danno dell’Italia, NdR); Aumentare l’influenza della Francia in Nord Africa; Migliorare la posizione politica interna di Sarkozy; Dare ai militari francesi un’opportunità per riasserire la sua posizione di potenza mondiale; Rispondere alla preoccupazione dei suoi consiglieri circa i piani di Gheddafi per soppiantare la Francia come potenza dominante nell’Africa Francofona. Ma la stessa mail illustra un altro pezzo dello scenario dietro all’attacco franco-inglese, se possibile ancora più stupefacente, anche se alcune notizie in merito circolarono già all’epoca. La motivazione principale dell’attacco militare francese fu il progetto di Gheddafi di soppiantare il Franco francese africano (CFA) con una nuova valuta pan africana. In sintesi Blumenthal dice: Le grosse riserve d’oro e argento di Gheddafi, stimate in 143 tonnellate d’oro e una quantità simile di argento, pongono una seria minaccia al Franco francese CFA, la principale valuta africana. L’oro accumulato dalla Libia doveva essere usato per stabilire una valuta pan-africana basata sul dinaro d’oro libico. Questo piano doveva dare ai paesi dell’Africa Francofona un’alternativa al franco francese CFA. La preoccupazione principale da parte francese è che la Libia porti il Nord Africa all’indipendenza economica con la nuova valuta pan-africana. L’intelligence francese scoprì un piano libico per competere col franco CFA subito dopo l’inizio della ribellione, spingendo Sarkozy a entrare in guerra direttamente e bloccare Gheddafi con l’azione militare.

Libia, le carte di Hillary Clinton: "La Francia distrusse l'Italia". La guerra che portò il caos in Libia venne scatenata dai francesi con l'avallo degli americani. L'obiettivo era uno solo: affermare la potenza transalpina ed eliminare ogni influenza italiana nel Maghreb, scrive Ivan Francese, Mercoledì 03/08/2016, su "Il Giornale". La guerra di Libia - un'altra - cent'anni dopo. Correva l'anno 2011, i dodici mesi che cambiarono il mondo ma soprattutto la storia d'Italia. Eravamo ormai abituati a ricordarlo come l'anno della caduta del governo Berlusconi IV e dell'arrivo dell'ultra-europeista Mario Monti a Palazzo Chigi dopo mesi di attacchi politici e finanziari (non senza speculazioni assai poco trasparenti). Tutti ricordiamo gli insopportabili risolini di Angela Merkel e Nicolas Sarkozy al Consiglio Europeo del 23 ottobre 2011. Ebbene, ora su quei giorni cruciali potremmo apprendere qualcos'altro. Se possibile, qualcosa di ancora più inquietante. Come ha rilevato Scenarieconomici, spulciando fra le mail dell'allora Segretario di Stato UsaHillary Clinton si scopre che l'attacco internazionale che portò alla caduta del regime di Muhammar Gheddafi e all'uccisione del Colonnello venne lanciato solo ed esclusivamente per rispondere a precisi interessi geostrategici francesi, con l'avallo statunitense. A tutto detrimento degli interessi italiani. Certo, sapevamo già che la guerra voluta da Sarkozy era un mezzo per estromettere il nostro Paese dal controllo del petrolio libico, ma vederlo scritto nero su bianco resta comunque impressionante. E allora vediamo cosa contengono, quelle mail famigerate. Il 2 aprile del 2011 l'attuale candidata democratica alla Casa Bianca riceveva un messaggio dal suo consigliere per il Medio Oriente Sidney Bluementhal dai toni assai espliciti. Da quelle righe emerge infatti che il presidente francese dell'epoca, Sarkozy, ha finanziato e aiutato in ogni modo le fazioni anti gheddafiane con denaro, armi e addestratori, allo scopo di strappare più quote di produzione del petrolio in Libia e rafforzare la propria posizione tanto sul fronte politico esterno quanto su quello geostrategico globale. Di più. A motivare definitivamente la decisione dell'Eliseo di entrare nel conflitto sarebbe stato il progetto del raìs di soppiantare il franco francese africano con una nuova divisa pan-africana, nell'ottica di un'ascesa della Libia come potenza regionale in grado di raccogliere intorno a sè un'alleanza regionale di Stati. Sostituendo così proprio la Francia, a suon di oro e di argento (Gheddafi ne avrebbe conservate poco meno di trecento tonnellate). Le conseguenze dell'intervento sono storia nota, con la Libia precipitata in un'atroce guerra civile, l'Isis che spadroneggia sulle coste meridionali del Mediterraneo e un'ondata di migranti senza precedenti che si riversa sulle nostre coste. All'epoca l'Italia, all'oscuro di tutto, prese addirittura parte alla guerra contro Gheddafi, sia pure a malincuore. Ora però è chiaro che quella manovra, insieme all'attacco speculativo portatoci dalla Germania, aveva un solo obiettivo: l'Italia. Che ancora oggi ne sconta le terribili conseguenze.

Le mail segrete di Hillary smascherano Sarkò: da Gheddafi per un furto all'Italia, scrive Marco Gorra su "Libero Quotidiano” il 18 Gennaio 2016. Il sospetto che la storia della Francia che muove guerra a Gheddafi perché unicamente interessata ad «assumere il proprio ruolo di fronte alla storia» ed a «difendere i libici che vogliono liberarsi dalla schiavitù» (parola dell'allora presidente Nicolas Sarkozy) fosse una solenne presa in giro era venuto.  Adesso arrivano le conferme. E viene fuori che no, dietro la decisione di Parigi di rovesciare con le cattive il Colonnello di idealismo ce n' era ben poco. In compenso, c' erano altre considerazioni di carattere assai più venale: petrolio e quattrini. Due fondamentali interessi francesi in nome dei quali ci si è armati e si è partiti. E non solo chi, come i transalpini, aveva da guadagnarci. Ma anche chi, come l'Italia, dell'operazione ostile ordita a Parigi era la prima vittima designata.  A fare luce su quegli eventi del 2011 soccorrono oggi le famose mail di Hillary Clinton, recentemente desecretate in seguito alle polemiche divampate intorno ai famigerati server privati dell'ex Segretario di Stato. Nella mole di documenti declassificati, spiccano i messaggi inviati alla Clinton da Sidney Blumenthal, consigliere privato della signora e suo principale esperto sul campo di questioni libiche. Dal carteggio emergono le reali preoccupazioni dei francesi in ordine alla crisi libica. La prima è quella relativa al petrolio, business faraonico da cui le aziende transalpine erano tagliate fuori ad opera - anche - di quelle italiane (prima dell'inizio della guerra due terzi della concessioni erano dell'Eni). Tramite il riconoscimento preventivo del Cnt e la di esso successiva installazione al potere, Parigi contava di riequilibrare la situazione a proprio vantaggio: l'accordo coi ribelli era di trasferire in mano ai francesi, a titolo di ringraziamento per il supporto fornito, il 35% del crude oil del Paese. A questo scopo, elementi dell'intelligence francese avevano iniziato fin dalla primavera del 2011 a fornire supporto di ogni tipo agli anti-Gheddafi. La seconda preoccupazione dei francesi era di ordine monetario. Si trattava di impedire che il Colonnello desse seguito al proprio vecchio pallino di creare una valuta panafricana. All' uopo, Gheddafi era pronto ad impiegare le proprie riserve (143 tonnellate d' oro e quasi altrettante d' argento, per un valore complessivo di circa sette miliardi di dollari). Scenario da incubo per la Francia, dacché la nuova moneta avrebbe pensionato il franco Cfa, valuta creata nel '45 ed utilizzata da 14 ex colonie con svariati e benefici ricaschi per il Tesoro francese.  A completare il quadro dei veri motivi dietro all' attacco, secondo il carteggio, ci sono poi due grandi classici di queste situazioni: i sondaggi, con l'esigenza per Sarkozy di riguadagnare popolarità in vista delle incombenti elezioni presidenziali, e i militari, cui premeva avere un'occasione per riaffermare la propria posizione di potenza di livello mondiale. Come è andata a finire è cosa nota: l'azzardo di francesi e britannici funziona, Casa Bianca e Palazzo di Vetro danno l'ok e la guerra a Gheddafi si fa. Guerra in cui, pur avendo intuito che non sarebbe stato esattamente un affarone, partecipa anche l'Italia. Questione di qualche mese e il gioco è fatto: Gheddafi è rovesciato e al suo posto ci sono gli ormai ex ribelli del Cnt. I risultati non tardano ad arrivare: la moneta panafricana finisce in archivio prima ancora di essere nata e si procede alla grande redistribuzione del petrolio (in cui, ironia della sorte, i francesi porteranno a casa meno di quanto sperato a vantaggio di russi e cinesi). Soprattutto, l'influenza italiana nell' area si riduce drasticamente. Proprio come auspicato dall' inquilino dell'Eliseo. Marco Gorra 

I megaprogetti nei Balcani spianano la via alla Grande Eurasia. Hillary Clinton e l'orientamento del potere: è lei la vera candidata guerrafondaia alla Casa Bianca, scrive Andrea Spinelli Barrile su “ibtimes” l'1.03.2016 . Hillary Rodham Clinton è il candidato democratico che in questo momento sembra avere più chance non solo per la vittoria del Super Tuesday e delle primarie dell'asinello a stelle e strisce ma soprattutto per tornare ad essere inquilina alla Casa Bianca, dove ha già trascorso 8 anni come first lady. La candidata democratica, non è un mistero, piace ai colletti bianchi di Wall Street, piace ai neoconservatori - un editoriale di Robert Kagan sul Washington Post del 25 febbraio è qualcosa di più di un endorsement – e alla medio-alta borghesia americana, mentre meno gradita sembra essere sia alla base del partito democratico che ai “poorly educated” (questi ultimi vanno pazzi per Donald Trump). Questo fa di Hillary Clinton una sorta di Matteo Renzi, con qualche anno e diversi chilometri in più sul curriculum, dell'era post-ideologica americana? Non esattamente. In realtà la signora Clinton è quanto di più vicino ci sia all'establishment americano e alle lobby, almeno tra i vari candidati alla Casa Bianca. Compreso Donald Trump. Un interessante profilo della signora Clinton lo ha pubblicato l'Huffington Post americano. Jeffrey Sachs, direttore dell'Earth Institute presso la Columbia University, descrive così il background della candidata democratica: “Gli stretti rapporti di Hillary e Bill Clinton con Wall Street contribuirono ad alimentare due bolle finanziarie (1999-2000 e 2005-2008) e la Grande Recessione che seguì il tracollo di Lehman. […] Anche i legami di Hillary con il complesso militare-industriale sono inquietanti”. Nel nostro immaginario i democratici sono quelli che cercano di fare da contrappeso alla sete guerrafondaia repubblicana nel Congresso ma anche in questo Hillary si dimostra essere una democratica piuttosto atipica. È stato evidente nel dibattito televisivo di sabato sera tra i candidati dem: la Clinton ha sempre difeso la scelta della missione NATO in Libia nel 2011, che ha eliminato Gheddafi e fatto sprofondare il Paese nordafricano nel caos assoluto, ma nell'ultimo dibattito è andata leggermente oltre. Alla domanda su quali fossero le responsabilità dell'allora Segretario di Stato Hillary Clinton sulla realtà libica di oggi ha risposto così: “Non mi arrendo sulla Libia, penso che nessuno debba farlo. […] C'è sempre una retrospettiva, uno spazio per dire 'quali errori sono stati fatti' ma io so che abbiamo offerto molto aiuto e so che è stato difficile per i libici accettarlo”. In quella frase c'è tutta l'esperienza in politica estera della signora Clinton: da first lady, da senatrice e da Segretario di Stato Hillary Clinton ha appoggiato sempre e incondizionatamente qualsiasi guerra gli Stati Uniti abbiano intrapreso da quando lei è sulla scena politica. Secondo Sachs tutto ebbe inizio il 31 ottobre 1998: l'allora Presidente Bill Clinton firmava il Decreto per la Liberazione dell'Iraq rendendo ufficiale la strategia atta al “cambiamento di regime” nel paese mediorientale, la base legislativa sulla quale è stato costruito l'intervento armato dal suo successore George W. Bush. Nel 2003, quando il Congresso fu chiamato a decidere se bombardare o meno l'Iraq sulla base delle prove - risultate fasulle - fornite dalla CIA Hillary Clinton, allora senatrice, non esitò a sostenere quell'intervento armato, costato uno sproposito in termini economici per gli USA e geopolitici per la stabilità del Medio Oriente. L'anno successivo al decreto sull'Iraq ci fu la guerra in Kosovo. Il 24 marzo 1999 la signora Clinton si trovava in viaggio in Africa quando telefonò al marito: “Lo esortai a bombardare” disse alla giornalista Lucinda Franks qualche anno dopo. Quel frangente e la schiena dritta tenuta durante lo scandalo sexgate alla fine del secondo mandato del marito connotano il carattere di Hillary Clinton, determinato e power-oriented: la ragion di Stato (o di famiglia) su tutto. Dopo 8 anni di Bush jr un Premio Nobel per la Pace, il democratico Barack Obama, diventò il primo presidente nero degli Stati Uniti. E con lui Hillary Clinton divenne la prima ex-first lady a diventare Segretario di Stato, che in America è il vero numero due del Presidente: nel periodo in cui la signora Clinton è stata Segretario di Stato gli Stati Uniti hanno inanellato una serie di insuccessi e di scelte militariste sbagliate che non hanno precedenti nella storia moderna americana. Il 21 aprile 2009 Hillary Clinton riceveva alla Segreteria di Stato Mutassim Gheddafi, figlio del Colonnello, all'epoca a capo della sicurezza nazionale libica: “Sono onorata di dare il benvenuto al ministro Gheddafi […] apprezziamo il valore profondo delle nostre relazioni e avremo molte occasioni di approfondire e ampliare la nostra collaborazione”. Mutassim, tra i figli di Gheddafi quello più simile al padre, sfoggiò un sorriso magnetico mentre stringeva la mano alla Clinton. Il 20 ottobre 2011 la stessa Hillary Clinton, preparandosi a un'intervista con la CBS, riceveva durante un fuori onda – ripreso ugualmente dall'operatore - l'inattesa notizia della cattura di Gheddafi sul BlackBerry di una sua collaboratrice: “Wow” esclamò con l'aria sinceramente sorpresa “ci sono notizie non confermate sulla cattura di Gheddafi”. Pochi minuti dopo, prima di cominciare a girare, sistemandosi la giacca e con un sorriso estatico sul volto, rivolgendosi alla giornalista, la signora Clinton declinò addirittura Giulio Cesare: “Siamo venuti, abbiamo visto, è morto!”. Era il periodo nel quale gli Stati Uniti, e la signora Clinton, si esprimevano con dichiarazioni infuocate anche verso il Presidente siriano Bashar al-Assad: nel mese di agosto la Clinton suggeriva ad Assad di “togliersi di torno”, sposando in toto la teoria della CIA e dell'Arabia Saudita che la rimozione del dittatore siriano sarebbe stata rapida, priva di costi e sicuramente un successo. Il risultato di quelle scelte lo osserviamo oggi, ma ci serve un mappamondo per guardarlo tutto: la crisi è diffusa in un'area che va dal Mali fino all'Afghanistan – e si allarga verso est – e nel cuore di questo grande spazio ci sono due scenari apocalittici: Libia e Siria. Durante il periodo da Segretario di Stato Hillary Clinton ha avuto un'influenza enorme sul Presidente Barack Obama, determinante per alcune scelte determinanti in politica estera, e spesso è stato proprio il parere della signora Clinton a far prendere a Obama una decisione piuttosto che un'altra. Nella vita reale, le scelte dell'amministrazione americana durante il periodo di Hillary Clinton alla Segreteria di Stato possono essere rappresentate tramite un numero: 10 milioni di profughi siriani, che quando non muoiono sotto le bombe, di fame durante il viaggio, di malattie nei campi profughi o annegati nel Mediterraneo, si ritrovano in Europa alimentando una crisi politica senza precedenti, indebolendo paesi già in difficoltà come Grecia e Italia e creando una realtà che sta minando alla base i valori fondanti della stessa Unione Europea. Ma l'operato della signora Clinton non riguarda soltanto il Medio Oriente e il nord Africa: da senatrice Hillary ha approvato, votandola, la Risoluzione 439 del Senato che permise l'inclusione di Ucraina e Georgia nella NATO, un atto che fu l'embrione di quella che oggi la Russia definisce “nuova Guerra Fredda”. Gli americani negano, ma le operazioni di rafforzamento dei contingenti americani in Europa sono un dato di fatto che racconta una storia diversa da quella ufficiale. Il suo successore come Segretario di Stato John Kerry è ancora al lavoro per riparare i buchi immensi provocati dalla sete di bombe della signora Clinton: lo scenario libico, raccontato in questo articolo di grande giornalismo del New York Times, è oggi la conseguenza di numerose scelte scellerate fatte da Hillary Clinton ed oggi un Paese con una popolazione inferiore a quella dello stato del Tennessee preoccupa due colossi mondiali come gli Stati Uniti e l'Unione Europea: “Abbiamo avuto un'occasione d'oro per ridare vita a questo paese. Purtroppo quel sogno si è infranto” ha detto Mahmoud Jibril, che fu primo ministro ad interim del governo provvisorio nato durante la rivoluzione libica. Era stato il principale interlocutore di Hillary Clinton prima che morisse Gheddafi. 

Email di Hillary, dinari d’oro e Primavera araba, scrive F. William Engdahl, New Eastern Outlook il 17 marzo 2016. Sepolto tra decine di migliaia di pagine e-mail segrete dell’ex-segretaria di Stato Hillary Clinton, ora rese pubbliche dal governo degli Stati Uniti, c’è un devastante scambio di e-mail tra Clinton e il suo confidente Sid Blumenthal su Gheddafi e l’intervento degli Stati Uniti coordinato nel 2011 per rovesciare il governante libico. Si tratta dell’oro quale futura minaccia esistenziale al dollaro come valuta di riserva mondiale. Si trattava dei piani di Gheddafi per il dinaro-oro per l’Africa e il mondo arabo. Due paragrafi in una e-mail di recente declassificate dal server privato illegalmente utilizzato dall’allora segretaria di Stato Hillary Clinton durante la guerra orchestrata dagli Stati Uniti per distruggere la Libia di Gheddafi nel 2011, rivelano l’ordine del giorno strettamente segreto della guerra di Obama contro Gheddafi, cinicamente chiamata “Responsabilità di proteggere”. Barack Obama, presidente indeciso e debole, delegò tutte le responsabilità presidenziali della guerra in Libia alla segretaria di Stato Hillary Clinton, prima sostenitrice del “cambio di regime” arabo utilizzando in segreto i Fratelli musulmani ed invocando il nuovo bizzarro principio della “responsabilità di proteggere” (R2P) per giustificare la guerra libica, divenuta rapidamente una guerra della NATO. Con l’R2P, concetto sciocco promosso dalle reti dell’Open Society Foundations di George Soros, Clinton affermava, senza alcuna prova, che Gheddafi bombardasse i civili libici a Bengasi. Secondo il New York Times, citando fonti di alto livello dell’amministrazione Obama, fu Hillary Clinton, sostenuta da Samantha Power, collaboratrice di primo piano al Consiglio di Sicurezza Nazionale e oggi ambasciatrice di Obama alle Nazioni Unite, e Susan Rice, allora ambasciatrice di Obama alle Nazioni Unite, e ora consigliere per la Sicurezza Nazionale, che spinse Obama all’azione militare contro la Libia di Gheddafi. Clinton, affiancata da Powers e Rice, era così potente che riuscì a prevalere sul segretario alla Difesa Robert Gates, Tom Donilon, il consigliere per la sicurezza nazionale di Obama, e John Brennan, capo antiterrorismo di Obama ed oggi capo della CIA. La segretaria di Stato Clinton guidò la cospirazione per scatenare ciò che venne soprannominata “primavera araba”, l’ondata di cambi di regime finanziati dagli USA nel Medio Oriente arabo, nell’ambito del progetto del Grande Medio Oriente presentato nel 2003 dall’amministrazione Bush dopo l’occupazione dell’Iraq. I primi tre Paesi colpiti dalla “primavera araba” degli USA nel 2011, in cui Washington usò le sue ONG per i “diritti umani” come Freedom House e National Endowment for Democracy, in combutta come al solito con le Open Society Foundations dello speculatore miliardario George Soros, insieme al dipartimento di Stato degli Stati Uniti e ad agenti della CIA, furono la Tunisia di Ben Ali, l’Egitto di Mubaraq e la Libia di Gheddafi. Ora tempi e obiettivi di Washington della destabilizzazione via “primavera araba” del 2011 di certi Stati in Medio Oriente assumono nuova luce in relazione alle email declassificate sulla Libia di Clinton con il suo “consulente” e amico Sid Blumenthal. Blumenthal è l’untuoso avvocato che difese l’allora presidente Bill Clinton nello scandalo sessuale di Monika Lewinsky quando era Presidente e affrontava l’impeachment. Per molti rimane un mistero perché Washington abbia deciso che Gheddafi dovesse essere ucciso, e non solo esiliato come Mubaraq. Clinton, quando fu informata del brutale assassinio di Gheddafi da parte dei terroristi di al-Qaida dell' “opposizione democratica” finanziata dagli USA, pronunciò alla CBS News una perversa parafrasi di Giulio Cesare, “Siamo venuti, l’abbiamo visto, è morto” con una fragorosa risata macabra. Poco si sa in occidente di ciò che Muammar Gheddafi fece in Libia o anche in Africa e nel mondo arabo. Ora, la divulgazione di altre e-mail di Hillary Clinton da segretaria di Stato, al momento della guerra di Obama a Gheddafi, getta nuova drammatica luce. Non fu una decisione personale di Hillary Clinton eliminare Gheddafi e distruggerne lo Stato. La decisione, è ormai chiaro, proveniva da ambienti molto potenti dell’oligarchia monetaria degli Stati Uniti. Era un altro strumento a Washington del mandato politico di tali oligarchi. L’intervento era distruggere i piani ben definiti di Gheddafi per creare una moneta africana e araba basata sull’oro per sostituire il dollaro nei traffici di petrolio. Da quando il dollaro USA ha abbandonato il cambio in oro nel 1971, il dollaro rispetto all’oro ha perso drammaticamente valore. Gli Stati petroliferi dell’OPEC hanno a lungo contestato il potere d’acquisto evanescente delle loro vendite di petrolio, che dal 1970 Washington impone esclusivamente in dollari, mentre l’inflazione del dollaro arrivava ad oltre il 2000% nel 2001. In una recentemente declassificata email di Sid Blumenthal alla segretaria di Stato Hillary Clinton, del 2 aprile 2011, Blumenthal rivela la ragione per cui Gheddafi andava eliminato. Utilizzando il pretesto citato da una non identificata “alta fonte”, Blumenthal scrive a Clinton, “Secondo le informazioni sensibili disponibili a questa fonte, il governo di Gheddafi detiene 143 tonnellate di oro e una quantità simile in argento… l’oro fu accumulato prima della ribellione ed era destinato a creare una valuta panafricana basata sul dinaro d’oro libico. Questo piano era volto a fornire ai Paesi africani francofoni un’alternativa al franco francese (CFA)“. Tale aspetto francese era solo la punta dell’iceberg del dinaro d’oro di Gheddafi. Nel primo decennio di questo secolo, i Paesi OPEC del Golfo persico, tra cui Arabia Saudita, Qatar e altri, iniziarono seriamente a deviare una parte significativa dei ricavi delle vendite di petrolio e gas sui fondi sovrani, basandosi sul successo dei fondi petroliferi norvegesi. Il crescente malcontento verso la guerra al terrorismo degli Stati Uniti, con le guerre in Iraq e Afghanistan e la loro politica in Medio Oriente dal settembre 2001, portò la maggior parte degli Stati arabi dell’OPEC a deviare una quota crescente delle entrate petrolifere su fondi controllati dallo Stato, piuttosto che fidarsi delle dita appiccicose dei banchieri di New York e Londra, come era solito dagli anni ’70, quando i prezzi del petrolio schizzarono alle stelle creando ciò che Henry Kissinger affettuosamente chiamò “petrodollaro” per sostituire il dollaro-oro che Washington mollò il 15 agosto 1971. L’attuale guerra tra sunniti e sciiti o lo scontro di civiltà sono infatti il risultato delle manipolazioni degli Stati Uniti nella regione dal 2003, il “divide et impera”. Nel 2008 la prospettiva del controllo sovrano in un numero crescente di Stati petroliferi africani ed arabi dei loro proventi su petrolio e gas causava gravi preoccupazioni a Wall Street e alla City di Londra. Un’enorme liquidità, migliaia di miliardi, che potenzialmente non potevano più controllare. La primavera araba, in retrospettiva, appare sempre più sembra legata agli sforzi di Washington e Wall Street per controllare non solo gli enormi flussi di petrolio dal Medio Oriente arabo, ma ugualmente lo scopo era controllarne il denaro, migliaia di miliardi di dollari che si accumulavano nei nuovi fondi sovrani. Tuttavia, come confermato dall’ultimo scambio di email Clinton-Blumenthal del 2 aprile 2011, dal mondo petrolifero africano e arabo emergeva una nuova minaccia per gli “dei del denaro” di Wall Street e City di Londra. La Libia di Gheddafi, la Tunisia di Ben Ali e l’Egitto di Mubaraq stavano per lanciare la moneta islamica indipendente dal dollaro USA e basata sull’oro. Mi fu detto di questo piano nei primi mesi del 2012, in una conferenza finanziaria e geopolitica svizzera, da un algerino che sapeva del progetto. La documentazione era scarsa al momento e la storia mi passò di mente. Ora un quadro molto più interessante emerge indicando la ferocia della primavera araba di Washington e l’urgenza del caso della Libia. Nel 2009 Gheddafi, allora Presidente dell’Unione africana, propose che il continente economicamente depresso adottasse il “dinaro d’oro”. Nei mesi precedenti la decisione degli Stati Uniti, col sostegno inglese e francese, di aver una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per aver la foglia di fico del diritto alla NATO di distruggere il regime di Gheddafi, Muammar Gheddafi organizzò la creazione del dinaro-oro che sarebbe stato utilizzato dagli Stati africani petroliferi e dai Paesi arabi dell’OPEC per vendere petrolio sul mercato mondiale. Al momento Wall Street e City di Londra erano sprofondati nella crisi finanziaria del 2007-2008, e la sfida al dollaro quale valuta di riserva l’avrebbe aggravata. Sarebbe stata la campana a morto per l’egemonia finanziaria statunitense e il sistema del dollaro. L’Africa è uno dei continenti più ricchi del mondo, con vaste inesplorate ricchezze in minerali ed oro, volutamente mantenuto per secoli sottosviluppato o preda di guerre per impedirne lo sviluppo. Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale negli ultimi decenni furono gli strumenti di Washington per sopprimere un vero sviluppo africano. Gheddafi invitò i Paesi produttori di petrolio africani dell’Unione africana e musulmani ad entrare nell’alleanza che avrebbe fatto del dinaro d’oro la loro valuta. Avrebbero venduto petrolio e altre risorse a Stati Uniti e resto del mondo solo in dinari d’oro. In qualità di Presidente dell’Unione africana, nel 2009 Gheddafi presentò all’Unione Africana la proposta di usare il dinaro libico e il dirham d’argento come unico denaro con cui il resto del mondo poteva comprare il petrolio africano. Insieme ai fondi sovrani arabi dell’OPEC, le altre nazioni petrolifere africane, in particolare Angola e Nigeria, creavano i propri fondi nazionali petroliferi quando nel 2011 la NATO bombardava la Libia. Quei fondi nazionali sovrani, legati al concetto del dinaro d’oro di Gheddafi, avrebbe realizzato il vecchio dell’Africa indipendente dal controllo monetario coloniale, che fosse sterlina, franco francese, euro o dollaro statunitense. Gheddafi attuava, come capo dell’Unione africana, al momento dell’assassinio, il piano per unificare gli Stati sovrani dell’Africa con una moneta d’oro negli Stati Uniti d’Africa. Nel 2004, il Parlamento panafricano di 53 nazioni aveva piani per la Comunità economica africana, con una moneta d’oro unica entro il 2023. Le nazioni africane produttrici di petrolio progettavano l’abbandono del petrodollaro e di chiedere pagamenti in oro per petrolio e gas; erano Egitto, Sudan, Sud Sudan, Guinea Equatoriale, Congo, Repubblica democratica del Congo, Tunisia, Gabon, Sud Africa, Uganda, Ciad, Suriname, Camerun, Mauritania, Marocco, Zambia, Somalia, Ghana, Etiopia, Kenya, Tanzania, Mozambico, Costa d’Avorio, oltre allo Yemen che aveva appena scoperto nuovi significativi giacimenti di petrolio. I quattro Stati africani nell’OPEC, Algeria, Angola, Nigeria, gigantesco produttore di petrolio e primo produttore di gas naturale in Africa dagli enormi giacimenti di gas, e la Libia dalle maggiori riserve, avrebbero aderito al nuovo sistema del dinaro d’oro. Non c’è da stupirsi che il presidente francese Nicolas Sarkozy, che da Washington ricevette il proscenio della guerra contro Gheddafi, arrivò a definire la Libia una “minaccia” alla sicurezza finanziaria del mondo. Una delle caratteristiche più bizzarre della guerra di Hillary Clinton per distruggere Gheddafi fu che i “ribelli” filo-USA di Bengasi, nella parte petrolifera della Libia, nel pieno della guerra, ben prima che fosse del tutto chiaro che avrebbero rovesciato il regime di Gheddafi, dichiararono di aver creato una banca centrale di tipo occidentale “in esilio”. Nelle prime settimane della ribellione, i capi dichiararono di aver creato una banca centrale per sostituire l’autorità monetaria dello Stato di Gheddafi. Il consiglio dei ribelli, oltre a creare la propria compagnia petrolifera per vendere il petrolio rubato, annunciò: “la nomina della Banca Centrale di Bengasi come autorità monetaria competente nelle politiche monetarie in Libia, e la nomina del governatore della Banca centrale della Libia, con sede provvisoria a Bengasi”. Commentando la strana decisione, prima che l’esito della battaglia fosse anche deciso, di creare una banca centrale per sostituire la banca nazionale sovrana di Gheddafi che emetteva dinari d’oro, Robert Wenzel del Economic Policy Journal, osservò, “non ho mai sentito parlare di una banca centrale creata poche settimane dopo una rivolta popolare. Ciò suggerisce che c’è qualcos’altro che non una banda di straccioni ribelli e che ci sono certe piuttosto sofisticate influenze”. È chiaro ora, alla luce dei messaggi di posta elettronica Clinton-Blumenthal, che tali “influenze abbastanza sofisticate” erano legate a Wall Street e City di Londra. La persona inviata da Washington a guidare i ribelli nel marzo 2011, Qalifa Haftar, aveva trascorso i precedenti venti anni in Virginia, non lontano dal quartier generale della CIA, dopo aver lasciato la Libia quando era uno dei principali comandante militari di Gheddafi. Il rischio per il futuro del dollaro come valuta di riserva mondiale, se Gheddafi avesse potuto procedere insieme a Egitto, Tunisia e altri Stati arabi di OPEC e Unione Africana, introducendo le vendite di petrolio in oro e non dollari, sarebbe stato chiaramente l’equivalente finanziario di uno tsunami. Il sogno di Gheddafi di un sistema basato sull’oro arabo e africano indipendente dal dollaro, purtroppo è morto con lui. La Libia, dopo la cinica “responsabilità di proteggere” di Hillary Clinton che ha distrutto il Paese, oggi è lacerata da guerre tribali, caos economico, terroristi di al-Qaida e SIIL. La sovranità monetaria detenuta dal 100% dalle agenzie monetarie nazionali statali di Gheddafi e la loro emissione di dinari d’oro, è finita sostituita da una banca centrale “indipendente” legata al dollaro. Nonostante ciò, va notato che ora un nuovo gruppo di nazioni si unisce per costruire un sistema monetario basato sull’oro. Questo è il gruppo guidato da Russia e Cina, terzo e primo Paesi produttori di oro nel mondo. Questo gruppo è legato alla costruzione del grande progetto infrastrutturale eurasiatico della Nuova Via della Seta della Cina, comprendente 16 miliardi di fondi in oro per lo sviluppo della Cina, decisa a sostituire City di Londra e New York come centri del commercio mondiale dell’oro. L’emergente sistema d’oro eurasiatico pone ora una serie completamente nuova di sfide all’egemonia finanziaria statunitense. Questa sfida eurasiatica, riuscendo o fallendo, deciderà se la nostra civiltà potrà sopravvivere e prosperare in condizioni completamente diverse, o affondare con il fallimentare sistema del dollaro. F. William Engdahl è consulente di rischio strategico e docente, laureato in politica alla Princeton University, è autore di best-seller su petrolio e geopolitica, in esclusiva per la rivista online “New Eastern Outlook”. Traduzione del 12 luglio 2016 di Alessandro Lattanzio – SitoAurora.

Modesto contributo alla chiacchiera su guerra di religione. In forma di catechismo, scrive Maurizio Blondet il 29 luglio 2016. Un caro lettore, travolto come tutti dallo stato d’animo collettivo indotto, mi ha scritto: “Stamani tutti i media riportano queste parole di Bergoglio che quella in essere non è una guerra di religione. Ovviamente il senso della gente comune sa che questa è una menzogna. Non riesco a capire la logica di questo messaggio subito ripreso, ad esempio, dal presidente della repubblica. Spero possa accennare una risposta in un suo prossimo articolo. La ringrazio. Prego per Lei e la sua famiglia.” Mi sono quindi risolto a riportare qualche argomento di cui il nostro amico - e chiunque vorrà interloquire nella chiacchiera frenetica sulla guerra di religione in corso -  potrà fare riferimento.   Sul terrorismo islamico, riporto fatti incontrovertibili. Sotto forma di catechismo, così spero sia più semplice. Il terrorismo islamico non esisteva “prima”. Esisteva il terrorismo islamico, “prima”? Ossia quando l’Afghanistan era sotto un governo comunista, l’Irak sotto Saddam Hussein, l’Egitto governato da Mubarak, la Siria dalla famiglia Assad e la Libia da Gheddafi? No. Quelli erano regimi laici, modernizzanti, nazionalisti –   ossia promotori attivi dell’unità nazionale, al disopra delle plurime entità etniche e religiose che governavano. Per questo erano ostili ad ogni islamismo settario.  Lo tenevano a freno, se si manifestava nel loro stati.   In Irak e in Siria, le minoranze cristiane erano rispettate e spesso, anzi, erano la spina dorsale di quei regimi. Chi ha fatto cadere quei regimi con forze militari imponenti, destabilizzandone i paesi, gettandoli nel caos e nella guerra intestina? Gli Stati Uniti: alla testa di coalizioni occidentali, a cui hanno partecipato Gran Bretagna, Francia, stati membri della NATO oppure no, come Australia o Polonia (nella prima guerra del Golfo); la NATO ha preso il controllo dell’Afghanistan (missione ISAF). Per quale motivo l’Occidente a guida americana ha messo a ferro e fuoco quei paesi, massacrato i loro governanti anti-islamisti, e li ha gettati nel caos in mano a forze settarie? In esecuzione del piano israeliano (detto Piano Kivunim) che dal 1982 propugnava   la spaccatura di questi Stati “secondo le loro linee di   frattura etniche e religiose”. Nella rivista ebraica Kivunim, si leggeva al proposito: “l’Iraq, ricco di petrolio e lacerato internamente, è sicuramente un candidato degli obiettivi d’Israele. La sua dissoluzione è ancora più importante per noi di quella della Siria. L’Iraq è più forte della Siria. … Ogni confronto inter-arabo ci aiuterà nel breve periodo e accorcerà la strada all’obiettivo più importante, spezzare l’Iraq in domini come Siria e Libano. In Iraq, la divisione in province lungo linee etno-religiose, come in Siria durante il periodo ottomano, è possibile. Così esisteranno almeno tre Stati attorno alle tre principali città: Bassora, Baghdad e Mosul, e le aree sciite del sud si separeranno dal nord sunnita e curdo. … L’intera penisola arabica è un candidato naturale della dissoluzione su pressioni interne ed esterne, e la questione è inevitabile soprattutto per l’Arabia Saudita”.   Israele non poteva sentirsi sicura senza creare il caos attorno a sé. Ma perché il governo Usa avrebbe aderito a questo piano? Perché vi conversero gli interessi petroliferi (esemplificati da Dick Cheney, presidente della Halliburton) e il sistema militare-industriale.    Si aggiunga il regno dei Saud, che vide il proprio interesse in questo progetto per ragioni settarie: portatore della versione più reetriva del Sunnismo (il wahabismo) voleva distruggere gli Sciit, e segnatamente l’Iran.  Quando Bush figlio prese la presidenza, attorno a lui tutto era pronto per questo progetto. Quando si è sentito parlare per la prima volta di “terrorismo islamico”? L’11 Settembre 2001, quando gli Stati Uniti sono stati proditoriamente aggrediti da un gruppo di terroristi islamici che hanno dirottato dei Boeing e li hanno lanciati contro le Twin Tower e il Pentagono, facendo oltre 3 mila morti.  I terroristi erano guidati da Osama Bin Laden. Chi era Osama Bin Laden? Era un   miliardario saudita la cui famiglia è amica, e socia in affari, della famiglia Bush. Aiutò gli americani a rovesciare il regime comunista in Afghanistan negli anni ’80; per loro arruolò migliaia di combattenti in tutto il Medio Oriente per mandarli a debellare i sovietici: con armamenti americani, e instaurare un regime religioso’, composto dai Talebani (studenti islamici preparati in Pakistan).  Questa organizzazione agli ordini americani si chiamava Al Qaeda (database – l’elenco degli arruolati). Quando Bin Laden è diventato nemico degli Usa? Improvvisamente. Ancora il 9 settembre 2001, due sue uomini (fingendosi giornalisti) uccisero il generale Massoud, il Leone del Panshir, inviso agli americani perché sarebbe stato in grado – come eroe nazionale – di unificare e stabilizzare l’Afghanistan.   L’intelligence francese sostenne che il capostazione della Cia andò a far visita a Bin Laden all’ospedale americano di Dubai a luglio, dove era ricoverato per dialisi. Lo scrisse il Figaro, senza essere smentito.  Dunque il 9 settembre era ancora amico, e il 21 era divenuto nemico degli Usa. Ma queste   sono ipotesi complottiste, che non si possono dimostrare! Lo disse il generale Wesley Clark, che era stato capo della NATO durante l’intervento in Kossovo: il giorno dopo l’11 Settembre, andò al Pentagono e un ufficiale suo amico, che aveva appena parlato col ministro (Donald Rumsfeld), lo chiamò nell’ufficio, chiuse la porta e gli sussurrò, incredulo: “Andiamo ad attaccare 7 paesi in 5 anni.  Adesso cominciamo con l’Irak, poi Siria, Libano, Libia, Somalia, Sudan, e per finire, Iran”.  D’accordo, però nella religione islamica è insita la violenza, il jihad, la conversione forzata. Sì, certo.  Però era un aspetto dormiente, e tenuto a freno dai governi laici di Irak, Siria, Libia.  Quell’aspetto atroce dell’Islam fu risvegliato e istigato volontariamente. Gruppi fanatici furono armati ed addestrati apposta. Anche questa è una teoria complottista senza alcuna prova! Sempre il generale Wesley Clark – ricordo, l’ex comandante supremo NATO in Europa – disse alla CNN kil 21 febbraio 2015: “Abbiamo reclutato Zeloti e estremisti takfiri”, creato “un Frankenstein”; in quell’intervista spiegò anche: “L’ISIS è stato creato dai nostri alleati per battere fino alla morte Hezbollah”. Intendeva: creato dalla monarchia Saudita per debellare la componente sciita che vive in Libano, Hezbollah. Dunque gli Usa avrebbero creato, o lasciato creare, i movimenti   terroristico-jihadisti, per poi combatterli? Ma è assurdo! A che scopo? Secondo Samuel Huntington, che è il principale scienziato politico americano, la cosa è utile al potere americano. Egli scrisse nel 1996 un saggio, “Scontro di Civiltà e Nuovo Ordine Mondiale”, in cui profetizzò che “la principale fonte di conflitti nel mondo post-Guerra fredda diverranno le identità culturali e religiose”; non ci saranno più guerre fra Stati fra “civiltà”.  Di fatto, ragionava Huntington, dopo la caduta dell’Urss dove trovare un nemico comune che tenga unito l’Occidente sotto la guida americana? Lo scontro di civiltà era la risposta; e la lotta all’Islam, una   popolosa cultura “aliena” e poco solubile nel nuovo ordine mondiale, era la soluzione. Che piaceva anche a Israele e alla lobby giudaica a Washington. E questa strategia ha avuto successo? Sì, il piano Kivunim ha avuto successo. Tutti i paesi islamici circostanti Israele, e quasi tutti quelli più lontani, sono sconvolti da lotte intestine etnico-religiose: sciiti contro sunniti, curdi contro turchi, cirenaici contro tripolitani, alawiti contro sunniti….   Nessuno di questo tornerà più ad essere uno Stato ordinato, quindi che possa rappresentare un pericolo politico o militare per Israele.   Il progetto però è incompiuto in due casi: l’Iran non è stato ancora destabilizzato (troppo grosso e lontano), e i tentativi di Israele di indurre Washington a bombardarne le centrali nucleari è andato finora a vuoto; e la Siria. Qui la caduta del regime laico di Assad è stata sventata dalla Russia, che l’aiuta militarmente; ed anche dal fatto che le minoranze siriane non si battono contro il regime in numero sufficiente, né aderiscono al jihadismo di ISI e Al Qaeda, preferendo di fuggire come profughi. Al punto che oggi a combattere in Siria contro Assad non sono le opposizioni siriane, ma jihadisti ceceni, azeri, europei reclutati in Francia, Belgio Gran Bretagna, e spesso   attratti dalle paghe: reclutati come mercenari coi soldi Sauditi e l’addestramento della Cia. Però adesso l’ISIS manda i suoi terroristi in Europa. L’ISIS? Abbiamo visto che si tratta di una creazione americano-saudita. Gli israeliani li sostengono nella lotta in Siria, silenziosamente, curano i feriti del Califfato nei loro ospedali (esiste ampia documentazione). Gli americani stanno ostacolando le azioni militari russe; hanno intimato a Putin di non colpire Al Nusra (nome nuovo di Al Qaeda) perché quelli sono “l’opposizione democratica” che intendono mettere al potere in Siria, dopo detronizzato Assad.   Comunque l’ISIS ha il suo daffare a difendersi, altro che spedire jihadisti in Europa. Però rivendica tutti gli attentati islamici che avvengono sempre più spesso in Europa. Le rivendicazioni sono opportuniste. E   lei è proprio sicuro che sia l’ISIS a farle? Dopotutto, le rivendicazioni dell’ISI vengono diffuse dal SITE, un’azienda della israeliano-americana Rita Katz. Sono tutte probabilmente false, create dalla propaganda israeliana. Ma   i jihadisti ammazzano davvero! A Nizza, a Rouen hanno ammazzato il prete! Non è questa guerra di religione? E’ scontro di civiltà come voleva Huntington.  È strategia della tensione: qualcuno vuole tenere gli europei nella paura. Diversi esponenti israeliani   hanno detto: “è bene che gli europei provino quello che proviamo noi, che quando andiamo al ristorante non siamo sicuri di tornare a casa”, perché un palestinese può accoltellarli.  Anche certi governi europei possono trovare conveniente tenere i loro cittadini nella tensione e nella paura, nel clima della lotta perpetua al Nemico Islamico, che è fra noi e colpisce quando vuole. Il Piano Kivunim, tradotto in inglese dall’ebraico dal compianto amico Israel Shahak. Come scrisse Orwell nel suo “1984”, dove immagina uno stato totalitario futuro: “C’erano   attentati continui e ingiustificati. Fatti a caso.  Servivano allo Stato per limitare le libertà dei cittadini.   Ad ogni attentato, si facevano leggi restrittive della libertà!” Ma qui siamo in democrazia! Sì, certo. Hollande però ha approfittato degli attentati per prolungare lo stato di emergenza, ossia leggi restrittive della libertà dei cittadini. Ma non dirà che   sono gli stessi governi a indurre due diciannovenni islamici a sgozzare il povero prete a Rouen. Quelli hanno agito spontaneamente, a nome dell’ISIS. Certamente. E’ un meccanismo che noi italiani conosciamo bene. Negli anni di piombo, di strategia della tensione, le Brigate Rosse commettevano omicidi; ebbene, più ne commettevano, più trovavano favore nelle fabbriche e nelle scuole, fra frange notevoli di studenti e di operai “di sinistra”. E anche molti intellettuali simpatizzavano: “Né con lo stato né con le BR”, scrissero in molti. I più giovani e suggestionabili, sognavano di arruolarsi nelle Brigate Rosse, cercavano contatti, volevano andare in clandestinità – era uno stato d’animo collettivo, ed era anche una moda travolgente.  Oggi sappiamo che strategia della tensione e BR erano “gestite” da servizi esteri e da Gladio, organizzazione clandestina della NATO. Ma i giovani di allora erano sedotti da quello stato d’animo, sparavano “spontaneamente”. Come i marginali di oggi in Europa, col nome e cognome islamico, sono sedotti da un ISIS – che è una creazione americana. Non mi ha convinto…Lo so. So che lei è sotto influsso psico-emotivo dello stato d’animo collettivo che ci vuole spaventati: l’Islam ci attacca! E’ una guerra di religione! Sì, è una guerra di religione. Indotta, però, da centrali che hanno fatto di tutto per provocarla.  Le centrali di cui sopra vogliono che la civiltà europea venga devastata – come hanno voluto la devastazione di Palmyra in Siria – e scompaia. Ma perché? Perché la cultura e civiltà europea, greco-romana e cristiana, formava uomini liberi, e il potere globale non vuole liberi, ma consumatori. Perché odiano Cristo e la sua civiltà.  Perché quelle centrali – diciamo, gli usurai (per usare un termine poundiano) mai hanno avuto la capacità di edificare un Partenone, un Pantheon; mai hanno prodotto nulla che ricordi anche lontanamente Fidia o Caravaggio, né tra di loro è mai nato un Dostojewski, o uno Shakespeare o un Dante. I loro scrittori sono dei pornografi.  La loro “arte” è quella del MOMA di New York, una bruttezza che si vendono e comprano tra loro a prezzi stratosferici; bruttezza che si accompagna necessariamente alla menzogna e all’odio per il Vero: Vero e Bello sono la stessa cosa, diceva Tommaso d’Aquino. Vogliono renderci come loro. Spaventati e pieni d’odio e d’invidia per il genere umano.

Perché DAESH vuole Killary presidente. Proprio come tutti i Katz, scrive Maurizio Blondet il 2 agosto 2016. Come si diceva, Daesh minaccia Putin il giorno dopo che Hillary ha accusato Putin, coi suoi hackers, di aver diffuso le mail più discutibili su di lei e il suo partito democratico.  “Daesh per Hillary!”, era il nostro titolo.  Meno paradossale di quel che sembra: per forza Daesh aiuta la Clinton   a   entrare nella Casa Bianca – dopo tutto quello che lei ha fatto per lui. La cosa è saltata fuori, ma subito sepolta, dopo l’11 settembre 2012, il giorno in cui l’ambasciatore americano Chris Stevens fu trucidato a Bengasi insieme ai Marines che gli facevano da guardie del corpo, in un oscuro combattimento.  Reso più oscuro dal fatto che i commandos pronti a partire da Sigonella per soccorrere l’ambasciatore – sarebbero arrivati in meno di mezz’ora – ricevettero da Obama l’ordine di stand-down, ossia di non muoversi: dal che si sospetta che Stevens sia stato deliberatamente sacrificato, per seppellire con lui una storia sporca   i cui liquami   sarebbero schizzati fino alla Clinton. Hillary, Panetta a desta e Dempsey mentono durante l’audizione al senato nel 2013. Questa vicenda sporca consisteva nel fatto che Stevens era stato mandato a Bengazi per comprare armamenti dai ribelli islamisti che avevano svuotato gli arsenali di Gheddafi, onde inviarli ai jihadisti che combattevano contro il regime di Assad: lo   Stato Islamico, guarda caso, che per i media nasce proprio nel 2012, distaccandosi da Al Qaeda con tanto di comunicato ufficiale. In una udienza al Senato del maggio 2012, Hillary Clinton – affiancata da Leon Panetta allora segretario alla Difesa, e all’ammiraglio Dempsey (capo degli stati maggiori) – negarono l’esistenza del piano per armare occultamente i terroristi in Siria. O meglio: raccontarono che sì, avevano avuto l’idea, ne parlarono ad Obama, ma lui la bocciò – sicché non se ne fece nulla.   Lo stesso Bill Clinton ha raccontato in un’intervista alla CNN che il piano esisteva e che lui l’aveva raccomandato, ma niente. Menzogne su menzogne. Come ha dimostrato una approfondita ed esplosiva inchiesta condotta da Aaron Klein.  Il quale non è solo ebreo, ma è anche un noto columnist del New York Times, ed oggi è capo della redazione di Gerusalemme per il Breitbart News Network.   E il suo libro-accusa, “The REAL Benghazi story: what the White House and Hillary don’t want you to know” è stato un best seller nel 2014, quando è uscito. Che cosa ha scoperto Klein? Che contrariamente alla versione ufficiale, Obama aveva autorizzato l’operazione segreta (e illegale) di acquistare dai tagliagole libici le armi per mandarle ai tagliagole siriani. Come l’ha scoperto?   Nel modo più facile: un lancio della Reuters che ai primi del 2012 rendeva noto quanto segue: il presidente Obama ha firmato un ordine esecutivo “che permette alla Cia ed altre agenzie di fornire sostegno ai ribelli per cacciare Assad”: mandato “broadly”, ossia ampio e generico. Da attuarsi, aggiungeva l’agenzia, attraverso un “centro di comando segreto operato dalla Turchia e i suoi alleati” (sic).  Sempre la Reuters, citando una “fonte Usa”, avvertiva però che la Casa Bianca non aveva autorizzato l’invio di armi letali, “anche se certi alleati Usa lo fanno” (sic). Che Chris Stevens fu mandato in Libia senza lo status di ambasciatore, “a bordo di un cargo battente bandiera greca che portava forniture e automezzi”, già durante la rivoluzione che eliminò Gheddafi. Il suo compito?  Diventare “il primo interlocutore fra l’amministrazione Obama e i ribelli basati a Bengasi” – e fare il mercante d’armi.   Era affiancato in questo compito da un professionista: come rivelò lo steso New York Times nel dicembre 2012, da un tale Marc Turi, definito dallo stesso medium mainstream “un mercante d’armi americano che voleva fornire armamenti in Libia”, e per il quale Stevens chiese al Dipartimento di Stato una autorizzazione – che è agli atti.  Anche dopo essere stato nominato ambasciatore, Stevens continuò – dice Klein – a trattare armi coi tagliagole. Che membri armati della “Brigata Martiri 17 Febbraio” (tagliagole libici collegati alla Ansar al Sharia, definita organizzazione terroristica dagli Usa) furono assunti dal Dipartimento di Stato – ossia da Hillary – per fornire la “security interna a una missione speciale” –   ossia par di capire a far da guardie del corpo a Stevens, visto che non essendo ancora ambasciatore non gli si potevano assegnare del Marines. Secondo Klein, i capi della Brigata Martiri 17 Febbraio furono anche usati   come agevolatori, diciamo, della compravendita ai arsenali da mandare ai tagliagole siriani. Nell’autorizzazione concessa ufficialmente dal Dipartimento di Stato a Marc Turi, e risalente al maggio 2011, si legge che il Turi aveva “il progetto di spedire armamenti del valore di 200 milioni di dollari al Katar” – uno dei massimi nemici di Assad. Facile capire   in che mani sarebbero finite quelle armi. Una “grossa spedizione di armi da Bengasi ai ribelli siriani partì nell’agosto 2012 (poche settimane prima la tragica fine di Stevens, 11 settembre) su una nave, e arrivò al porto turco di Iskenderum, a 35 chilometri dalla frontiera con la Siria.  Ufficialmente, portava aiuti umanitari.  Altri trasporti avvennero per via aerea in quel periodo. Il New York Times stesso raccontò in uno dei suoi articoli che “da uffici in località segrete”, membri dell’intelligence Usa “aiutavano i governi arabi a comprare armi – e “hanno selezionato accuratamente (sic) i   comandanti e i gruppi ribelli per determinare chi di loro avrebbe ricevuto le armi all’arrivo”. La Reuters ha intervistato il 18 giungo 2013 Abdul Basit Haroun, un ex capo della Brigata Martiri 17 Febbraio, che ammise di essere il facilitatore di uno dei più grossi invii di materiale bellico da Bengazi ai ribelli siriani; precisando che le armi erano spedite in Turchia, da cui venivano contrabbandate ai terroristi siriani. Secondo la testimonianza di un altro capo della Brigata, Ismail Salabi, questo Haroun s’era messo in proprio costituendo una sua milizia, poco dopo.   Aveva i mezzi, visti i milioni di dollari che entrarono nell’affare, per mezzo di Marc Turi. Naturalmente, quando poi Stevens fu attaccato e morì, si raccontò che era a Bengasi per recuperare i MANPaD (missili anti-aerei a spalla) che si sapeva erano negli arsenali saccheggiati da Gheddafi, e che i ribelli non volevano dare. Un’operazione. Ma se era meritoria, perché Chris Stevens fu lasciato trucidare e non salvato dalle Forze Speciali, che ascoltarono in diretta le disperate richieste di aiuto che gli rivolgevano, mentre sparavano assediati nella “casa sicura della Cia”, i Marines a Bengasi, quell’11 settembre 2012? Perché ricevettero l’ordine di stand down? Se non per coprire il porcilaio condotto dagli americani e dai loro terroristi preferiti? Probabilmente Stevens fu ucciso, diciamo, nel corso di un litigio per soldi fra i “ribelli” e l’americano; forse persino da elementi della Brigata che lo “proteggeva”. Si doveva proteggere Hillary. La candidata che l’intero Establishment ha scelto, e che sta cercando di imporre con tutti i mezzi contro il candidato Trump, l’inaffidabile, o l’oggetto degli odii più frenetici, “il complice di Putin” (come ha detto Leon Panetta alla convention democratica), la cui moglie “ha posato nuda”, quello che sputa sui soldati medaglie d’oro solo perché islamici.  Ho paura che le elezioni saranno truccate, ha detto Trump. E perché tutto questo? Perché, ha detto la stessa Hillary in una mail spifferata da Wikileaks, “il modo migliore di aiutare Israele contro l’Iran e la sua crescente capacità nucleare è aiutare il popolo di Siria a rovesciare il regime di Bashar Assad”. Obama non ha mai ricevuto il capo della DIA. Eppure ci sono notizie succose. Il generale Michael Flynn, già capo della DIA, ha fatto   una rivelazione più significativa delle nudità dell’ex modella moglie di Trump. Ha raccontato che Obama, pur avendo nominato lui – generale Flynn –   due volte come responsabile dell’intelligence militare, non l’ha mai voluto incontrare di persona. Mai l’ha convocato, in quattro anni.  Come ha avuto modo di spiegare   in un’altra esplosiva intervista a Seymour Hersh, Flynn avrebbe messo in guardia dalle losche operazioni che il Dipartimento di Stato, con la Cia, stava conducendo per armare i tagliagole dell’IS.  I quella stessa intervista, Flynn ha raccontato come e qualmente lui, e l’ammiraglio Dempsey allora capo degli SM Riuniti, mandarono a monte spedizioni di armi della Cia, collaborando con Putin e con Assad. Roba da corte marziale.   Se, s’intende, Obama avesse mai convocato Flynn e chiesto spiegazioni. Non l’ha mai fatto.  Non voleva sapere cosa facevano le erinni del Dipartimento di Stato, armando e finanziando i terroristi islamici che fingeva di combattere? O lo sapeva fin troppo bene? In ogni caso, giriamo la notizia alla valorosa corrispondente RAI da New York, che per 200 mila euro annui – da noi contribuenti pagati – copre quella sede prestigiosa e adora Obama, e ovviamente sostiene la Clinton contro Trump. Magari un servizietto sul generale Flynn e su come mai Obama non l’abbia mai voluto ascoltare né abbia mai letto un suo rapporto in quattro anni?  Gli diamo anche la fonte, pubblica. E gli diamo lo scoop gratis, non deve spendere nessuno dei 200 mila euro annui che riceve da noi. (Una lettura che farebbe bene anche ai giornalisti, commentatori, cattoliconi che strillano sugli “islamisti che ci sgozzano in chiesa”. Sì, quegli islamisti sono una creatura   di queste operazioni sopra descritte.   Perché non lo dite mai?). Mentre finisco di scrivere, i giornali e tg italiani sono tutti eccitati perché Obama “ha dato direttamente ordine” di bombardare “i terroristi islamici dell’IS in Libia”. Certo, bisogna ripulire i segni, gli indizi e i testimoni scomodi   di quel che fece Hillary coi ribelli, oggi IS, prima Al Qaeda, sempre un asset americano.

Ed altra condanna a morte ci attende. 

Mario Giordano su Libero Quotidiano del 1 agosto 2016 vs islamici: "Andate pure a messa, ma la verità su Maometto è questa qua" (devastante). Pubblichiamo Posta Prioritaria, la rubrica in cui Mario Giordano risponde alla missiva di un lettore. Oggi si parla della differenza tra Gesù e Maometto.

Caro Giordano, nella sua “posta prioritaria” lei, oltre ad apprezzare giustamente quanto scritto dalla lettrice Marina Pacini, le risponde evidenziando due differenze fondamentali tra cristianesimo e islam: il cristianesimo ha avuto un Nuovo Testamento che ha superato il Vecchio Testamento e ha un Papa che ne dà l’interpretazione valida per tutti i cristiani. È quello che tutte le persone colte sostengono ma, a parer mio, sono due cose ineludibili per i teologi ma superflue per i fedeli. Il Cristianesimo è nato quando Cristo è sceso in terra e ha detto «Ama il prossimo tuo come te stesso» e «Non fare ad altri ciò che non vuoi venga fatto a te»: con queste semplici ed inequivocabili parole ha cancellato, emarginato tutta la violenza contenuta nei precedenti testi sacri indicando, da quel momento in poi, la strada per separare il bene dal male. Tutto il resto è teologia, importantissima, ma teologia: quello che conta è Cristo con la sua parola che non può essere fraintesa. Confrontare cristianesimo e islam sulla base di disquisizioni interpretative è deviante e può divenire, grazie alla cultura dei “contendenti”, tanto cavilloso da perdere di vista la realtà: Cristo ha predicato la pace, Maometto no. Punto. Nessuno può uccidere in nome di Cristo (anche se è stato fatto, bestemmiando le sue parole), chiunque può uccidere in nome di Maometto citando le sue parole. Punto. Roberto Bellia, Vermezzo.

Grazie Roberto per la sua precisazione. È davvero chiara, molto più chiara di come sono stato io in quelle poche righe che mi erano rimaste alla fine dell'elenco delle sure improntate alla violenza del Corano. Lei ha ragione da vendere, in effetti: è vero che in passato sono stati commessi crimini orrendi in nome del cristianesimo, ma il cristianesimo è e resta una religione di pace, così come è una religione di pace il buddismo. Ci potrà pur essere qualche svitato nel mondo che uccide proclamandosi buddista, ma la religione buddista resta in ogni modo una religione di pace. Allo stesso modo ci sono stati troppi cristiani che hanno ucciso in nome di Cristo, ma il messaggio di Cristo è «Ama il prossimo tuo come te stesso». Quello di Maometto no. Quello di Maometto è un messaggio di violenza e di morte. E non rendersene conto, o illudersi soltanto perché un gruppetto di musulmani fa finta di andare a messa alla domenica, non è soltanto molto sbagliato. È soprattutto, come ripetiamo da tempo, temo inutilmente, molto pericoloso...Mario Giordano.

"Corano, leggetevi questa roba...": Mario Giordano il 30 luglio 2016, furia contro il libro sacro. Pubblichiamo Posta Prioritaria, la rubrica in cui Mario Giordano risponde alla missiva di un lettore. Oggi si parla di islam e delle più agghiaccianti sure del Corano, dove si predica morte e conquista.

Caro Giordano, il Papa dicendo che le vere religioni sono di pace, ha dimostrato di non conoscere il Corano e neppure il Vecchio Testamento che è pieno di violenza. O forse lo sa ma continua a tenerci calmi come quelli che suonavano sul Titanic. Continuiamo dunque a inneggiare i nostri valori, che sono quelli che ci fanno accogliere amorosamente questi invasati. Le mando qualche sura del Corano...Marina Pacini, Lucca.

La ringrazio, cara Marina, e riporto una parte del suo agghiacciante elenco.

* Circa gli infedeli (coloro che non si sottomettono all'Islam), costoro sono «gli inveterati nemici» dei musulmani [Sura 4:101]. I musulmani devono «arrestarli, assediarli e preparare imboscate in ogni dove» [Sura 9:95]. I musulmani devono anche «circondarli e metterli a morte ovunque li troviate, uccideteli ogni dove li troviate, cercate i nemici dell'Islam senza sosta» [Sura 4:90]. «Combatteteli finché l'Islam non regni sovrano» [Sura 2:193].

«Tagliate loro le mani e la punta delle loro dita» [Sura 8:12]

* Se un musulmano non si unisce alla guerra, Allah lo ucciderà [Sura 9:93]. 

* I musulmani devono far guerra agli infedeli che vivono intorno a loro [Sura 9:123]

* I musulmani devono essere «brutali con gli infedeli» [Sura 48:29]

* Un musulmano può uccidere ogni persona che desidera se è per «giusta causa» [Sura 6:152]

* Allah ama coloro che «combattono per la Sua causa» [Sura 6:13]. Chiunque combatta contro Allah o rinunci all'Islam per abbracciare un'altra religione deve essere «messo a morte o crocifisso o mani e piedi siano amputati da parti opposte» [Sura 5:34]

* «Chiunque abiuri la sua religione islamica, uccidetelo». [Sahih Al-Bukhari 9:57]

* «Assassinate gli idolatri ogni dove li troviate, prendeteli prigionieri e assediateli e attendeteli in ogni imboscata» [Sura 9:5]

* «Prendetelo (l'infedele n.d.t.) ed incatenatelo ed esponetelo al fuoco dell'inferno» [Sura 69:30]

* «Instillerò il terrore nel cuore dei non credenti, colpite sopra il loro collo e tagliate loro la punta di tutte le dita» [Sura 8:12]

* «Essi (gli infedeli ndr) devono essere uccisi o crocefissi e le loro mani ed i loro piedi tagliati dalla parte opposta» [Sura 5:33]

(Qualcuno osa ancora dire che l’Islam è una religione di pace? Aggiungo solo un dettaglio non irrilevante: anche nell’Antico Testamento ci sono frasi ispirate alla violenza. Ma poi c’è il Nuovo Testamento che lo reinterpreta e la Chiesa cattolica che ne dà la lettura ufficiale, valida per ogni cristiano. Nell’Islam, come è noto, invece…)

"...allora creperemo tutti". Islam, c'è solo una possibilità: la cupa profezia di Mario Giordano su “Libero Quotidiano del 28 luglio 2016. Un altro mattacchione? Un altro pazzo isolato? Un altro depresso? E adesso come reagirà l'Europa di fronte a un prete sgozzato in chiesa, mentre dice messa, da due islamici che gridavano Allah Akbar? Organizzerà un convegno di psichiatri? Si affiderà agli antidepressivi? Più Prozac per tutti? Continueranno a raccontarci la favoletta dei malati di mente che in quest' estate 2016, anziché mettersi in testa il cappello di Napoleone, vanno in giro a massacrare cristiani? Insisteranno con le bugie, le minimizzazioni, «per favore», «non generalizziamo», «i profughi non c' entrano nulla», «l'Islam? Figuriamoci», «la nostra risposta sono le porte aperte» e già che ci siamo «inauguriamo una mezza dozzina di moschee»? Davvero faranno così? Ce lo dicano, perché nel caso prepariamo il collo: se non ci difenderemo, infatti, finiremo presto tutti sgozzati. Proprio come quell' anziano sacerdote sull' altare di Saint-Etienne-du-Rouveray. Il tempo è scaduto, ne abbiamo perso fin troppo in chiacchiere e dibattiti da salotto. Adesso siamo arrivati all'ora della scelta: o si combatte o si muore. O si capisce che c' è una guerra di religione in corso o siamo già stati sconfitti. L'abbiamo già scritto tante volte, ma adesso il nemico ha alzato il tiro: l'attacco a una chiesa, durante una messa, con i fedeli e le suore prese in ostaggio, il prete scuoiato come un agnello sacrificale sotto il crocifisso, nel pieno dell'Europa cristiana, ebbene: un atto del genere dovrebbe aprire gli occhi anche ai più ottusi. Che aspettiamo ancora? Che ci vengano a sgozzare nel Duomo di Milano? Nella basilica di Assisi? O magari sotto il Cupolone di San Pietro? Il messaggio è già chiaro. Vi ricordate la bandiera nera che sventolava sul Vaticano? Vi ricordate i cristiani copti uccisi sul bagnasciuga della Libia per insanguinare il nostro mare? Vi ricordare le minacce del Califfo, che ripeteva «arriveremo a Roma per uccidere tutti gli infedeli»? Sembravano esagerazioni, paradossi, boutade. Invece l'attacco è in corso. Houellebecq ha sbagliato tutto: la sottomissione non avverrà in maniera pacifica, ma con le armi in pugno, non ci conquisteranno con democratiche elezioni ma con il coltello per le decapitazioni. Di che cosa abbiamo ancora bisogno per convincercene? Finora, fateci caso, hanno mantenuto tutte le promesse. Anche nelle ultime settimane. Avevano annunciato attacchi in Francia, e così è stato. Avevano annunciato attacchi in Germania, e così è stato. Avevano annunciato attacchi in riva al mare, e c' è stata la strage sulla passeggiata di Nizza. Avevano annunciato che sarebbe stata un'estate di sangue, e così purtroppo è. Sono assassini, questi islamici, ma non cialtroni. A modo loro, sono persone di parola: dicono che vogliono tagliare le teste, e zac, lo fanno. Dicono che vogliono distruggere i cristiani, e zac, rispettano l'impegno. Non mancano mai l'appuntamento con la morte, che per loro, per altro, significa vergini in fiore e fiumi di latte. A noi lo sgozzamento, a loro il paradiso. E di fronte a questo attacco frontale, davanti a questa offensiva violenta e spregiudicata, l'Europa dei tremebondi che fa? L' avete sentita in questi giorni: discute di pazzia, follia, gesti isolati, minimizza, specifica, precisa, si perde nei distinguo, organizza sessioni plenarie sulle teorie dei discendenti di Freud, si autoflagella, si colpevolizza, esulta se trova che un assassino (iraniano) ha in casa una foto di Breivik («lo vedete: i cattivi siamo noi»), erige processi sulla diffusione delle armi, come se le armi sparassero da sole, «ah signora mia non sa com' è facile procurarsi una pistola» (in effetti, in Europa non tanto: ma per un coltello basta entrare in cucina), si comporta come se la colpa delle sparatorie fosse delle fabbriche di pistole e la colpa degli sgozzamenti delle coltellerie. Alcuni giornali hanno persino messo sotto processo i videogiochi (lo giuro: i videogiochi). Tutto pur di non dire la piatta e brutale verità: il Corano ordina, i musulmani sgozzano. È la guerra santa dell'Islam. Questa verità sta lì da tempo, sotto i nostri occhi, oggi è rossa come il sangue di quel sacerdote. Ma noi non vogliamo ammetterla. Preferiamo raccontarci balle, nascondere la verità, come hanno fatto ripetutamente in questi giorni il governo francese, e forse anche quello tedesco. Preferiamo non dire quello che sappiamo, e cioè che è in atto un attacco coordinato e organizzato contro di noi. Preferiamo chiudere gli occhi, liberare dalle carceri soggetti pericolosi, come uno di due assalitori della Normandia, come i terroristi appena usciti a Bari, come tanti altri, preferiamo esporci al rischio della morte piuttosto che al rischio della verità. È pazzesco: sembra quasi che la civiltà occidentale, oggi, scelga di farsi ammazzare piuttosto che ammettere di dover fare i conti con la religione islamica. Sceglie di soccombere piuttosto che ammettere che i sacri principi della tolleranza e del dialogo non possono funzionare sempre, perché se qualcuno ti vuole uccidere non basta sventolargli in faccia la bandiera della pace. È così duro prenderne atto che andiamo diritti verso la macellazione avvolti dal nostro morbido involucro di bugie. Anche ieri, le prime dichiarazioni dopo lo sgozzamento del prete, sono andate in questa direzione. Il premier francese ha parlato di «barbaro attacco», il Papa ha «condannato l'odio». Come vedete, manca una parola, sempre la stessa. Non sono stati i marziani ad attaccare ma gli islamici, l'odio non nasce sotto il cavolo ma dentro le moschee. Noi continuiamo a tacerlo. E perciò finiremo tutti come padre Jacques, 58 anni di sacerdozio, lacerati con una lama al collo, mentre celebrava la messa del mattino nella sua chiesa in Normandia. Se il Papa avesse le palle, lo dovrebbe proclamare santo subito. San Jacques Martire, ucciso per difendere la nostra fede dall' aggressione dei seguaci di Allah. Suona anche bene. Suona ormai un po' inutile, però. Mario Giordano 

L'altro volto della storia: l'attacco della massoneria alla civiltà cristiana, scrive Francesco Pio Meola. La nota di Giorgio Vitali. "L'articolo qui sotto, pur provenendo da ambienti del conservatorismo cattolico, è esemplare e assolutamente degno di essere preso in considerazione per le sue implicazioni storiche e politiche. In effetti, per chi vuole fare politica, queste conoscenze sono essenziali, nella misura in cui si riesce con facilità ad individuare le linee di condotta che motivano certi personaggi della politica e quanto di una qualsiasi iniziativa in campo politico nazionale o comunitario la componente "ideologica" primaria sia quella maggiormente determinante nei confronti di una quasi sempre poco probabile, necessità "contingente". Che a motivare i singoli "uomini politici" ad iniziative di grande respiro pubblico siano l'appartenenza a gruppi iniziatici con le loro credenze e le loro pratiche, è ampiamente dimostrato l'appartenenza di questi "politici" a particolari organizzazioni più o meno occulte. Ma il fatto che queste associazioni siano "occulte" non significa nulla, perchè anche gli Organismi, specie quelli internazionali e/o comunitari sono composti da individui selezionati sulla base dell'appartenenza a queste organizzazioni. Non solo, in un libro che consiglio vivamente, ("L'altra Europa", di Giorgio Galli e Paolo Rumor, ed. Hobby & Work, 2010, euro 16,50) si dimostra con documenti attendibili l'appartenenza a gruppi esoterici di varia natura dei cosiddetti "creatori dell'UE". In particolare il "cattolico" Maurice Schumann. Un altro particolare importante è costituito da Giorgio Galli, famoso politologo, anzi il primo vero politologo italiano, che per decenni ha fatto della politologia un elemento di analisi della realtà nazionale e geopolitica. Questo illustre professore universitario, già di area socialcomunista, giunto alla fine della carriera, ha maturato l'esigenza di approfondire gli aspetti "esoterici" dei rapporti politici sia nazionali che comunitari o internazionali. Ciò significa che, partendo con intelligenza dall'analisi di superficie degli avvenimenti, alla fine ha dovuto confrontarsi con una realtà ben più profonda di quanto la sua cultura d'impostazione materialiste e razionalista gli permettesse di "vedere". Nel suo intervento pubblicato nel libro sopra citato, trovandosi a trattare della "Storia", che è una componente essenziale della base culturale su cui si costruisce il comportamento delle èlites, egli scrive: «... La storia, come teoria del comportamento umano, comprende non solo la "decostruzione", ma anche la "costruzione" del mito». In altre parole, è la storia che costruisce il mito, perchè gli storici sono persone per lo più motivate dalla necessità di diffondere specifici "miti", come possiamo ben vedere in questi decenni post- secondo conflitto mondiale, caratterizzati dalla costruzione di miti dal nulla documentale. Infine è necessario ricordare che in un'opera recente, dedicata al movimento teosofico d'inizio novecento, scritta da Marco Pasi dell'Università di Amsterdam, ("Teosofia ed Antroposofia nell'Italia del primo novecento", in Annale 25 della Storia d'ItaliaEinaudi, dedicata all'Esoterismo) si dimostra quanto un movimento come quello citato, poco conosciuto e valutato fino ad oggi, ad esclusione dei seguaci dell'Antroposofia, che aumentano sempre a livello mondiale a fronte delle constatate conferme scientifiche e tecniche legate a quell'impostazione culturale, o dei lettori di "Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo " di J. Evola (prima ed. Bocca, 1931), abbia invece permeato tutti gli aspetti della cultura italiana, dal Futurismo al Fiumanesimo, fino all'elaborazione della pedagogia montessoriana ed all'istituzione del corso universitario di Storia delle Religioni e dello Studio comparato di Storia delle Religioni voluto da Raffaele Pettazzoni che scrisse anche "Teosofia e Storia delle Religioni", per finire col noto Balbino Giuliano, ministro nel 1929, autore del famoso decreto sul "giuramento dei professori". Su questa capacità di una specifica cultura nell'influenzare il corso dei pensieri di una o più generazioni, creando anche èlites capaci di imporre la loro ideologia, sarà utile riprendere il dibattito." Giorgio Vitali.

La massoneria è una setta segreta le cui origini risalgono alle corporazioni medievali inglesi e tedesche dei liberi muratori (operativa). La Massoneria moderna (speculativa) s'ispira agli ideali razionalisti e illuministi di Libertà, Uguaglianza e Fratellanza. Fu fondata a Londra il 24 giugno 1717 dal rifugiato ugonotto Thèophile Desaguliers e dal pastore anglicano James Anderson, i quali riassunsero i suoi principi nelle cosiddette Costituzioni. Essa trae origine anche e soprattutto da un patrimonio di scienze occulte che vanno dalla magia egizia e rinascimentale all'ebraismo cabalistico-talmudico, dal platonismo al Manicheismo, dalla tradizione Rosa Croce al vecchio paganesimo naturalista, dall'astrologia alla teosofia, dall'alchimia ad altre fisime minori. Contiene elementi delle vecchie eresie cristiane e si basa sulla fisica newtoniana. E'chiaro come questo concentrato di dottrine esoteriche non poteva che provocare la scomunica della Chiesa, che l'ha condannata per quasi ben 580 volte, detenendo il primato assoluto. L'insieme di tutte queste tradizioni trova unità nella Gnosi. Essa è una speciale conoscenza religiosa dalla quale per rivelazione, indipendentemente dalla fede e dalle opere, deriva la salvezza, ossia da una sorta di "illuminazione", riservata solo a pochi iniziati. Si noti come questa idea sia radicalmente contraria alla fede cattolica, la quale invece proclama che la salvezza è accessibile a tutti. La Gnosi pretende di concepire il reale come qualcosa di totalmente negativo, per cui viene, di conseguenza, la necessità di aspirare a una sorta di palingenesi, di trasformazione totale, da cui potrà realizzarsi un mondo completamente nuovo, e in cui potrà vivere un uomo completamente nuovo, contrassegnato da una perfetta autosufficienza (C. Gnerre). Il fenomeno gnostico è come un fiume carsico, ritornando improvvisamente in auge nelle varie epoche storiche. Pensiamo alle vecchie eresie cristiane, a quella catara soprattutto, la più pericolosa, al modernismo e a tutte le religioni diverse dalla cattolica o ortodossa, Islam e Giudaismo compresi. Lo gnosticismo sostiene l'opposizione tra lo spirito (il bene) e la materia (il male). Gli gnostici sostengono che un Dio buono non può aver creato un mondo così malvagio, quindi la sua creazione è da disprezzare, mentre il principio del male, Satana, sarebbe il dio buono, il serpente che sedusse Eva e che indusse al peccato Adamo. Da qui la leggenda massonica di Adamo come "primo iniziato", e come lui sono considerati Gesù, S. Giovanni Battista (la Massoneria è nata il 24 giugno), Mosè, Maometto, Buddha, S. Francesco, Lutero, ecc . Per quanto riguarda Cristo e il Battista basta pensare alle folli elucubrazioni gnostiche del "Codice da Vinci" del seguace New Age Dan Brown, mentre S. Francesco oggi è considerato un profeta pacifista ed ecologista. Furono invece influenzati dalla gnosi Lutero, Buddha e Maometto. Mons. Leone Meurin, un sacerdote francese del XIX sec, per tutti questi motivi nella sua opera "La Frammassoneria sinagoga di Satana", considerava la Gnosi il culto di Lucifero, l'angelo decaduto portatore di luce, l'illuminato, il più grande iniziato. In molti testi esoterici Lucifero è accostato a Prometeo, la figura mitologica ribelle a Zeus che voleva donare il fuoco agli uomini, a Dioniso, dio dell'orgia e del divertimento sfrenato, al buddha, inteso come l'individuo iniziato ("buddha" significa appunto "l'illuminato"). I massoni usano chiamarsi tra loro "fratelli"; si distinguono in vari gradi, tra i quali gli apprendisti, i compagni, i maestri, i sublimi cavalieri eletti, i grandi maestri architetti, ecc. Si raccolgono in logge presiedute da un venerabile; più logge associate costituiscono una gran loggia, presieduta da un gran maestro, mentre nell'ambito di uno Stato tutte le logge dipendono da un grande oriente. La Massoneria venera un dio impersonale (il "Dio orologiaio" degli illuministi) chiamato Grande Architetto dell'Universo o Essere Supremo. Essa ha vari riti e obbedienze. Tra i riti più importanti ricordiamo quello scozzese, inglese, nazionale spagnolo, egizio (detto anche di Menfi e Misraim), simbolico italiano, swedemborghiano, noachita, ecc. Il più importante è quello scozzese, che si rifà all'esoterismo templare e ha 33°, tra cui i più alti sono quelli dal 18° in poi. Quando si parla di templarismo in massoneria in realtà viene ripresa una tradizione in parte errata, scorretta e diffamatoria. L'obbedienza più importante al mondo è quella che fa capo alla Gran Loggia Unita d'Inghilterra, detta anche "Sancti Quatuor Coronati", che ha per gran maestro il duca di Kent (attualmente è il principe Edoardo Windsor). Per le sue posizioni deiste, non riconosce la maggiore obbedienza francese, il Grande Oriente di Francia, che è violentemente antireligiosa e ammette anche gli atei. Le massonerie scandinave hanno una particolarità: riconoscono come gran maestro il re dei loro rispettivi stati; ad esempio in Svezia è l'attuale re Carlo Gustavo XVI. Esistono anche massonerie esclusive come la Prince Hall negli USA che ammette solo personalità afroamericane, di cui ne fa parte il presidente americano Barack Obama, oppure la B'nai B'rith, riservata ai soli ebrei. Caratteristiche fondamentali delle logge sono la segretezza e l'esclusione delle donne, anche se ci sono obbedienze rigorosamente femminili o addirittura miste come la Gran Loggia d'Italia di piazza del Gesù. L'Inghilterra di inizio '700 era vista dalla nobiltà liberale europea un faro di civiltà, soprattutto per il suo ordinamento monarchico-costituzionale. Le caste aristocratiche illuminate anglofile erano ambiziose e gelose delle prerogative tradizionali dei re e volevano limitarle. Si studiavano i principi costituzionali britannici con l'ansia di esportare gli ideali illuministi. La nobiltà europea era affascinata dal costituzionalismo, dal deismo, dalla tolleranza religiosa e dal liberismo economico. Insieme a tutte queste suggestioni provenienti da oltre Manica, cominciò a diffondersi la massoneria, dapprima in Olanda, Francia, Germania (Hannover) e poi negli altri paesi europei, tra cui l'Italia; il primo libero muratore italiano fu il medico beneventano Antonio Cocchi, iniziato a Firenze nel 1732 alla loggia detta "degli Inglesi". In Francia uno degli esponenti dell'aristocrazia anglofila fu il barone Charles de Montesquieu, grande teorico del liberalismo e del costituzionalismo, uno dei padri riconosciuti dell'Illuminismo. La Massoneria francese cominciò quasi subito a rivendicare una certa autonomia, ispirandosi all'esoterismo templare e dandosi un'impostazione di tipo cavalleresca; raccoglieva gli esponenti nobili e alto-borghesi riformatori che si fecero portavoce di quel clima culturale che portò alla stagione dell'enciclopedismo illuminista che ha avuto per protagonisti Diderot, D'Alembert e Voltaire. La critica enciclopedista attaccava la società di Ancièn Règime, la Chiesa Cattolica, vista come fonte di oscurantismo, pregiudizi e superstizione, i privilegi nobiliari che causavano diseguaglianze, la storia passata, considerata inutile e piena di errori; esaltava invece il pensiero scientista, la libertà in tutte le sue forme, l'uguaglianza sociale, il progresso in tutti i campi, la fratellanza tra gli esseri umani e il potere illimitato della ragione, identificata come strumento infallibile di indagine della realtà. Lo spirito corrosivo dei liberi pensatori, impregnato di razionalismo e di scetticismo antireligioso, provocò nel 1738 la scomunica da parte della Chiesa, con la bolla di papa Benedetto XIV. In quegli anni la Massoneria prendeva sempre più, soprattutto in Francia, una piega politica radicale e antidispotica; in Inghilterra si tenne invece favorevole al mantenimento dell'ordine costituzionale, appoggiando il partito liberale whig. Intanto però le logge si diffusero anche nelle colonie americane. Nel 1751 fu pubblicato quel feroce manifesto anticristiano che fu l'Enciclopedia di Diderot e D'Alembert, diretta emanazione delle logge che preparò una forte ostilità nei confronti della tradizione e del cattolicesimo. Un altro illuminista franco-svizzero, Rousseau, teorizzò la "democrazia totalitaria", ossia il rovesciamento violento dell'ordine costituito in favore di un governo popolare, in cui la moltitudine avrebbe delegato il potere a propri rappresentanti in grado di interpretare "la volontà generale", in pratica la prefigurazione del Terrore giacobino della Rivoluzione francese. Nel periodo pre-rivoluzionario furono pubblicati migliaia di libri, pamphlet, riviste, giornali, tutti tesi a screditare e a diffamare la Corona di Francia e la Chiesa cattolica. Il 1776 fu l'anno dell'indipendenza delle 13 colonie americane dalla madrepatria inglese; i capi del movimento anticoloniale da George Washington a Thomas Jefferson, da Benjamin Franklin a John Adams, erano tutti massoni. Il marchese francese di La Fayette, che era un "fratello" e aveva combattuto a loro fianco, sperava che un giorno anche in Francia si potesse lottare per gli ideali rivoluzionari. La Massoneria francese nel frattempo infiltrava suoi uomini nelle istituzioni ecclesiastiche e a corte: il banchiere ginevrino Jacques Necker, ministro delle finanze di Luigi XVI, il cugino del re, il duca Filippo d'Orléans, detto in seguito anche Philippe Egalitè, per il suo acceso fervore rivoluzionario, Jacques Roux , soprannominato il "curato rosso", e l'abate Sieyès. Obiettivo principale era disintegrare il sistema dal di dentro. L'anno stesso della Rivoluzione americana, il 1° maggio 1776 fu fondata a Ingolstadt, grazie all'appoggio finanziario dei banchieri Rothschild, la società segreta cospiratoria degli "Illuminati di Baviera". Il capo di questa potente e pericolosa organizzazione era un ex gesuita discendente da una ricca famiglia di ebrei convertiti, Adam Weisshaupt. Feroce anticattolico, era seguace dell'Illuminismo ateo e materialista ma allo stesso tempo coinvolto nell'occulto, in particolare della tradizione rosacrociana e templare. L'obiettivo della setta era distruggere le monarchie cattoliche o comunque cristiane e il papato, al fine di instaurare una "repubblica universale". Il disegno dei Rothschild era conquistare tutte le nazioni e assoggettarle al potere delle banche e della finanza, nonché stampare privatamente le monete nazionali (signoraggio). Il loro patrimonio era stimabile di gran lunga superiore alla ricchezza dello stesso re di Francia; erano la famiglia più potente dell'epoca. I congiurati di Weisshaupt entrarono nella massoneria ufficiale. Lo storico Alan Stang attesta che nel 1788 tutte le 266 logge del Grande Oriente di Francia erano sotto il controllo degli Illuminati; il gran maestro era diventato Filippo di Orleans. L'ossessione degli Illuminati era vendicare la condanna a morte dell'ultimo gran maestro templare Jacques De Molay (di cui si dicevano continuatori), fatto giustiziare da re Filippo IV il Bello di Francia il 13 ottobre 1314; il loro progetto era sterminare la "razza dei Capeti", i Capetingi. Prima e durante la Rivoluzione, i massoni si riunivano intorno alla tomba di De Molay per celebrare rituali esoterici e giuramenti di vendetta. Il boia che giustiziò materialmente il 21 gennaio 1793 Luigi XVI era un discendente dell'ultimo gran maestro dell'Ordine del Tempio. Con questo orrendo delitto i giacobini dell'Illuminato di Baviera Maximilien Robespierre scatenarono una feroce persecuzione contro i loro nemici, i controrivoluzionari, accanendosi in particolar modo proprio contro quel popolo di cui tanto si facevano paladini, che invece voleva rimanere fedele ai Borbone e alla Chiesa. La persecuzione antireligiosa era cominciata in maniera più blanda già dopo il 14 luglio 1789, ma con il Terrore giacobino raggiunse vette molto più alte. Beni confiscati, ruberie di stato, chiese distrutte e incendiate, ostie e reliquie profanate, preti imprigionati e massacrati, suore stuprate e uccise, credenti umiliati e trucidati, in nome degli "immortali" principi di Libertè, Egalitè, Fraternitè. Da non dimenticare l'orribile genocidio della Vandea (130.000 morti), che disgustò perfino Babeuf e Napoleone, ma di cui nessuno parla. Questa regione doveva diventare, nelle parole del generale giacobino Westerman, un "cimitero nazionale". Il furore spietato e distruttivo contro la Vandea si spiegava perché era la regione più religiosa e lealista della Francia. P. Augustine Barruel scrisse chiaramente in una sua opera che gli Illuminati avevano complottato contro il Trono e l'Altare. Erano membri della setta Robespierre, il duca di Orléans, Necker, La Fayette, Barnave, il duca di Rouchefoucault, Mirabeau, Fauchet, Clootz e Talleyrand, e appartenevano al Grande Oriente di Francia tutti i principali capi rivoluzionari: Sieyès, Saint-Just, Marat, Danton, Desmoulins, Hèbert (l'ideatore della "scristianizzazione") e Brissot. La scristianizzazione portata avanti da Hèbert, accanitamente antireligiosa, non trovò l'appoggio di Robespierre, che sostenne e impose il culto dell'Essere Supremo e della Dea Ragione. Il capo giacobino sperava in tal modo di rendere "popolari" i principi massonici. All'Ente Supremo, equivalente del Gadu, fu conferito come simbolo un grande e robusto albero, una quercia, che alla fine rappresenta la Natura; notiamo bene che questo simbolo pagano era lo stesso che campeggiava sullo stemma del Pds di Achille Occhetto, che nel 1991 aveva appena abbandonato il vecchio nome di Pci. Alla Dea Ragione fu data l'immagine di una donna con il petto scoperto dove spunta l'occhio onniveggente, altro simbolo cabalistico ed esoterico. Che la Rivoluzione francese fosse influenzata dalla massoneria è dimostrato da più parti: basta controllare il frontespizio dell'Enciclopedia e le fedeli riproduzioni della Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino, dove le allegorie massoniche sono evidentissime. La reazione del 9 Termidoro che portò alla ghigliottina Robespierre e i suoi seguaci il 27 luglio 1794, segnò l'ascesa al potere dei gruppi borghesi liberal-moderati. Intanto le frange più estremiste si organizzavano, e un triumvirato ultragiacobino composto da Gracco Babeuf, Filippo Buonarroti e Silvain Marèchal, tutti e tre massoni, diede vita alla Congiura degli Eguali del marzo-maggio 1797. La cospirazione fu soffocata nel sangue e Babeuf condannato a morte. Buonarroti e Marèchal continuarono nel segreto la loro attività rivoluzionaria, fornendo insieme a Jakob Kats, un patrimonio politico di rilevante importanza, perché questi gruppi proto comunistici furono gli antesignani diretti del socialismo marxista. L'ascesa di Napoleone Bonaparte segnò l'inizio della conquista massonica dell'Europa. L'esercito francese disseminava logge in tutti i territori occupati, Italia compresa. Il 20 giugno 1805 nacque a Milano il Grande Oriente d'Italia, la più grande obbedienza della penisola, però non riconosciuta dalla Loggia Madre di Londra. In quel periodo nacque anche la Carboneria, una metamorfosi rurale della Massoneria, che ebbe come gran protettore il cugino di Napoleone, Gioacchino Murat, "re" di Napoli e delle Due Sicilie. Scopo delle società segrete italiane era "liberare" l'Italia dai vecchi Stati feudali e dalla Chiesa cattolica. Possiamo scorgere l'azione della Massoneria dietro tutte le rivoluzioni in Europa e in America del 1820-21, 1825, 1830-31 e del 1848. Il Risorgimento italiano, guidato dal massone Cavour e aiutato dai "fratelli" Mazzini, Garibaldi, Manin, D'Azeglio e tanti altri, portò alla "indipendenza" italiana nel 1861. Lo Stato Pontificio fu conquistato solo il 20 settembre 1870 con la breccia di Porta Pia per opera dei bersaglieri dell'esercito sabaudo, nonostante l'eroica resistenza di papa Pio IX, spesso ingiustamente accusato dalla storiografia progressista come un anti-italiano. Anzi, esisteva un progetto dello stesso pontefice volto ad unificare in maniera federativa gli Stati italiani, onde evitare il pericolo di una rivoluzione laicista e anticlericale. Fatto sta che dal 1870 al 1929 il papa è stato prigioniero in Vaticano e che dal 1861 al 1922 il Regno d'Italia è stato governato da un regime oligarchico e liberal-massonico, nonostante il patto Gentiloni-Giolitti del 1913. Dalle società segrete socialiste francesi che avevano dato vita alla congiura di Babeuf emigrate in Germania, nacque nel 1834 la Lega dei Proscritti. Questi gruppi cospiratori discendevano in linea diretta dagli Illuminati di Weisshaupt. Nel 1836 ci fu una scissione all'interno dei Proscritti; nasceva così la Lega degli Uomini Giusti. Nel 1840 circa, entrarono a far parte di questo gruppo Kiessel Mordechai Levi, alias Karl Marx e Friederich Engels, i padri del comunismo. Marx, secondo la notizia riportata sulla rivista massonica italiana "Hiram" il 1° maggio 1990, fu iniziato alla loggia "Apollo" di Colonia. Nel 1847 gli Illuminati inglesi affidarono ai due filosofi il compito di rielaborare i principi di Weisshaupt e Babeuf in forma nuova e scientifica, mentre i fondi necessari per la pubblicazione del "Manifesto Comunista" del 1848 provennero da Clinton Roosevelt e Horace Greely (avo di Hjalmar Schact, ministro dell'economia del Terzo Reich), entrambi membri della loggia "Columbia", fondata a New York dagli Illuminati bavaresi. Le agitazioni rivoluzionarie fomentate da comunisti, socialisti, anarchici e radical-democratici sfociarono nella Comune di Parigi del 1871, un violento rivolgimento politico indirizzato contro il governo del conservatore Adolphe Thiers. La rivolta fu domata in poche settimane. A cavallo tra l' '800 e il '900 i principali governi europei e americani erano anticlericali, soprattutto la Francia e l'Italia, egemonizzati da partiti liberal-moderati, progressisti e radical-socialisti. Durante la cosiddetta "belle èpoque" (1900-1914) le logge studiavano come disfarsi dei governi autocratici che ancora resistevano dopo le ondate rivoluzionarie ottocentesche; gli obiettivi da abbattere erano l'Impero Austro-Ungarico, la Germania del Kaiser, la Russia zarista (sconvolta da attentati e moti fino a prima del 1914), ma anche la Turchia Ottomana. L'odio di grembiulini e rivoluzionari era concentrato soprattutto contro gli Asburgo d'Austria, visti come eredi dei Carolingi e del Sacro Romano Impero Germanico, fondatore dell'Europa cristiana. L'Impero asburgico era multietnico e si volevano strumentalizzare le rivendicazioni per l'indipendenza di alcune nazionalità: i serbi ortodossi alleati della Russia, i cechi, gli slovacchi, ma anche l'élite ebraica che mal sopportava essere governata da una dinastia cattolica. Gli ebrei sostenevano il Partito Socialdemocratico, guidato dal loro correligionario Viktor Adler, il cui figlio Friederich uccise il primo ministro Stürgkh. La Massoneria internazionale voleva un grande scontro sul continente che avrebbe dovuto portare alla federazione repubblicana degli Stati europei. Il 28 giugno 1914 il terrorista ebreo serbo Gavrilo Princip appartenente alla società segreta della "Mano Nera" e alla setta democratica "Giovane Serbia", uccise l'erede al trono d'Austria il granduca Francesco Ferdinando e la moglie a Sarajevo, provocando lo scoppio della Prima guerra mondiale. Gli schieramenti erano questi: da una parte gli Imperi centrali, Austria - Ungheria, Germania e Turchia Ottomana, dall'altra la Triplice Intesa che comprendeva Inghilterra, Francia, Russia (poi costretta ad abbandonare per lo scoppio della Rivoluzione bolscevica) e più tardi Italia e Stati Uniti. La Grande Guerra si concluse con la vittoria delle potenze massoniche e la distruzione dei vecchi imperi europei. L'Austria – Ungheria fu smembrata e la Germania umiliata. Ottennero l'indipendenza la Cecoslovacchia, guidata dai "fratelli" Beneš e Masaryk, la Polonia, l'Ungheria e il Regno di Jugoslavia. L'Impero Ottomano fu lentamente logorato all'interno con la presa del potere dei "Giovani Turchi" nel 1908, una setta democratica modernizzante i cui membri risultavano affiliati alla loggia "Macedonia Resurrecta" di Salonicco. Il governo massonico turco pianificò il genocidio armeno nel 1915; furono trucidati 1.500.000 di armeni. Con la fine del conflitto l'Impero si sfaldò. Nel 1923 il generale massone Kemal Atatürk abolì definitivamente il sultanato; nasceva così la Repubblica di Turchia, profondamente occidentalizzata e proiettata verso l'Europa. La Russia fu sconvolta dalla Rivoluzione di febbraio che spodestò lo zar Nicola II, guidata dai massoni L'vov e Kerenskij, affiliati alla Gran Loggia di Russia. La rivolta di febbraio ebbe un carattere liberale e socialdemocratico. Ma il 25 ottobre successivo il potere fu preso dai comunisti bolscevichi, capitanati dagli altrettanti "fratelli" Lenin, Trotzkij, Zinov'ev, Parvus, Litvinov, Bucharin, Sverdlov, Lunačarskij, Radek, Rakowskij, Krasin, tutti iniziati al Grande Oriente di Francia; è forse da escludere l'appartenenza di Stalin, il quale non risulta affiliato. Lenin fu iniziato a Parigi nel 1908 alla loggia "Union de Bellevillle" e ottenne il 31° grado. Il governo sovietico del 1920 era molto particolare: su 21 Commissari del Popolo 17 erano di origine ebraica; su 545 funzionari di Stato, 447 erano ebrei. In effetti la comunità israelitica vedeva di buon occhio la Rivoluzione nel paese degli zar. Non è un mistero che essa fu finanziata da ambienti ebraici anglosassoni nordamericani ed europei contigui alla B'nai B'rith tramite Parvus (Rockefeller, Morgan, Kuhn & Loeb, Rothschild, Schiff, Warburg). Molti correligionari però, appartenenti alla piccola borghesia, furono ferocemente perseguitati e spogliati dei beni perché conservatori e fedeli al vecchio regime. La "Civiltà Cattolica", autorevole rivista dei gesuiti, parlò di un complotto giudaico-massonico-bolscevico. Il governo comunista di Russia è stato il primo a legalizzare la pratica genocida dell'aborto, voluto dal Commissario del Popolo agli Affari Familiari Goichberg su pressione di Lenin, ispirato a sua volta dal "miliardario rosso" americano Armand Hammer, uomo dei Rockefeller (i più grandi pianificatori del controllo delle nascite a livello globale), maestro dell'ecologista radicale Al Gore. Un grande storico magiaro-francese, François Fejtö, ha ammesso nella sua opera più conosciuta "Requiem per un Impero defunto", il ruolo determinante delle società segrete nello scoppio della Prima guerra mondiale. Gli stessi capi politici delle potenze vincitrici, il democratico Wilson (USA), il liberale Lloyd George (Gb), il radical-socialista Clemenceau (Fra) e il liberaldemocratico Orlando (Ita) erano tutti massoni. Woodrow Wilson fu l'ideatore della Società delle Nazioni, un organismo sovranazionale, antenato dell'ONU, che avrebbe dovuto portare secondo lui alla pace universale e ad un unico governo mondiale; essa avrebbe dovuto riuscire dove il Cristianesimo aveva fallito. Clemenceau era un anticlericale incallito; apparteneva ad una loggia i cui membri si facevano tumulare da morti ritti in piedi, in segno di odio e di sfida contro Dio. Nel '900 particolarmente travagliata è stata la storia del Messico. Scosso da rivoluzioni e da vari rivolgimenti politici (1910-1914), la lotta anticristiana fu molto virulenta. Presidenti massoni come Madero, Carranza, Obregòn, Cardenas e soprattutto Calles furono i protagonisti in negativo di un'epoca. Quest'ultimo scatenò una ferocissima persecuzione, che provocò come reazione la guerra cristera del 1927-1929. Il regime era controllato dal Partito Rivoluzionario Istituzionale, che ideologicamente professava un socialismo di tipo ottocentesco con venature democratico-giacobine; per essere più pratici lo si potrebbe paragonare al Psoe di Zapatero. È unanimemente riconosciuto che la Massoneria messicana, secondo anche la testimonianza di P. Carlos Blanco, è la più anticlericale che esiste. Manovrata dagli USA o da ambienti sinarchici europei vicini alla Spagna e alla Francia, si sforza di dare al Messico un'identità laica e protestante in grado di cancellare le radici cattoliche del paese, viste come il maggiore ostacolo alla fusione di tutte le nazioni americane. Il rapporto tra la Libera Muratoria e i grandi nazionalismi europei è stato piuttosto complesso. In Italia Benito Mussolini nel 1922 mise fine a 61 anni di regime oligarchico - liberale, ma inizialmente già dal 1919, il fascismo godette del sostegno della Massoneria italiana, poiché lo credeva un movimento socialista e nazional-giacobino. Il massone anticlericale Arturo Reghini fu, insieme all'esoterista Julius Evola, il principale assertore del "fascismo pagano". Personalmente il Duce detestava i poteri occulti, e nel 1925 li mise fuori legge, suscitando le ire di Antonio Gramsci. Nonostante ciò, molti gerarchi fascisti erano "fratelli" come Grandi, Balbo, Badoglio, Bottai, Costanzo Ciano, Farinacci, Starace, Sante Ceccherini, Acerbo, ma anche due tecnici del governo come Giuseppe Volpi di Misurata e Alberto Beneduce. La cosa a quanto pare fu sottovalutata da Mussolini che se ne rese conto troppo tardi quando il 25 luglio 1943 fu sfiduciato dal Gran Consiglio da un gruppo di fascisti dissidenti capeggiati da Dino Grandi. Quest'ultimo ha scritto nelle sue memorie che voleva far pagare al Duce e al regime le scelte fatte dal 1936 in poi, anno dell'inizio della guerra civile di Spagna, che vide l'Italia fiancheggiare senza riserve i nazionalisti di Franco, impegnati in una dura lotta al bolscevismo e alla massoneria internazionale. Lo stesso Badoglio si oppose all'entrata in guerra dell'Italia. La massoneria negli anni '30 accentuò la propaganda antifascista, e in molte carte segrete, oggi recuperate, si esprimeva la necessità di abbattere il Duce con una grande alleanza internazionale, che si concretizzò con la Seconda guerra mondiale. In realtà la Massoneria non perdonava al regime anche la stipula dei Patti Lateranensi dell'11 febbraio 1929, che mettevano fine al decennale contenzioso tra Stato italiano e Chiesa cattolica. Il nazismo di Hitler era profondamente avverso alla massoneria, perché la considerava una pedina degli ebrei. Nonostante ciò, ministro dell'Economia del Reich e presidente della Deutsche Bank era il protestante frammassone Hjalmar Schact, "miracolosamente" sfuggito al processo di Norimberga, evidentemente salvato dai "fratelli" americani, inglesi, francesi e sovietici. Bisogna dire che il nazionalsocialismo fu in parte emanazione di circoli iniziatici pangermanisti e neopagani facenti capo alla loggia "Thule". Molti esponenti nazisti facevano parte di questo gruppo esoterico: Adolf Hitler, Alfred Rosenberg, Otto Rahn, Heinrich Himmler e Rudolf Hess; quest'ultimo apparteneva anche all'Ordine Ermetico dell'Alba Dorata, società d'ispirazione rosacrociana. Secondo alcuni storici, si recò in Inghilterra nel 1941 per negoziare una pace separata con gli inglesi proprio a causa della sua affiliazione a questa setta segreta la cui sede e i cui vertici risiedevano in Gran Bretagna. Il Falangismo spagnolo di Francisco Franco fu autenticamente cattolico e rigorosamente antimassonico. La Repubblica, egemonizzata dalle sinistre anticlericali (socialisti, repubblicani, comunisti), e sostenuta dall'esterno dagli anarchici e all'estero dal Messico di Cardenas, dalla Francia del Fronte Popolare del marxista Lèon Blum e in maniera più decisa e diretta dall'URSS di Stalin, cominciò ad innescare un clima di odio e di violenza tale che soprattutto dal 1936 al 1939 raggiunse l'apice massimo. A proposito del dittatore georgiano, urge una precisazione: la volta scorsa ho scritto che non risulta affiliato; ebbene, un massone mi ha riferito invece che Stalin era "fratello". La Massoneria lo ha screditato dopo la morte a causa delle molte epurazioni da lui effettuate all'interno del Pcus. Il presidente repubblicano Manuel Azaña, un massone fanatico, era deciso a portare la Spagna sotto l'orbita sovietica, provocando e alimentando la violenza inaudita dei rivoluzionari contro la Chiesa e tutti coloro che non si piegavano al terrore rosso. Le persecuzioni furono terribili; gli orrori dei comunisti spagnoli superavano in molti casi quelli dei giacobini durante la Rivoluzione francese. Con la risoluta reazione dei nazionalisti di Franco, aiutati in maniera decisiva dalla Germania ma soprattutto dall'Italia, la Repubblica filosovietica fu abbattuta. Franco giunto al potere emanò il 1° marzo 1940 la legge per la repressione della massoneria e del comunismo. Va aggiunto che molti massoni di tutte le tendenze politiche antifasciste si arruolarono nelle Brigate Internazionali, per andare in soccorso dei "fratelli" in pericolo. La vittoria degli Alleati nella II guerra mondiale e la sconfitta dei grandi nazionalismi italiano, tedesco e giapponese, implicò la divisione del mondo in due blocchi, voluto a Yalta nel 1945 dai "fratelli" Roosevelt, Churchill e Stalin: a occidente il predominio americano e a oriente quello sovietico. I due mondialismi materialisti si spartivano il pianeta: da una parte il capitalismo liberaldemocratico, agnostico e tollerante, dall'altro il comunismo ateo e totalitario. Il nazionalismo doveva essere distrutto per far posto al mondialismo, che avrebbe dovuto portare al compimento della Grande Opera, al sogno della massoneria: la Repubblica Universale. I popoli dovevano scegliere. L'Italia decideva il suo destino il 18 aprile 1948: dopo l'unità durante la Resistenza, una parte della Massoneria sostenne i partiti laici minori, il PDA, il PRI e il PLI, apertamente filoamericani, mentre l'altra il Fronte Popolare, costituito da PCI e PSI, che invece erano filosovietici. Simbolo del FP era un'immagine di Garibaldi. La grande vittoria della DC confermò l'Italia nel campo americano, insieme agli altri paesi occidentali. In tutta l'Europa orientale, la Massoneria spianò la strada ai socialcomunisti. La studiosa Angela Pellicciari, tra le migliori esperte di storia del Risorgimento italiano, ha giustamente notato che sull'emblema della DDR (la Germania Orientale comunista) figurava un compasso; ricordiamo che il compasso, con la stella a 5 punte e la squadra sono i principali simboli della massoneria. Un caso oscuro ed emblematico di come i "fratelli" si vogliano bene tra loro riguarda la Cecoslovacchia. Con il colpo di Stato del 1948, il radicale Jan Masaryk, già Gran Maestro della Massoneria ceca al pari di suo padre Tomas e di Edvard Beneš, persecutori e carnefici degli slovacchi cattolici, fu "suicidato" dagli stessi "fratelli" comunisti che lui aveva favorito come alleati al governo (era l'unico non marxista). La famiglia Masaryk fu protagonista di un vero e proprio dramma: Tomas fece di tutto per "liberare" la Cecoslovacchia dall'Impero Asburgico, mentre suo figlio Jan aveva consegnato il suo paese (rimettendoci la vita!) negli artigli del bolscevismo internazionale. Lo stesso anno, il 14 maggio 1948 Ben Gurion fondava lo Stato d'Israele, dando vita al "Risorgimento ebraico" che ha per base ideologica il Sionismo di Teodoro Herzl. Il sionismo predica il ritorno in patria del popolo d'Israele, in base ad un messianismo laico e terreno. Con l'arrivo dei coloni ebrei è iniziato un capitolo triste per la sorte del popolo arabo-palestinese. Nel 1945 a S. Francisco era nata l'ONU, per iniziativa delle potenze vincitrici, al posto della screditata Società delle Nazioni. La sua sede è a New York, edificata in uno spazio donato dai Rockefeller. Le stanze dell'ONU sono piene di simbologie massoniche. Le Nazioni Unite sono una prefigurazione del futuro governo mondiale, controllate da burocrati mediocri ma potenti, influenzati da un tipo di socialismo fabiano e tecnocratico. Esse hanno silenziosamente e subdolamente incoraggiato la decolonizzazione negli anni '40, '50 e '60 delle dipendenze oltre continente di Inghilterra, Francia, Belgio, Portogallo e Olanda. Rozzi e violenti capipopolo di sinistra come Sukarno in Indonesia, Lumumba nel Congo belga, Ho Chi Minh in Vietnam, solo per fare qualche nome, ottennero l'indipendenza delle loro nazioni per poi fare lucrosi affari sottobanco con i grandi capitalisti occidentali, loro che avevano predicato la guerra rivoluzionaria ai bianchi "schiavisti" e "sfruttatori". Lo stesso può dirsi per le rivoluzioni marxiste nei Paesi poveri, la Cina di Mao (istigata dall'agente sovietico del Comintern, il rivoluzionario massone Michail Borodin, detto Gurov) e la Cambogia dei khmer rossi, dove il macellaio comunista Pol Pot ha eliminato 1 milione di persone nel giro di una settimana, ma soprattutto nell'America Latina , guidate dai "fratelli" Castro e Che Guevara a Cuba (entrambi 33° grado del Rsaa della Gran Loggia Cubana), Romulo Betancourt in Venezuela, Jacobo Arbenz Guzmàn in Guatemala e Salvador Allende in Cile (Venerabile della Loggia "Hiram n° 66 di Santiago). Una breve digressione merita il "mitico 68". Esso fu preparato mediante un'efficace suggestione culturale dalla Scuola di Francoforte, un gruppo di filosofi marxisti "eretici", tra cui Theodor Adorno, Herbert Marcuse e Max Horkehimer. Fondata dalla Fabian Society, la società semi-segreta inglese nata nel 1904, fautrice dell'espansione del socialismo nel mondo, da cui sono usciti molti politici laburisti come i premier Tony Blair e Gordon Brown, essa aveva lo scopo di inquinare i costumi dell'Occidente con la mentalità libertaria e nichilista, al fine di facilitare l'avvento della socialdemocrazia universale. Un altro organismo mondialista che ci riguarda molto da vicino è l'Unione Europea (ex Ceca-Euratom, Cee). Nonostante sia stata voluta anche da 3 cattolici ferventi come De Gasperi, Schuman e Adenauer, l'Ue ha preso una piega sempre più tecnocratica, centralista, socialista e laicista. Padri "spirituali" di questa Europa debole e corrotta sono i massoni Blum, Spaak, Monnet, Spinelli, Brandt, Giscard d'Estaing, Felipe Gonzalez, Cohn Bendhit, Mitterrand (che in occasione del bicentenario della Rivoluzione francese ha riempito Parigi di simboli esoterici) e Delors. Qualcuno non contento, vuole perfino far entrare la Turchia, vista come l'ariete che potrà finalmente distruggere la nostra Civiltà. Del resto è sotto gli occhi di tutti la politica anticristiana praticata dalle istituzioni comunitarie. L'azione della massoneria in Italia nel dopoguerra si è concentrata soprattutto sulla corruzione dei costumi e della famiglia. Forze politiche anticlericali come il Pri, il Psi, il Pci, il Psdi, il Pli, guidate dal Partito Radicale di Marco Pannella ed Emma Bonino, riuscirono a far introdurre il divorzio nel 1970 e l'aborto nel 1978. Esso era stato legalizzato prima nell'URSS e poi nel restante campo comunista, poi diveniva legge negli USA il 22 gennaio 1973, quando la Corte Suprema, controllata dai Rockefeller, si pronunciò a favore di tale provvedimento. Che l'applicazione dell'aborto su scala mondiale sia frutto di una pianificazione a tavolino dei poteri massonici, non c'è dubbio; diceva la femminista francese Edwige Prud'homme, Gran Maestra della Loggia femminile di Francia, intervistata da Le Monde il 26 aprile 1975: «È nelle nostre logge che furono prese, 15 anni fa le prime iniziative che condussero alla legislazione sulla contraccezione, il familial planning e l'aborto». Lo storico François Fejtö su "il Giornale" del 14 dicembre 1982: «Sotto Giscard, il Gran Maestro della Gran Loggia di Francia, Pierre Simon, svolse un ruolo preponderante nella preparazione delle leggi sulla contraccezione e l'aborto». Perfino Giovanni Paolo II diceva che «sono grandi e potenti le forze che oggi, apertamente od occultamente, dispiegano nel mondo la cultura della morte». Molte agenzie dell'ONU e dell'Ue promuovono l'aborto su scala planetaria, soprattutto nel Terzo mondo. L'aborto per i massoni, ha un significato esoterico profondo: è il sacrificio cruento di sangue innocente offerto al Principe di questo mondo, Satana, il vero dio della Massoneria, qualificato come Gadu o Ente Supremo, per nascondere ai profani le vere finalità della setta, come ebbe a sottolineare il grande giurista cattolico e controrivoluzionario francese vissuto tra il '700 e l'800, il conte di Anthenaire, e come confermano molti documenti riservati agli alti gradi, tra cui quelli di Albert Pike, Sovrano Gran Commendatore del Supremo Consiglio del Rssa della Giurisdizione del Sud degli Stati Uniti d'America, vissuto nell'800. Gli anni '80 furono l'inizio del collasso sovietico: l'elezione al vertice del PCUS dello pseudo innovatore Michail Gorbačev, tanto acclamato in Occidente, portò alla fine del comunismo nell'Europa orientale nel 1989 e alla dissoluzione dell'URSS nel 1991. La sua politica riformatrice e allo stesso tempo fallimentare, era dettata dai poteri forti mondialisti, decisi a far crollare il socialismo di Stato per proiettare l'economia russa verso il mercato globale; gli stessi gruppi di potere che furono i burattinai dell'ottobre 1917, i Rockefeller in testa. Non stupirà sapere che Gorbačev è massone e membro del Lucis Trust, un club fondato dalla teosofa ed esoterista Alice Bailey, che si batte per l'unificazione delle religioni; la congrega usa riunirsi spesso nella cappella newyorkese presbiteriana di S.Giovanni il Divino. Esso è inoltre uno degli sponsor più attivi per i meeting sul dialogo interreligioso promossi dall'ONU. Prima del novembre 1989, Gorbačev tenne un incontro molto riservato a Mosca con il Gran Maestro della Massoneria romena, Marcel Shapira, il quale gli confidò con mesi d'anticipo che i capi comunisti di allora, i vari Ceausescu, Husak, Honecker, ecc, sarebbero stati presto sostituiti con altri leaders. Ciò la dice lunga sui profondi legami tra apparato comunista e massoneria internazionale mondialista. Oggi l'ex dittatore sovietico è a capo della Green Cross International, una grande associazione ecologista, ed è tra i firmatari della Carta della Terra, che a suo avviso dovrebbe sostituire i 10 Comandamenti, nonché sostenitore delle bizzarre previsioni sul clima di Al Gore. Nell' '89 il comunismo, la peggiore forma di sfruttamento e di oppressione della storia, crollava con un terrificante bilancio incalcolabile di morti e di danni materiali e spirituali, con il solo risultato di aver devastato i popoli e di aver paradossalmente lasciato al loro posto tutti grossi gruppi del grande capitale internazionale. La fine del sistema comunista in Europa ha portato al superamento dei blocchi e all'indiscussa supremazia USA. L'11 settembre 1991 il presidente americano George Bush (33° grado Rsaa) annunciò dal suo studio ovale di Washington che si era giunti all'alba di un "nuovo ordine mondiale". Cosa intendeva? Quella che oggi è sotto gli occhi di tutti: la società multietnica e multiculturale, che ci porterà alla Repubblica Universale massonica, che annullerà tutte le culture e le fedi. Proprio a partire da quegli anni, l'Europa, culla di Civiltà, è stata interessata dall'invasione di immigrati provenienti dall'Est, dall'Africa, dall'America Latina e dall'Asia. La maggior parte di questi nuovi arrivati è di fede musulmana. La religione di Maometto è incompatibile con gli ordinamenti civili occidentali, crea incomprensioni e problemi di convivenza, ma ai progressisti, custodi del politically correct e proprietari dei mezzi di comunicazione, la cosa sembra non importare, anzi auspicano uno "scontro creativo" tra civiltà, per cui nascerà un nuovo ordine dal caos, come disse Edgar Morin, sociologo di sinistra ed ex consigliere di Mitterrand. L'obiettivo dei grembiulini è devastare la radice e il tessuto culturale e sociale con l'ausilio della religione islamica, che è in grande espansione, contro un'Europa disarmata e in crisi d'identità. Ma la globalizzazione era già stata preparata nei piani alti delle logge massoniche. In piena Seconda guerra mondiale, John Foster Dulles, presidente della Fondazione Rockefeller, così vedeva la "pace universale", sul "Times" del 16 marzo 1942: «Un Governo mondiale, la limitazione immediata delle sovranità nazionali, il controllo internazionale di tutti gli eserciti e di tutte le marine, un sistema monetario unico, la libertà di immigrazione nel mondo intero». Oggi si parla tanto di pace, quanto è abusato questo termine! La "pax mondana" è cosa ben diversa da quella "christiana", lo dice perfino Gesù nel Vangelo, checché ne dica qualche parroco o vescovo progressista. Tutti noi ricordiamo quando durante la guerra in Iraq, molti italiani esposero la bandiera arcobaleno; ebbene quel vessillo è simbolo della Società Teosofica, fondata nel 1875 a New York da Anne Beasant, Helena Petrovna Blavatsky , Alice Bailey e altri famosi occultisti, che indica la pace come sforzo umano e non come dono di Dio. L'arcobaleno così inteso era presente già nella simbologia delle logge massoniche del'700, figura sulla bandiera del Nicaragua (tuttora patria e rifugio di comunisti, massoni, rivoluzionari, guerriglieri, narcotrafficanti e terroristi di tutto il mondo) e nello stemma dell'Antico Rito Noachita. Inutile dire quanto sia usato durante le manifestazioni omosessuali. Quindi l'arcobaleno è il simbolo principale della Nuova Era dell'Acquario, che sarà pacifista, multietnica, multiculturale, multisessuale, sincretista e politicamente corretta. La moderna secolarizzazione ha colpito duramente anche la Chiesa. Una crisi che è stata preparata da tempo dalle logge massoniche. Documenti riservati dell'Alta massoneria risalenti a fine '800 – inizio '900 dichiaravano che occorreva distruggere la Chiesa cattolica dal di dentro, puntando sulla corruzione morale dei sacerdoti e dei credenti, al fine di screditarla. Il periodico francese "Vers Demain" pubblicò un estratto del piano studiato dal massone spretato Paul Roca: «Soppressione della veste talare, matrimonio dei preti, revisione dei dogmi in funzione del progresso universale, sconvolgimento della liturgia, l'Eucarestia ridotta a un semplice simbolo della comunione universale ed il vecchio Papato ed il vecchio sacerdozio abdicanti di fronte ai preti dell'avvenire». Da qui l'irrompere dell'eresia modernista, duramente condannata da S. Pio X con il decreto Lamentabili e l'enciclica Pascendi del 1907. Ovunque la Massoneria è giunta al potere, ha sempre provveduto ad infiltrare agenti e a sottomettere la Chiesa allo Stato, come è avvenuto in Francia durante la Rivoluzione con la Costituzione Civile del Clero, così come in Messico, in Russia, ecc, e come voleva fare in Italia contro papa Pio IX, che non voleva «diventare il cappellano di Casa Savoia». Un grande santo come Padre Pio da Pietrelcina definiva la massoneria «l'infame setta». Non esagerava, aveva perfettamente ragione. Francesco Pio Meola

La massoneria cattiva che minaccia il mondo, scrive Claudio Messora il 9 dicembre 2015. Gioele Magaldi vi racconta i disegni della massoneria neo-aristrocratica e la battaglia in corso con quella progressista per il dominio sul mondo (la prima) e per il ripristino delle libertà fondamentali dell’uomo (la seconda), mostrando le connessioni con gli ultimi avvenimenti del contesto geopolitico.

Ho letto alcune tue interviste, in cui analizzi i fatti di Parigi, e li leghi all’intreccio massonico. Confermi?

Fatti come quelli del 7 gennaio e del 13 novembre sono già adombrati nel libro, specialmente nell’ultimo capitolo di “Massoni. Società a responsabilità illimitata”, edito da Chiarelettere. L’ISIS è una creatura non “occidentale”, così come spesso si dice in una banalizzazione delle dinamiche del potere: è semmai una creazione sovranazionale, apolide. Ci sono forze sovranazionali che operano. E lo fanno con uno spirito cosmopolita. C’era per esempio, nell’Ottocento, una internazionale massonica progressista che andava a fare le rivoluzioni ovunque vi fosse una tirannide. La patria era ogni luogo ove si trattasse di aiutare delle persone ad auto-determinarsi, a darsi Costituzioni, liberali e democratiche. Garibaldi è uno che ha combattuto ovunque, insieme ai patrioti ungheresi, statunitensi, francesi. Sono venuti a fare il Risorgimento in Italia e sono andati a farlo in Ungheria, e sono andati in Francia, sono andati negli Stati Uniti. Ecco, invece oggi, da settant’anni a questa parte, soprattutto nell’ultimo mezzo secolo, per la prima volta nella storia nell’ambito della Massoneria sono arrivati all’egemonia dei gruppi massonici, non più progressisti, ma io li definisco neo-aristocratici e reazionari, con un’idea non più cosmopolita del loro potere e delle loro battaglie, ma apolide, cioè indifferente, cinicamente indifferente al benessere dei singoli popoli, e anche sopraelevati rispetto a qualunque controllo di tipo territoriale, con la capacità di incidere, quindi, globali. Ecco! Nell’ambito di questi circuiti c’è una super-loggia, la Hathor Pentalpha, che è a monte anche degli eventi tragici dell’11 settembre. A un certo punto prorompe in un ambito di altre super-logge neo-aristocratiche e, quasi come una super-loggia eretica in negativo, immagina un mondo dove anche il terrorismo, su scala globale, abbia un ruolo politico importante.

Un ruolo destabilizzatore?

Sì. Noi abbiamo già questa esperienza, per averla vissuta in Italia ma anche in singole altre nazioni. L’esperienza di un terrorismo degli anni Settanta e Ottanta che, molto spesso, è stato ambiguo ed opaco, nel senso che è un terrorismo dove ci sono state infiltrazioni di manine varie, cioè non c’era soltanto l’istanza, come dire, spontanea, autonoma e autentica ancorché terribile, di gruppi coerenti con quell’aberrante idea di trasformazione della società in modo violento, armato. No! C’era chi ha accompagnato, infiltrato, eterodiretto. Immaginiamo allora che a un certo punto qualcuno decide, in un mondo più globalizzato rispetto agli anni Settanta e Ottanta (ricordiamoci che la globalizzazione in senso stretto arriva dopo l’unificazione europea, la caduta del muro di Berlino e la caduta dell’Unione Sovietica), in un nuovo contesto che è quello che si va a configurare all’inizio del XXI° Secolo, che il terrorismo globale possa avere un ruolo importante per ridefinire i rapporti sociali e politici. Non ci scordiamo che, dopo il 2001, negli Stati Uniti e quindi nella prima democrazia al mondo, tutte le norme legislative del Papework Act sono all’insegna di una violazione patente di quei principi di democrazia e libertà su cui gli Stati Uniti e tutte le democrazie moderne sono stati edificati. E oggi, in Italia, in Francia, in Europa, dopo gli eventi francesi si inizia a pensare a misure legislative illiberali come il Papework Actamericano.

Quando tu dici che c’è una super-loggia che avrebbe interesse ad immaginare un ruolo politico per il terrorismo”, nella sostanza, a chi ti riferisci?

La caratteristica delle super-logge massoniche è quella di inglobare personaggi che provengono dall’establishment politico, finanziario, militare, diplomatico, dall’intelligence… Cioè: la trasversalità delle presenze è funzionale, perché c’è bisogno di una copertura mediatica. C’è bisogno di omissioni mediatiche. C’è bisogno di connivenza industriale, connivenza militare, connivenza politica.  I personaggi sono i protagonisti negativi dei primi anni duemila. Anche lì, attenzione! Certamente c’è dentro il clan Bush, ma il clan Bush è soltanto la punta di un iceberg. Il Governo degli Stati Uniti, gestito malamente nei due mandati di George W. Bush, in realtà è stato uno strumento. Quando alimentiamo polemiche antiamericane, non ci rendiamo conto che non esiste l’America in quanto tale. Gli Stati Uniti, come ogni grande paese, sono attraversati da gruppi di potere che spesso sono in feroce lotta tra di loro. Questi poteri apolidi di cui parlavo prima si servono anche del governo degli Stati Uniti, quando possono, perché è un governo importante, che muove risorse militari ed economiche importanti. Ma si tratta di un utilizzo fatto dall’esterno, attraverso persone che, contingentemente, occupano dei posti. Mi chiedono se no ho paura di morire. Intanto ci tengo a precisare che non sto “sputtanando” la Massoneria: io sono un massone fiero di essere tale, e lo rivendico con orgoglio. L’opinione pubblica italiana è paurosamente ignorante su questo tema, a partire dai libri di scuola dove l’argomento massoneria viene omesso. Nessuno ne parla, né nel bene né nel male. La massoneria è stata centrale, a partire dal settecento e fino agli anni sessanta con la New Frontiers, che è stata l’ultima istanza veramente progressista del novecento. Kennedy non era massone, ma il suo ideologo di riferimento, Artur Meier Schelesinger, era massone ed era anche Maestro Venerabile di una loggia progressista molto importante: la Thomas Paine, alla quale ho avuto il privilegio di essere iniziato. E poi va ricordato l’evento epocale che ha mandato, per la prima volta, il primo Presidente cattolico alla guida degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy, e il primo Papa massone al Soglio Pontificio, che fece il Concilio Vaticano II° e riconciliò la Chiesa con la modernità. Una sorta di connubio, quindi, grazie a un’operazione voluta da alcune logge di ambiente cattolicheggiante e non. Da questo partì anche, grazie ad una serie di reti massoniche, la risoluzione della crisi missilistica di Cuba. C’è questo tentativo che vedrà poi degli epigoni anche in una serie di persone che verranno uccise, da Robert Kennedy a Martin Luther King. Robert Kennedy stava per essere iniziato: non fece a tempo. Martin Luther King invece era massone. E c’è un laboratorio, in quel momento, che tenta di proporre un ampliamento dei diritti sociali ed economici: era la New Frontiers kennedyana, che venne bloccato attraverso degli omicidi. Questi omicidi segnano anche l’arrivo di una nuova egemonia, non più della massoneria progressista, che appunto io rivendico con orgoglio e che dal settecento in avanti ha trasformato il mondo portando la sovranità del popolo, la democrazia, la libertà, lo stato di diritto, i diritti inalienabili degli uomini e dei cittadini – e questa cosa avrebbe potuto proseguire, e forse oggi ci troveremmo in un mondo diversamente globalizzato -, ma di una massoneria neo-aristocratica, che immagina un’involuzione oligarchica e tecnocratica nella governance mondiale.

E ci riesce, fino ad adesso!

E ci riesce fino ad adesso! Naturalmente con delle accelerazioni pericolose da apprendisti stregoni, che offrono il fianco ad una reazione. Io, insieme ad altre persone in Italia e nel mondo, stiamo cercando di “riavviare”, la forza comunque silente, intatta, dei circuiti massonici progressisti che hanno sonnecchiato.

Per tornare alla domanda precedente, come influiscono queste super logge nei fatti, nei flussi degli avvenimenti terroristici?

Facciamo un esempio: il famoso Califfo al-Baghdadi. Siamo al limite del paradosso: coloro che lo detengono come pericoloso terrorista si vedono recapitare un ordine di scarceramento! Questo signore è stato iniziato massone, è un uomo del tutto integrato nel sistema di vita occidentale il quale, insieme agli altri suoi compari, da mesi fa una sceneggiata hollywoodiana, perché tutte le decapitazioni in mondovisione, tutto il sistema comunicativo dell’ISIS, è un sistema ben studiato.

Compresa Rita Katz che è l’unica…

Tutto quanto è ben studiato. Ci sono alcuni che sono iniziati a queste logge “controiniziatiche”, che io definirei una “massoneria maligna“, una pianta maligna che è fiorita dentro un corpo non solo sano, ma benemerito. E poi ci sono naturalmente gli ignari. L’ISIS fa un salto di qualità. Prima avevamo il terrorismo di al-Qaeda che era un terrorismo a macchia di leopardo: non c’era uno Stato: c’era una base in Afganistan. Qui invece c’è un catalizzatore potente anche ideologico, cioè l’ISIS, che è un punto di richiamo per cellule sparse ovunque, ma ha che ha anche una sua forza finanziaria, una capacità di espansione e di attrazione, antitetica anche alla modernità. Diciamo la verità: sono state introdotte leggi liberticide con il Patriot Actnegli Stati Uniti e anche altrove in Occidente, ma poi si era spenta l’emergenza al terrorismo, perché era un’emergenza fasulla, farlocca, così come è farlocco il pericolo dell’ISIS. Proseguendo nella direzione che stiamo prendendo, ad un certo momento ci sarà un intervento militare del solito tipo, cioè di tipo distruttivo. Ci andranno di mezzo popolazioni inermi, civili, senza nessuna costruzione di infrastrutture materiali e immateriali della democrazia e della libertà. A questo si arriverà titillando la paura, l’orrore. Invece, diciamoci la verità, quello che bisognerebbe fare oggi è sì raderli al suolo (io sono per l’intervento di terra, di aria, di tutto), ma la potenza delle democrazie è talmente spropositata che, se volessero intervenire, in poco tempo l’ISIS verrebbe raso al suolo. Ma poi occorrerebbe fare una cosa che non è stata fatta in tutti questi decenni: cioè invece di proporre forme diverse e sempre uguali di neocolonialismo, di sfruttamento del caos altrui per i propri interessi, si tratterebbe di costruire, in quei Paesi, infrastrutture materiali e immateriali di democrazia. Questo è lo spirito della Dichiarazione Universali dei Diritti Umani che noi abbiamo approvato all’ONU, ma che è lettera morta! Cioè pensare che fatte salve le specificità culturali, però ci voglia il rispetto delle donne, il rispetto dei diversi, il rispetto dei dissenzienti, il rispetto del fatto che gli esseri umani sono cittadini e non sudditi. Tutte cose che io rivendico come portate dalla massoneria, la massoneria ha inventato il concetto di esseri umani latori pro quota di sovranità e non sudditi. Guardate che la consuetudine dei millenni di storia umana è quella di avere avuto oligarchie, aristocrazie religiose o profane a governare su masse di straccioni tenuti nell’ignoranza e nell’abbrutimento. La massoneria, gli avanguardisti massoni, dal settecento in avanti hanno cambiato questo stato di cose. Adesso, degli avanguardisti in negativo stanno cercando di introdurre un governo mondiale di aristocratici dello spirito, sedicenti “illuminati”. Illuminati è un aggettivo, non un sostantivo come alimenta un certo fiume carsico complottista. Non esiste nessuna continuità storica tra illuminati di Baviera e presunti illuminati che governerebbero il mondo, cosa che non significa nulla. ‘Illuminati’ è un aggettivo che può attribuirsi ad alcuni massoni aristocratici. Ecco, costoro immaginano un mondo neo-feudale, (ndr: cfr. “Diego Fusaro: il medioevo era meglio”) dove la democrazia – attenzione! -, non è affrontata in termini perentori, come invce accadde in certi esperimenti liberticidi e tirannici negli anni settanta. Cioè non si la si sostituisce con un regime tirannico, in occidente. Pensiamo a quello che accadde in Grecia, con la dittatura dei Colonnelli, a quello che accadde in Portogallo, a quello che accadde in America Latina con l’operazione Condor, al Cile, all’Argentina, a quello chesi tentò di fare in Italia con la P2 che doveva essere la base per gestire in modo autoritario, stile Argentina, un paese nel cuore dell’occidente. Oggi non si pensa più a questo perché il cittadino ormai è abituato ai riti della democrazia, alla retorica della democrazia. Oggi piuttosto si pensa di svuotarla di sostanza. Si abitua il cittadino a non eleggere più il Senato o le province (ad esempio, per parlare dell’Italia). In Europa ci si è abituati a una costruzione economicistica e tecnocratica: il Parlamento Europeo non è il luogo della sovranità del popolo: non ha il potere di sfiduciare un esecutivo europeo. Non abbiamo un dipartimento economico, quindi un primato della politica, sovra-ordinato alla Banca Centrale. Il più grosso potere è un potere non elettivo, tecnocratico. La Banca Centrale? Sì, c’è un diritto pubblico che la regola, ma la proprietà e l’indirizzo sono di natura privatistica. Ecco: questa Europa è figlia delle idee del comitato disposto da Coudenhove-Kalergi e Jean Monnet, ex massone progressista (ndr: cfr. “Il piano Kalergi” e “La verità su Kalergi e il suo piano”), passato poi ai circuiti neo-aristocratici. Sento spesso dire: “Bisogna tornare allo spirito del discorso di Schuman dei padri fondatori”, ma proprio quello spirito ha costruito questa Europa! Il discorso di Robert Schuman del 1950 fu scritto da Jean Monnet!

La UE è una creatura massonica?

È una creatura massonica! io ne parlo nel secondo capitolo nel libro “Massoni”. Io davvero rinvio il tuo pubblico alla lettura di quel libro, perché gli ultimi settant’anni di storia vengono passati ai raggi-x con nomi, cognomi e circostanze in termini estremamente minuziosi.

Cosa vuole dire UR-lodges?

La massoneria storicamente si articola in Grandi Orienti o Gran Logge, cioè federazioni di logge su base nazionale, con una certa difformità di rituali. La massoneria è un network internazionale, tanto che c’è perfino unpassaporto massonico che consente di avere – diciamo – rapporti diplomatici. Tuttavia, questa articolazione viene superata, nella seconda metà dell’ottocento, dalla costruzione di super-logge sovra-nazionali, che bypassano gli insediamenti nazionali e quindi la sovranità territoriale di una giunta, di un Grande Oriente o di una Gran Loggia e si pongono in termini globalizzanti. Spesso cooptano tra le proprie file sia profani, cioè persone mai passate per iniziazione massonica ma eccellenti in vari ambiti, sia eminenze della massoneria tradizionale. Quindi può capitare che un personaggio importante, della United Lodges of England o della Gran loggia dello stato di New York o del grande Oriente di Francia o del Grande Oriente d’Italia, poi stia con un piede lì e un piede in una super-loggia, beneficiando di una maggiore capacità di movimento. Le UR-Lodegesdanno anche vita a quei soggetti che spesso sono immaginati illusoriamente come i protagonisti di certi eventi contemporanei. Parlo del Bildelberg Group, della Trilateral Commission, del Council on Foreign Relation, del Royal Institute of International Affairs, del Bohemian Club. Tutta questa pletora di entità, che non hanno alcuna vera soggettività importante o capacità di incidere, sono associazioni paramassoniche, dove si incontrano massoni e non massoni ma dove di solito sono in pochi quelli appartenenti alle UR-Lodges, le super logge che le hanno generate, ad avere il controllo. Per esempio Enrico Letta, che pure ha fatto e fa parte di varie entità paramassoniche, non è mai stato iniziato in una qualche UR-Lodges.

Mario Monti sì, però?

Mario Monti sì! E io ne ho parlato: sono stato forse il primo a spiegare qual era il background di Mario Monti.

Monti, Napolitano, Draghi… non c’è bisogno che te lo chieda. Ma la domanda era questa: le UR-Lodges hanno questo obiettivo di neo-feudalizzare la società globale. Ma se è vero che ogni cosa che si fa deve avere un obiettivo, un tornaconto, un interesse, qual è lo scopo finale? Forse pensano che il mondo sarebbe meglio organizzato in un altro modo, oppure hanno interessi economico-finanziari da difendere, o magari pensano di poter amministrare meglio la loro attività. Cosa vorrebbero?

“I veri mandanti dell’Isis e la Superloggia massonica Hathor-Pentalpha”, scrive Carlo Tarallo il 20 novembre 2015 su “Italia Ora”. Intervista esclusiva a Gioele Magaldi, Gran Maestro del Grande Oriente Democratico (grandeoriente-democratico.com) e Presidente del Movimento Roosevelt (movimentoroosevelt.com), autore del best-seller “MASSONI. Società a responsabilità illimitata. La scoperta delle Ur-Lodges” (Chiarelettere, Milano 2014) primo volume di una trilogia, che sta anche per essere pubblicato in lingua spagnola, francese e inglese.

D. Magaldi, lei afferma nel suo libro “Massoni” che il nome “Isis” ha un significato legato a una superloggia massonica…

R. Come ho spiegato nel primo volume della serie di Massoni. Società a responsabilità, Chiarelettere Editore, l’Isis e il progetto politico-terroristico connesso sono una precisa e meditata creazione ad opera della Ur-Lodge Hathor-Pentalpha, una superloggia sovranazionale malignamente “eretica ed estremista” nei suoi fini e nei suoi mezzi, persino rispetto agli ordinari circuiti massonici neoaristocratici e reazionari. Del resto, Isis o Iside è la stessa divinità egizia che, in determinati contesti mitologico-rituali, assume il nome di “Hathor… Tutto questo, comunque, viene spiegato minuziosamente nel libro Massoni, cosi come vi vengono profetizzati- con mesi e mesi di anticipo (il libro è uscito nel novembre 2014) - eventi quali i tremendi attentati terroristici di Parigi del 7 gennaio (episodio di “Charlie Hebdo”) e del 13 novembre 2015.  Le superlogge “Hathor-Pentalpha”, “Amun”, “Geburah”, “Der Ring” (alla guida di altre, loro satelliti) lucrarono enormi profitti geopolitici ed economici dalle guerre “preventive” al terrorismo dei primi anni ‘2000. Guerre che avrebbero avuto un senso solo se davvero fossero state volte ad “esportare” democrazia, libertà, laicità, diritti universali e infrastrutture materiali e immateriali in grado di garantire in Medio Oriente e altrove non solo istituzioni fondate sulla sovranità popolare e il pluralismo liberale, ma anche giustizia sociale e prosperità per tutti e per ciascuno. Cosi non fu. Quelle guerre, scatenate con il pretesto di abbattere “regimi canaglia” fiancheggiatori del terrorismo islamico, in realtà sono servite a scopi di ampliamento del potere e della ricchezza di un ristretto numero di gruppi massonici reazionari e neoaristocratici.

Cosa sono le superlogge massoniche?

Anzitutto occorre rammentare che il termine tecnico per denominarle è “Ur-Lodges”. Si tratta di logge molto potenti e speciali, di respiro e composizione sovranazionale, che cooptano tra i propri membri eminenti personaggi (sia uomini che donne) appartenenti alle Comunioni massoniche tradizionali (Gran Logge e Grandi Orienti) e anche profani e profane di particolare spessore e prestigio politico-sociale, economico-finanziario, mediatico, militare e culturale. E si tratta di contesti dove non ci si occupa soltanto di gestire il potere ai suoi massimi livelli globali, ma anche di cenacoli dove teorie e pratiche rituali ed esoteriche vengono coltivate con grande assiduità e scrupolosità. In effetti, a partire da fine Ottocento (momento di nascita delle prime, tra queste superlogge) e poi soprattutto nel corso del Novecento e nel primo quarto del XXI secolo, l’egemonia massonica e l’egemonia tout-court a livello planetario passa dalle tradizionali comunità massoniche organizzate su base nazionale a queste superlogge sovranazionali.

Perché una superloggia dovrebbe scatenare il terrore in Europa?

Da mesi, con la sceneggiata hollywoodiana sull’Isis e i suoi tagliatori di teste trasmessa worldwide, si è dapprima preparato il terreno. Poi è giunto il primo assaggio cruento nel cuore del Vecchio continente (vedi attentato alla sede della rivista “Charlie Hebdo”), quindi c’è stata una ulteriore escalation con l’episodio di venerdì 13 novembre 2015 e la strage di Parigi. Pur dissentendo da qualsivoglia paranoia complottista sulle numerologie di certi eventi, occorre rammentare che da quando, il venerdì 13 ottobre del 1307, il re di Francia Filippo il Bello diede l’ordine di arresto dei Cavalieri Templari, “venerdì 13” è divenuto un significante importante e famigerato negli ambienti esoterici e massonici e poi anche nell’immaginario collettivo “profano”, tanto da dar vita, in tempi recenti, ad alcune serie filmografiche sul tema. E’ in corso una lotta fratricida tra ambienti massonici neoaristocratici, egemoni da mezzo secolo, e la ripresa di attività dei circuiti latomistici progressisti, decisi ora ad invertire il corso antidemocratico e tecnocratico tanto della globalizzazione che della governance europea. Colpendo in un giorno molto preciso e particolare, le manovalanze terroristiche eterodirette dagli ambienti della Ur-Lodge Hathor-Pentalpha, intendevano conseguire due precisi obiettivi. 

Uno: dare un segnale infra-massonico ai circuiti liberomuratori progressisti e in particolare a una superloggia precisa, legata alla tradizione dei Templari e operante con particolare attenzione in Francia, in questi mesi… Dirò poi di che Ur-Lodge si tratti e che cosa stia cercando di fare sul territorio francese. 

Due: grazie allo shock provocato e allo spauracchio della presunta impossibilità di garantire la sicurezza senza misure emergenziali, determinare sia in Francia che altrove un maggiore controllo politico, sociale e mediatico “autoritario”, mediante l’introduzione di eventuali modifiche costituzionali (vedi gli annunci di Hollande in tal senso) e di una sorta di “Patriot Act” europeo. In sostanza, dopo aver determinato una cinesizzazione del popolo europeo sul piano dei rapporti sociali ed economici (smantellamento del welfare, disoccupazione galoppante, crollo della domanda aggregata e dei consumi e conseguente aumento di manodopera a buon prezzo e con bassi salari) e dopo aver costruito una UE matrigna e antidemocratica (il Parlamento europeo, luogo di rappresentanza della sovranità del Popolo europeo non ha il potere di fiduciare e sfiduciare un esecutivo politico continentale che sia sovraordinato alle strutture burocratiche comunitarie, invece di essere, come effettivamente è, subordinato alla dittatura tecnocratica della Bce, vero “dominus” non elettivo dell’attuale Europa), adesso si cerca di mortificare ulteriormente la vita democratica del Vecchio continente, introducendo, per mezzo della paura del terrorismo, leggi liberticide e autoritarie.

Il Procuratore nazionale Antimafia, Franco Roberti, ha detto che “forse dobbiamo essere pronti a rinunciare ad alcune delle nostre libertà personali, in particolare dal punto di vista della comunicazione” a causa della necessità di combattere con ogni mezzo il terrorismo. Cosa ne pensa?

Proprio il 14 novembre, sul sito ufficiale del Movimento Roosevelt (movimentoroosevelt.com), poi rilanciato anche sul sito di Grande Oriente Democratico (grandeoriente-democratico.com), è apparso un importante intervento intitolato “Strage a Parigi del 13 novembre 2015: il tragico avverarsi delle profezie di MASSONI e di Gioele Magaldi (risalenti al 2014) e un necessario impegno di tutti e di ciascuno per difendere democrazia e libertà, contro qualsivoglia deriva autoritaria e illiberale in stile Patriot Act sul suolo europeo e contro altre conseguenze strumentali e scellerate auspicate dai mandanti degli attentati di ieri (13 novembre) e del 7 gennaio 2015 in Francia”, articolo pubblicato il 14 novembre 2015 sul sito MR, di cui consiglio un’attenta lettura. Dopo qualche polemica iniziale, “a caldo”, rispetto a quanto da lui affermato, ho avuto modo di informarmi meglio sulla figura di Franco Roberti, procuratore antimafia e antiterrorismo, e in molti me ne hanno parlato come di persona seria, competente e amante della libertà e della democrazia. Credo, quindi, che quelle parole (anch’ esse dette “a caldo”, sull’onda dei fatti terribili che ci hanno tutti indignato e scosso) sul fatto di rinunciare alla libertà, specie di comunicazione, in favore della sicurezza, siano state pronunciate in un momento di comprensibile e preponderante preoccupazione di assicurare al popolo italiano il massimo di tutela da minacce terroristiche.  Ma sono altrettanto convinto che Franco Roberti e i suoi collaboratori saranno in grado di lavorare alacremente sul lato della prevenzione e del controllo sapiente del territorio e dei luoghi più esposti a rischio, senza minimamente attentare alle libertà fondamentali dei cittadini. Del resto, il massone progressista Benjamin Franklin, uno dei massimi padri della nascita della prima Repubblica costituzionale e democratica al Mondo, gli Stati Uniti d’America, soleva affermare: “Chi è pronto a dar via le proprie libertà fondamentali per comprarsi briciole di temporanea sicurezza, non merita né la libertà né la sicurezza”.  A proposito dei fatti di Parigi di venerdì scorso, vorrei aggiungere quello che mi hanno suggerito diversi amici fraterni onesti e scrupolosi, tra i quadri e i dirigenti dei servizi d’intelligence (di diverse nazioni) operanti in Francia, e in particolare a Parigi. E sa cosa mi hanno detto? Che senza una falla grossa come una casa nell’operato degli stessi servizi segreti occidentali e francesi (qualche agente infedele che, evidentemente, ha “collaborato” con i terroristi, tradendo con infamia i propri doveri e la propria dignità di uomo e di servitore dello Stato), quello che è accaduto venerdì 13 novembre non sarebbe mai potuto accadere. 

Ma stiamo scherzando? Terroristi che arrivano indisturbati a pochi passi da dove si muove il Presidente della Repubblica e che vanno a fare il più atroce attentato in un locale che avrebbe dovuto essere scientificamente guardato a vista da servizi d’intelligence e sicurezza, in quanto già attenzionato in precedenza per possibili atti di terrorismo e violenza?

Senza la connivenza di apparati deviati dell’intelligence militare e civile, tutto ciò non sarebbe stato assolutamente possibile. Ecco, dunque ci si prodighi per evitare, in Italia, le falle clamorose e inescusabili relative alla prevenzione degli attentati e al presidio capillare dei luoghi più esposti a rischi. E da questo punto di vista, in molti che lo conoscono bene, mi assicurano che Franco Roberti rappresenti una garanzia- per competenza, intelligenza e desiderio sincero di proteggere la popolazione esposta a minacce terroristiche- di prim’ordine.

Quando e come finirà, se finirà, questa tragedia? 

La tragedia non finirà da sola. La sua fine dipende insieme dalle iniziative dei massoni progressisti nel contrastare i progetti di involuzione neo-feudale su scala europea, occidentale e globale e dal risveglio dell’orgoglio di tutti i cittadini comuni, latori pro-quota di sovranità. In questa prospettiva è stato fondato il Movimento Roosevelt (movimentoroosevelt.com), per unire in una alleanza comune élites progressiste e popolo sovrano desideroso di difendere con le unghie e con i denti tre secoli di conquiste democratiche e liberali.

Le sue verità sono sconvolgenti, lei vende tantissimi libri e gira l’Italia a spiegarle a tutti. Ha mai avuto una querela?

Ho ricevuto querele (stralunate) per diffamazione, in relazione alle attività del sito ufficiale di Grande Oriente Democratico (grandeoriente-democratico.com), Movimento massonico d’opinione di cui mi onoro di essere Gran Maestro. Ma non ho ricevuto alcuna querela per questioni attinenti alla pubblicazione del libro Massoni. Società a responsabilità illimitata. La scoperta delle Ur-Lodges.

Nella massoneria, adesso, pensa di avere più amici o più nemici?

Ho sicuramente sia molti amici che molti nemici, all’esterno del network specifico di GOD, parte del più ampio campo di azione della Libera Muratoria progressista, di cui sono parte integrante. Tuttavia, da qualche tempo a questa parte accadono cose un po’ strane… L’altro giorno, ad esempio, qualcuno mi ha iscritto ad un Gruppo “Massoneria” su facebook e poi, su quello stesso Gruppo, ieri, mercoledì 18 novembre, sono stato oggetto di minacce di esplicita violenza fisica e anche di morte, da alcuni massoni italiani, peraltro riconoscibili con nome e cognome. Sarà naturalmente mia cura, nelle prossime ore, allertare della cosa in modo adeguato sia le autorità giudiziarie competenti che l’opinione pubblica. 

Casta per sempre, così i politici si sono tenuti tutti i loro privilegi. Indennità nascoste. Massaggi e viaggi gratis. Infermieri a disposizione anche per i genitori. Abusi di portaborse. E al lavoro solo tre giorni alla settimana. La bufera mediatica è passata, ma poco o nulla è cambiato, scrive Emiliano Fittipaldi il 16 giugno 2016 su "L'Espresso". I senatori e i loro familiari non hanno mai paura di sedersi sulla sedia del dentista. Non perché più coraggiosi degli altri mortali, ma perché il conto, loro, non lo pagano mai. Ci pensano gli italiani: grazie all’assistenza sanitaria integrativa ogni parlamentare può avere rimborsi fino a 25 mila euro nell’arco di un quinquennio. Un plafond che comprende anche «lo sbiancamento di denti non vitali (250 euro per dente)» e «corone in oro e porcellana» a 1.150 euro l’una. Se il Censis segnala che 11 milioni di concittadini rinunciano alle cure a causa della crisi economica, e l’Ufficio di bilancio del Parlamento ha spiegato che il 7,1 per cento evita di farsi visitare perché i costi delle prestazioni sono troppo alti, lo stesso Parlamento regala a ogni senatore della Repubblica un plafond supplementare da 1.500 euro l’anno per farsi «una depressoterapia intermittente». Una somma che può essere spesa anche per «un’idrochinesiterapia» (si fa in piscine termali) e pure - se si tiene alla linea, l’estate ormai è alle porte - per «drenaggio linfatico manuale». In passato i Radicali avevano raccontato che ai deputati vengono rimborsati persino sedute di agopuntura e trattamenti shiatsu. Ebbene, se le proteste a nulla sono servite e i rimborsi per i massaggi sono ancora lì, nessuno sapeva che il tariffario di Palazzo Madama prevede anche «sedute individuali di training per dislessici», e che prevede risarcimenti di quasi mille euro al mese per pagare un infermiere in caso di bisogno (il servizio si può estendere anche ai genitori del senatore). Il senatore può presentare anche fattura per un paio di scarpe ortopediche da 600 euro (qualcuno giura che ce ne sono di molto eleganti in pelle), e se colto da attacchi d’ansia può spendere 5 mila euro l’anno per sedute dallo strizza-cervelli. Ecco. Il tariffario dedicato ai senatori, datato maggio 2015, è solo una delle evidenze che dimostrano come, nonostante gli scandali infiniti, le proteste dell’opinione pubblica, il ludibrio internazionale e le batoste elettorali, i privilegi della "casta"sono stati appena scalfiti. È vero: le province e i costi per gli stipendi dei presidenti e dei consiglieri sono stati cancellati, i vitalizi per gli attuali parlamentari finalmente aboliti, ma per il resto prebende e vantaggi assortiti non sono stati toccati. «Il cash a disposizione dei parlamentari è rimasto praticamente identico», spiega la grillina Laura Bottici, questore al Senato che da tre anni sta ancora tentando di districarsi nella bolgia di sconti e stratagemmi (tutti leciti) con cui gli eletti possono gonfiare busta paga e aumentare le loro franchigie. Andiamo con ordine. La busta paga della Bottici è identica a quella dei suoi colleghi: l’indennità parlamentare è di 5.246 euro netti al mese. Se l’eletto fa anche un altro lavoro, scende un po’, a 4.750 euro. Se i grillini si sono decurtati lo stipendio, sono decine i deputati che mantengono la doppia professione. Nessuno stress: a Montecitorio e Palazzo Madama ci si va pochissimo, e il tempo libero non manca. «In questa legislatura in Senato si lavora da martedì pomeriggio, quando partono le convocazioni in aula e commissione, fino a giovedì mattina. Per interrogazioni o question time si arriva a dopopranzo: ma il senatore non ci va quasi mai, e il giovedì alle 14 parte e torna a casa» ragiona la Bottici. «Pure le commissioni sono sempre deserte: solo quando si vota l’affluenza aumenta, perché la maggioranza non vuol rischiare di andare sotto. Anche noi andiamo poco in aula, lo ammetto: le discussioni sono del tutto inutili, è la regolamentazione che va cambiata al più presto». È probabilmente d’accordo con lei Antonio Angelucci, re delle cliniche romane, almeno a spulciare le statistiche Openpolis: in tre anni deputato-fantasma di Forza Italia ha votato 86 volte su 16.365, con un tasso di assenza pari al 99,51 per cento. A Montecitorio tra i meno presenti ci sono l’altro forzista Rocco Crimi (che ha l’8 per cento di presenze), l’ex Pd Francantonio Genovese (assenze forzate le sue, visto che è stato arrestato nel maggio del 2014), l’alfaniano Filippo Picone (che ha un invidiabile 82 per cento di assenze), seguito a ruota da Giorgia Meloni, oberata leader dei Fratelli d’Italia che vanta un tasso di assenteismo del 76,4 per cento. Recordmen in Senato sono invece l’avvocato di Silvio Berlusconi Niccolò Ghedini e il capo di Ala Denis Verdini: il primo s’è presentato in aula lo 0,91 per cento delle volte, il secondo è stato assente l’88 per cento delle sedute. L’assenteismo è spesso giustificato dall’inutilità della presenza fisica. In effetti, dai tempi dei governi Berlusconi l’interventismo governativo ha trasformato i parlamentari in meri pigiatori di bottoni, obbligati a un ozio strapagato e a una noia dorata. È un fatto che le leggi, principale attività per la quale vengono eletti i Nostri, sono ormai appannaggio quasi esclusivo dell’esecutivo: dal 2013 Camera e Senato hanno approvato in tutto solo 36 leggi di iniziativa parlamentare, mentre ne hanno approvate 176 di iniziativa del governo. In media meno di un dispositivo al mese, contando anche norme sull’equilibrio di donne e uomini nei consigli regionali, l’istituzione del "Premio Biennale Giuseppe Di Vagno" e la nascita del "Giorno del Dono" fortemente voluta dall’ex presidente Carlo Azeglio Ciampi. Un po’ poco, forse, per chi all’indennità aggiunge una diaria forfettaria da 3.503 euro nette al mese, che serve ai deputati per sostenere le spese di soggiorno a Roma (viene decurtata di 206 euro per ogni giorno di assenza, ma un eletto, anche se partecipa al 30 per cento delle votazioni nell’arco di una giornata, è considerato presente). Al gruzzolo vanno aggiunti altri 3.690 euro, sempre netti, come rimborso necessario a garantire il rapporto tra eletto e il suo collegio. Di quest’ultima somma il 50 per cento viene girata direttamente in busta paga, l’altra metà a piè di lista. Può essere usata per pagare collaboratori e consulenze, organizzare convegni e qualsiasi altro «sostegno alle attività politiche». Al Senato il sistema è diverso: «Oltre l’indennità abbiamo rimborsi pari a 9.330 euro al mese, tra diaria, spese generali e quelle per l’esercizio del mandato. Una delle cose più assurde è che la parte che bisogna rendicontare (solo 2.090 euro, ndr) se non si riesce a spenderla per intero entro la fine del mese, può essere "recuperata" prima della fine dell’anno», commenta il questore. «Tutti soldi, si badi bene, non tassati». Matteo Renzi sa bene che il tema degli stipendi-monstre dei parlamentari è uno dei leitmotiv dei movimenti anti-sistema, e non manca occasione di ricordare che la riforma costituzionale prevede un taglio drastico dei senatori (oggi sono 315, ne sopravviveranno 100) e l’eliminazione dell’indennità per chi siederà sugli scranni di Palazzo Madama. Già: il nuovo Senato sarà composto da consiglieri regionali e sindaci che prenderanno solo lo stipendio dall’ente di appartenenza, ma godranno dell’immunità parlamentare. Se ad ottobre vincessero i Sì e la riforma firmata da Maria Elena Boschi entrasse in vigore, i costi generali della struttura secondo uno studio della Ragioneria Generale si ridurrebbero però di appena 9 punti percentuali. Complessivamente il Senato, novello ente inutile, continuerà a costare poco meno di mezzo miliardo di euro l’anno. La metà di quanto costa Montecitorio (nonostante tagli e sforbiciate la Camera pesa ancora un miliardo di euro l’anno sull’erario) e il doppio dei costi del Quirinale, casa del capo dello Stato Sergio Mattarella e altro palazzo che gli italiani continuano a pagare a carissimo prezzo. Per il 2016 la spesa complessiva effettiva sarà pari, si legge nel bilancio di previsione», a 236 milioni di euro, «in diminuzione del 2,15 per cento sul 2015», e di un solo milione sul 2014. Dal 2007, anno in cui il libro di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella evidenziò come la corte presidenziale abitata da centinaia di corazzieri, poliziotti, funzionari e burocrati costasse quattro volte la reggia di Buckingham Palace, è stata tagliata - in termini assoluti - di appena quattro milioni di euro. Nonostante la riduzione del numero del personale, l’aumento costante del costo delle pensioni fa si che il Quirinale costi il doppio dell’Eliseo, e quasi dieci volte la presidenza tedesca. Nulla sembra possa modificare neppure il destino dei portaborse. I deputati possono usare il 50 per cento della diaria per pagare lo stipendio ai propri collaboratori, ma in molti continuano a farne a meno per intascare tutto il cucuzzaro, preferendo rendicontare altre spese. Altri assumono segretari con stipendi da fame. Se la Bottici ricorda che è uso comune girare soldi al partito in cambio di un collaboratore di fiducia (in questo modo gli uffici di Palazzo Madama non sanno nemmeno che tipo di contratto ha), Valentina Tonti, presidente dell’Associazione dei collaboratori parlamentari chiarisce subito che anche in questa legislatura per i portaborse «la situazione non è affatto cambiata». Non esistono infatti regole chiare per l’assunzione, né contratti regolamentati come avviene nel resto d’Europa. «Esistono ancora stagisti che fanno i portaborse senza essere pagati neanche un euro, ragazzi che sono contrattualizzati da un solo deputato ma che lavorano per più parlamentari, altri pagati - almeno in parte - al nero. Nessuno denuncia gli abusi, nemmeno a noi dell’associazione: tutti hanno paura di perdere il posto e di non trovarlo più», dice la Tonti. Com’è possibile che il ricatto occupazionale sia messo in atto nei palazzi del potere nonostante inchieste e scandali a catena? «Non lo so. So solo che qualche mese fa siamo riusciti a far approvare alla Camera un ordine del giorno trasversale, che impegnava il palazzo a studiare nuove norme. Finora non abbiamo avuto riscontri, nonostante a parole sia il presidente Laura Boldrini sia i vari partiti siano totalmente d’accordo». A parole. Nei fatti ad oggi è segreto perfino il numero complessivo delle assunzioni, e che le tipologie contrattuali siano avvolte nel mistero più fitto. L’unica certezza è che il sistema incentiva il parlamentare a risparmiare più possibile sul collaboratore, in modo da intascarsi più denaro possibile. Lo stipendio medio di chi è riuscito a strappare un contratto "normale" si aggirava fino a pochi mesi fa sui 1.100 euro al mese, ma adesso, a causa del Job’s Act, il tempo determinato è diventata un’assunzione più onerosa, «e il netto» conclude la Tonti «si è abbassato». Torniamo a chi, dell’Irpef, se ne frega. La mole di integrazioni economiche per i parlamentari, nell’anno di grazia 2016, sembra infinita. I deputati e i senatori più fortunati continuano ad arrotondare lo stipendio con le indennità di carica: i membri del consiglio di presidenza e i presidenti di commissione sono quelli che le hanno più alte. A Montecitorio tutti godono di un plafond supplementare di 1.200 euro l’anno per il rimborso delle spese telefoniche (fino al primo aprile 2014 era addirittura di 3.980 euro), mentre altri 1.500 euro l’anno sono destinati all’acquisto di un computer o un tablet. Al Senato c’è una voce simile: 2.500 euro per ogni legislatura, «ma io ci ho rinunciato, il pc me lo sono comprato da sola. Così come rifiuto di prendere i soldi che mi spetterebbero per l’esercizio del mandato», chiosa la Bottici, che eliminerebbe con un tratto di penna le norme che permettono di dare somme forfettizzate, in modo da obbligare chi chiede rimborsi spesa a mostrare fatture e pezze d’appoggio. Come dalla nascita della Repubblica, anche nella XVI legislatura i parlamentari hanno privilegi eccezionali sui trasporti: un must della casta. La tessera che gli permette di viaggiare gratuitamente, e in prima classe, su treni, autostrade e aerei in tutto il territorio nazionale non è stata abolita. «Viaggiamo gratis anche se dobbiamo andare al compleanno di nostra nonna», spiegò Carlo Monai a "l’Espresso" qualche anno fa, un ex democrat che chiedeva al Parlamento di mettere controlli affinché fossero pagate solo le trasferte legate all’incarico pubblico. Carlo Fraccaro, deputato del M5S, aggiunge oggi un altro dettaglio: «Per i trasferimenti dal luogo di residenza all’aeroporto più vicino e tra Fiumicino e Montecitorio, è previsto un rimborso spese trimestrale di 3.323 euro per coloro che vivono entro 100 chilometri dall’aeroporto più vicino alla residenza, e di quasi 4 mila euro se la distanza da percorrere supera i 100 chilometri». Ci sono anche altri vantaggi che la legislatura non è riuscita (?) ad eliminare: come la moda di collezionare, a spese del contribuente, miglia Alitalia da utilizzare per viaggi all’estero o quelli di amici e parenti. Senato e Camera fanno riferimento all’agenzia americana Carlson Wagonlit, con sede in Minnesota, e quasi tutti i parlamentari sono frequent flyer Alitalia. Nessuno vieta loro di scegliere altre compagnie, ma i politici se ne guardano bene: da un lato il prezzo di un biglietto low cost lo devono anticipare di tasca propria (mentre con Alitalia anticipa il Parlamento), dall’altro perderebbero i punti fedeltà da accumulare sulla carta "Millemiglia". Punti che sono personali, e che vengono usate dal deputato come meglio crede. Nel 2014 i deputati grillini in un ordine del giorno hanno proposto che Montecitorio valutasse «l’opportunità di avviare una trattativa per riformulare i termini dell’accordo della Camera con Alitalia», in modo da attribuire non al singolo parlamentare ma all’amministrazione i punti maturati con i biglietti aerei pagati con fondi pubblici. Finora, la proposta è rimasta lettera morta. La vita a scrocco è un must indistruttibile. Non c’è scandalo che tenga: se Monai raccontò che parcheggiare al parking di Fiumicino, al silos "E", costa agli italiani 293 euro al mese e al parlamentare solo 50, se i mitici barbieri sono ancora lì (passati da 7 a 4, insieme ai quasi mille dipendenti vedranno una riduzione del loro stipendio a partire dal 2018: a fine carriera potranno comunque arrivare a guadagnare 99 mila euro l’anno), i deputati possono beneficiare - se vogliono comprarsi un’auto nuova - di sconti proposti dalle case automobilistiche, riservati esclusivamente a loro. Sarebbe ipocrita, però, non sottolineare che qualche passo verso la sobrietà è stato comunque fatto. Le auto blu sono calate drasticamente: il Senato - al netto della scorta del presidente Piero Grasso - ha solo sette Audi A6 più quattro auto elettriche, tutte a noleggio; mentre la Camera gestisce nove auto di cilindrata media, più due van monovolume per le delegazioni. «Un parco macchine ridicolo per un’istituzione così importante», protesta un deputato del Nuovo Centro Destra, che ricorda con nostalgia la trentina di berlina 2.4 di due legislature fa. Passasse il referendum sul disegno di legge costituzionale della Boschi, oltre gli stipendi dei senatori verrebbero tagliati con l’accetta le indennità dei consiglieri regionali, in qualche caso più che dimezzate. Il governo Monti, con un decreto, fissò un tetto massimo di 8.500 euro al mese. Netti. Un limite che, vista la crisi economica, resta comunque altissimo: con la vittoria del Sì i consiglieri prenderebbero automaticamente quanto il sindaco del capoluogo della regione di appartenenza: per fare un esempio, in Calabria i consiglieri passeranno da oltre 7 mila euro netti ai 2.500 euro appannaggio del sindaco di Catanzaro. Una mazzata, secondo Renzi. «Spiccioli», per chi considera la riforma un immondo papocchio che non vale «lo stravolgimento della Carta e della nostra democrazia».

Deputati, basta accettare regali costosi. Ora c'è il codice etico. Ma non prevede sanzioni. La Camera si prepara a varare un documento che chiede agli onorevoli di rifiutare doni dal valore superiore ai 250 euro. Ma chi non lo rispetta riceverà solo una segnalazione sul sito internet di Montecitorio, scrive Susanna Turco il 25 marzo 2016 su "L'Espresso". I deputati facciano la cara grazia di non accettare più regali costosi, almeno "nell’esercizio delle loro funzioni". Non che sia una rivoluzione: più che altro è un argine, un appello alla responsabilità dei parlamentari. E’ questa la novità principale del Codice etico che la Camera si appresta a varare, introducendo – sul modello del Parlamento europeo - un limite di 250 euro a "doni e benefici analoghi", oltre il quale il deputato "si astiene dall’accettare", c’è scritto proprio così. Un consiglio, un'indicazione, più che un obbligo: anche perché, allo stato, non sono previste vere e proprie sanzioni per chi continuasse a fare come prima. D’altra parte è un Codice etico, mica una legge. Il testo, appena approvato dalla Giunta del Regolamento, può essere ancora modificato (il termine per gli emendamenti è l’8 aprile), ma dovrebbe venir approvato come "protocollo sperimentale" entro il mese prossimo. Oltre alla preghiera dei regali low cost, ma si prevede una serie di comunicazioni obbligatorie, come quella relativa a tutte le cariche e uffici che si ricoprono e ricoprivano all’epoca della candidatura, le dichiarazioni di spesa per la campagna elettorale, quelle sugli eventuali finanziamenti, la situazione patrimoniale, i redditi. Sarà un "Comitato consultivo sulla condotta dei deputati" a vigilare su eventuali violazioni, ma qui appunto è il bello: per chi non rispetterà il codice non c’è una sanzione, c’è l’esposizione alla pubblica gogna del web. Una punizione politico-mediatica, meglio che niente: gli inadempienti e le violazioni saranno resi pubblici sul sito internet della Camera. "Così si finisce per indebolire la portata dell’intero testo", si è lamentato l’altro giorno in Giunta il grillino Danilo Toninelli. I Cinque stelle, come pure Forza Italia, vorrebbero che almeno si applicassero le stesse sanzioni previste per chi provoca disordini in Aula, come la sospensione del deputato dai due ai quindici giorni. Ma non è così semplice. O meglio non tutti ritengono si possa fare. Secondo l’orientamento emerso sia dall’autore della norma Pino Pisicchio, che dalla presidente della Camera Laura Boldrini, se si inseriscono delle sanzioni, bisogna modificare il Regolamento della Camera. Non si può semplicemente estendere l’applicazione delle norme che già ci sono. Questo, però, significherebbe far passare il Codice etico per l’approvazione dell’Aula di Montecitorio: "E il rischio andare in Aula è finir per non fare più niente", confida lo stesso Pisicchio. Si sa come vanno queste cose: già se la norma diviene efficace così come è, si può chiamarla una vittoria. E allora meglio comunque fare qualcosa, è la logica. Anche perché c’è poco tempo: giusto ad aprile un organismo della Corte Europea (l’acronimo è "Greco"), verrà a verificare i livelli di corruzione in Italia, e uno dei requisiti richiesti riguarda appunto le norme di comportamento dei deputati. Sarebbe spiacevole incorrere in una procedura di infrazione. L’altro requisito richiesto dal Greco, che in verità è ancora più complesso da attuarsi, riguarda la regolamentazione dell’accesso a Montecitorio dei lobbisti. Una questione strettamente connessa con il Codice etico dei parlamentari, come si può intuire. E’ il secondo testo all’esame della Giunta del regolamento, e dovrebbe essere approvato in tandem con il primo. Anche se taluni fanno resistenze, argomentando che servirebbe una vera e propria legge di regolamentazione delle lobbies (che peraltro è in discussione al Senato). L’ambizione ultima, per quel che riguarda la Camera, sarebbe quella di chiudere l’era degli assalti ai corridoi di Montecitorio – tipo mercato delle vacche – quando si discute di legge di stabilità e altri provvedimenti delicati e complessi. E’ sempre stato così, a conseguenza di un regime che di fatto, nei decenni, si è rivelato odiosamente irriformabile. Ma a quali luoghi i lobbisti potranno accedere o meno, lo stabilirà l’Ufficio di presidenza in un secondo momento. Per ora, la Giunta per il Regolamento punta ad approvare un protocollo di regolamentazione: i lobbisti dovranno registrarsi (non è ammesso chi ha sentenze definitive per alcuni reati), dichiarare quali interessi sponsorizzano e, due volte l’anno, pena la cancellazione dal registro, fare una relazione su quali parlamentari abbiano incontrato, quali obiettivi raggiunto, con che "mezzi", e quali spese abbiano sostenuto. La norma al momento riguarda anche gli ex parlamentari che svolgano attività di lobbing. Difficile immaginare un controllo serrato: ma del resto anche una innovazione come quella progettata in questi giorni alla Camera sarebbe un debutto assoluto, nel Parlamento italiano.

ESIBIZIONISMO. LA SINDROME DELL'APPARIRE. QUESTI POLITICI: COMMEDIANTI NATI?

Viene prima il volto televisivo o il politico? Conta più la telegenia e la sfrontatezza o la competenza e la capacità? La notorietà deriva dal piccolo schermo o dalle aule parlamentari?

Ne parla il dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Gli esordi televisivi di molti politici è la manifestazione del loro esibizionismo. Molte persone amano mettersi al centro dell’attenzione, cercano in tutti i modi di farsi notare dagli altri, sentono, cioè, un profondo bisogno di farsi vedere da tante persone, affinchè l’attenzione delle persone sia rivolta solo a loro, perchè si parli di loro.

La politica come strumento dell’esibizionismo. Sono sempre di più, infatti, i volti televisivi che decidono di impegnarsi in politica. 

Dal 1948 a oggi, quanti hanno intrapreso la carriera politica tra attori, attrici, showgirl, cantanti, presentatori, presentatrici, comici, barzellettieri, ecc.? 

Syusy Blady, nota per il programma Turisti per caso: ha aderito alla causa dei Verdi e correrà per loro alle europee 2014.

Alessandro Cecchi Paone, dopo dieci anni il conduttore torna a schierarsi con Forza Italia. “Non potevo dire di no”, ha dichiarato Paone, “sono prontissimo” e correrà per loro alle europee 2014.

Elisabetta Gardini, primo volto di Uno Mattina Rai. Ci aveva provato già nel 1994 ad entrare in parlamento, candidata nel Patto Segni. Ma Elisabetta Gardini viene eletta, alle Europee, solo dieci anni dopo nelle liste del Pdl. Conquistando 34mila preferenze, in sole tre settimane di campagna elettorale. Una carriera, quella di Gardini, cominciata come attrice teatrale e continuata con l'esperienza in tv a Domenica In.

Fabrizio Bracconieri, un ex “ragazzo della III C”, noto anche per il programma Forum, correrà per le europee 2014.

Enzo Tortora al parlamento europeo nel 1984 per il Partito Radicale.

Iva Zanicchi. Da "La zingara" che conquistò Sanremo nel 1969, alla trasmissione "Ok, il prezzo è giusto". Non solo cantante e presentatrice televisiva, Iva Zanicchi ha fatto carriera anche in politica: prima è stata candidata per Forza Italia alle elezioni europee del 1999 e del 2008, senza essere eletta. Poi è subentrata al dimissionario Mario Mantovani ed è stata rieletta europarlamentare nel 2009. La candidata più votata al parlamento europeo nel 2009, battuta solo da Silvio Berlusconi. 

Enrico Montesano e Michele Santoro sempre al parlamento europeo a sinistra.

Vladimir Luxuria, dall’organizzazione del Muccassassina, una delle feste più famose di Roma, fino a diventare la prima parlamentare transgender di un parlamento europeo. Eletta come indipendente nel 2006 nelle liste di Rifondazione Comunista, Vladimir Luxuria si è battuta alla Camera per i diritti della comunità Lgbt.

Lilli Gruber sempre al parlamento europeo, lo schieramento quello dell'Ulivo.

Barbara Matera, dopo aver conquistato la notorietà diventando “signorina buonasera” in Rai, prima rinuncia alla candidatura alla Camera nel 2008, così da finire gli studi, poi un anno dopo accetta l’offerta del Pdl per le Elezioni europee.

Come si arriva all’elezione della velina Barbara Matera al Parlamento europeo? Quando l’uso strumentale del corpo si impone al punto da diventare esso stesso messaggio politico? 

Per raccontare questa storia è necessario fare un passo indietro al settembre 2004: Flavia Vento. "Nasce il mio nuovo movimento Figli dei fiori". Così Flavia Vento, la soubrette nota al grande pubblico grazie a Libero, il programma di Teo Mammucari, aveva annunciato su twitter il suo ingresso in politica.  

Ylenia Citino, candidata nelle liste di Forza Italia alle Europee e laureata alla LUISS. L'ex tronista, per un paio di mesi, della nota trasmissione di Maria De Filippi “Uomini e donne”.

Ilona Staller, in arte Cicciolina, una delle più note pornodive, fa il suo ingresso in Parlamento nel 1987, eletta alla Camera dei deputati nelle liste del Partito Radicale, con 20mila preferenze, seconda solo a Marco Pannella.

Gabriella Carlucci, della sua carriera televisiva si ricorda soprattutto l’edizione di Buona Domenica condotta insieme a Gerry Scotti nel 1994. Lo stesso anno in cui si iscrive alla neonata Forza Italia. Due lauree, una in letterature straniere, l’altra in Storia dell’Arte, Carlucci è stata deputata dal 2001 al 2013 nei gruppi parlamentari di Forza Italia, poi Pdl, fino all’Udc di Pier Ferdinando Casini.

Debora Caprioglio. Il ruolo da protagonista in Paprika, il film di Tinto Brass del 1991, l’ha portata al successo. E’ stato Francesco Pionati, leader dell’Alleanza di Centro, a offrirle il ruolo di madrina della seconda Assemblea nazionale dell’Adc e poi responsabile nazionale di Cultura e Spettacolo nello stesso partito.

Alessandra Mussolini, nipote d'arte di Sophia Loren, prova a intraprendere la stessa carriera della zia come attrice. Ma invece viene candidata giovanissima alla Camera nel 1992 nelle liste del Movimento Sociale Italiano. Poi, un percorso all'interno di Alleanza Nazionale per poi approdare nel Popolo della Libertà di Silvio Berlusconi.

Ombretta Colli, cantante e attrice, dopo aver condiviso col marito Giorgio Gaber ideali di sinistra, comincia la sua carriera politica in Forza Italia, diventando prima deputata nel 1995, poi senatrice, fino ad essere eletta come Presidente della Provincia di Milano e poi nominata Sottosegretaria alle Pari Opportunità, Moda e Design della Regione Lombardia nella giunta di Roberto Formigoni.  

Anna Kanakis Miss Italia nel 1977, ha avuto anche una breve carriera politica come responsabile nazionale di Cultura e Spettacolo nell’Unione Democratica per la Repubblica, fondato da Francesco Cossiga nel 1998 e di cui Clemente Mastella è stato segretario.

Carlo Calenda, Ministro del Governo Renzi, ed il passato da attore. Oltre ad essere figlio, come detto, dell’economista Fabio Calenda, Carlo è anche figlio della regista Cristina Comencini. E forse non è un caso che nel suo pedigree ci sia anche un brevissimo passato di attore. Infatti, nell’estate del 1983, quando aveva solo dieci anni, ha interpretato il piccolo scolaro Enrico Bottini nello sceneggiato televisivo «Cuore», ispirato all'omonimo romanzo di Edmondo de Amicis. Il film è stato diretto dal nonno Luigi Comencini.

Daniela Santanché, quando aveva ventidue anni, nel 1983, fu intervistata da una trasmissione tv che si chiamava “Viva le donne”, condotta da Amanda Lear. Le chiesero a quale programma televisivo avrebbe voluto partecipare e lei rispose: al telegiornale. Poi le chiesero cosa volesse fare da grande e lei rispose: "il ministro del Tesoro".

Michela Brambilla. Finisce tra i più visti di YouTube il video, scovato dalla Gialappa's, che documenta i suoi primi passi in tv. La rossa del Pdl era inviata di "I misteri della notte" nel 1991: occhiali scuri e guanti di pizzo, visitava i locali notturni di Barcellona, tra topless e balli sadomaso. Per la sua entrata in politica la motivazione l’ha data Silvio Berlusconi: “E’ un’ira di Dio, una che non molla l’osso”, ha detto scherzando, ma non troppo, perché Michela è sempre stata così, una “rompiballe che non si arrende mai”, come dice lei stessa, e che quando vuole qualcosa non demorde finché non l’ha ottenuto, scrive “Affari italiani”. Lo sa anche Giorgio Medail, che tenne a battesimo la ventenne Michela nel mondo del giornalismo televisivo. Michela l’aveva incontrato a Salsomaggiore, dove, con la fascia di Miss Romagna, partecipava alle finali di Miss Italia: non vinse, ma cominciò a tempestare di telefonate Medail, finché non la prese a lavorare con lui a Canale5. Su Youtube è ancora cliccatissimo uno dei suoi servizi tv del 1991 per “I misteri della notte”, programma “esoterico” di Medail, dove Michela gira per le discoteche di Barcellona in abbigliamento dark e succinto.

Mara Carfagna. La valletta della tv. Tra i video più datati, quello del suo esordio a TeleSalerno: Mara aveva 21 anni ed era una studentessa. Presentando Carfagna, il conduttore spiega che «i suoi hobby sono il piano e il canto», «non sopporta la falsità e l’ipocrisia» e che il suo sogno nel cassetto è «danzare all’American Ballet Theatre». Di lei, Silvio Berlusconi disse: "Se non fossi già sposato, la sposerei immediatamente". Mara Carfagna, dopo la carriera televisiva, si affaccia alla politica diventando coordinatrice del movimento femminile di Forza Italia in Campania. Poi viene eletta alla Camera nel 2006 e nominata nel 2008 Ministro per le pari opportunità.

E poi ci sono loro: l’aspirante Premier ed il Premier.

Matteo Salvini. «Striscia la notizia» ha scovato un video di Matteo Salvini, attuale leader del Carroccio, quando partecipò alla trasmissione «Il pranzo è servito» condotta da Davide Mengacci. Era il 1993. Capelli lunghi, pizzetto e basettoni, giacca e cravatta fantasia e qualche chilo in meno di adesso, il giovane Matteo si presentò così al conduttore che gli chiedeva la sua professione: «Sono nullafacente, iscritto all’università in attesa di fare esami».

Matteo Renzi. Da tempo circola il filmato di Matteo Renzi, quando partecipò nel 1994 alla trasmissione «La ruota della fortuna con Mike Bongiorno. Il giovane Matteo arrivato «da un piccolo paese in provincia di Firenze, Rignano sull’Arno», come dice lui stesso nel video, racconta il suo hobby: «Faccio l’arbitro di calcio a livello dilettantistico, in seconda categoria».

Sicuramente in quest’elenco molti nomi mancano. Mi scuso per loro non averli ricordati.

Il moralismo dei tifosi. Troppe volte chi fa politica, in Italia, si comporta come gli ultrà del calcio, che hanno la coscienza offuscata dal credo sportivo, scrive Giorgio Mulè il 29 aprile 2016 su "Panorama". Che poi, in cuor loro, manco i tifosi della Juventus credono fino in fondo alla filastrocca che canticchiano dopo ogni vittoria: "Siamo noi, siamo noi...i migliori dell'Italia siamo noi. Perché va bene il quinto scudetto consecutivo e il sano sfottò ai rosiconi, però loro per primi sanno che Calciopoli non si cancella, che gli "aiutini" e le "sviste" degli arbitri hanno influito sul corso dell'ultimo campionato. Però sono tifosi, appunto. E per loro stessa natura i tifosi sono fanatici, spesso hanno la coscienza offuscata dal credo sportivo e sanno ben nascondere la realtà che non gli piace. Ma chi fa politica può essere tifoso? Chi ha l'onere di amministrare un Comune, una Regione o il Paese può davvero essere credibile se ripete in modo stucchevole "Siamo noi, siamo noi...i migliori dell'Italia siamo noi"? E se mentre lo ripete l'ipocrisia lo seppellisce? E se i comportamenti che lui rimprovera all'avversario sono esattamente gli stessi che lui perdona o fa finta di non vedere tra chi "gioca" nella sua squadra? Non parlo di falli di reazione, di sfoghi improvvisi. Ma di unaincultura politica purtroppo radicata. A Roma il Pd si è scatenato contro la candidata a sindaco dei 5 stelle. Lasciamo perdere il video farlocco dell' Unità che la voleva tra i sostenitori di Berlusconi ("Non è informazione, ma una vergogna" ha correttamente detto il presidente nazionale dell'Ordine dei giornalisti, anche a fronte delle mancate scuse del quotidiano) e dedichiamoci agli attacchi recenti del partito di Renzi: prima hanno accusato la Raggi di aver "nascosto" il suo praticantato legale presso lo studio Previti, poi di essere stata, sempre in veste professionale, cooptata nel cda di una società legata al braccio destro dell'ex sindaco Gianni Alemanno. Senatori e deputati del Pd hanno scatenato una tempesta di critiche ferocissime al grido di #omertàomertà o #raggiri, con dichiarazioni di fuoco su giornali e televisioni. Spostiamoci di 600 chilometri a nord. A Milano il candidato del Pd Beppe Sala è stato finora inchiodato a una serie di omissioni ben più gravi rispetto a quelle della Raggi per non parlare delle spericolate arrampicature sui conti Expo: ha dichiarato "sul mio onore" di non avere una casa in Svizzera e ha pure dimenticato di specificare di non aver solo un "terreno sito nel Comune di Zoagli" ma anche una bella villa. Avete per caso letto non dico un tweet al vetriolo, ma un felpato rimbrotto dei compagni di partito? Ovviamente no. La doppiezza del tifoso vale anche per gli indagati: si pretendono e ottengono le dimissioni del ministro Maurizio Lupi non indagato e si tiene al suo posto il sottosegretario Vito De Filippo che, a parte essere indagato nell'inchiesta Tempa rossa, è politicamente indifendibile al pari di un nugolo di amministratori lucani neppure sfiorati da un provvedimento di sospensione temporaneo dal partito. Vedremo adesso l'atteggiamento di lorsignori dopo l'inchiesta che vede il presidente del Pd campano, Stefano Graziano, sotto inchiesta per concorso esterno in associazione camorristica. Vedremo come sarà declinata stavolta l'arte dei "migliori", l'antica supponenza che accomuna Renzi oggi, D'Alema ieri e Prodi l'altro ieri: cambia la specie nei secoli, ma la trasmissione del Dna è identica. Eccoli lì tutti e tre a riempirsi la bocca, quando conviene loro, di presunzione di innocenza. La presunzione abbonda, quanto all'innocenza meglio lasciar perdere.

Il Partito Democratico peggio della mafia? A contar gli indagati e gli arrestati sembra di sì!

Brescello sciolto per mafia, la dinastia di sinistra dei Coffrini e il condizionamento del clan delle “persone perbene”. Il paese di Peppone e Don Camillo è stato amministrato dal 1985 da Ermes (Pci) e poi dal figlio Marcello (prima assessore all'Urbanistica e poi primo cittadino). Negli anni tanti gli episodi controversi che hanno caratterizzato la cittadina emiliana: nel 1992 uno dei rari omicidi di 'ndrangheta, nel 2003 l'intervista del sindaco "padre" che difende Grande Aracri ("Qui si è comportato bene") e nel 2014 quella del sindaco "figlio" che dice il boss "è educato". Il Pd ne ha chiesto le dimissioni solo nel 2016, scrive David Marceddu il 20 aprile 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Hanno amministrato Brescello per 30 anni i Coffrini. Ma ora lo scioglimento per infiltrazioni mafiose del loro comune chiama in causa le loro scelte amministrative: in attesa di capire che cosa dice la relazione segretata che ha portato alla scelta del consiglio dei ministri, il governo parla in un comunicato di “accertate forme di condizionamento della vita amministrativa da parte della criminalità organizzata”. “Ho la coscienza a posto, sono sicuro del mio operato e di quello di mio padre Ermes”, spiega Marcello Coffrini, sindaco fino a pochi mesi fa. I due ex primi cittadini non risulta che siano mai stati indagati in inchieste penali, eppure, già da tempo, erano finiti al centro di polemiche politiche per i loro giudizi espressi pubblicamente su Francesco Grande Aracri di Cutro. Per intendersi, Nicolino, il più famoso dei fratelli Grande Aracri, è considerato punto di riferimento della ‘ndrina reggiana sgominata dall’inchiesta Aemilia della Dda di Bologna. Ma torniamo a Brescello, paese di 5mila anime in cui nel 1992 si verifica uno dei rari omicidi di ‘ndrangheta in terra emiliana: quello di Giuseppe Ruggiero, freddato in una guerra tra cosche. Era invece il 1985 quando Ermes, avvocato amministrativista di fama, diventa primo cittadino per il Partito comunista italiano: in pratica un erede ideale del Peppone di Guareschi che da queste parti si scontrava con Don Camillo. Cade il muro di Berlino, sparisce la falce e il martello, inizia la seconda repubblica, ma Ermes rimane al suo posto sino al 2004, quando lascia il testimone a Giuseppe Vezzani, sempre in quota Pd. Ma la dinastia non è conclusa: Marcello, figlio di Ermes, anche lui avvocato, diventa assessore all’urbanistica, posto chiave in qualunque giunta. E rimane lì per 10 anni durante i quali, secondo quanto trapela dalla relazione che ha portato allo scioglimento, alcune scelte urbanistiche avrebbero in qualche modo favorito uomini vicini proprio ai Grande Aracri. Nel 2014 infine diventa sindaco lui stesso, 10 anni dopo suo padre: ma per Marcello sarà una esperienza breve. A settembre dello stesso anno arriva la vicenda dell’intervista su Francesco Grande Aracri, anche lui condannato per mafia e da tempo residente a Brescello, e i riflettori della stampa si accendono sul paese. E il destino politico di Marcello è segnato. La figura di Francesco Grande Aracri torna alla ribalta diverse volte nei 30 anni della dinastia Coffrini. In una intervista del 2003 il sindaco Ermes parla di Grande Aracri, che allora era già stato arrestato, ma ancora non era stato condannato per mafia: “A noi non risulta nulla, qui si è sempre comportato bene, ha fatto anche dei lavori in casa mia e si è visto assegnare dei lavori dal Comune”. In quello stesso anno, un barista brescellese racconta di essere stato minacciato da persone che gli chiedevano il pizzo. Immediatamente appende un cartello con scritto “Chiuso per mafia” e abbassa le serrande. Ermes reagisce preannunciando cause legali per tutelare il nome di Brescello e la revoca della licenza al barista. Poi assicura: di organizzazioni criminali “non risulta il radicamento nei nostri territori”. Ma c’è di più. Pochi giorni prima della notizia dello scioglimento, era venuto anche a galla che nel lontano 2002 (e sino al 2006) Francesco Grande Aracri e diversi suoi fratelli (ma non Nicolino) erano stati difesi davanti al Tar di Catanzaro proprio da Ermes Coffrini. “Se viene un signore e ha bisogno non gli chiedo un certificato penale o attinenze con la sua moralità. Io tutelo un diritto particolare. Altrimenti qui un avvocato non deve più tutelare un eventuale mafioso o un medico curarlo?”, ha spiegato Ermes Coffrini alla Gazzetta di Reggio. E il Partito democratico dov’era? A settembre 2014, come detto, scoppia la bufera su Marcello Coffrini che durante una intervista alla web tv Cortocircuito aveva definito Francesco Grande Aracri uno “molto composto, educato, che ha sempre vissuto a basso livello”. Il Pd non ne chiede le dimissioni. Convoca Marcello Coffrini a un incontro di sindaci, lo sgrida, ma lo lascia al suo posto. Motivo? Coffrini non risultava, a detta dell’assemblea dei sindaci, un iscritto al partito. Un anno e mezzo dopo ci vorrà Beppe Grillo per ritirare fuori il caso: stretto dalle polemiche sulla vicenda della sindaca di Quarto, il fondatore dei 5 stelle ricorda al Pd la vicenda di Brescello. Solo allora, e siamo a gennaio 2016, il Partito democratico – che non aveva messo in discussione Coffrini neanche al momento in cui il prefetto aveva mandato una commissione d’accesso per valutare lo scioglimento – decide di darsi una mossa e impone ai consiglieri comunali iscritti di togliere la fiducia al sindaco. Non tutti obbediranno, ma a quel punto Coffrini alza bandiera bianca autonomamente e si dimette. “Non ho timori, le mie dimissioni sono tutto tranne una fuga. Non ho nessuna responsabilità di tipo penale”, spiegherà l’ormai ex sindaco.

Tutti gli indagati del Partito Democratico. Il coinvolgimento di esponenti di sinistra nelle inchieste sulla criminalità organizzata campana non desta più scalpore. Le prove? Eccole. L’indagine per concorso esterno in associazione camorristica..., scrive Lu. Ro. Il 28 aprile 2016 su “Il Tempo”. Il coinvolgimento di esponenti di sinistra nelle inchieste sulla criminalità organizzata campana non desta più scalpore. Le prove? Eccole. L’indagine per concorso esterno in associazione camorristica a carico di Stefano Graziano, consigliere regionale e presidente del Pd campano, è solo l’ultimo esempio. Prima di lui la Dda di Napoli ha messo sotto inchiesta per il medesimo reato anche uno dei simboli dell’antimafia di sinistra, l’ex parlamentare Lorenzo Diana che secondo Roberto Saviano era l’unico politico temuto dai clan. Gli stessi inquirenti ipotizzano che a Casavatore (Napoli) il clan Ferone avrebbe appoggiato alle ultime elezioni comunali anche il candidato sindaco del Pd, poi sconfitto, Salvatore Silvestri. È del gennaio scorso, invece, la notizia (smentita dal diretto interessato) del coinvolgimento dell’europarlamentare del Pd Nicola Caputo in un’inchiesta dell’antimafia sul voto di scambio. Nel luglio scorso, poi, il prefetto di Caserta Arturo De Felice ha sospeso il consiglio comunale di Villa di Briano (Caserta) dopo le dimissioni di sette consiglieri, conseguenza diretta dell'inchiesta sulle infiltrazioni camorristiche al Comune che aveva portato all’arresto del dirigente comunale Nicola Magliulo, fratello del sindaco Pd Dionigi, a sua volta indagato per peculato e abuso d'ufficio perché, secondo la Dda, avrebbe messo a disposizione uomini e mezzi del Municipio per pulire un mobilificio a cui gli stessi camorristi avevano messo fuoco allo scopo di truffare l'assicurazione. Nel giugno del 2015, inoltre, il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha condannato a 10 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa l'ex sindaco di Villa Literno (Caserta) ed ex consigliere regionale Enrico Fabozzi. Anche lui del Pd. Corruzione aggravata dal metodo camorristico è, poi, l’accusa che pesa sul capo dell’ex sindaco di Orta d’Atella (Caserta) ed ex consigliere regionale Ds Angelo Brancaccio, mentre dello stesso reato deve rispondere l'ex primo cittadino Pd di Gricignano d'Aversa (Caserta) Andrea Lettieri.

L’esercito degli indagati del Partito Democratico. Più di 100 esponenti sott’inchiesta per vari reati, scrive Silvia Mancinelli il 27 aprile su “Il Tempo”. L’elenco degli indagati del Pd in Italia si fa sempre più lungo. Con Graziano arriviamo a quota 125. I reati sono vari, gravi e meno gravi, a seconda dei casi. Fra i più noti c’è Luigi Lusi, ex senatore romano del Pd nei guai per i soldi della Margherita, fino ai «coinvolti» in Mafia Capitale: Daniele Ozzimo, ex assessore, Mirko Coratti, ex presidente dell’Assemblea capitolina. Sempre nel Lazio troviamo Maurizio Venafro, già capo di gabinetto di Nicola Zingaretti, Andrea Tassone, non più presidente del X municipio, Pierpaolo Pedetti, ex consigliere Pd. Nel tritacarne dell’inchiesta sulle spese pazze in regione spuntano, Esterino Montino, oggi sindaco di Fiumicino, e poi i parlamentari Giancarlo Lucherini, Bruno Astorre, Claudio Moscardelli, Francesco Scalia, Daniela Valentini, Enzo Foschi e Marco Di Stefano, nei guai anche per altro. Ovviamente c’è Ignazio Marino, per le vicende degli scontrini e della nota onlus. Passando in Lombardia come non citare Tiziano Butturini che ha patteggiato la pena in un’inchiesta dove spunta la ’ndrangheta. E ancora, indagati a vario titolo per altre storie giudiziarie i sindaci Maria Rosa Belotti (Pero) Gianpietro Ballardin (Brenta), Mario Lucini (Como). Particolare il caso di Filippo Penati che si è avvalso della prescrizione per uscire dal processo. Altro filone sulle spese pazze vede tirati in ballo Luca Gaffuri, Carlo Spreafico, Angelo Costanzo. Scomoda inchiesta quella che vede protagonista Luigi Addisi. In Piemonte la lista degli indagati su più inchieste si apre con Maura Forte, sindaco di Vercelli, Giovanni Corgnati, Davide Sandalo, ex presidente del Consiglio comunale di Casale Monferrato (Alessandria). A Verbania spicca il caso dell’ex vicesindaco Giuseppe Grieco e l’ex presidente del Consiglio comunale Diego Brignoli. A Torino figura invece il consigliere regionale Daniele Valle, Rocco Fiorio, presidente della V circoscrizione, la deputata Paola Bragantini e il suo compagno Andrea Stara. In Liguria, tra l’inchiesta Mensopoli del 2007, la centrale a carbone e le alluvioni poi emergono i nomi diAntonino Miceli, dell’allora sindaco di Genova Marta Vincenzi, Raffaella Paita, ex assessore alla Protezione civile, e Franco Bonanini (poi passato al centrodestra). E che dire del Veneto con l’ex sindaco di Venezia del Pd, Giorgio Orsoni e il tesoriere Giampietro Marchese, entrambi nei guai per finanziamento illecito ai partiti. In Emilia Romagna i pm, a proposito delle spese pazze in Regione, hanno puntato Marco Monari, Damiano Zoffoli, Andrea Gnassi, Virginio Merola e Vasco Errani. La Toscana miete «vittime» eccellenti in diversi filoni investigativi, come gli ex assessori fiorentini Gianni Biagi e Graziano Cioni. Segue l’ex capogruppo Pd in consiglio comunale Alberto Formigli, l’ex sindaco di Firenze Leonardo Dominici, il sindaco di Siena Bruno Valentini, l’ex sindaco di Livorno Alessandro Cosimi e gli assessori della stessa città Bruno Picchi e Walter Nebbiai. Le regioni rosse come le Marche e l’Umbria contano invece Gianmario Spacca, Vittoriano Solazzi e Angelo Sciapichetti, Leopoldo Di Girolamo e Fabio Paparelli. Un salto in Abruzzo con Roberto Riga, ex vicesindaco de L’Aquila. Ancora più giù, in Basilicata, dove il Partito Democratico deve fare i conti con le indagini sul governatore Marcello Pittella, oltre a Vincenzo Folino, Giuseppe Ginefra, Federico Pace, il sottosegretario alla Sanità Vito De Filippo e l’assessore regionale all’Agricoltura Luca Braia. La lista è lunga assai. In Sardegna c’ha pensato Renato Soru, segretario regionale, nonché europarlamentare ed ex governatore, a farsi «attenzionare» dai magistrati. Mentre in Sicilia i riflettori delle procure si sono accesi su Elio Galvagno, Mirello Crisafulli , Vito Daniele Cimiotta , l’ex senatore Nino Papania e Gaspare Vitrano . Associazione a delinquere e tentata concussione sono invece le accuse che vedono imputato il governatore Vincenzo De Luca in Campania. Indagati anche tre suoi collaboratori: Nello Mastursi, Enrico Coscioni e Franco Alfieri. C’è pure Antonio Bassolino, uscito indenne da quasi tutti i processi sui rifiuti ma ancora in bilico per uno che lo vede imputato di peculato. Poi, Enrico Fabozzi, ex sindaco di Villa Literno ed ex consigliere regionale condannato in primo grado a 10 anni per concorso esterno in associazione camorristica, e i sindaci Giosy Ferrandino e Giorgio Zinno al centro di inchieste su presunti appalti pilotati.

In coda, ma solo geograficamente, la Puglia e la Calabria con il senatore Alberto Tedesco, l’ex sindaco di Brindisi Mimmo Consales, l’ex presidente della provincia di Taranto Gianni Florido e il suo assessore all’Ambiente Michele Conserva, Donato Pentassuglia, assessore della Giunta Vendola, Michele Mazzarano, consigliere regionale sotto processo per finanziamento illecito ai partiti, e «colleghi» come Fabiano Amati, Gerardo De Gennaro ed Ernesto Abaterusso. Voti in cambio di appalti e posti di lavoro ai clan le ombre costate i domiciliari all’ex sottosegretario Sandro Principe. Non un caso unico se si guardano gli altri nomi snocciolati nelle inchieste calabresi: Orlandino Greco, il consigliere regionale indagato per corruzione elettorale e voto di scambio politico-mafioso, Nino De Gaetano, Nicola Adamo, Antonio Scalzo, Carlo Guccione, Vincenzo Ciconte e Michelangelo Mirabello. I favori ai Casalesi per gli appalti, che oggi vedono indagato per concorso esterno in associazione mafiosa Stefano Graziano, sembrano dunque essere solo l’ennesima puntata di una saga horror che sta mietendo vittime illustri in ogni ambito istituzionale. Dai presidenti dei municipi ai consiglieri regionali, dai sindaci ai parlamentari. «Democraticamente» appunto, come si conviene - visto il nome - nel Partito.

"Ecco la verità su Pd, soldi e mafia". L'anticipazione del libro scritto da Gianni Alemanno. Documenti, inchieste e ricostruzioni dimostrano le responsabilità della Sinistra, scrive Alberto Di Majo il 30 marzo su “Il Tempo”. Un viaggio lungo cinque anni, in cui si sono intrecciati progetti, ambizioni e fallimenti. Farà discutere «Verità Capitale - Caste e segreti di Roma» (edito da Koinè) di Gianni Alemanno. Non è un’operazione di «riabilitazione», tutt’altro. L’ex sindaco ricostruisce la sua esperienza alla guida della città eterna senza usare alibi e scuse: «Ci siamo lanciati verso obiettivi difficili e impervi, con una macchina con le ruote sgonfie e il volante rotto. Non potevamo non romperci l’osso del collo, anzi fin troppo è stato realizzato in queste condizioni». Alemanno riconosce anche «la debolezza e l’impreparazione della mia squadra di governo, che deriva da miei personali errori di valutazione e dalla fragilità del movimento politico che mi ha portato a governare il Campidoglio». Ma, altrettanto onestamente, nota che «le molto più esperte e organizzate compagini delle amministrazioni di sinistra fino ad allora erano riuscite solo a nascondere "la polvere sotto il tappeto", a vendere bene l’immagine di Roma, non certo a modificarne in meglio la realtà profonda». Presenta dati e analisi, l’ex sindaco, per mostrare che la Capitale che lui ha «ereditato» nel 2008, era già tecnicamente fallita. Come quando il segretario generale entrò nel suo studio il primo giorno: «"Che cosa succede?" Chiesi un po’ intimorito. "Succede che non abbiamo i soldi neppure per pagare gli stipendi" rispose asciutto il superburocrate che aveva regnato sul Campidoglio per tutta l’epoca di Rutelli e Veltroni». Alemanno arriva anche a chiedere scusa ai romani e «a chi mi ha seguito nella mia avventura in Campidoglio». Ma ammettere i propri errori non significa assolvere gli altri. Per questo, ribadisce più volte nelle pagine del suo libro, che il vero responsabile dello sfascio Capitale è il centrosinistra. Ecco perché è arrivata come una doccia fredda la «visita» dei carabinieri quel 2 dicembre 2014. Erano le 8,40. «Una squadra del Ros si presenta sotto casa suonando al citofono. Alle loro spalle le telecamere di una troupe di Report, opportunamente allertate, per documentare "l’evento storico". Attimi di panico familiare, confusione, poi degli imbarazzati sottufficiali dei Carabinieri, ricevuti nel mio studio, mi presentano un avviso di garanzia e un ordine di perquisizione per il reato previsto dall’articolo 416 bis del Codice penale. "416 bis, 416 bis...questo articolo mi dice qualcosa, ma non riesco a ricordare quale reato indichi..." domando agli ancora più imbarazzati militi. Il più alto in grado, dopo essersi schiarito la voce, mi risponde: "Sindaco, è associazione per delinquere di stampo mafioso". Ci guardiamo negli occhi, da un lato all’altro della mia scrivania, in una reciproca espressione di stupore e di imbarazzo. "Ma...è previsto l’arresto?" domando. Non si preoccupi, per carità... solo l’accusa di essere mafioso"». Da qui ha prevalso quello che Alemanno definisce il «teorema fascio-mafioso», tutto incentrato sulla sua amministrazione, benché lui stesso avesse più volte denunciato il salto di qualità delle mafie a Roma, che «avevano superato il livello dei semplici investimenti economici e del riciclaggio di denaro sporco, per cominciare a diventare presenza organizzata nel territorio». Non è un caso, precisa, che nell’inchiesta su Mafia Capitale «la percentuale delle persone coinvolte collocate politicamente sarà più o meno la seguente: 70% di sinistra 30% di destra». I ricordi di Alemanno tornano amari. L’ex sindaco richiama l’attuale presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, allora numero uno della Provincia di Roma, soprannominato «er saponetta», dice, per la sua abilità nello schivare problemi e difficoltà. Fu lui, sostiene Alemanno, a «salvare» Luca Odevaine (uno dei protagonisti dell’inchiesta della Procura di Roma, ndr), già vicino all’ex primo cittadino Veltroni, nominandolo capo della Polizia provinciale. «Con questo non voglio dire che Walter Veltroni e Nicola Zingaretti fossero consapevoli dei traffici di Odevaine, ma non posso non rilevare la profonda differenza di trattamento tra me e loro. Mentre io ricevevo l’avviso di garanzia e venivo sbattuto sulle prime pagine di tutti i giornali, Veltroni era considerato uno dei "quirinabili" fino alla vigilia dell’elezione del Presidente Mattarella. Zingaretti, dal canto suo, ha continuato fino ad oggi a governare indisturbato la Regione Lazio, nonostante un altro uomo del suo entourage, il capo di Gabinetto Maurizio Venafro, sia stato rinviato a giudizio per un ulteriore filone dell’indagine su Mafia Capitale». Alemanno non nasconde la delusione per il trattamento ricevuto dai suoi colleghi di partito. Con Giorgia Meloni l’ha unito lo stesso movimento, «Fratelli d’Italia», e diviso più di un anno di silenzio dopo una breve telefonata, quella in cui Alemanno preannunciava la volontà di auto-sospendersi dalle cariche di partito. «Ancora più deludente fu l’atteggiamento di due persone con cui faccio politica dagli anni ’70 e che sono stati i miei più stretti collaboratori e alleati in tantissime occasioni. Sto parlando di Andrea Augello e di Fabio Rampelli (...)». L’ex primo cittadino non risparmia Giancarlo Cremonesi e Massimo Tabacchiera. Il primo, eletto alla presidenza della Camera di Commercio di Roma, il secondo all’Atac e all’Agenzia della Mobilità. Entrambi scomparsi, si lamenta Alemanno. Aveva ragione Andreotti: in politica la gratitudine è il sentimento della vigilia. L’ex sindaco parla anche, ma con termini diversi, degli imprenditori Caltagirone e Cerroni, mai avvantaggiati, rivendica. A differenza della gestione del centrosinistra («con Veltroni la raccolta differenziata era ferma al 17%, con me è arrivata al 30»). Nel libro ci sono aneddoti e curiosità. Come quando Gheddafi arrivò nella Capitale e volle tenere un discorso rivolto al popolo romano. Di fronte a impiegati comunali e dipendenti delle società partecipate, il raìs parlò della necessità di liberarsi dei partiti. Prima, sotto la lupa che allatta i gemelli all’ingresso del Campidoglio, Gheddafi aveva chiesto ad Alemanno: «Ma sarà vera questa storia?».

"Rovinato dai pm per proteggere Delrio e il Pd". Prosciolto l'ex assessore Pdl di Parma Bernini, accusato di avere chiesto voti alla 'ndrangheta: "Coperte le responsabilità dei democratici", scrive Mariateresa Conti, Domenica 24/04/2016, su "Il Giornale". Quella che Renzi, qualche giorno fa, ha definito «barbarie giustizialista» lui, Giovanni Paolo Bernini, 53 anni, ex consigliere del ministro Pietro Lunardi, ex presidente del Consiglio comunale ed ex assessore Pdl a Parma nella giunta Vignali, la conosce bene. Prima, nel 2011, 21 giorni di carcere e due mesi di domiciliari per accuse poi smontate. A gennaio del 2015 la nuova richiesta d'arresto nell'inchiesta sulla ndrangheta in Emilia Romagna, sfociata nel processo Aemilia. Un anno e mezzo di calvario, con l'accusa di voto di scambio politico mafioso. Adesso il proscioglimento, col rito abbreviato: l'aggravante di aver preso i voti dei boss, già bocciata da due giudici e sulla quale il pm insisteva, per il Gup di Bologna non sussiste, e l'eventuale corruzione elettorale è ormai prescritta. «Ma la mia battaglia vera dice Bernini comincia adesso. Mi rivolgo al presidente della Repubblica e al Csm, con un esposto. Ci sono troppi dubbi e lacune in questa vicenda. Io voglio sapere perché, nonostante le intercettazioni che coinvolgono esponenti del Pd locali e nazionali come il ministro Delrio, questi non sono stati toccati neppure da un avviso di garanzia, mentre io e il collega consigliere di Forza Italia Pagliani (anche lui assolto, ndr) siamo stati arrestati». È un fiume in piena, Bernini. Al sollievo per la fine di una vicenda giudiziaria che ha stroncato la sua carriera politica in ascesa, si accompagna la rabbia, tanta, per quello che definisce «accanimento giudiziario». «E cosa è - spiega - se non accanimento giudiziario un pm che nonostante la sonora bocciatura di due giudici insiste sull'aggravante mafiosa? Se poi aggiungiamo il fatto che il pm Marco Mescolini, era nel 2006 nell'ufficio di un viceministro del governo Prodi, ecco, credo che questo la dica lunga sull'andazzo di questa inchiesta. In un Paese civile un magistrato che ha avuto incarichi politici non dovrebbe svolgere indagini su politici della parte avversa e arrestarli, si dovrebbe astenere. La scelta del pm di non indagare amministratori locali o esponenti nazionali del Pd in questa inchiesta fa a pugni con le carte giudiziarie agli atti del processo. E il Csm deve dirmi perché è accaduto». Non ci sta, Bernini. «Ho l'impressione - dice - che in questa vicenda si siano volute coprire responsabilità gravi degli amministratori Pd dell'Emilia. Ed è stato fatto con un teorema assurdo: se sono politici di Berlusconi a cercare voti tra i residenti di origine meridionale allora è mafia, mentre se sono del Pd è legittima ricerca del consenso. Non lo dico io, sono i fatti a parlare: Brescello sciolto adesso per mafia, la casa del sindaco di Reggio Emilia acquistata da uno poi coinvolto nell'inchiesta, le intercettazioni su Delrio. Ma è normale che, in questo quadro, contro il Pd non ci sia stato nemmeno un avviso di garanzia mentre noi di Forza Italia siamo stati arrestati?». Non un attacco all'inchiesta: «Andava fatta - continua Bernini - i mafiosi vanno arrestati. Il mio non è un attacco alla magistratura. Avevo fiducia nei giudici e la sentenza mi dà ragione. La giustizia in Italia trionfa, nonostante la presenza di certi pm che preferiscono interviste e conferenze stampa, l'apparire invece della ricerca della verità e il rispetto delle persone. Sa che le dico? Renzi ha ragione. Sia pure in notevole ritardo e probabilmente perché si sente un possibile bersaglio, il premier si è accorto che i magistrati troppo spesso parlano prima delle sentenze». Oltre che l'esposto al Csm, Bernini prepara anche una querela a «Libera»: «Li denuncio per diffamazione, e chiedo i danni anche alla Regione Emilia che ha dato un contributo al loro dossier - quindi ha speso soldi dei contribuenti - che continua a circolare pur contenendo notizie gravi e false nei miei confronti». Voglia di tornare alla politica attiva? «La politica - conclude Bernini - è come un virus, è difficile guarire. Per ora comunque mi dedicherò alla battaglia civile contro la malagiustizia».

"Io, mafioso a mia insaputa. Ho rischiato 12 anni di carcere". Pagliani, consigliere di Forza Italia a Reggio Emilia ora assolto: "Colpito perché mi opponevo alle coop rosse", scrive Mariateresa Conti, Giovedì 28/04/2016, su "Il Giornale". Arrestato come un boss, nel cuore della notte. Detenuto per 22 giorni nel carcere di Parma, lo stesso di Totò Riina. «Mi sono piombati in casa alle 3 e mezza, mi sono ritrovato da un minuto all'altro mafioso a mia insaputa, accusato di concorso esterno e con una richiesta di condanna a 12 anni, anzi in realtà a 18, 12 con lo sconto per il rito abbreviato. Io, che mi sono sempre battuto per la legalità e che, vengo dal Fronte della gioventù, avevo come eroe Paolo Borsellino. Si rende conto?». Giuseppe Pagliani, 42 anni, consigliere comunale di Forza Italia a Reggio Emilia e capogruppo azzurro in Provincia, è stato appena assolto «per non aver commesso il fatto» nel processo Aemilia, il maxi processo che in Emilia Romagna ha portato alla sbarra decine di affiliati alla ndrangheta e qualche politico. Solo del centrodestra. Come l'ex assessore a Parma Giovanni Bernini, ora prosciolto. Una vicenda che definire kafkiana è un eufemismo, quella di Pagliani. Lui, avvocato, arrestato il 28 gennaio del 2015 e scarcerato il 19 febbraio, ce l'ha fatta a tirarsi fuori: «Perché sono avvocato - dice - e ho una formazione penalistica, perché mi hanno difeso principi del foro come gli avvocati Alessandro Silveri e Romano Corsi. Ma il cittadino x riconosce rimane stritolato, schiacciato dalla mole di carte, disorientato da accuse assurde. Io stesso mi rendo conto solo adesso di quanto sia facile restare vittime della malagiustizia. E in futuro sono pronto a difendere gratis innocenti che dovessero trovarsi in simili vicende». Cosa ha fatto mai Pagliani per ritrovarsi in questo caso giudiziario? «In un lampo improvviso di follia - ironizza - qualcuno si è convinto che a Reggio Emilia il concorso potesse essere rappresentato da esponenti dell'opposizione lontani dagli appalti, come me». La sua «colpa», se così si può chiamare, consiste in due incontri con alcuni personaggi di origine calabrese poi finiti inquisiti nel caso Aemilia. «Ma queste persone - sottolinea Pagliani - io nemmeno le conoscevo». E invece per il pm nel primo incontro, il 2 marzo del 2012, viene stipulato il patto mafioso. Nel secondo, una cena in un locale pubblico a cui erano presenti decine di persone, il patto si sarebbe consolidato. «Una follia - dice Pagliani - io a quella cena, di fatto uno sfogatoio di questi che ce l'avevano con le coop rosse, conoscevo solo alcune persone delle quali non avevo motivo di dubitare. E quando qualche giorno dopo un amico avvocato mi disse che c'era qualche personaggio equivoco troncai ogni contatto». Vero, tanto vero che nelle intercettazioni uno degli indagati non ricorda neppure il nome dell'avvocato Pagliani. «Le benedico ogni giorno le intercettazioni - continua - è grazie ai brogliacci che siamo riusciti a ricostruire tutto e a smontare la teoria del pm». Non è stato il solo, Pagliani, a incontrare i calabresi in odor di 'ndrangheta. L'allora sindaco di Reggio Emilia, ora ministro, Graziano Delrio, è andato anche in visita istituzionale in Calabria, a Cutro. «E li ha pure - aggiunge Pagliani - portati dal prefetto. Io no». Eppure Delrio non è stato nemmeno indagato, è stato solo sentito come testimone. Pagliani invece «non poteva non sapere»: quindi è finito in galera. «Eppure - dice il politico azzurro - la decisione del tribunale del Riesame (non appellata dai pm, ndr) che mi ha scarcerato era granitica. A quel punto una procura di media o bassa intelligenza avrebbe dovuto chiedere l'archiviazione. E invece hanno insistito. Nella requisitoria il pm è arrivato a sostenere che io avevo incontrato uno dei coimputati, Brescia. Meno male che ho potuto dimostrare che quell'appuntamento, segnato in agenda, in realtà era un incontro professionale a Brescia, con un avvocato». Perché è accaduto tutto questo? «Me lo sono chiesto - dice Pagliani - mi sono domandato perché io?». E la risposta? «Da consigliere d'opposizione avevo avuto per le mani vicende delicate come Global service. Come oppositore strenuo al sistema locale delle coop rosse davo fastidio». Accanimento contro Forza Italia? «Sì, c'è stato, il Pd invece è stato difeso». Ha temuto di essere schiacciato da una condanna? «Mai, nemmeno per un secondo. Sapevo di essere innocente, c'è stato il sostegno di tanti amici e non, tutti hanno capito che non c'entravo nulla. Tutti tranne il pm».

Di Pietro, Grillo, il Movimento 5 Stelle e gli “utili idioti giustizialisti”.

L’Opinione del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Le incalzanti notizie di cronaca giudiziaria provocano reazioni variegate tra i cittadini della nostra penisola. Sgomento, sorpresa, sdegno, compassione o incredulità si alternano nei discorsi tra i cittadini. Ma emerge, troppo spesso, una ipocrisia di fondo che è la stessa che attraversa, troppo spesso, la nostra società. Ma… chi è onesto al cento per cento? Credo nessuno, nemmeno il Papa. Chi non ha fatto fare qualche lavoretto in nero? Chi ha fatturato ogni lavoro eseguito? Chi ha sempre pagato l’iva? Chi ha dichiarato l’esatta metratura dei propri locali, per evitare di pagare più tasse sulla spazzatura? Chi lavora per raccomandazione o ha vinto un concorso truccato? Chi è un falso invalido o un baby pensionato? Chi per una volta non ha marinato l’impiego pubblico? Ecc.. Chi è senza peccato scagli la prima pietra! Naturalmente, quando non paghiamo qualche tassa, ci giustifichiamo in nome della nostra “onestà” presunta, oppure del fatto che fan tutti così: “Io non sono un coglione”!  E così via…

Ecco allora che mi sgranano gli occhi all'ultimo saluto a Casaleggio il 14 aprile 2016. La folla grida “Onestà, onestà, onestà”, frase di sinistroide e giustizialistoide natali. "Onestà, onestà". Questo lo slogano urlato a più riprese dai militanti del M5S alla fine dei funerali del cofondatore Roberto Casaleggio a Milano. Applausi scroscianti non solo al feretro, ma anche ai parlamentari presenti a Santa Maria delle Grazie, tra cui Alessandro Di Battista e Luigi Di Maio. Abbracci, lacrime e commozione fra i parlamentari all'uscita.

“La follia di fare dell'onestà un manifesto politico”, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 15/04/2016, su "Il Giornale".  «Gli unici onesti del Paese sarebbero loro, come vent'anni fa si spacciavano per tali i magistrati del pool di Mani pulite, come tre anni fa sosteneva di esserlo il candidato del Pd Marino contrapposto a Roma ai presunti ladri di destra. Come tanti altri. Io non faccio esami di onestà a nessuno, me ne guardo bene, ma per lavoro seguo la cronaca e ho preso atto di un principio ineluttabile: chi di onestà colpisce, prima o poi i conti deve farli con la sua, di onestà. Lo sa bene Di Pietro, naufragato sui pasticci immobiliari del suo partito; ne ha pagato le conseguenze Marino con i suoi scontrini taroccati; lo stesso Grillo, a distanza di anni, non ha ancora smentito le notizie sui tanti soldi in nero che incassava quando faceva il comico di professione».

In pochi, pochissimi lo sanno. Ma prima di diventare il guru del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, Gianroberto Casaleggio aveva avuto rapporti con la politica attraverso le sue società di comunicazione. In particolare con un politico anni fa molto in voga e oggi completamente in disgrazia: Antonio Di Pietro.

«E' così, quando vedono una figura che potrebbe offuscare o affiancare la popolarità di Grillo, i vertici del Movimento si affrettano a epurarla». La sua storia, dall'appoggio incondizionato ricevuto all'allontanamento improvviso, è il simbolo del rapporto tra l'Italia dei Valori e Beppe Grillo, scrive Francesco Oggiano il 22 giugno 2012 su “Vanity Faire”. Il partito dell'ex pm è da sempre quello più vicino per contenuti al Movimento. Il sodalizio è iniziato con la nascita del blog ed è continuato almeno fino agli scorsi mesi. Grillo ha sempre sostenuto l'ex pm, definito una «persona perbene» e soprannominato «Kryptonite», per essere rimasto «l'unico a fare veramente opposizione al Governo Berlusconi». I «vertici» sarebbero quelli della Casaleggio Associati, società fondata dal guru Gianroberto che cura la comunicazione del Movimento 5 Stelle. La «figura» in ascesa era lei, Sonia Alfano. 40 anni, l'esplosiva eurodeputata eletta con l'Idv, poi diventata Presidente della Commissione Antimafia europea, arrivando al culmine di una carriera accidentata (prima la rottura con Grillo, poi con l'Idv) iniziata nel 2008. Figlia del giornalista Beppe assassinato dalla mafia, l'eurodeputata è stata la prima ad aver creato una lista civica regionale certificata da Grillo, nel 2008. Già attiva da tempo nel Meetup di Palermo, si presentò in Sicilia ignorata dai media tradizionali e aiutata dal comico prese il 3% e 70 mila preferenze. «Alla vigilia delle elezioni europee del 2009, Grillo e Di Pietro vennero da me e mi chiesero di candidarmi a Strasburgo. Io non sapevo neanche di che si occupava l'Europarlamento», racconta oggi. Perché Casaleggio avrebbe dovuto allontanare due europarlamentari popolari come Sonia Alfano e Luigi De Magistris? Chiede Francesco Oggiano a Sonia Alfano: «La mia sensazione è che quando i vertici del Movimento annusano una figura "carismatica" che può offuscare, o quantomeno affiancare, la leadership mediatica di Grillo, diano inizio all'epurazione».

Già dal gennaio 2003 il Presidente dell'Associazione Contro Tutte le Mafie, dr Antonio Giangrande, in una semideserta ed indifferente assemblea dell'IDV a Bari, in presenza di Antonio Di Pietro e di Carlo Madaro (il giudice del caso Di Bella) criticò il modo di fare nell'IDV. L'allora vice presidente provinciale di Taranto contestò alcuni punti, che furono causa del suo abbandono: Diritto di parola in pubblico e strategie politiche esclusiva di Di Pietro; dirigenti "Yes-man" scelti dal padre-padrone senza cultura politica, o transfughi da altri partiti, o addirittura con troppa scaltrezza politica, spesso allocati in territori non di competenza (in Puglia nominato commissario il lucano Felice Bellisario); IDV presentato come partito della legalità-moralità in realtà era ed è il partito dei magistrati, anche di quelli che delinquono impunemente; finanziamenti pubblici mai arrivati alla base, così come ne hanno tanto parlato gli scandali mediatici e giudiziari.

Ma non è questo che fa pensare cento volte prima di entrare in un movimento insipido come il M5S. Specialmente a chi, come me, per le sue campagne di legalità contro i poteri forti è oggetto perpetuo degli strali dei magistrati. Incensurato, ma per quanto?

FU IL TENENTE GIUSEPPE DI BELLO IL PRIMO A SCOPRIRE L’INQUINAMENTO IN BASILICATA, PER PUNIZIONE LO DENUNCIARONO PER “PROCURATO ALLARME!” Tenente della polizia provinciale di Potenza denuncia l’inquinamento e perde la divisa. A Potenza viene sospeso e condannato. Il caso affrontato con un servizio di Dino Giarrusso su "Le Iene" del 17 aprile 2016. “Io rovinato per aver fatto il mio dovere. E per aver raccontato i veleni del petrolio in Basilicata prima di tutti”. In un colloquio lo sfogo di Giuseppe Di Bello, tenente di polizia provinciale ora spedito a fare il custode al museo di Potenza per le sue denunce sull'inquinamento all'invaso del Pertusillo, scrive Antonello Caporale il 4 aprile 2016 su "Il Fatto Quotidiano". «La risposta delle istituzioni è la sentenza con la quale vengo condannato a due mesi e venti giorni di reclusione, che in appello sono aumentati a tre mesi tondi. Decido di candidarmi alle regionali, scelgo il Movimento Cinquestelle. Sono il più votato nella consultazione della base, ma Grillo mi depenna perché sono stato condannato, ho infangato la divisa, sporcato l’immagine della Basilicata. La Cassazione annulla la sentenza (anche se con rinvio, quindi mi attende un nuovo processo). Il procuratore generale mi stringe la mano davanti a tutti. La magistratura lucana ora si accorge del disastro ambientale, adesso sigilla il Costa Molina. Nessuno che chieda a chi doveva vedere e non ha visto, chi doveva sapere e ha taciuto: e in quest’anni dove eravate? Cosa facevate?».

A questo punto ritengo che i movimenti a monoconduttura o padronali, che basano il loro credo sulla propria presunta onestà per non inimicarsi i magistrati, ovvero per non essere offuscati dall’ombra degli eroi che combattono i poteri forti e ne subiscono le ritorsioni giudiziarie, vogliano nelle loro fila solo “utili idioti”. Cioè persone che non hanno una storia da raccontare, o un’esperienza vissuta; non hanno un bacino elettorale che ne conosca le capacità. Insomma i padroni del movimento vogliono dei “Yes-Man” proni al volere dei loro signori. “Utili idioti” scelti in “camera caritatis” o a forza di poche decine di click su un blog imprenditoriale. “Utili idioti” sui quali fare i conti in tasca: sia mai che guadagnino più del loro guru. A pensarci bene, però, gli altri partiti non è che siano molto diversi dal Movimento 5 Stelle o l’IDV. La differenza è che gli altri non gridano all’onestà, ben sapendo di essere italiani.

TRIBUNALE DI POTENZA. SI DECIDE SUL DIRITTO DI CRITICA, MA ANCHE SUL DIRITTO DI INFORMARE.

Le maldicenze dicono che i giornalisti sono le veline dei magistrati. Allora, per una volta, facciamo parlare gli imputati.

Tribunale di Potenza. All’udienza tenuta dal giudice Lucio Setola finalmente si arriva a sentenza. Si decide la sorte del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, conosciutissimo sul web. Ma noto, anche, agli ambienti giudiziari tarantini per le critiche mosse al Foro per i molti casi di ingiustizia trattati nei suoi saggi, anche con interrogazioni Parlamentari, tra cui il caso di Sarah Scazzi e del caso Sebai, e per le sue denunce contro l’abilitazione nazionale truccata all’avvocatura ed alla magistratura. Il tutto condito da notizie non iscritte nel registro dei reati o da grappoli di archiviazioni (anche da Potenza), spesso non notificate per impedirne l’opposizione. Fin anche un’autoarchiviazione, ossia l’archiviazione della denuncia presentata contro un magistrato. Lo stesso che, anziché inviarla a Potenza, l’ha archiviata. Biasimi espressi con perizia ed esperienza per aver esercitato la professione forense, fin che lo hanno permesso. Proprio per questo non visto di buon occhio dalle toghe tarantine pubbliche e private. Sempre a Potenza, in altro procedimento per tali critiche, un Pubblico Ministero già di Taranto, poi trasferito a Lecce, dopo 9 anni, ha rimesso la querela in modo incondizionato.

Processato a Potenza per diffamazione e calunnia per aver esercitato il suo diritto di difesa per impedire tre condanne ritenute scontate su reati riferiti ad opinioni attinenti le commistioni magistrati-avvocati in riferimento all’abilitazione truccata, ai sinistri truffa ed alle perizie giudiziarie false. Alcuni giudizi contestati, oltretutto, non espressi dall’imputato, ma a lui falsamente addebitati. Fatto che ha indotto il Giangrande per dipiù a presentare una istanza di rimessione del processo ad altro Foro per legittimo sospetto (di persecuzione) ed a rivolgersi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Rigettata dalla Corte di Cassazione e dalla Cedu, così come fan per tutti.

Per dire: una norma scomoda inapplicata.

Processato a Potenza, secondo l’atto d’accusa, per aver presentato una richiesta di ricusazione nei confronti del giudice di Taranto Rita Romano in tre distinti processi. Motivandola, allegando la denuncia penale già presentata contro lo stesso giudice anzi tempo. Denuncia sostenuta dalle prove della grave inimicizia, contenute nelle motivazioni delle sentenze emesse in diversi processi precedenti, in cui si riteneva Antonio Giangrande una persona inattendibile. Atto di Ricusazione che ha portato nel proseguo dei tre processi ricusati all’assoluzione con giudici diversi: il fatto non sussiste. Questione rinvenibile necessariamente durante le indagini preliminari, ma debitamente ignorata.

Ma tanto è bastato all’imputato, nell’esercitare il diritto di difesa ed a non rassegnarsi all’atroce destino del “subisci e taci”, per essere processato a Potenza. Un andirivieni continuo da Avetrana di ben oltre 400 chilometri. Ed è già una pena anticipata.

L’avvocato della difesa ha rilevato nell’atto di ricusazione la mancanza di lesione dell’onore e della reputazione del giudice Rita Romano ed ha sollevato la scriminante del diritto di critica e la convinzione della colpevolezza del giudice da parte dell’imputato di calunnia. La difesa, preliminarmente, ha evidenziato motivi di improcedibilità per decadenza e prescrizione. Questioni Pregiudiziali non accolte. L’accusa ha ravvisato la continuazione del reato, pur essendo sempre un unico ed identico atto: sia di ricusazione, sia di denuncia di vecchia data ad esso allegata.

Il giudice Rita Romano, costituita parte civile, chiede all’imputato decine di migliaia di euro di danno. Imputato già di per sé relegato all’indigenza per impedimento allo svolgimento della professione.

Staremo a vedere se vale la forza della legge o la legge del più forte, al quale non si possono muovere critiche. Che Potenza arrivi a quella condanna, dove Taranto dopo tanti tentativi non è riuscita?

E anche stavolta, come decine di volte ancora prima con accuse montate ad arte, non ci sono riusciti a condannare il dr Antonio Giangrande. Il Dr Lucio Setola del tribunale di Potenza assolve il dr Antonio Giangrande il 19 maggio 2016, alle ore 17, dopo un’estenuante attesa dalla mattina da parte dell’imputato e dei sui difensori l’avv. Pietrantonio De Nuzzo e l’avv. Mirko Giangrande.

La stessa cosa si ripete a Taranto dove l’avv. Nadia Cavallo ha ripresentato una querela per diffamazione, per un fatto già giudicato e da cui è scaturita assoluzione. La nuova querela della Cavallo aveva prodotto un decreto penale di condanna emesso dal Gip Giuseppe Tommasino senza contradditorio. La doverosa opposizione del difensore, l’avv. Mirko Giangrande, per “ne bis in idem”, ossia non processato è condannato per lo stesso fatto, portava al Giudizio Immediato presso il Tribunale di Taranto da cui il 3 ottobre 2016 scaturiva ennesima sentenza di assoluzione.

Dicono su Avetrana accusata di omertà: “Chi sa parli!” Se poi da avetranese parli o scrivi, ti processano.

L’illegalità diffusa che alimenta la nostra corruzione. In Italia il marcio della politica è il marcio di tutta una società che da tre, quattro decenni, per mille ragioni — non tutte necessariamente malvagie — ha deciso sempre più di chiudere un occhio, di permettere, di non punire, di condonare, scrive Ernesto Galli della Loggia il 25 aprile 2016 su "Il Corriere della Sera". Il dottor Davigo non si fa molte illusioni sulla moralità dei politici. Personalmente me ne farei anche meno sulla moralità di coloro che li eleggono. Sulla nostra. Del resto come potrebbe essere altrimenti? Appena inizia ad aprirsi alla ragione il giovane italiano va a scuola. Lì tutti cercano di copiare senza che la cosa desti particolare riprovazione. Chiunque vuole, poi, può maltrattare arredi, imbrattare di scritte di ogni tipo (in genere oscene) i bagni, scrivere e disegnare a suo piacere sui muri dell’edificio: anche in questo caso senza alcuna sanzione. Così come senza alcuna sanzione significativa resterà ogni atto d’indisciplina: se marinerà la scuola, se si metterà a compulsare il suo smartphone durante le lezioni, se manderà l’insegnante a quel paese. Imitato in quest’ultima attività anche dai suoi genitori. I quali talvolta – assai più spesso di quanto si creda – ameranno ricorrere anche a insulti e minacce. Tutto coperto sempre da una sostanziale impunità. Non basta. In genere, infatti, la scuola sarà per il nostro giovane concittadino anche un’ottima palestra di turpiloquio, di bullismo sessista, di scambio di materiale pornografico quando non di spaccio di droga. Uscito dalle aule all’una, per tornare a casa l’adolescente italiano, se usa i trasporti pubblici si eserciterà nel salto del tornello sulla metro o si guarderà bene, se vorrà (ma perché non volerlo?) dal pagare il biglietto di un autobus o di un tram. Ha imparato da tempo, infatti, che in Italia pagare il biglietto sui mezzi pubblici è più che altro un’attività amatoriale, un hobby. Per farlo bisogna esserci portato. Ma naturalmente è più probabile che invece il nostro abbia un motorino. Il più delle volte, va da sé, con la marmitta truccata. Insomma, un po’ più veloce e molto più rumoroso del consentito. Gliel’ha aggiustato un meccanico e, si capisce, il giovane italiano ha pagato per questo anche un bel po’: eppure una ricevuta fiscale o uno scontrino egli s’è guardato bene dal chiederli e l’altro dal darglieli. E allora via con il motorino truccato: tanto che probabilità ha di essere fermato e multato? Diciamo una su centomila. Dunque avanti come se nulla fosse. Avanti a sorpassare sulla destra, a tagliare la strada con repentini cambi di corsia, una mano sul manubrio e l’altra impegnata a twittare. Un po’ di studio nel pomeriggio, e arriva finalmente la sera: il momento di svagarsi, specie se è sabato. Sì, è vero, vendere gli alcolici ai minorenni sarebbe vietato, ma via!, non vorremo mica vedere strade e botteghe deserte, spero. Dunque una birra, due birre, tre birre in un pub e poi in un altro ancora; o qualcosa di più forte in discoteca. Come si sa, tutti locali aperti di solito anche oltre l’orario stabilito: del resto è la movida, no? Pertanto anche se c’è un po’ di schiamazzo sotto le finestre della gente che dorme, e magari qua e là gare di velocità tra motorini, e sgassate micidiali, e cocci di bottiglie rotte sui marciapiedi, che problema c’è? Inevitabilmente vigili e carabinieri, seppure risponderanno mai alle telefonate inviperite di qualcuno, in genere non faranno, non potranno fare (loro almeno così dicono) un bel niente. Ottenuta senza troppa fatica una licenza (in Italia le percentuali dei promossi sfiorano abitualmente il cento per cento), bisogna alla fine iscriversi all’università. Le tasse, è vero, sono un po’ cresciute in questi ultimi anni, ma non c’è una riduzione o addirittura l’esenzione per chi viene da una famiglia a basso reddito? È a questo punto che il nostro giovane italiano compie l’atto finale della sua educazione sentimentale alla legalità. Quando scopre, per l’appunto che il suo papà e la sua mammina, accorsati commercianti, ottimi professionisti, funzionari di buon livello, possessori di un suv e di un’utilitaria, di un bell’appartamento in un quartiere niente male, di una casetta al mare e di un adeguato gruzzoletto da parte, mamma e papà che ogni anno si fanno la loro settimana bianca e la loro vacanza da qualche parte nel mondo, e i quali come si dice non si fanno mancare niente, scopre il nostro giovane, dicevo, che essi però al Fisco risultano titolari di un reddito che consente a lui di avere una discreta riduzione delle tasse universitarie e a tutta la famiglia l’esenzione dal ticket sanitario. A quanti giovani italiani può applicarsi questo ironico ma realistico ritratto di un’educazione alla legalità? A molti, direi. Con qualche ulteriore elemento (tutt’altro che raro) da mettere eventualmente in conto: tipo frequentazione di un centro sociale antagonista o presenza in casa di una vecchia zia finta invalida con relativa pensione. Da quanto tempo è in questo modo — attraverso la forza senza pari dell’esempio diffuso capillarmente e quotidianamente attraverso queste micidiali dosi omeopatiche — che i giovani italiani (non nascondiamocelo: in particolare quelli del ceto medio, della cosiddetta «buona borghesia») apprendono come funziona il loro Paese e in quale conto vi deve essere tenuto il rispetto delle regole? Alcuni non ci stanno e se ne vanno, ma la grande maggioranza ci si trova benissimo e cerca una nicchia dove sistemarsi (spesso grazie alla raccomandazione e/o alle relazioni dei genitori di cui sopra). La nostra corruzione nasce da qui. Da questo rilasciamento di ogni freno e di ogni misura che ha accompagnato il nostro divenire ricchi e moderni. In Italia il marcio della politica è il marcio di tutta una società che da tre, quattro decenni, per mille ragioni — non tutte necessariamente malvagie — ha deciso sempre più di chiudere un occhio, di permettere, di non punire, di condonare. Certo, Piercamillo Davigo ha ragione, lo ha deciso la politica. Ma perché il Paese glielo chiedeva. Il Paese chiedeva traffico d’influenza, voto di scambio, favori di ogni tipo, promozioni facili, sconti, deroghe, esenzioni, finanziamenti inutili alle industrie, pensioni finte, appalti truccati, aggiramenti delle leggi, concessioni indebite, e poi soldi, soldi e ancora soldi. E con il suffragio universale è difficile che prima o poi la volontà del Paese non finisca per imporsi. Di questo dovrebbe occuparsi la fragile democrazia italiana, di questo dibattere i suoi politici che ancora sanno che cosa sia la politica: del mare di corruzione dal basso che insieme alla delinquenza organizzata minaccia di morte la Repubblica. Per i singoli corrotti invece bastano i giudici: ed è solo di costoro che è loro compito occuparsi.

Editoriale. Parliamo un po’ della Giustizia italiana. La Giustizia dei paradossi.

Le maldicenze dicono che gli italiani sono un popolo di corrotti e corruttori e, tuttavia, scelgono di essere giustizialisti e di stare dalla parte dei Magistrati.

L’Opinione del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Sui media la Giustizia ha sempre un posto in primo piano nella loro personale scaletta, ma non sempre sono sinceri.

Parliamo del premier Matteo Renzi che, in occasione del 25 aprile 2016, celebra la "liberazione" dai pm con una lunga intervista a Repubblica. Il nocciolo del suo pensiero è tutto raccolto in poche frasi: "I politici che rubano fanno schifo. E vanno trovati, giudicati e condannati. Dire che tutti sono colpevoli significa dire che nessuno è colpevole. Esattamente l'opposto di ciò che serve all'Italia. Voglio nomi e cognomi dei colpevoli. Una politica forte non ha paura di una magistratura forte. È finito il tempo della subalternità. Il politico onesto rispetta il magistrato e aspetta la sentenza. Tutto il resto è noia, avrebbe detto Califano. Adesso la priorità è che si velocizzino i tempi della giustizia".

Poi, invece, si legge che sono stati denunciati i pm del caso Renzi: "Omesse indagini sulle spese pazze". Depositata l'accusa contro i pm che hanno archiviato il caso delle spese di Renzi: "Non hanno voluto indagare", scrive Giuseppe De Lorenzo, Martedì 05/01/2016, su “Il Giornale”.

Parliamo del Ministro della Giustizia Andrea Orlando che parla, tra le altre cose, di riforma della Prescrizione. Andrea Orlando. Primo guardasigilli non laureato che nel 2010 gli è stata ritirata patente per guida in stato di ebbrezza, scrive Federico Altea su “Elzeviro” il 27 febbraio 2014. Quaranticinquenne, non ha mai toccato la giustizia in incarichi pubblici, ma è stato nominato responsabile in materia in seno alla direzione del partito di cui fa parte, nominato da Bersani di cui è fedele compagno nella corrente nei Giovani turchi. In un'intervista al Foglio si disse favorevole al carcere duro. Non è di un politico "esperto" né di un tecnico intrallazzato che il dicastero della giustizia ha bisogno, ma di un giurista serio che conosca e riformi completamente il sistema penale e civile e restringa il più possibile la facoltà dei giudici di interpretare a loro piacimento il sistema giuridico. Una persona che abbia le competenze per riformare il sistema penitenziario. Andrea Orlando, sempre parlando di competenze in ambito di Giustizia o giuridiche in senso lato, non solo non ha la laurea in giurisprudenza, ma non ha ottenuto un diploma di laurea di alcun genere. Nella storia della Repubblica italiana è la prima volta che il Ministero della Giustizia viene affidato ad un non laureato. Tutti i trentatré predecessori di Orlando, infatti, erano laureati e ben ventisette guardasigilli erano laureati giurisprudenza. Da questo c’è da desumere che possa pendere dalle labbra degli esperti e tecnici interessati.

Parliamo delle toghe. Diceva Piero Calamandrei: “L’avvocato farà bene, se gli sta a cuore la sua causa, a non darsi l’aria di insegnare ai giudici quel diritto, di cui la buona creanza impone di considerarli maestri”. “I magistrati - diceva ancora Calamandrei - sono come i maiali. Se ne tocchi, uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione". Il giudice rappresenta il funzionario dello Stato, vincitore di concorso all’italiana, cui è attribuito impropriamente il Potere dello iuris dicere. Ossia di porre la parola fine ad una controversia, di attribuire ad uno dei contendenti il bene della vita conteso nel processo giurisdizionale, di iniziare e/o far finire i giorni della vita di un cittadino in una struttura penitenziaria. Il giudice è per sé stesso “un’Autorità”: ossia un Pubblico Ufficiale. L’avvocato, invece, non lo è. La considerazione è così banale, tanto è ovvia. L’avvocato è solo un esercente un servizio di pubblica necessità, divenuto tale in virtù di un criticato esame di abilitazione.

Il processo non può essere mai giusto, come definito in Costituzione, se nulla si può fare contro un magistrato ingiusto giudicato e giustificato dai colleghi, ovvero se in udienza penale l’avvocato si scontra contro le tesi dell’inquirente/requirente collega del giudicante.

La magistratura in Italia: ordine o potere? Secondo la classica tripartizione operata dal Montesquieu, i poteri dello Stato si suddividono in Potere legislativo spettante al Parlamento, Potere esecutivo spettante al Governo e Potere giudiziario spettante alla Magistratura. Questo al tempo della rivoluzione francese. Poi il diritto, per fortuna, si è evoluto. In Italia la Magistratura non può in nessun caso esercitare un potere dello Stato (Potere, nel vero senso della parola), infatti per poter parlare tecnicamente di Potere, e quindi di imperium, è necessario che esso derivi dal popolo o, come accadeva nei secoli passati, da Dio. Nelle moderne democrazie occidentali il concetto di potere è strettamente legato a quello di imperium proveniente dalla volontà popolare, quindi è del tutto pacifico affermare che gli unici organi – seppur con tutte le loro derivazioni – ad essere legittimati ad esercitare un Potere sono soltanto il Parlamento (potere legislativo) ed il Governo (potere esecutivo). In effetti l’art. 1 della Costituzione, nei principi fondamentali, recita: “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Per rendere chiaro il concetto è sufficiente comprendere che nel momento in cui il Parlamento ed il Governo esercitano i propri poteri, lo fanno “in nome” e “per conto” del popolo da cui ne deriva l’investitura, quindi la Magistratura non può essere in alcun modo considerata un potere – in senso stretto – dello Stato; essa è solo un Ordine legittimato ad esercitare – “in nome” del popolo e non anche per conto di questo – la funzione giurisdizionale nei soli spazi delineati dalla Costituzione e, soprattutto, nel fedele rispetto della legge approvata dai soli organi deputati ad adottarla, quindi dal Parlamento e dal Governo, seppur quest’ultimo nei soli casi tassativamente previsti dalla Carta costituzionale. A dimostrazione di quanto premesso, la nostra Costituzione – della quale i giudici si dichiarano spesso i soli difensori – parla, non a caso, di Ordine Giudiziario e non di Potere. Difatti il Titolo Quarto della Carta costituzionale riporta scritto a chiare lettere, nella Sezione Prima, “Ordinamento giurisdizionale”, e non Potere; e a fugare ogni dubbio ci pensa l’art. 104 Cost.: “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere…”. Di questo, però, la sinistra politica non se ne capacita, continuando ad usare il termine Potere riferito alla magistratura, smentendo i loro stessi padri costituenti. Se fino alla fine degli anni Ottanta, quando vi erano veri politici a rappresentare il popolo, questo tipo di discussione non era neppure immaginabile, a partire dal 1992 – vale a dire da quando è iniziato un periodo di cronica debolezza della politica, ovvero quando la politica ha usato l’arma giudiziaria per arrivare al potere – la Magistratura ha cercato (come quasi sempre è accaduto nella Storia) di sostituirsi alla politica arrivando addirittura ad esercitare, talune volte anche esplicitamente, alcune prerogative tipiche del Parlamento e del Governo: un vero colpo di Stato. Non possiamo dimenticarci quando un gruppo di magistrati – durante il cosiddetto periodo di “mani pulite” – si presentò davanti alle telecamere per contrastare l’entrata in vigore di un legittimo – anche se discutibile – Decreto che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti (il cosiddetto Decreto Conso), violentando in tal modo sia il principio di autodeterminazione delle Camere che l’esercizio della sovranità popolare. E che dire della crociata classista, giacobina e corporativa racchiusa nelle parole “resistere, resistere, resistere…”! E poi i magistrati con la Costituzione tra le braccia al fine di ergersi ad unici difensori della stessa contro presunti attacchi da parte della politica. E che dire, poi, di alcune sentenze della Corte di Cassazione? Nascondendosi dietro l’importantissima funzione nomofilattica, la Suprema Corte spesso stravolge sia l’intenzione del Legislatore che il senso e la portata delle leggi stesse, se non addirittura inventarsi nuove norme, come per esempio "il concorso esterno nell'associazione mafiosa": un reato che non esiste tra le leggi. Per non parlare, poi, della mancata applicazione della legge, come quella della rimessione del processo in altri fori per legittimo sospetto di parzialità. Spesso la Magistratura si difende affermando di non svolgere nessuna attività politica, ma si smentisce perché all’interno del Consiglio Superiore della Magistratura ci sono delle vere e proprie correnti. Ma le correnti non sono tipiche dei partiti politici? E poi, per quale motivo gli organi rappresentativi dell’associazione nazionale magistrati vanno di frequente in televisione per combattere la crociata contro un qualsiasi progetto di riforma della giustizia che investa anche l’ordine giudiziario? E perché, questi stessi, i più animosi tra le toghe, inducono i politici a loro vicini ad adottare leggi giustizialiste ad uso e consumo della corporazione? Ma i magistrati non sono tenuti soltanto ad applicare le leggi dello Stato? Per quale ragione alcuni magistrati, pur mantenendosi saldamente attaccati alla poltrona di pubblico ministero o di organo giudicante, scelgono di fare politica, arrivando addirittura a candidarsi alle elezioni senza avere neppure la delicatezza di dimettersi dalle funzioni giudiziarie?

Parliamo infine delle vittime della malagiustizia. Si parla poco, ma comunque se ne parla, inascoltati, del problema degli errori giudiziari e delle ingiuste detenzioni, così come della lungaggine dei processi. Così come si discute poco, ma si discute, inascoltati, del problema dei risarcimenti del danno e degli indennizzi, pian piano negati. Delle vittime della malagiustizia si parla di un ammontare di 5 milioni dal 1945. Ogni anno in Italia 7 mila persone arrestate e poi giudicate innocenti. Almeno a guardare i numeri del ministero della Giustizia. Dal 1992 il Tesoro ha pagato 630 milioni di euro per indennizzare quasi 25 mila vittime di ingiusta detenzione, 36 milioni li ha versati nel 2015 e altri 11 nei primi tre mesi del 2016. Queste vittime della malagiustizia li vedi, come forsennati, a raccontare perpetuamente sui social network, inascoltati, le loro misere storie. Sono tanti, come detto 5 milioni negli ultimi 60 anni. Poi ci sono i parenti e gli affini da aggiungere a loro. Un numero smisurato: da plebiscito. Solo che poi si constata che in effetti nulla cambia, anzi si evolve, con ipocrisia e demagogia, al peggio, spinti dai media giustizialisti che incutono timore con delle parole d’ordine: “Insicurezza ed impunità. Tutti dentro e si butta la chiave”. Allora vien da chiedersi con un intercalare che rende l’idea: “Ma queste vittime dell’ingiustizia a chi cazzo votano, se vogliono avere ristoro? Sarebbe il colmo se votassero, da masochisti, proprio i politici giustizialisti che nelle piazze gridano: onestà, onestà, onestà…consapevoli di essere italiani, o che votassero i politici giustizialisti che, proni e timorosi, si offrono ai magistrati. Quei magistrati che ingiustamente hanno condannato o hanno arrestato le vittime innocenti, spinti dalla folla inneggiante e plaudente, disinformata dai media amici delle toghe! Sarebbe altresì il colmo se le vittime innocenti votassero quei politici che stando al potere non hanno saputo nemmeno salvare se stessi dall’ingiusta gogna.

Se così fosse, allora, cioè, si fosse dato un voto sbagliato a destra, così come a sinistra, con questo editoriale di che stiamo parlando?

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io... 

Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.  

 (Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)   

Lasciatemi votare 

con un salmone in mano 

vi salverò il paese 

io sono un norvegese…  

Le persone perbene non riescono a fare carriera all’interno della pubblica amministrazione. Un giudizio lapidario che viene dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone, scrive “Blitz Quotidiano” il 28 ottobre 2015. Un giudizio appena mitigato dai due minuti di spiegazione dell’affermazione: Cantone spiega che, a volte, questo avviene anche per colpe dei diretti interessati. “Spesso le persone perbene all’interno della pubblica amministrazione sono quelle che hanno meno possibilità di fare – dice Cantone – Spesso fanno meno carriera. Spesso sono meno responsabilizzati perché considerati per bene”. Secondo Cantone è ora di recuperare parole che non si usano nel nostro mondo del lavoro. Una è la parola “controllo”. E il presidente dell’anticorruzione si riferisce a chi osserva i colleghi timbrare il cartellino e poi lasciare il posto di lavoro senza denunciare nulla. Quello che serve, secondo Cantone, è una “riscossa interna” e un recupero non imposto dall’alto di moralità e cultura dello Stato, il terzo settore e di conseguenza il nostro Paese si salveranno dalla mala gestione della cosa pubblica.

Commenti disabilitati su Cantone: “Non sono tutti fannulloni ma nella Pubblica amministrazione, le persone perbene hanno meno possibilità”, scrive Antonio Menna il 28 ottobre 2015 su “Italia Ora”. “Non sono tutti fannulloni nella Pubblica amministrazione. Meno che mai sono tutti corrotti. Ma è vero che le persone perbene sono quelli che vengono meno coinvolti nelle scelte, meno responsabilizzati. Sono quelli che hanno meno possibilità di fare carriera”. Lo dice chiaro e tondo, Raffaele Cantone, magistrato anticamorra, e presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione. Lo dice nel corso di una intervista pubblica al Sermig di Torino e il segmento sulla corruzione nella pubblica amministrazione (rilanciato da un video del Corriere della Sera) è quello che impressiona di più. Quante volte lo abbiamo pensato che essere onesti è una penalizzazione? Chi è onesto non va lontano. “A volte, però”, chiarisce Cantone, “anche per sue responsabilità. Dobbiamo trovare il coraggio di ripristinare alcune parole che nel nostro lessico si sono dimenticate: la parola controllo, per esempio. Se il mio amico, vicino di stanza, usa il badge per coprire i colleghi che magari sono in vacanza, devo stare zitto? Perché devo stare zitto? Queste apparenti distrazioni sono complicità. La società dei piccoli favori, magari banali, magari che non portano necessariamente alla corruzione, ci abitua all’idea che ci sia uno spazio dove tutto si può comprare.” “Il problema – conclude Cantone – non è solo la disonestà ma, a volte, anche non capire con chi parlare. Ci sono cento centri di costo solo nella città di Roma, cento uffici che fanno appalti e spesa. Come li controlli? La deresponsabilizzazione la fa da padrona, ed è essa stessa una delle ragioni che giustifica la corruzione.”

In Italia si fa carriera solo se si è ricattabili, scrive il 5 giugno 2015 Claudio Rossi su "L'Uomo qualunque". “Il nostro Paese sta sprofondando nel conformismo (…) siamo usciti da una consultazione elettorale che ha dato il risultato a tutti noto, ma la cosa che colpisce è questo saltare sul carro del vincitore. Tacito diceva che una delle abitudini degli italiani è di ruere in servitium: pensate che immagine potente, correre ad asservirsi al carro del vincitore. Noi tutti conosciamo persone appartenenti al partito che ha vinto le elezioni che hanno opinioni diverse rispetto ai vertici di questo partito. Ora non si tratta affatto di prendere posizioni che distruggono l’unità del partito, ma di manifestare liberamente le proprie opinioni senza incorrere nell’anatema dei vertici di questo partito (…) Queste persone, dopo il risultato elettorale, hanno tirato i remi in barca e le idee che avevano prima, oggi non le professano più. Danno prova di conformismo. (…) La nostra rappresentanza politica è quella che è (…) La diffusione della corruzione è diventata il vero humus della nostra vita politica, è diventata una sorta di costituzione materiale. Qualcuno, il cui nome faccio solo in privato, ha detto che nel nostro Paese si fa carriera in politica, nel mondo della finanza e dell’impresa, solo se si è ricattabili (…) Questo meccanismo della costituzione materiale, basato sulla corruzione, si fonda su uno scambio, un sistema in cui i deboli, cioè quelli che hanno bisogno di lavoro e protezione, gli umili della società, promettono fedeltà ai potenti in cambio di protezione. È un meccanismo omnipervasivo che raggiunge il culmine nei casi della criminalità organizzata mafiosa, ma che possiamo constatare nella nostra vita quotidiana (…) Questo meccanismo funziona nelle società diseguali, in cui c’è qualcuno che conta e che può, e qualcuno che non può e per avere qualcosa deve vendere la sua fedeltà, l’unica cosa che può dare in cambio (…) Quando Marco Travaglio racconta dei casi di pregiudicati o galeotti che ottengono 40 mila preferenze non è perché gli elettori sono stupidi: sanno perfettamente quello che fanno, ma devono restituire fedeltà. Facciamoci un esame di coscienza e chiediamoci se anche noi non ne siamo invischiati in qualche misura. (…) Questo meccanismo fedeltà-protezione si basa sulla violazione della legge. Se vivessimo in un Paese in cui i diritti venissero garantiti come diritti e non come favori, saremmo un paese di uomini e donne liberi. Ecco libertà e onestà. Ecco perché dobbiamo chiedere che i diritti siano garantiti dal diritto, e non serva prostituirsi per ottenere un diritto, ottenendolo come favore. Veniamo all’autocoscienza: siamo sicuri di essere immuni dalla tentazione di entrare in questo circolo? (…) Qualche tempo fa mi ha telefonato un collega di Sassari che mi ha detto: “C’è una commissione a Cagliari che deve attribuire un posto di ricercatore e i candidati sono tutti raccomandati tranne mia figlia. Sono venuto a sapere che in commissione c’è un professore di Libertà e Giustizia…”. Io ero molto in difficoltà, ma capite la capacità diffusiva di questo sistema di corruzione, perché lì si trattava di ristabilire la par condicio tra candidati. Questo per dire quanto sia difficile sgretolare questo meccanismo, che si basa sulla violazione della legge. Siamo sicuri di esserne immuni? Ad esempio, immaginate di avere un figlio con una grave malattia e che debba sottoporsi a un esame clinico, ma per ottenere una Tac deve aspettare sei mesi. Se conosceste il primario del reparto, vi asterreste dal chiedergli il favore di far passare vostro figlio davanti a un altro? Io per mia fortuna non mi sono mai trovato in questa condizione, ma se mi ci trovassi? È piccola, ma è corruzione, perché se la cartella clinica di vostro figlio viene messa in cima alla pila, qualcuno che avrebbe avuto diritto viene posposto. Questo discorso si ricollega al problema del buon funzionamento della Pubblica amministrazione: se i servizi funzionassero bene non servirebbe adottare meccanismi di questo genere. Viviamo in un Paese che non affronta il problema della disonestà e onestà in termini morali. (…) Se non ci risolleviamo da questo, avremo un Paese sempre più clientelarizzato, dove i talenti non emergeranno perché emergeranno i raccomandati, e questo disgusterà sempre di più i nostri figli e nipoti che vogliono fare ma trovano le porte sbarrate da chi ha gli appoggi migliori. È una questione di sopravvivenza e di rinascita civile del nostro Paese. Ora, continuiamo a farci questo esame di coscienza: non siamo forse noi, in qualche misura, conniventi con questo sistema? Quante volte abbiamo visto vicino a noi accadere cose che rientrano in questo meccanismo e abbiamo taciuto? Qualche tempo fa, si sono aperti un trentina di procedimenti penali a carico di colleghi universitari per manipolazione dei concorsi universitari (…) Noi non sapevamo, noi non conoscevamo i singoli episodi (…) e per di più non siamo stati parte attiva del meccanismo, ma dobbiamo riconoscere che abbiamo taciuto, dobbiamo riconoscere la nostra correità. Proposta: Libertà e Giustizia è una associazione policentrica che si basa su circoli, che sono associazioni nella associazione, radicati sul territorio e collegati alla vita politica. Non sarebbe il caso che i circoli si attrezzassero per monitorare questi episodi, avendo come alleati la stampa libera e la magistratura autonoma? Potrebbe essere questa una nuova sfida per Libertà e Giustizia, controllare la diffusione di questa piovra che ci invischia tutti, cominciando dal basso, perché dall’alto non ci verrà nulla di buono, perché in alto si procede con quel meccanismo che dobbiamo combattere.” Gustavo Zagrebelsky.

“I cittadini silenziosi possono essere dei perfetti sudditi per un governo autoritario, ma sono un disastro per una democrazia”. Robert Alan Dahl

Il volume più letto dai politici? Un manuale per ottenere l'immunità. Alle Biblioteca delle Nazioni Unite non hanno più nemmeno una copia. Spiega i vari tipi di immunità e chi può usufruire, scrive Gabriele Bertocchi Venerdì, 08/01/2016, su “Il Giornale”. Non è un semplice libro, è il libro che ogni politico dovrebbe leggere. E infatti è cosi, tutto lo vogliono. È diventato il libro più richiesto alla biblioteca delle Nazioni Unite. Vi starete chiedendo che volume è: magari se è un'opera di letteratura classica, oppure un trattato sulla politica internazionale. Nessuno di questi, si chiama "Immunità di capi e funzionari di Stato per crimini internazionali", è uno scritto da Ramona Pedretti, ex studentessa dell’Università di Lucerna. È una tesi di dottorato, un vademecum che spiega e illustra che tipo di immunità esistono per tali soggetti. "Più che un libro è una star" commenta Maria Montagna sulle pagine de La Stampa, una delle addette alla gestione banca dati di Dag Hammarskjold Library, libreria dedicata al'ex segretario generale, alle Nazioni Unite. "È senza dubbio il libro più richiesto del 2015, anche più di classici della letteratura Onu o grandi dossier" continua l'addetta. Il successo lo si deve anche a Twitter, infatti la Dag Hammarskjold Library ha pubblicato il "primato" del libro, creando così un vero e proprio cult da leggere. Ma all'interno cosa si può imparare, come scrive la Pedretti, autrice del volume, si può scoprire che esistono due dtipi di immunità: quella ratione personae che mette i capi di stato al riparo dalla giurisdizione penale straniera, e quella ratione materiae che protegge atti ufficiali e funzionari che agiscono per conto dello Stato dal giudizio di tribunali di altri Paesi. La Montagna spiega che "ora però la platea di lettori si è allargata vista la pubblicità dei social", ma prima era perlopiù composta da funzionari degli uffici legali e storici Onu, interessati in particolare alle conclusioni tratte da Pedretti. La tesi è che capi o alti esponenti di Stato in carica non possono essere perseguiti da corti straniere, al contrario degli ex. E intanto, come si legge su La Stampa, arriva la conferma da parte della libreria: "Mi spiace, al momento non abbiamo neanche una copia disponibile".

Va a ruba all’Onu il libro che insegna ai leader come avere l’immunità. Esaurito in biblioteca. Tesi di laurea. Il pamphlet è stato scritto da Ramona Pedretti ex studentessa dell’Università di Lucerna, scrive Francesco Semprini su “La Stampa” l’8 gennaio 2016. Basta entrare nella biblioteca delle Nazioni Unite e menzionare il nome del libro per capire che non stiamo parlando di un volume qualunque. Maria Montagna, una delle addette alla gestione della banca data di Dag Hammarskjold Library - la libreria dedicata all’ex segretario generale - guarda la collega Ariel Lebowitz e sorride. «Più che un libro è una star - dice - aspetti qui, controlliamo subito». L’opera in questione è «Immunità di capi e funzionari di Stato per crimini internazionali», un pamphlet scritto da Ramona Pedretti, ex studentessa oriunda dell’Università di Lucerna. È una tesi di dottorato, un vademecum per capire che tipo di immunità esistono per tali soggetti. Ne esistono due, come spiega Pedretti nel suo scritto, quella ratione personae che mette i capi di stato al riparo dalla giurisdizione penale straniera, e quella ratione materiae che protegge atti ufficiali e funzionari che agiscono per conto dello Stato dal giudizio di tribunali di altri Paesi. «È senza dubbio il libro più richiesto del 2015, anche più di classici della letteratura Onu o grandi dossier», dice Maria. Twitter ha fatto il resto, visto che Dag Hammarskjold Library ha rilanciato sul social network il «primato» del libro moltiplicandone notorietà e richieste. Ma chi lo chiede in prestito? All’inizio erano soprattutto funzionari degli uffici legali e storici Onu, interessati in particolare alle conclusioni tratte da Pedretti. La tesi dell’autrice è che capi o alti esponenti di Stato in carica non possono essere perseguiti da corti straniere, al contrario degli ex. È questo il principio ad esempio che ha portato all’arresto di Adolph Eichmann da parte di Israele e Augusto Pinochet dalla Spagna. «Ora però la platea di lettori si è allargata vista la pubblicità dei social», chiosa Maria. E arriva la conferma: «Mi spiace, al momento non abbiamo neanche una copia disponibile».  

Fondazioni, i soldi nascosti dei politici. Finanziamenti milionari anonimi. Intrecci con banchieri, costruttori e petrolieri. Società fantasma. Da Renzi a Gasparri, da Alfano ad Alemanno, ecco cosa c'è nei conti delle fondazioni, scrivono Paolo Biondani, Lorenzo Bagnoli e Gianluca De Feo il 7 gennaio 2016 su “L’Espresso”. Finanziamenti milionari ma anonimi. Un intreccio tra ministri, petrolieri, banchieri e imprenditori. Con una lunga inchiesta nel numero in edicola “L'Espresso” ha esaminato i documenti ufficiali delle fondazioni che fanno capo ai leader politici, da Renzi a Gasparri, da Alfano a Quagliarello, tutte dominate dall'assenza di trasparenza. Nel consiglio direttivo di Open, il pensatoio-cassaforte del premier, siedono l’amico che ne è presidente Alberto Bianchi, ora consigliere dell’Enel, il sottosegretario Luca Lotti, il braccio destro Marco Carrai e il ministro Maria Elena Boschi. Il sito pubblica centinaia di nomi di finanziatori, ma omette «i dati delle persone fisiche che non lo hanno autorizzato esplicitamente». Il patrimonio iniziale di 20 mila euro, stanziato dai fondatori, si è moltiplicato di 140 volte con i contributi successivi: in totale, 2 milioni e 803 mila euro. Sul sito compaiono solo tre sostenitori sopra quota centomila: il finanziere Davide Serra (175), il defunto imprenditore Guido Ghisolfi (125) e la British American Tobacco (100 mila). Molto inferiori le somme versate da politici come Lotti (9.600), Boschi (8.800) o il nuovo manager della Rai, Antonio Campo Dell’Orto (solo 250 euro). Ma un terzo dei finanziatori sono anonimi per un importo di 934 mila euro. Ad Angelino Alfano invece fa oggi capo la storica fondazione intitolata ad Alcide De Gasperi, che ha «espresso il suo dissenso» alla richiesta ufficiale della prefettura di far esaminare i bilanci: per una fondazione presieduta dal ministro dell’Interno, la trasparenza non esiste. Nell’attuale direttivo compaiono anche Fouad Makhzoumi, l’uomo più ricco del Libano, titolare del colosso del gas Future Pipes Industries. Tra gli italiani, Vito Bonsignore, l’ex politico che dopo una condanna per tangenti è diventato un ricco uomo d’affari; il banchiere Giovanni Bazoli, il marchese Alvise Di Canossa, il manager Carlo Secchi, l’ex dc Giuseppe Zamberletti, l’ex presidente della Compagnia delle Opere Raffaello Vignali, l’avvocato Sergio Gemma e il professor Mauro Ronco. Ma tutti i contributi alla causa di Alfano sono top secret. Invece la fondazione Magna Carta è stata costituita dal suo presidente, Gaetano Quagliariello, da un altro politico, Giuseppe Calderisi, e da un banchiere di Arezzo, Giuseppe Morbidelli, ora numero uno della Cassa di risparmio di Firenze. Gli altri fondatori sono tre società: l’assicurazione Sai-Fondiaria, impersonata da Fausto Rapisarda che rappresenta Jonella Ligresti; la Erg Petroli dei fratelli Garrone; e la cooperativa Nuova Editoriale di Enrico Luca Biagiotti, uomo d’affari legato a Denis Verdini. Il capitale iniziale di 300 mila euro è stato interamente «versato dalle tre società in quote uguali». I politici non ci hanno messo un soldo, ma la dirigono insieme ai finanziatori. Nel 2013 i Ligresti escono dal consiglio, dove intanto è entrata Gina Nieri, manager di Mediaset. L’ultimo verbale (giugno 2015) riconferma l’attrazione verso le assicurazioni, con il manager Fabio Cerchiai, e il petrolio, con Garrone e il nuovo consigliere Gianmarco Moratti. La fondazione pubblica i bilanci, ma non rivela chi l’ha sostenuta: in soli due anni, un milione di finanziamenti anonimi. La Nuova Italia di Gianni Alemanno invece non esiste più. “L’Espresso” ha scoperto che il 23 novembre scorso la prefettura di Roma ne ha decretato lo scioglimento: «la fondazione nell’ultimo anno non ha svolto alcuna attività», tanto che «le raccomandate inviate dalla prefettura alla sede legale e all’indirizzo del presidente sono tornate al mittente con la dicitura sconosciuto». Ai tempi d’oro della destra romana sembrava un ascensore per il potere: dei 13 soci promotori, tutti legati all’ex Msi o An, almeno nove hanno ottenuto incarichi dal ministero dell’agricoltura o dal comune capitolino. All’inizio Gianni Alemanno e sua moglie Isabella Rauti figurano solo nel listone dei 449 «aderenti» chiamati a versare «contributi in denaro». I primi soci sborsano il capitale iniziale di 250 mila euro. Tra gli iscritti compaiono tutti i fedelissimi poi indagati o arrestati, come Franco Panzironi, segretario e gestore, Riccardo Mancini, Fabrizio Testa, Franco Fiorito e altri. La “Fondazione della libertà per il bene comune” è stata creata dal senatore ed ex ministro Altero Matteoli assieme ad altre dieci persone, tra cui politici di destra come Guglielmo Rositani (ex parlamentare e consigliere Rai), Eugenio Minasso, Marco Martinelli e Marcello De Angelis. A procurare i primi 120 mila euro, però, sono anche soci in teoria estranei alla politica, come l’ex consigliere dell’Anas Giovan Battista Papello (15 mila), il professor Roberto Serrentino (10 mila) e l'imprenditore, Erasmo Cinque, che versa 20 mila euro come Matteoli. La fondazione, gestita dal tesoriere Papello, pubblica i bilanci: tra il 2010 e il 2011, in particolare, dichiara di aver incassato 374 mila euro dai «soci fondatori», altri 124 mila di «contributi liberali» e solo duemila dalle proprie attività (convegni e pubblicazioni). Gli atti della prefettura però non spiegano quali benefattori li abbiano versati. Espressione di Massimo D'Alema, ItalianiEuropei nel 1999 è stata una delle prime fondazioni. I fondatori sono l'ex premier Giuliano Amato, il costruttore romano Alfio Marchini, il presidente della Lega Cooperative, Ivano Barberini, e il finanziere esperto in derivati Leonello Clementi. Il capitale iniziale è di un miliardo di lire (517 mila euro), quasi totalmente versati da aziende o uomini d’affari: 600 milioni di lire da varie associazioni di cooperative rosse, 50 ciascuno da multinazionali come Abb ed Ericsson, la Pirelli di Tronchetti Provera, l’industriale farmaceutico Claudio Cavazza, oltre che da Marchini (50) e Clementi (55). ItalianiEuropei deposita regolari bilanci e ha autorizzato la prefettura di Roma a mostrarli. L’ultimo è del 2013. Gli atti identificano solo i finanziatori iniziali del 1998. A quei 517 mila euro, però, se ne sono aggiunti altri 649 mila sborsati da «nuovi soci», non precisati. Nei bilanci inoltre compare una diversa categoria di «contributi alle attività» o «per l’esercizio»: in totale in sei anni i finanziamenti ammontano a un milione e 912 mila euro. Italia Protagonista nasce nel 2010 per volontà di due leader della destra: Maurizio Gasparri, presidente, e Ignazio La Russa, vicepresidente. Tra i fondatori, che versano 7 mila euro ciascuno, c’è un ristretto gruppo di politici e collaboratori, ma anche un manager, Antonio Giordano. Dopo la fine di An, però, La Russa e i suoi uomini escono e la fondazione resta un feudo dell’ex ministro Gasparri. Come direttore compare un missionario della confraternita che s’ispira al beato La Salle, Amilcare Boccuccia, e come vice un suo confratello spagnolo. Tra i soci viene ammesso anche Alvaro Rodriguez Echeverria, esperto e uditore del sinodo 2012 in Vaticano, nonché fratello dell’ex presidente del Costarica. L’ultimo bilancio riguarda il 2013, quando il capitale, dai 100 mila euro iniziali, è ormai salito a 231 mila. Le donazioni di quell’anno, 56 mila euro, non sono bastate a coprire le spese, con perdite finali per 63 mila, però in banca ci sono 156 mila euro di liquidità. Ma sui nomi dei benefattori, zero informazioni. «Quello che è assolutamente inaccettabile è l’assenza di una regolamentazione che quanto meno adegui le fondazioni alle regole dei partiti politici», dichiara Raffaele Cantone a “l'Espresso” : «Fermo restando che la riforma Letta sulla pubblicità ai partiti si è rivelata inadeguata, perché il sistema delle verifiche è assolutamente ridicolo, ma almeno ha introdotto un meccanismo di controllo. Sulle fondazioni invece c’è totale anarchia: non si possono conoscere entrate e uscite, non c’é trasparenza sui finanziatori». 

«Non si possono conoscere entrate e uscite, non c’é trasparenza sui finanziatori. I conti delle fondazioni possono essere fatti in modo semplicistico e semplificato, senza rendere noto come arrivano i soldi e come vengono spesi», scrive Gianluca De Feo il 7 gennaio 2016 su "L'Espresso". «È una situazione che ha raggiunto i limiti dell’indecenza». Un anno fa Raffaele Cantone fu il primo a lanciare l’allarme sui fondi opachi trasferiti alla politica attraverso le fondazioni. Con un’intervista a “l’Espresso” il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione sottolineò il problema della carenza di controlli. Negli ultimi mesi le indagini hanno poi evidenziato altri sospetti sui soldi passati attraverso questi canali per finanziare l’attività dei partiti.

Raffaele Cantone, ma da allora è cambiato qualcosa?

«Non è cambiato nulla. Ma questo più che un finanziamento ai partiti è un modo di sovvenzionare gruppi interni ai partiti, quelle che un tempo si chiamavano correnti. Nel tempo le correnti si sono organizzate in realtà di tipo associativo: questa scelta potrebbe essere positiva, perché in qualche modo dà una struttura evidente alle correnti. Quello che è assolutamente inaccettabile è l’assenza di una regolamentazione che quanto meno adegui le fondazioni alle regole dei partiti politici. Fermo restando che la riforma Letta sulla pubblicità ai partiti si è rivelata inadeguata, perché il sistema delle verifiche è assolutamente ridicolo, ma almeno ha introdotto un meccanismo di controllo. Sulle fondazioni invece c’è totale anarchia. Viene previsto solo il controllo formale e generico delle prefetture, che non hanno capacità di incidere sui bilanci: non si possono conoscere entrate e uscite, non c’é trasparenza sui finanziatori. I conti delle fondazioni possono essere fatti in modo semplicistico e semplificato, senza rendere noto come arrivano i soldi e come vengono spesi».

Molte di queste fondazioni politiche sono semplici associazioni, che non depositano neppure una minima documentazione.

«Bisogna tenere presente che nel nostro Paese per ragioni culturali queste realtà sono state un momento significativo della libertà di associazione. Nel diritto civile sono previste le associazioni non riconosciute, tutelate perché si tutela la libertà di associazione, che devono avere una loro possibilità di operare. Il problema è che in questi casi viene a mancare persino quel minimo di controllo esercitato dalle prefetture: sono in tutto uguali a una bocciofila. Non ci sono né regole, né rischi legali quando vengono usate per incassare finanziamenti sospetti: possono solo incorrere in verifiche fiscali della Guardia di Finanza se emergono pagamenti in nero. È una carenza normativa che si fa sentire e più volte il Parlamento ha espresso esigenza di intervenire. Sono stati presentati diversi disegni di legge, alcuni dei quali validi, ma non sono mai andati in discussione».

Negli organi che gestiscono le fondazioni politiche c’è poi una diffusa commistione tra centinaia di imprenditori e di politici. È una confusione che può alimentare i conflitti di interesse?

«In sé non è un aspetto deleterio. Che ci sia un legame nelle attività delle fondazioni tra chi svolge politica attiva e chi si occupa di attività economiche, imprenditoriali e professionali, non è un dato atipico delle moderne democrazie. Anzi, avviene in tutte le democrazie occidentali. Il problema è che i potenziali conflitti di interesse possono essere contrastati o attenuati solo attraverso meccanismi di trasparenza. Se l’imprenditore Tizio finanzia la fondazione del politico Caio e questo dato è noto, come avviene ad esempio negli Usa, questo sterilizza il conflitto d’interessi perché quando si discuterà di provvedimenti che riguardano l’imprenditore Tizio, direttamente o indirettamente, tutti potranno rendersi conto dei legami. Quello che è grave è l’assenza di pubblicità nel modo in cui le due situazioni si interfacciano all’interno delle fondazioni».

Alfano nasconde i soldi perfino ai suoi prefetti. La Fondazione presieduta dal ministro non pubblica l'elenco dei finanziatori. E il dg Rai è sponsor di Renzi, scrive Paolo Bracalini Sabato, 09/01/2016, su “Il Giornale”. Un investimento da appena 250 euro che ne rende ogni anno 650mila (di stipendio), un posto di assoluto comando nella tv pubblica e prima ancora il Cda di Poste italiane. In epoca di rendimenti bassi o negativi, l'investimento di Antonio Campo Dall'Orto è da manuale di finanza. Il nuovo direttore generale della Rai ha donato 250 euro alla Fondazione Open, la cassaforte renziana, entrando così nel cerchio ristretto degli amici dell'ex sindaco di Firenze, che poi da premier ha ricambiato quelli che aveva creduto in lui nominandoli nelle partecipate pubbliche. Dall'Orto è uno dei molti finanziatori «in chiaro» della fondazione guidata da Maria Elena Boschi, Luca Lotti e Marco Carrai. I donatori, cioè, che hanno dato il consenso alla pubblicazione dei propri nomi nell'elenco dei finanziatori del think tank legato a Renzi.Ma c'è una zona grigia. Sui 2.803.953,49 euro raccolti dalla Open, infatti, quasi un terzo (913mila euro) arriva da ignoti sostenitori del renzismo che preferiscono restare anonimi. E nemmeno tirando in ballo le prefetture, che per legge vigilano (poco) su enti di diritto privato come le fondazioni, si riesce a sapere di più. Il test lo ha fatto l'Espresso, contattando via mail sette prefetti di altrettanti città italiane (da Roma a Napoli) dove hanno sede le associazioni politiche espressione di qualche leader o presunto tale. Ma anche l'intervento dello Stato, nella figura del prefetto, non sembra illuminare granché di quella zona d'ombra che nasconde le modalità di finanziamento delle fondazioni. Il paradosso è che persino quella che fa capo ad Angelino Alfano, ministro dell'Interno e dunque riferimento istituzionale dei prefetti, «esprime dissenso» alla richiesta di fornire bilanci e informazioni sulla Fondazione De Gasperi, presieduta appunto dal leader di Ncd e capo del Viminale. L'unico patrimonio tracciabile risale all'eredità della vecchia Dc, 400 milioni di lire, passati alla fondazione intitolata al grande statista democristiano. Il resto dei finanziatori si può solo immaginare guardando i membri del consiglio di amministrazione (Bazoli di Intesa San Paolo, il miliardario libanese Makhzoumi Fouad...), visto che la fondazione del ministro non si rende trasparente ai prefetti. E donatori ne servono, visto che anche il 5 per mille per l'associazione di Alfano è andato molto male: l'ultima volta solo 59 contribuenti hanno espresso la preferenza nella dichiarazioni dei redditi, per complessivi 6.700 euro. Spiccioli. Di fondazioni politiche ce n'è un centinaio, ma le più importanti (e ricche) sono una ventina. Ricevono fondi ministeriali, accedono al 5 per mille, hanno sgravi fiscali, a differenza dei partiti possono ricevere donazioni da aziende pubbliche - munifici colossi come Eni, Finmeccanica, Poste - e non devono rendere pubblici i bilanci. Tanti vantaggi che ne spiegano la proliferazione. Una di quelle storiche è ItalianiEuropei di Massimo D'Alema. Quando nasce, nel 1999, viene innaffiata di soldi da cooperative rosse, grosse multinazionali, colossi della farmaceutica. La fondazione dell'ex premier Ds ha autorizzato la prefettura a rendere pubblici i suoi bilanci. Dai quali, però, non si ricavano le informazioni complete sui finanziatori. In totale dai rendiconti fino al 2013 risultano quasi 2 milioni di euro di donazioni, registrate genericamente come «contributi all'attività» da «nuovi soci». Ma quali siano i loro nomi non è dato saperlo.

Figuraccia italiana nella visita a Riad: rissa per il Rolex regalato a Renzi & C. I 50 membri della delegazione si sono azzuffati per i regali offerti dalla famiglia reale. Il premier li fa sequestrare ma a Palazzo Chigi non sono ancora arrivati, scrive TGCOM il 9 gennaio 2016. Monta la polemica per il viaggio diplomatico e commerciale compiuto da Matteo Renzi e una delegazione politico-economica in Arabia Saudita l'8 novembre 2015. E non c'entrano gli appalti miliardari o la crisi internazionale con l'Iran a causa delle esecuzioni capitali compiute da Riad. Il problema sono i Rolex, i regali che i ricchi sauditi avevano preparato per alcuni membri della delegazione italiana ma che alla fine tutti avrebbero preteso. Stando alle indiscrezioni di stampa questi Rolex non è chiaro che fine abbiano fatto. E' il Fatto Quotidiano a ricostruire la vicenda: i 50 ospiti arrivati da Roma (tra cui vertici di aziende statali e non come Finmeccanica, Impregilo e Salini) sono a cena con la famiglia reale. Arrivano gli omaggi preparati dagli sceicchi, pacchettini con nomi e cognomi, in italiano e arabo. C'è il pacchettino di serie A, con il Rolex svizzero, e quello, diciamo, di serie B con un cronografo prodotto a Dubai che vale "solo" 4mila euro. Il fattaccio avviene quando un furbetto della delegazione italiana scambia il suo cronografo arabo col pacchetto luccicante svizzero. Il "proprietario" del Rolex se ne accorge e scoppia una quasi rissa. Tutti vogliono il Rolex, i reali sauditi sarebbero anche pronti a cambiare tutti i regali pur di non vedersi di fronte questa scena da mercato del pesce. Ma interviene la security di Renzi che sequestra tutti i pacchetti. Ora, denuncia il Fatto Quotidiano, di questi orologi si è persa traccia. Va ricordato che il governo di Mario Monti varò una norma che impedisce ai dipendenti pubblici di accettare omaggi del valore superiore a 150 euro. I Rolex e gli altri cadeau avrebbero dovuto essere depositati nella stanza dei regali al terzo piano di Palazzo Chigi. Ma qui non si trovano. Interpellata sul caso, Ilva Saponara, padrona del cerimoniale di Palazzo Chigi, non risponde, dice di avere la febbre e di non ricordare nemmeno il contenuto dei doni offerti dai sauditi. Anche l’ambasciatore Armando Varricchio, consigliere per l'estero di Renzi, non parla ma annuisce di fronte alla ricostruzione del caso. Non dice che fine hanno fatto i Rolex ma rassicura: "I doni di rappresentanza ricevuti dalla delegazione istituzionale italiana, in occasione della recente visita italiana in Arabia Saudita, sono nella disponibilità della Presidenza del Consiglio, secondo quello che prevedono le norme. Come sempre avviene in questi casi, dello scambio dei doni se ne occupa il personale della presidenza del Consiglio e non le cariche istituzionali". Se ne deduce che qualcuno ancora non ha restituito il Rolex in questione. E chissà se mai lo farà.

Governo in visita in Arabia Saudita. La missione finisce in rissa per i Rolex in regalo. Durante la trasferta a Ryad dello scorso novembre, i delegati italiani si sono accapigliati per dei cronografi da migliaia di euro, un omaggio dei sovrani sauditi. Per questo la delegazione del premier li ha sequestrati. Nota di Palazzo Chigi: "Sono nella nostra disponibilità", scrive Carlo Tecce l'8 gennaio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Parapiglia tra dirigenti del governo in viaggio con Matteo Renziper i Rolex elargiti dagli amici di Ryad. Questo racconto, descritto da testimoni oculari, proviene dall’Arabia Saudita. È una grossa figuraccia internazionale per l’Italia. È ormai la notte tra domenica 8 e lunedì 9 novembre. Il palazzo reale di Ryad è una fonte di luce che illumina la Capitale saudita ficcata nel deserto. La delegazione italiana, che accompagna Matteo Renzi in visita ai signori del petrolio, è sfiancata dal fuso orario e dal tasso d’umidità. La comitiva di governo è nei corridoi immensi con piante e tende vistose, atmosfera ovattata, marmi e dipinti. Gli italiani vanno a dormire. Così il cerimoniale di Palazzo Chigi, depositario degli elenchi e dei protocolli di una trasferta di Stato, prima del riposo tenta di alleviare le fatiche con l’inusuale distribuzione dei regali. Quelli che gli oltre 50 ospiti di Roma – ci sono anche i vertici di alcune aziende statali (Finmeccanica) e private (Salini Impregilo) – hanno adocchiato sui banchetti del salone per la cena con la famiglia al trono: deliziose confezioni col fiocco, cognome scritto in italiano e pure in arabo. Gli illustri dipendenti profanano la direttiva di Mario Monti: gli impiegati pubblici di qualsiasi grado devono rifiutare gli omaggi che superano il valore di 150 euro oppure consegnarli subito agli uffici di competenza. Qui non si tratta di centinaia, ma di migliaia di euro. Perché i sovrani sauditi preparano per gli italiani dei pacchetti con orologi preziosi: avveniristici cronografi prodotti aDubai, con il prezzo che oscilla dai 3.000 ai 4.000 euro e Rolex robusti, per polsi atletici, che sforano decine di migliaia di euro, almeno un paio. A Renzi sarà recapitato anche un cassettone imballato, trascinato con il carrello dagli inservienti. Il cerimoniale sta per conferire i regali. Il momento è di gioia. Ma un furbastro lo rovina. Desidera il Rolex. Scambia la sua scatoletta con il pacchiano cronografo con quella dell’ambito orologio svizzero e provoca un diverbio che rimbomba nella residenza di re Salman. Tutti reclamano il Rolex. Per sedare la rissa interviene la scorta di Renzi: sequestra gli orologi e li custodisce fino al ritorno a Roma. La compagine diplomatica, guidata dall’ambasciatore Armando Varricchio, inorridisce di fronte a una scena da mercato di provincia per il chiasso che interrompe il sonno dei sauditi. Anche perché i generosi arabi sono disposti a reperire presto altri Rolex pur di calmare gli italiani. Non sarà un pezzo d’oro a sfaldare i rapporti tra Ryad e Roma: ballano miliardi di euro di appalti, mica affinità morali. Nonostante le decapitazioni di Capodanno, tra cui quella dell’imam sciita che scatena la furia dell’Iran, per gli italiani Ryad resta una meta esotica per laute commesse. E che sarà mai una vagonata di Rolex? Il guaio è che degli orologi, almeno durante le vacanze natalizie, non c’era più traccia a Palazzo Chigi. Non c’erano nella stanza dei regali al terzo piano. Chi avrà infranto la regola Monti e chi l’avrà rispettata? E Renzi ce l’ha o non ce l’ha, il Rolex? La dottoressa Ilva Sapora, la padrona del cerimoniale di Palazzo Chigi, non rammenta il contenuto dei doni. Ha la febbre e poca forza per rovistare nella memoria. Varricchio ascolta le domande e la ricostruzione dei fatti di Ryad: annuisce, non replica. Varricchio è il consigliere per l’estero di Renzi, nonché il prossimo ambasciatore italiano a Washington. Allora merita un secondo contatto al telefono. Non svela il destino del Rolex che ha ricevuto, ma si dimostra comprensivo: “I cittadini devono sapere. Queste vicende meritano la massima attenzione. Le arriverà una nota di Palazzo Chigi. Che la voce sia univoca”. Ecco la voce del governo, che non smentisce niente, che non assolve la Sapora, ma precisa i ruoli: “I doni di rappresentanza ricevuti dalla delegazione istituzionale italiana, in occasione della recente visita italiana in Arabia Saudita, sono nella disponibilità della Presidenza del Consiglio, secondo quello che prevedono le norme. Come sempre avviene in questi casi, dello scambio dei doni se ne occupa il personale della presidenza del Consiglio e non le cariche istituzionali”. Il racconto non finisce. Cos’è accaduto dopo la notte di Ryad? Chi non voleva restituire o non ha ancora restituito i Rolex? Da Il Fatto Quotidiano di venerdì 8 gennaio 2016.

Renzi, Caporale vs Fiano (Pd): “Ci fu rissa tra dirigenti per Rolex regalati dai sauditi”. “Scena ignominiosa, ma per me non c’è notizia”, continua "Il Fatto Quotidiano tv". Polemica vivace tra Antonello Caporale, inviato de Il Fatto Quotidiano, e il deputato Pd Emanuele Fiano, durante Omnibus, su La7. Lo scontro è innescato dall’articolo di Carlo Tecce, pubblicato sul numero odierno del Fatto, circa il parapiglia esploso nello scorso novembre tra i dirigenti del governo in viaggio con Matteo Renzi in Arabia Saudita: la rissa tra i dirigenti governativi della folta delegazione italiana è stata scatenata dalla generosa elargizione di circa 50 Rolex di varia fattura ad opera del re saudita. Come spiega Caporale nella trasmissione, nella hall dell’hotel di Ryad alcuni dirigenti italiani si sono ribellati perché avevano ricevuto l’orologio meno lussuoso, peraltro in barba alla legge Monti che impone di rifiutare doni oltre i 150 euro. Successivamente la scorta di Renzi ha dovuto sequestrare gli orologi, tutti prodotti a Dubai e dal valore oscillante tra3mila e 4mila euro. Caporale commenta: “Temo che la mediocrità del gruppo dirigente e di coloro che dovrebbero guidare l’Occidente a risolvere questa crisi internazionale sia tale che anche i dettagli illustrino il pessimismo generale. E questo episodio è un dettaglio significativo”. Il giornalista definisce il caso dei Rolex d’oro donati dagli ‘amici di Ryad’ un dettaglio di costume non certo folkloristico: “E’ indicatore della nostra ambiguità che ovviamente non è solo italiana, e simboleggia la debolezza dell’Occidente. Che non riesce non solo a porre un’idea generale cu come far fronte a una guerra così asimmetrica, pericolosa, atipica, difficile da condurre, ma nemmeno a misurare le forze per far fronte a cose più banali”. Insorge Fiano, che ribadisce di aver letto l’articolo de Il Fatto Quotidiano ‘parola per parola': “Qui c’è un grande titolo, ma di notizie certe non c’è nulla”. “E’ notizia certa che i Rolex siano stati dati”, replica Caporale. “L’unica fonte che viene citata” – obietta il parlamentare Pd – “è un consigliere diplomatico di Palazzo Chigi”. “C’è la nota di Palazzo Chigi alla fine dell’articolo” – ribatte la firma de Il Fatto – “lo legga tutto”. Ma il deputato Pd, pur definendo “ignominiosa” la rissa descritta nell’articolo di Tecce, ripete che non c’è notizia, né la nota di Palazzo. In realtà, la versione del governo c’è e non smentisce nulla, ma precisa i ruoli: “I doni di rappresentanza ricevuti dalla delegazione istituzionale italiana, in occasione della recente visita italiana in Arabia Saudita, sono nella disponibilità della Presidenza del Consiglio, secondo quello che prevedono le norme. Come sempre avviene in questi casi, dello scambio dei doni se ne occupa il personale della presidenza del Consiglio e non le cariche istituzionali”.

SOCIETÀ INCIVILE E RINCOGLIONITA. Scrive Mario Vito Torosantucci su “L’Oservatore d’Italia” il 23/12/2015. Caro italiano, tu non esisti più, e se esisti, è soltanto una tua convinzione personale, che ti porterà ad essere sempre più un insignificante burattino. A volte, sembra di sognare, e poi, quando ti svegli, sei invaso da una strana sensazione di disagio psicofisico che ti fa star male. Ti guardi intorno, e non riesci bene a realizzare se stai veramente nel tuo mondo, in quel mondo dove sei cresciuto, dove hai vissuto momenti indelebili, dove hai imparato dei valori sani della vita, dove si parlava con il prossimo, si discuteva anche animatamente, ci si divertiva e avevamo lo stimolo per ridere, essere ottimisti e credere nel futuro. Giri lo sguardo, sperando di vivere soltanto un brutto sogno, immerso nei pensieri più deprimenti e pessimisti, cercando di convincerti, che quello che vedi non è la tua realtà, e che si dissolverà nell’aria come una nuvola passeggera, dileguandosi, spinta da una folata di vento piena di positività. Quante illusioni! Basta uscire da casa, e ti accorgi subito, che la realtà è un’altra, rievocando la torre di Babele, ti immergi istantaneamente in un caos totale, di ignoranza, maleducazione, cattiveria, inciviltà, aggravata dall’invasione di popoli non per loro colpa, retrogradi, nel quale si ha l’impressione, non di iniziare un nuovo giorno con un certo ottimismo, bensì, con la consapevolezza di andare in guerra, usando un eufemismo appropriato. Salutare il prossimo, è un’opzione remota, del passato, non più di moda, anche se si abita nello stesso palazzo, o occupanti dello stesso parcheggio, però, in compenso ci si guarda in cagnesco, pronti a far esplodere la propria ira al primo indizio negativo. Il menefreghismo, che regna nella maggioranza della gente, oltre naturalmente, una forte dose di maleducazione, induce ad aggravare lo stato di degrado generale che notiamo per le strade. L’ impegno gravoso, per esempio, di pigiare con il piede il cassonetto, per gettare i rifiuti, spinge il cittadino comune, a lasciare il sacchetto per terra, oppure bisognerebbe allargare i fori per la plastica, perché, sempre il cittadino comune, non può perdere tempo a gettare le bottiglie singolarmente, cosicchè è costretto ad incastrare l’intero involucro delle sue bottiglie, lasciando il suo lavoro al prossimo imbecille, che se non vuole accollarsi il lavoro superfluo altrui, lascia il tutto tranquillamente per terra. Camminare sui marciapiedi, è diventato difficile, e per una mamma che spinge il carrozzino, l’impresa è ancora più ardua, perché non c’è lo spazio necessario. Infatti fra escrementi di cani, foglie cadute dagli alberi, particolarmente abbondanti in questo periodo, cespugli che crescono a vista d’occhio, e, dulcis in fundo, le auto parcheggiate con le ruote sui marciapiedi, la gimcana con il complementare pericolo, è d’obbligo per i poveri pedoni. Guai a reclamare con qualcuno, perché il minimo che può capitare è di finire in ospedale, e spesso si è offesi ed umiliati e si è costretti ad andare via, covando dentro di sé quella rabbia, che pian piano ci mangerà il fegato. Osservare le regole nel nostro amabile paese, è diventato un rischio, infatti se per esempio, in auto rispetti i limiti di velocità, fra l’altro, non si sa con quale criteri siano stati stabiliti, puoi essere tamponato e susseguentemente malmenato da chi ti è venuto addosso, per intralcio nel traffico, oppure decidi di accelerare, e così ti prendi una bella multa, per avere superato il limite di velocità. E’ soltanto una questione di scelte soggettive. Discutere con il prossimo, specialmente se è un extracomunitario, è pericolosissimo, perché le armi da taglio abbondano, se non si tira fuori anche qualche pistola, ma le forze dell’ordine, da capire, per una questione di privacy, non possono fermarli e perquisirli, perché li offenderebbero. Gloria ai giudici, che per spirito di giustizia, puniscono i cittadini onesti, che vogliono per forza difendersi, quando capita di essere aggrediti in casa propria, malmenati, e derubati dei propri sacrifici. Onore ai politici, che invece di cambiare un’innumerevole quantità di leggi sbagliate, cosa che potrebbero fare in pochi minuti, si dedicano costantemente ai propri ed esclusivi interessi. Caro italiano, tu non esisti più, e se esisti, è soltanto una tua convinzione personale, che ti porterà ad essere sempre più un insignificante burattino. Una cosa è vera, e bisogna ammetterla; che noi cittadini, abbiamo un fisico veramente bestiale, come diceva una famosa canzone, perché sopravvivere in un mondo inquinato nei generi alimentari, prodotti in campagne che spesso custodiscono scorie chimiche altamente pericolose, medicinali, che dopo tanto tempo usati, si scopre che sono fortemente tossici, è la prova che siamo fatti di ferro. Certo! Qualche volta il ferro si fonde, e, molti sene vanno, ma che importa, il problema si risolve con migliaia di nuovi profughi che continuamente arrivano. In questo caos, la società moderna ha trovato il rimedio. Meglio fare come le tre scimmiette, non vedo, non sento, non parlo, così ci si racchiude in noi stessi, ed il mezzo per farlo è il telefonino. Grandissima invenzione, che ci consente di telefonare, ma ci regala altre cose molto più importanti, quella di estraniarci da tutto ciò che ci circonda, ci fa messaggiare, ci fa fare centinaia di giochini, rendendoci la vita più piacevole, anche se qualche volta, distrattamente si va a sbattere contro qualche palo della luce, oppure addosso alle persone, che non riescono a sparire all’istante. Sui mezzi pubblici il novanta per cento dei passeggeri è assorto nel mondo del proprio cellulare, per la gioia degli scippatori, che al contrario sono molto attenti al prossimo. Conclusione, chi ha una certa età in Italia, oggigiorno, si sente un pesce fuor d’acqua, grazie a questa società incivile e rincoglionita.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò

La coscienza

Volevo sapere che cos'è questa coscienza 

che spesso ho sentito nominare.

Voglio esserne a conoscenza, 

spiegatemi, che cosa significa. 

Ho chiesto ad un professore dell'università

il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si, 

ma tanto tempo fa. 

Ora la coscienza si è disintegrata, 

pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,

vivendo con onore e dignità.

Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.

Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande, 

il gigante, quelli che sanno rubare. 

Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?

Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare. 

L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere, 

la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.

Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle, 

se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere. 

E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,

mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.

Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)

perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,

adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare. 

Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare, 

la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,

vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)

FENOMENOLOGIA DEL TRADIMENTO E DELLA RINNEGAZIONE.

Si è fatto con Cristo…, figuriamoci con i poveri cristi.

“E quando fu sera, egli si mise a tavola con i dodici; e, mentre mangiavano, disse: "In verità vi dico che uno di voi mi tradirà". Ed essi si rattristarono grandemente, e ciascuno di loro prese a dirgli: "Sono io quello, Signore?". Ed egli, rispondendo, disse: "Colui che ha intinto con me la mano nel piatto mi tradirà. Il Figlio dell'uomo certo se ne va secondo che è scritto di lui; ma guai a quell'uomo per mezzo del quale il Figlio dell'uomo è tradito! Sarebbe stato meglio per lui di non essere mai nato". E Giuda, colui che lo avrebbe tradito, prese a dire: "Maestro, sono io quello?". Egli gli disse: "Tu l'hai detto!". Matteo 26

La predizione di Gesù. Quando, nell’imminenza dell’arresto, Gesù preannuncia il prossimo sbandarsi delle pecore rimaste prive del pastore (nonché, occorre pur dirlo, la propria successiva risurrezione), Pietro insorge esclamando: “Se tutti si scandalizzeranno di te, io non mi scandalizzerò mai”. Al che Gesù: “In verità ti dico che questa notte, prima che il gallo canti, mi rinnegherai tre volte”. Ma Pietro insiste: “Anche se dovessi morire con te, non ti rinnegherò”. E l’evangelista aggiunge che “similmente dissero anche tutti gli altri discepoli”. Abbiamo citato da Matteo (26, 33-35); la versione di Marco differisce solo in un particolare: “Prima che il gallo canti due volte, mi rinnegherai tre volte” (14, 30). Sensibilmente diversa invece la versione di Luca (22, 31-34), che inizia con il preannuncio del ritorno di Simon Pietro al suo ruolo di guida dopo la defezione: “Simone, Simone, ecco, Satana vi ha reclamato per vagliarvi come il grano. Ma io ho pregato per te, affinché non venga meno la tua fede. E tu, una volta ritornato, corrobora i tuoi fratelli”. Replica Pietro: “Signore, con te sono pronto ad andare anche in prigione e alla morte”. Al che Gesù ribatte come sappiamo: “Ti dico, Pietro, non canterà oggi il gallo prima che tu abbia negato tre volte di conoscermi”. Quanto al quarto vangelo, anche in esso figura, in forma un poco diversa, il botta e risposta tra Pietro e Gesù: "Pietro disse: ‘Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te! Rispose Gesù: ‘Darai la tua vita per me? In verità, in verità ti dico: non canterà il gallo, prima che tu non m’abbia rinnegato tre volte’" (Gv 13, 37-38). Rispetto ai Sinottici, manca, in questo passo, il preannunzio della diserzione di tutti i discepoli senza eccezione alcuna. Ciò è comprensibile se si pensa che il quarto evangelista afferma in seguito la presenza del discepolo prediletto ai piedi della croce. Con dubbia coerenza, però, il concetto della diserzione generalizzata viene espresso tre capitoli più avanti: “Ecco, verrà l’ora, anzi è già venuta, in cui vi disperderete ciascuno per conto proprio e mi lascerete solo” (Gv 16, 32). Dopo l’arresto di Gesù, già si è visto, le cose vanno in effetti come egli aveva preannunziato: tutti i discepoli si sbandano e fuggono.

Fenomenologia della negazione, scrive Salvo Vitale il 2 maggio 2016 su "Telejato" nelle fasi dello sandalo che ha investito Pino Maniaci. QUANDO IL GIUDIZIO CAMBIA, L’AMORE DIVENTA ODIO, L’AMICIZIA INIMICIZIA, IL RISPETTO DISPREZZO. Se si vuole criticare qualcosa, si trova sempre qualche motivo per farlo. Anche a costo di fare forzature, di stravolgere un’affermazione per farla diventare il contrario di quella che è. In tal caso non c’è più il dato, l’elemento del contendere, ma il significato, la lettura soggettiva del dato. Il problema, tuttavia, non è nella critica, che è un effetto, ma nella causa che la determina. Perché si vuole criticare qualcosa? Qual è la molla che fa scattare la critica? Il movente non è molto distante, nel rapporto interpersonale, dalle situazioni con cui si sviluppa la crisi della biunivocità, sino ad arrivare alla sua totale negazione, che comporta anche la negazione della persona di riferimento. Esempio classico è quello di due persone che hanno fatto coppia e, a un certo momento si lasciano. E’ più o meno come vedere attraverso un occhiale colorato, o anche di vista. Cambiata la chiave di lettura, ogni cosa assume dimensioni diverse e impensabili sino a poco tempo prima: tutto quello che sembrava bello, che mi faceva ridere, che destava ammirazione, diventa sciatto, banale, insipido, distante, sgradevole, antipatico. Ogni cosa, ogni gesto, ogni parola, diventa un tassello che alimenta la distanza, minuto dopo minuto, giorno dopo giorno, sino ad arrivare alla soppressione logica e psicologica dell’interlocutore, il quale, nella sua condizione di vittima sacrificale ha come possibilità o il silenzio, il taglio del rapporto dialogico, la costruzione di una parete divisoria, un atteggiamento difensivo, se non si vuole inasprire la distanza, o, in rapporto al proprio livello di aggressività, la risposta fredda, colpo su colpo, il pingpong, il mettersi alla pari senza rinunciare all’analisi spietata e alla denuncia dei passaggi sotterranei che determinano le critiche e le manipolazioni degli argomenti.  In quest’ultimo caso, poiché nessuno ammette che si tratta di errori di valutazioni o di chiavi di lettura emotivamente falsate, siamo già sull’orlo della rottura, con il suo micidiale carico di risentimenti, amarezze, incarognimenti, contrapposizioni, mugugni, preparazione mentale della frase, della risposta da tirar fuori al momento giusto, con attenta scelta delle parole, ognuna con la sua spietata forza di un’arma da taglio. Una vera e propria condizione patologica. Un cancro che rode, che alimenta metastasi, che distrugge la positività, la presenza del sorriso, della gioia, dell’intimità, della comprensione. Spesso un incontro, un bacio, un abbraccio, possono dare l’illusione che tutto sia stato superato, ma, se c’è il malessere, questo non tarderà a ripresentarsi. Se non si è in grado di invertire questa fase, e, per farlo, ci vuole amore e intelligenza, se si vuole evitare l’incancrenirsi di una situazione che genera devastazioni interiori, l’unica e definitiva soluzione è il bisturi, cosa che è sempre drammatica specie quando in mezzo ci sono situazioni familiari e vittime innocenti. Il giudizio non cambia solo per le persone, ma anche per le cose, per le ideologie, per la valutazione di opere d’arte e di letteratura. Tipico, nei giovani che diventano adulti, il superamento della condizione di ribellismo giovanile, che li ha portati ad occupare le scuole, a partecipare ai cortei, a frequentare gente con idee politiche “estremiste”: di colpo sembra tutto diventare come qualcosa che non appartiene, che ha occasionalmente attraversato la strada ed è andata via, i “peccati di gioventù”, dopo che ci si mette la testa a posto. Anche nella mutata valutazione di ideologie, prima fra tutti il “comunismo”, ma anche il “cristianesimo”,  non ci si fa scrupolo di accumulare tutto in un unico fascio dove mettere delitti, fanatismi, intolleranze, applicazioni e interpretazioni errate, cose ben lontane dalla concreta “purezza”, dal fascino dell’idea originaria, cosicchè la “dottrina dell’amore” diventa dottrina dell’odio, il principio dell’eguaglianza diventa ingiustizia perché non rispetta le competenze e le differenze, il panteismo diventa materialismo, la Shoah non è mai esistita o è stata gonfiata dalla propaganda antinazista, Peppino Impastato era un “lagnusu”, non voleva lavorare,  era “lordu,” e non aveva rispetto neanche per la sua famiglia che gli dava il pane, Garibaldi era uno che conquistò il Regno delle due Sicilie corrompendo i generali borbonici con i soldi dei Savoia e degli Inglesi, Leopardi era un poveraccio che “faceva puzza” , che non ebbe mai alcun rapporto con le donne e  quindi la sua poesia è solo espressione della sua insoddisfazione, Nietzsche era uno che è impazzito perché si ostinava a combattere il Cristianesimo e voleva sapere cose che all’uomo sono precluse,  ecc. Attenzione, possono esserci, nell’enunciazione di questi giudizi, elementi di partenza, circostanze che possono essere vere e giustificare la formazione del pregiudizio che rende il particolare come la chiave di lettura dell’universale: se tu fumi una sigaretta ogni tanto, o se qualche volta ti sei fatto una canna, sei un fumatore e un drogato; se hai avuto un incidente in macchina sei uno che non sa guidare, se ogni tanto ti concedi un bicchiere di vino sei un ubriacone, ecc. Nella logica di chi “forza” i margini del giudizio c’è anche il ricorso alla diffamazione, alla “macchina del fango”, all’invenzione o alla distorsione malevola di episodi, momenti, frasi, occasioni che divengono prove della dimostrazione della tesi di partenza. Una delle tecniche più usate è la proprietà transitiva, con il suo carico di deformazioni : se x è un cattivo soggetto, tu che sei amico di x sei anche un cattivo soggetto, se hai un figlio che si droga, la colpa è tua che non lo sorvegli o non hai saputo educarlo, se hai subito un attentato la colpa è anche tua, che ne hai dato l’occasione o la motivazione, se Crocetta, del PD,  è al governo siciliano assieme all’UDC di Cuffaro e se in questo partito ci sono molti pregiudicati e mafiosi, anche Crocetta è un mafioso o amico dei mafiosi, ma lo è anche il suo partito, il PD e così via. Dalla continuità alla transitività, dal particolare all’universale, si collegano fatti, si trovano relazioni, coincidenze, deduzioni, si elaborano teoremi incredibili. La “nullità” della persona negata è il presupposto che ne rende inutile, inconsistente, qualsiasi gesto apprezzabile, qualsiasi scelta coraggiosa, qualsiasi iniziativa, qualsiasi cosa scritta, anche se ha ricevuto il plauso degli altri. E così si conclude che gli altri non capiscono o non hanno capito, o si lasciano raggirare dalla perversa capacità di persuasione del soggetto negato. Anche il giudizio, il parere di persone eminenti, di studiosi, di esperti, diventa irrilevante nei confronti del pregiudizio. Si trova sempre qualche motivazione: non conoscono bene i fatti, sono estranei all’ambiente ecc. I “sapientoni” che invece sputano sentenze all’interno del loro codice ideologico, dei loro fanatismi, della loro intolleranza verso qualsiasi forma di diversità, pretendono di essere i soli depositari della verità, i soli e veri giudici dei fatti e delle persone. Molte di queste tecniche sono tipiche della subcultura mafiosa e sono funzionali alla conquista o al mantenimento di una condizione di privilegio e di controllo del territorio, costruita attraverso l’uso di qualsiasi forma di violenza, fisica o psicologica, attraverso il ricorso alla circolazione di false e diffamanti notizie studiate per creare l’isolamento attorno al soggetto sgradito, pronunciarne a priori la condanna e bandirlo o metterlo ai margini del contesto sociale in cui vive. La condanna, in molti casi, coinvolge anche amici e parenti, per il solito uso scorretto della proprietà della transitività. Lo strumento più facile per evitare la diffusione di possibili “virus” è l’etichettatura, l’affibbiare a una persona o a un gruppo un preciso delimitato spazio d’azione in cui muoversi, il giudicare secondo una inappellabile definizione: “Sono quelli di…, quelli che…”. La difficile sopravvivenza delle minoranze, siano esse politiche che professionali o religiose, (“quelli di Rifondazione Comunista…”, “i testimoni di Geova….”, “i grillini”, “i musulmani”, “persino i “Lions… “, tanto per mettere insieme cose di opposta estrazione), è stritolata dall’indicazione dell’omogeneità, dell’assimilazione al tutto, dall’identificazione nell’ideologia di massa, nel personaggio di moda, nel leader che esibisce i suoi deliri di onnipotenza ad alta voce, che affascina e del quale, spesso senza motivazioni o interessi specifici, certi soggetti diventano alfieri, esponenti, portavoci, difensori d’ufficio, soldati disposti a combattere, fanatici fans, elettori, pecore al seguito. Ed è inutile gridare che è necessario essere se stessi, riappropriarsi della propria identità, perché l’identità è ormai quella acquisita dal contesto sociale che te l’ha trasmessa e tutte le altre sono sbagliate. Al di là del rapporto d’amore, con tutti i suoi coinvolgimenti emotivi, rimane quello dialogico secondo l’indicazione di Epicuro: “di tutte le cose che la saggezza fornisce per rendere la vita interamente felice, quella più grande in assoluto è il possesso dell’amicizia”. Durante la rivoluzione francese la chiamavano “fraternitè”. Tutto questo vale anche se variano le scelte ideologiche: in tal caso, oltre che a rinnegare le idee in cui si è creduto, si rinnega anche se stessi (gli “errori giovanili”) e ci si circonda di una patina di autocompiacimento nel ritenere incontestabile e irreversibile il giudizio che cambia. In verità questo non vuol dire ritenersi capaci di “avere preso coscienza”, di avere avuto la forza e la capacità di rimettere in discussione un passato fatto di uomini e idee in cui non ci si riconosce più. Per non parlare delle forzature logiche, dei falsi teoremi che vengono adottati e che stanno dietro la necessità, se non la pretesa, di giustificare la scelta. Quando prima o poi si realizza il “taglio” non è necessario trasformarlo in “omicidio”, passare attraverso la soppressione dell’amico diventato nemico: basta sforzarsi di superare i mal di pancia, la delusione, l’amarezza e riconoscere che non ci sono più le condizioni per procedere “insieme” sulla stessa strada. Il che non vuol dire che la strada appartiene a una delle parti in causa. La strada è di tutti. Quando avremo imparato a parlarci come compagni di uno stesso itinerario, il cui traguardo è il raggiungimento di una comune serenità e la disponibilità al confronto e alla costruzione di infiniti saperi, di infinite ideologie, di molteplici tolleranze e di comuni convivenze reciprocamente costruttive, avremo realizzato i vari e affascinanti modi di essere di una odiata, vituperata, temuta, osannata, offesa, oppressa e soppressa parola, il comunismo, dove ci si riconosce come “compagni”.

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

“Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficiato”. Libro di Maria Rita Parsi, Mondadori 2011. Cos'è la "sindrome rancorosa del beneficato"? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L'eccellenza dell'ingratitudine. Comune, per altro, ai più. Senza che i molti ingrati "beneficati" abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il coraggio e, perfino, l'onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La "sindrome rancorosa del beneficato" è, allora, quel sordo, ingiustificato rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente; altre volte, invece, cosciente) che coglie come una autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio, poiché tale condizione lo pone in evidente "debito di riconoscenza" nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli "dovrebbe" spontaneamente riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo o a negarlo o a sminuirlo o, addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il benefattore stesso in una persona da dimenticare se non, addirittura, da penalizzare e calunniare. Questo nuovo libro di Maria Rita Parsi parla dell'ingratitudine, quella mancanza di riconoscenza che ognuno di noi ha incontrato almeno una volta nella vita. Attraverso una serie di storie esemplari, l'analisi delle tipologie di benefattori e beneficati, il decalogo del buon benefattore e del beneficato riconoscente e un identikit interattivo, l'autrice insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i danni e usarla addirittura per rafforzarsi.

La culla dell'ingratitudine. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano, scrive Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano. Pensate a due innamorati. Ciascuno fa tutto quello che può per l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si ama non tiene una contabilità del dare e dell’avere: i conti sono sempre pari. Solo quando l’amore finisce riappare la contabilità e ciascuno scopre di aver dato più di quanto non abbia ricevuto. Però anche fra innamorati ci sono dei momenti in cui il tuo amato ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non ti saresti mai aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è anche riconoscenza. Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più». Perciò la proviamo spesso verso persone con cui non abbiamo nessun rapporto ma che ci fanno del bene spontaneamente. Per esempio a chi si getta in acqua per salvarci rischiando la vita, a chi ci soccorre in un incidente, a chi ci cura quando siamo ammalati. Ma anche a chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto i nostri talenti nel campo della scienza, dell’arte, della professione per cui, quando siamo arrivati, gli siamo debitori. La riconoscenza è perciò nello stesso tempo un grazie e il riconoscimento dell'eccellenza morale della persona che ci ha aiutato. Quando proviamo questo sentimento, di solito pensiamo che durerà tutta la vita, invece spesso ce ne dimentichiamo. E se quella persona ci ha fatto veramente del bene allora la nostra è ingratitudine. Ma la chiamerei una ingratitudine leggera, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente beneficiate, anziché essere riconoscenti, provano del rancore, dell’odio verso i loro benefattori. Ci sono allievi che diventano i più feroci critici dei loro maestri e dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha promossi. Da dove nasce questa ingratitudine cattiva? Dal desiderio sfrenato di eccellere. Costoro pretendono che il loro successo sia esclusivamente merito della propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati. Così negano l’evidenza, aggrediscono il loro benefattore. E quanti sono! State attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di invidia o di ingratitudine malvagia. Guardatevi da questo tipo di persone.

QUALCHE PROVERBIO AFORISMO

Amico beneficato, nemico dichiarato.

Avuta la grazia, gabbato lo santo.

Bene per male è carità, male per bene è crudeltà.

Chi non dà a Cristo, dà al fisco.

Chi rende male per bene, non vedrà mai partire da casa sua la sciagura.

Comun servizio ingratitudine rende.

Dispicca l’impiccato, impiccherà poi te.

Fate del bene al villano, dirà che gli fate del male.

Il cane che ho nutrito è quel che mi morde.

Il cuor cattivo rende ingratitudine per beneficio.

Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo padrone.

L’ingratitudine converte in ghiaccio il caldo sangue.

L’ingratitudine è la mano sinistra dell’egoismo.

L’ingratitudine è un’amara radice da cui crescono amari frutti.

L’ingratitudine nuoce anche a chi non è reo.

L’ingratitudine taglia i nervi al beneficio.

Maledetto il ventre che del pan che mangia non si ricorda niente.

Non c’è cosa più triste sulla terra dell’uomo ingrato.

Non far mai bene, non avrai mai male.

Nutri il corvo e ti caverà gli occhi.

Nutri la serpe in seno, ti renderà veleno.

Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla palma.

Render nuovi benefici all’ingratitudine è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi.

Tu scherzi col tuo gatto e l’accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi

Val più un piacere da farsi che cento di quelli fatti.

In amore, chi più riceve, ne è seccato: egli prova la noia e l’ingratitudine di tutti i ricchi.

Philippe Gerfaut

L’ingratitudine è sempre una forma di debolezza. Non ho mai visto che uomini eccellenti fossero ingrati.

Johann Wolfgang Goethe, Massime e riflessioni, 1833 (postumo)

Spesso l’ingratitudine è del tutto sproporzionata al beneficio ricevuto.

Karl Kraus, Di notte, 1918

Ci sono assai meno ingrati di quanto si creda, perché ci sono assai meno generosi di quanto si pensi.

Charles de Saint-Evremond, Sugli ingrati, XVII sec.

Il cuore dell’uomo ingrato somiglia alle botti delle Danaidi; per quanto bene tu vi possa versare dentro, rimane sempre vuoto.

Luciano di Samosata, Scritti, II sec.

Un solo ingrato nuoce a tutti gli infelici.

Publilio Siro, Sentenze, I sec. a.c.

Quando di un uomo hai detto che è un ingrato, hai detto tutto il peggio che puoi dire di lui.

Fenomenologia rancorosa dell'ingratitudine. La rabbia dell'ignorare il beneficio ricevuto. Le relazioni d'aiuto contraddistinguono i diversi momenti del ciclo vitale di una persona e ne favoriscono l'autonomia e l'indipendenza. Esiste tuttavia la possibilità che nella sottile dinamica di dipendenza/indipendenza, caratterizzante questo tipo di rapporto, alla gratitudine per un beneficio ricevuto si sostituisca un sentimento d'ingratitudine, di rancore e di rabbia verso il "benefattore". Questo lavoro di Andrea Brundo prende in esame i fenomeni connessi alle relazioni d'aiuto e i processi collegati alla costruzione della personalità nel corso dell'età evolutiva (a partire dall'iniziale rapporto diadico madre-figlio). In base a questa ipotesi, chi prova rancore non ha avuto la possibilità di sperimentare, aggregare ed elaborare contenuti affettivi significativi nelle prime fasi della vita. Ignora, quindi, l'esistenza di autentiche relazioni d'affetto. È incapace di viverle, proprio per la mancanza di informazioni e per la carenza dei relativi schemi cognitivi. Il "rancoroso", pur potendo ammettere l'aiuto ricevuto, non è in grado di essere riconoscente perché ignora i contenuti affettivi che sono dietro la relazione di aiuto. Non potendoli riconoscere in se stesso non li può trovare neanche negli altri. L'incapacità di provare gratitudine è sostenuta da una generale difficoltà a condividere sentimenti e contenuti psichici. Nelle relazioni che instaura, la condivisione non è mediata dalla sfera affettiva, ma dalle prevalenti esigenze dell'io. Chi manca delle informazioni atte a soddisfare le proprie necessità può ricorrere all'aiuto dell'altro che le possiede. Ciò comporta, sul piano relazionale, il riconoscimento dell’autorevolezza e del relativo "potere" di chi dispone le conoscenze. Nel momento in cui si deve predisporre ad accettare le informazioni, il beneficiato, con prevalente modalità narcisistica va incontro ad una serie di difficoltà legate a:

non sapere;

essere in una posizione subordinata di "potere";

fidarsi e considerare giusta l'informazione ricevuta;

disporsi a ridefinire i propri schemi cognitivi e stili comportamentali;

vivere il disagio provocato dal contenuto affettivo associato all'informazione-aiuto.

Nel caso in cui le informazioni risultino troppo complesse rispetto alla rappresentazione della realtà del soggetto, lo sforzo per elaborarle e integrarle nei propri schemi mentali è eccessivo. A questo punto tale soggetto preferisce ricorrere a una modalità più semplice, quale è quella antagonista, e si mette contro la persona che lo sta aiutandolo. E ancora. Quando il divario tra l'immagine di sé (in termini di sistema di credenze, schemi cognitivi, stili comportamentali, ecc.) e le implicazioni di mutamento insite nelle informazioni-aiuto si rivela insostenibile, il beneficiato non può accettare di cambiare e il peso di questa difficoltà viene proiettato sul beneficiante. L'informazione donata e non elaborata rimane a livello dell'io, ristagna e diventa un qualcosa di stantio, di "rancido", di inespresso che risulta insopportabile. Un qualcosa che alimenta un incessante rimuginio, sostenuto anche dalla vergogna e dal senso di colpa. Nasce l'esigenza di eliminare il fastidio e il senso di oppressione, esigenza che conduce all'odio verso la causa (il beneficiante) di tanto "dolore". Si instaura così un circolo vizioso nel pensiero a cui solo gli sfoghi rabbiosi possono dare un minimo, seppur temporaneo, sollievo. Gli eccessi di rabbia costituiscono l'unica soluzione per tentare una comunicazione (impossibile) attraverso la naturale via dell'affettività. Pertanto, il rancore trova un’auto giustificazione in quanto permette di manifestare al mondo e alla persona beneficante contenuti mentali che non trovano altre modalità espressive.

L’ITALIA DEI PAZZI.

Il professor Vittorino Andreoli: "L'Italia è un Paese malato di mente. Esibizionisti, individualisti, masochisti, fatalisti", scrive Andrea Purgatori su L'Huffington Post del 06/08/2013. “L’Italia è un paziente malato di mente. Malato grave. Dal punto di vista psichiatrico, direi che è da ricovero. Però non ci sono più i manicomi”. Il professor Vittorino Andreoli, uno dei massimi esponenti della psichiatria contemporanea, ex direttore del Dipartimento di psichiatria di Verona, membro della New York Academy of Sciences e presidente del Section Committee on Psychopathology of Expression della World Psychiatric Association ha messo idealmente sul lettino questo Paese che si dibatte tra crisi economica e caos politico e si è fatto un’idea precisa del malessere del suo popolo. Un’idea drammatica. Con una premessa: “Che io vedo gli italiani da italiano, in questo momento particolare. Quindi, sia chiaro che questa è una visione degli altri e nello stesso tempo di me. Come in uno specchio”.

Quali sono i sintomi della malattia mentale dell’Italia, professor Andreoli?

“Ne ho individuati quattro. Il primo lo definirei “masochismo nascosto”. Il piacere di trattarsi male e quasi goderne. Però, dietro la maschera dell’esibizionismo”.

Mi faccia capire questa storia della maschera.

“Beh, basta ascoltare gli italiani e i racconti meravigliosi delle loro vacanze, della loro famiglia. Ho fatto questo, ho fatto quello. Sono stato in quel ristorante, il più caro naturalmente. Mio figlio è straordinario, quello piccolo poi…”.

Esibizionisti.

“Ma certo, è questa la maschera che nasconde il masochismo. E poi tenga presente che generalmente l’esibizionismo è un disturbo della sessualità. Mostrare il proprio organo, ma non perché sia potente. Per compensare l’impotenza”.

Viene da pensare a certi politici. Anzi, a un politico in particolare.

“Pensi pure quello che vuole. Io faccio lo psichiatra e le parlo di questo sintomo degli italiani, di noi italiani. Del masochismo mascherato dall’esibizionismo. Tipo: non ho una lira ma mostro il portafoglio, anche se dentro non c’è niente. Oppure: sono vecchio, però metto un paio di jeans per sembrare più giovane e una conchiglia nel punto dove lei sa, così sembra che lì ci sia qualcosa e invece non c’è niente”.

Secondo sintomo.

“L’individualismo spietato. E badi che ci tengo a questo aggettivo. Perché un certo individualismo è normale, uno deve avere la sua identità a cui si attacca la stima. Ma quando diventa spietato…”.

Cattivo.

“Sì, ma spietato è ancora di più. Immagini dieci persone su una scialuppa, col mare agitato e il rischio di andare sotto. Ecco, invece di dire “cosa possiamo fare insieme noi dieci per salvarci?”, scatta l’io. Io faccio così, io posso nuotare, io me la cavo in questo modo… individualismo spietato, che al massimo si estende a un piccolissimo clan. Magari alla ragazza che sta insieme a te sulla scialuppa. All’amante più che alla moglie, forse a un amico. Quindi, quando parliamo di gruppo, in realtà parliamo di individualismo allargato”.

Terzo sintomo della malattia mentale degli italiani?

“La recita”.

La recita?

“Aaaahhh, proprio così… noi non esistiamo se non parliamo. Noi esistiamo per quello che diciamo, non per quello che abbiamo fatto. Ecco la patologia della recita: l’italiano indossa la maschera e non sa più qual è il suo volto. Guarda uno spettacolo a teatro o un film, ma non gli basta. No, sta bene solo se recita, se diventa lui l’attore. Guarda il film e parla. Ah, che meraviglia: sto parlando, tutti mi dovete ascoltare. Ma li ha visti gli inglesi?”.

Che fanno gli inglesi?

“Non parlano mai. Invece noi parliamo anche quando ascoltiamo la musica, quando leggiamo il giornale. Mi permetta di ricordare uno che aveva capito benissimo gli italiani, che era Luigi Pirandello. Aveva capito la follia perché aveva una moglie malata di mente. Uno nessuno e centomila è una delle più grandi opere mai scritte ed è perfetta per comprendere la nostra malattia mentale”.

Torniamo ai sintomi, professore.

“No, no. Rimaniamo alla maschera. Pensi a quelli che vanno in vacanza. Dicono che sono stati fuori quindici giorni e invece è una settimana. Oppure raccontano che hanno una terrazza stupenda e invece vivono in un monolocale con un’unica finestra e un vaso di fiori secchi sul davanzale. Non è magnifico? E a forza di raccontarlo, quando vanno a casa si convincono di avere sul serio una terrazza piena di piante. E poi c’è il quarto sintomo, importantissimo. Riguarda la fede…”.

Con la fede non si scherza.

“Mica quella in dio, lasciamo perdere. Io parlo del credere. Pensare che domani, alle otto del mattino ci sarà il miracolo. Poi se li fa dio, San Gennaro o chiunque altro poco importa. Insomma, per capirci, noi viviamo in un disastro, in una cloaca ma crediamo che domattina alle otto ci sarà il miracolo che ci cambia la vita. Aspettiamo Godot, che non c’è. Ma vai a spiegarlo agli italiani. Che cazzo vuoi, ti rispondono. Domattina alle otto arriva Godot. Quindi, non vale la pena di fare niente. E’ una fede incredibile, anche se detta così sembra un paradosso. Chi se ne importa se ci governa uno o l’altro, se viene il padre eterno o Berlusconi, chi se ne importa dei conti e della Corte dei conti, tanto domattina alle otto c’è il miracolo”.

Masochismo nascosto, individualismo spietato, recita, fede nel miracolo. Siamo messi malissimo, professor Andreoli.

“Proprio così. Nessuno psichiatra può salvare questo paziente che è l’Italia. Non posso nemmeno toglierti questi sintomi, perché senza ti sentiresti morto. Se ti togliessi la maschera ti vergogneresti, perché abbiamo perso la faccia dappertutto. Se ti togliessi la fede, ti vedresti meschino. Insomma, se trattassimo questo paziente secondo la ragione, secondo la psichiatria, lo metteremmo in una condizione che lo aggraverebbe. In conclusione, senza questi sintomi il popolo italiano non potrebbe che andare verso un suicidio di massa”.

E allora?

“Allora ci vorrebbe il manicomio. Ma siccome siamo tanti, l’unica considerazione è che il manicomio è l’Italia. E l’unico sano, che potrebbe essere lo psichiatra, visto da tutti questi malati è considerato matto”.

Scherza o dice sul serio?

“Ho cercato di usare un tono realistico facendo dell’ironia, un tono italiano. Però adesso le dico che ogni criterio di buona economia o di buona politica su di noi non funziona, perché in questo momento la nostra malattia è vista come una salvezza. E’ come se dicessi a un credente che dio non esiste e che invece di pregare dovrebbe andare in piazza a fare la rivoluzione. Oppure, da psichiatra, dovrei dire a tutti quelli che stanno facendo le vacanze, ma in realtà non le fanno perché non hanno una lira, tornate a casa e andate in piazza, andate a votare, togliete il potere a quello che dice che bisogna abbattere la magistratura perché non fa quello che vuole lui. Ma non lo farebbero, perché si mettono la maschera e dicono che gli va tutto benissimo”.

Guardi, professore, che non sono tutti malati. Ci sono anche molti sani in circolazione. Secondo lei che fanno?

“Piangono, si lamentano. Ma non sono sani, sono malati anche loro. Sono vicini a una depressione che noi psichiatri chiamiamo anaclitica. Penso agli uomini di cultura, quelli veri. Che ormai leggono solo Ungaretti e magari quel verso stupendo che andrebbe benissimo per il paziente Italia che abbiamo visitato adesso e dice più o meno: l’uomo… attaccato nel vuoto al suo filo di ragno”.

E lei, perché non se ne va?

“Perché faccio lo psichiatra, e vedo persone molto più disperate di me”.

Grazie della seduta, professore.

“Prego”. 

SI STAVA MEGLIO QUANDO SI STAVA PEGGIO.

"Troppi dipietrini tra i magistrati. Era meglio la Prima Repubblica". Lo sfogo off the record in treno dell'ex pm di Mani Pulite: "Non so se ne valeva la pena", scrive Augusto Minzolini, Sabato 20/02/2016, su “Il Giornale”. «Ciao, come va?»: l'esordio è quello che contraddistingue gli incontri casuali di persone che si conoscono, ma non si frequentano. Antonio Di Pietro, con indosso la tradizionale giacca color cammello e pantaloni di flanella grigia, armeggia nella carrozza numero 4 del diretto Roma-Milano delle 15 di giovedì scorso, per trasformarla in una postazione di lavoro. Si inginocchia e con un po' di fiatone attacca le spine di telefonino e computer. In fondo non si aspettava quel saluto, visto che il sottoscritto ha passato i suoi guai per un esposto dell'allora politico Di Pietro sulle vicende Rai. Ma visto che il ghiaccio è rotto, risponde con un mezzo sorriso e parole di circostanza: «Come va?... Bene. Vedo che questa (...)(...) settimana vanno tutti a Milano». Poi sfodera la frase di rito con cui si presenta da quando è rientrato nella società civile: «...io ormai faccio parte dell'associazione dei reduci, che debbo dire?». Già, questa è una conversazione tra reduci di tanti anni di storia italiana. Un colloquio informale all'ombra dei ricordi, dei rimpianti, delle illusioni, delle delusioni in cui a volte si cullano e altre volte si disperano i veterani di tante battaglie quando tornano a casa. Un dialogo che si apre con questo saluto alla stazione Termini e diventa confidenziale in piedi, mentre si attende, insieme ad altri passeggeri, nel corridoio della carrozza, l'arrivo alla stazione Centrale di Milano. Prima dei saluti di commiato è Di Pietro che si sbilancia con parole da cui trapela una tormentata amarezza. «A volte mi chiedo - osserva - se ne valeva la pena... Se forse non si stava meglio quando si stava peggio nella prima Repubblica. La verità è che oggi tutto è avvolto nell'ipocrisia. Ancor più di ieri. Restano a galla i più ipocriti. Non le persone che si scontrano a viso aperto, dicendo con lealtà quello che pensano». Il sottoscritto acconsente. Come si può negare che l'insidioso male che avvelena la politica, le istituzioni, l'intera società italiana, sia l'ipocrisia? Di Pietro è un fiume in piena anche se il tono è quello ironico, distaccato dell'osservatore esterno: «Non si capisce più niente - dice -. Fanno tutti mille parti in commedia. Dentro il Parlamento ci sono personaggi a cui non frega niente di niente. Gli interessa solo arrivare al 2018. Vedo che pure i grillini che sono arrivati in Parlamento quasi senza sapere come, ora si dividono, litigano tra loro». Gli chiedo se ha nostalgia della politica. «Francamente no - risponde -. Non c'è più passione... Eppoi con tutto quello che ho passato... A volte mi dicono di fare questa iniziativa politica, di partecipare ad un'altra, ma io sono diventato allergico. E, comunque, in Parlamento ti senti impotente. Ho la sensazione che stiamo assistendo al declino di questo Paese in tutti i settori...». Appunto, la politica, ma anche quello che succede nella giustizia italiana, che lui conosce bene. «Io ho fatto quello che ho fatto - racconta - e ora faccio l'avvocato, ma ho capito che il problema sono i tanti dipietrini che ci sono in giro... Ad esempio, questo reato dell'abuso di ufficio che va di moda io non l'ho mai perseguito. Uno può essere accusato di abuso quando ha un tornaconto... ma non così. Basta pensare a com'è finita la vicenda del presidente della Regione campana, De Luca». Non dice di più, ma il tono di voce a volte vale più delle parole: c'è l'enfasi di chi pensa che una volta c'era più attenzione. Detto da lui. L'altro reduce, il sottoscritto, gli racconta della sua esperienza, dell'essersi trovato di fronte e di essere stato condannato da un giudice tornato in magistratura dopo 20 anni di politica, in cui ha fatto il sindaco, il deputato, il senatore, l'esponente di governo. Una volta - ricordo - queste cose non avvenivano: un magistrato, che era stato senatore democristiano, Lucio Toth, che faceva parte di un collegio che doveva giudicare l'ex segretario Dc Forlani, si astenne da quell'incarico per via dell'amicizia con l'imputato. «Io penso - risponde lui - che un magistrato che è stato in politica non possa tornare a fare il magistrato. Io non ho mai pensato di farlo. Come penso che non abbiano mai pensato di farlo personaggi come Violante. Io che faccio l'avvocato addirittura ho deciso di non esercitare a Milano. Lì conosco un po' tutti, con tutti gli anni che ho lavorato in quel Palazzo. E penso che sia più corretto, per mantenere una correttezza di ruoli, non avere come interlocutori nelle aule giudiziarie persone che si conoscono». Siamo alle ultime battute. Gli dico che, comunque, l'esperienza in Parlamento, quella che ha avuto lui e quella che sto facendo io, arricchisce. Lui, invece, appare del tutto disincantato. E abbassando un pochino la voce, sibila: «Magari i guai che hai avuto, li hai avuti per quest'esperienza... La politica porta guai. Ne so qualcosa». «Ciao» mi saluta. «Ciao» rispondo.

GLI SCRITTORI DEL REALE IN TRINCEA CONTRO MEDIA ED ISTITUZIONI.

Si propone di seguito un articolo dandogli immeritato spazio, sebbene l’autore pecchi d’ignoranza, omettendo per dolo o per colpa il riferimento al dr Antonio Giangrande Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Notissimo sul web con oltre cento titoli di opere tematiche e territoriali di inchiesta e denuncia di sociologia storica. Insomma il re degli "intellettuali scorretti".

Giovani, bravi e arrabbiati. Ecco gli intellettuali "scorretti". Ci sono i conservatori, gli antimoderni, i reazionari... Sono editori e agitatori culturali. Oltre la destra e la sinistra. Ma non progressisti, scrive Luigi Iannone, Martedì 30/08/2016, su “Il Giornale. Studenti e neo laureati, tanti sotto i 30 anni. Detestano le categorie destra-sinistra ma mostrano particolare avversione per i progressisti. Sono tanti questi intellettuali in erba. Agitatori culturali che dominano la Rete e si raccontano come realtà vive e non riserve indiane. Eccone alcuni profili.

ANARCO-CONSERVATORI Sebastiano Caputo e Lorenzo Vitelli dirigono L'Intellettuale dissidente: «Un progetto nato a costo zero. Sostenuti esclusivamente dal contributo dei lettori attraverso donazioni e acquisto dei libri della nostra casa editrice Proudhon. Non abbiamo entrate pubblicitarie, finanziamenti privati o fondi pubblici. Peraltro il lettore medio appartiene a quella fascia di età che va dai 18 ai 30 anni. Questo perché abbiamo dato una rappresentanza culturale ed editoriale ai nostri coetanei con circoli su tutto il territorio». Ma non si definiscono rottamatori: «Rifiutiamo il giovanilismo. Siamo anarchici-conservatori». Tra le novità dei prossimi mesi un'antologia di testi sulle élite di Gramsci, Pareto, Mosca e Michels, e la ripubblicazione di Filosofia della miseria di Proudhon. Ad ottobre andrà in rete una piattaforma su sport e costume.

ANTICONFORMISTI «Pubblichiamo di tutto senza guardare in faccia nessuno. Non abbiamo preclusioni. E presentiamo i nostri volumi ovunque ci invitino». Sono le parole di Alessandro Amorese, quarantenne con base a Massa, in Toscana e deus ex machina di Eclettica, casa editrice nata nel 2009. Anche qui, quasi tutti trentenni i responsabili delle collane con una trasversalità che si assapora già nei titoli: una biografia di Beppe Niccolai, un saggio su Marcuse, uno su Bruno Leoni e scritti di Giuseppe Solaro (segretario provinciale del Partito Fascista Repubblicano di Torino).

ANTIMODERNI Si muovono su due fronti le truppe di Andrea Scarabelli. Con la rivista Antares, adottata da Bietti nel 2011, e di cui è direttore responsabile Gianfranco De Turris. Redattori giovanissimi che hanno già prodotto pregevoli fascicoli su Tolkien, Lovecraft, Disney, sulla fantascienza o sugli economisti eretici mentre sono in preparazione numeri su Bukowski e su Borges. E con la collana «L'Archeometro» che pubblica quattro libri l'anno con un progetto del tutto organico a quello della rivista. Nomi altisonanti: Pound, Cioran, Bradbury, Eliade, Meyrink. E poi contemporanei come Stenio Solinas, Luca Gallesi o Riccardo Paradisi. «L'intento spiega Scarabelli - è quello di riunire le articolate realtà della cultura alternativa. Vogliamo ospitare le voci critiche nei confronti di un mondo, quello moderno, osannato dai progressisti e deprecato dai conservatori. Una terza via, insomma. Da un punto di vista politico, siamo indipendenti: le categorie destra e sinistra per noi sono esaurite».

COMUNITARISTI Quelli de Il Talebano si definiscono comunitaristi: «La maggioranza dice il direttore Fabrizio Fratus - proviene dal mondo identitario che si rifà alla Destra anti-sistema e alla Lega Nord. Molti militano nel M5S e diversi provengono da esperienze di sinistra antagonista. Noi siamo per la Patria (e non per la nazione), per l'economia dell'autoconsumo, per l'autodeterminazione dei popoli. Siamo contro il sistema delle democrazie parlamentari e privilegiamo un modello elitario basandoci sul pensiero di Vilfredo Pareto in un contesto di piccole comunità». Un giornale che non nasconde anche una strategia politica: «Vogliamo seminare le nostre idee spiega Vincenzo Sofo - tramite la rete di 1000 patrie, organizzazione composta da 17 realtà politiche su tutto il territorio».

CONSERVATORI E INDIPENDENTI Francesco Giubilei è il più giovane editore d'Italia. Suddivide le sue fatiche tra due marchi: Giubilei Regnani che ha un taglio generalista anche se con particolare attenzione alle tematiche «non conformi» (ultimo testo pubblicato L'altro Msi di Annalisa Terranova) e Idrovolante edizioni (diretto da Roberto Alfatti Appettiti e Daniele Dell'Orco) che si occupa anche di riscoperte come Marinetti o Corridoni. Proprietario della libreria Cultora a Roma, a settembre farà partire Il Conservatore, quotidiano dai propositi chiari sin dal nome. Abbiamo lettori spiega Giubilei intellettualmente curiosi che vanno oltre il cosiddetto pensiero dominante».

FEDERALISTI E OLIVETTIANI «In economia intento di destatalizzazione ma armonizzato da un disegno comunitario in stile olivettiano e avverso alla finanziarizzazione. In politica confederalisti. In cultura spiritualisti nella traccia goethiana. Critica all'euro e ricerca per soluzioni istituzionali diverse». Sono questi alcuni punti de La Confederazione italiana, rivista online che si definisce federalista e olivettiana. Finanziata da contributors e lettori, organizza seminari sui temi dell'economia, del federalismo e della tripartizione dell'organismo sociale nel senso inteso da Gerges Dumezil. Direttore è Geminello Alvi, ma coordina tutto Riccardo Paradisi, già redattore di Liberal e l'Indipendente.

PATRIOTTICI Michele De Feudis, direttore di Barbadillo, non la prende alla larga: «Tante nostre firme hanno curato romanzi, saggi di approfondimento e pubblicazioni scientifiche. L'obiettivo prioritario è rendere visibile la presenza di un filone culturale patriottico e sovranista, propedeutico a fornire sollecitazioni a una futura classe dirigente con aspirazioni di governo e non di marginalità». Ma anche in questo caso, risalta la tipicità dei lettori: «Giovani dai 18 ai 30 anni, un pubblico di eretici over 35. Tanti accademici, molti attenti alla politica internazionale».

REAZIONARI Marco Solfanelli si definisce «refrattario». Poi aggiunge, «reazionario-refrattario». A capo di una storica casa editrice di destra ereditata dal padre Marino, ora si apre a giovani autori e a temi di diversi orientamenti. Marco oltre a curare presentazioni e convegni, partecipa a fiere librarie anche nelle realtà di provincia e rivela di essersi arreso alla «modernità» grazie ai social-network e a un call center per fidelizzare i propri clienti.

SOVRANISTI Età media 30 anni. Dieci redattori ma con i collaboratori si arriva a 50. A dirigere Il primato Nazionale è Adriano Scianca: «Siamo sovranisti, antiglobalisti, ostili alla sinistra culturale, alla destra economica e al centro politico. Vogliamo valorizzare le eccellenze dell'Italia e dell'Europa, evidenziandone il primato spirituale. Ecco perché subiamo attacchi quasi quotidiani da parte di hacker democratici».

Bud Spencer contro i media di regime: “In Italia parlano di te solo se sei comunista o frocio”, scrive Alvise Losi su Libero Quotidiano il 30 giugno 2016 il giorno del funerale di Carlo Pedersoli (Napoli, 31 ottobre 1929 - Roma. 27 giugno 2016). Bud prima era stato sempre riservato. Anche se il suo pensiero aveva avuto modo di esprimerlo in diverse occasioni, come a una conferenza, quando a un ragazzo che rivendicava di essere ateo rispondeva con intelligenza: «Non esiste al mondo un uomo o una donna che non abbia bisogno di credere in qualche cosa: tu credi che Dio non esista, quindi credi in qualche cosa». Altro che sganassoni e frasi da contrabbandiere perdigiorno: Bud era ben diverso dai personaggi dei suoi film. «È il signore che vi manda», gli dice fiducioso il mormone Tobia in Lo chiamavano Trinità. «No, passavamo di qui per caso», risponde sincero nei panni di Bambino. Niente di più lontano da quello che Bud pensava. «Ho bisogno di credere perché, nonostante il mio peso, mi sento piccolo di fronte a quello che c’ è intorno a me. Se non credo sono fregato». E in un’intervista aveva persino scherzato sulla sua scomparsa. «Quando il Padreterno mi chiamerà voglio vedere che succede, e se non succede niente allora mi incazzo». E lo avrebbe fatto a modo suo naturalmente. Ma il Bud che tanti hanno amato e amano era lo stesso che a volte si lasciava andare a frasi al limite del politicamente corretto. A chi gli chiedeva come mai la critica italiana lo celebrasse poco, a differenza di quanto accadeva in altri Paesi, l’ormai 80enne Pedersoli diceva «forse perché non sono né gay né trans e ho la stessa moglie da cinquant’ anni». Pensiero che aveva anche ribadito per spiegare come mai la sua biografia Altrimenti mi arrabbio fosse un best seller in Germania, ma un mezzo flop in Italia. «Qui parlano di te solo se sei frocio o comunista», sottolineava, senza paura di essere criticato. «Intendiamoci, non ho niente contro i gay. Quello che fa la persona che ho davanti in camera da letto non sono affari miei. Quando ci parlo, il pensiero delle sue abitudini sessuali non mi sfiora neanche lontanamente. Siamo liberi, puoi fare tutto quello che vuoi». Non a caso amava ricordare, da napoletano verace, che la sua regola di vita fosse «Futtetenne». E nessuno ha interpretato nella vita quella finta indifferenza, quella capacità di ridere sempre sulle cose, quel «vivi e lascia vivere» con la stessa grandezza di Bud. 

L'ultimo sfregio contro Bud Spencer. Perché lo hanno pure insultato, scrive di Francesco Specchia il 30 giugno 2016 su “Libero Quotidiano”. Non so, onestamente, se il vecchio Bud - il dio burbero dei nostri piccoli affetti - li avrebbe presi a sganassoni, come fece, negli anni 60, con quell' incauto indio Yanomami che sbarrava la strada alla sua asfaltatrice nel cuore dell'Amazzonia, O se, invece, avrebbe fischiettato Futtetenne, «Fregatene», il brano-guida del suo primo disco che fu anche la sua weltanschauung, il rumore di fondo d' una vita arruffata. Non so. Non so se come avrebbe reagito il gentile Carlo Pedersoli/Bud Spencer all'idiozia invincibile che ieri emergeva dal profilo Facebook del sedicente «Osservatorio antifascista». Da dove, alla scoperta che alle Regionali del 2005 Bud si candidò per Forza Italia (non era mai stato di sinistra in vita sua...) è scattato un commento: «Fino a pochi minuti fa noi di Osservatorio Antifascista piangevamo le morte di Bud Spencer, ora non più», seguito dallo sdrucito manifesto elettorale di Bud. Seguito, a sua volta, da commento di tal Marco Bonini: «Bene, una testa di cazzo di meno al mondo». Frasi stridenti, urticanti, inutilmente cattive. Frasi pronunciate, tra l'altro, proprio nel giorno in cui, dinnanzi alla bara del gigante buono in Campidoglio, il mondo intero piangeva. E fiumane di fan continuavano ad accalcarsi, a posare fiori, pizzini di disarmante affetto, perfino una scatola di fagioli che diventava una citazione metafilmica, riferita a un titolo culto dello stesso Spencer, Anche gli angeli mangiano fagioli col compianto Giuliano Gemma. Naturalmente, nel giro di dieci minuti della pubblicazione del post suddetto, altre centinaia, ne hanno seppellito la vergogna. Attacchi a raffica, in quadrata falange contro, l'«Osservatorio»: roba che varia dal compassionevole («un campione dello sport, e non solo, che ha fatto divertire e ridere generazioni di italiani, una persona che chi l'ha conosciuto ha speso solo parole positive nei suoi confronti. Siete voi la feccia della società italiana, ripeto vergognatevi!»); all' istintivo («Pensa che merde che siete per la morte di qualcuno esultate»); al creativo («Per quanto miserabili, sarete ricordati altrimenti il vostro passaggio sulla terra avrebbe lasciato lo stesso segno di una scoreggia»); perfino allo storico («Almeno lo avreste provato il fascismo.... avreste una giustificazione che innanzi alla morte di Bud Spencer altresì c' entra come nella briscola l' asso di picche quando comanda bastoni.... ecco cosa vi provocano le canne!!!!»). Naturalmente il tutto veniva condito dalla rettifiche di postatori «di sinistra e antifascista vera» che si dissociava; e di sostenitori di destra -diciamo- accesa che non lesinavano epiteti ineleganti, «Zecche, zecche comuniste, zecche maledette dovete bruciare...». Il commento più originale spetta a chi, invocando la morte come il confine rispettoso dei vivi, chiosava: «Se una persona viene giudicata solo da un cartellone elettorale, fa capire quanto chi lo giudica sia di basso spessore culturale. Tipica affermazione di oscuri personaggi sinistrorsi mono-neuronici. Quel neurone è più solo della particella di sodio dell'acqua Lete». Ecco. Quel riferimento alla pubblicità dell'acqua Lete -di sicuro- avrebbe strappato il sorriso al vecchio galantuomo napoletano abbracciato da passione planetaria. Da Russel Crowe a tre generazioni di divi hollywoodiani, dal governo tedesco alle istituzioni iraniane, dai fan giapponesi e coreani, all' America delle grandi praterie: moltissimi hanno listato a lutto un brandello della loro giornata. I siti Internet d' Italia hanno triplicato il loro traffico alla notizia della morte di questo cartone animato vivente, a metà fra Golia e i fratelli Grimm. Le notizie della Brexit e l'attentato ad Istanbul, per dire, sono apparsi assai meno appealing. Ora, si potrà obbiettare che, in genere, le intemperanze di quattro imbecilli possono, al massimo, essere derubricate a «provocazione». E forse è vero. Ciò non toglie che l'eccesso d' ideologia -in questo caso a sinistra- rimane l'aggravante di un popolo spesso in ritardo con la storia. Il solito discorso: l'arte dovrebbe travalicare la faziosità politica, e la morte dovrebbe invocare la pietas. «Da cattolico, provo curiosità, la curiosità di sbirciare "oltre" come il ragazzino che smonta il giocattolo per vedere come funziona», aveva detto Bud qualche anno fa. Non so davvero come il suo stupore infantile avrebbe reagito a tutto questo...

Leonardo Sciascia (1921-1989). L’intransigenza di Leonardo Sciascia. «Scrivo solo per fare politica». «A ciascuno il suo». Il libro divenne un film diretto da Elio Petri con Gian Maria Volontè, scrive Felice Cavallaro il 7 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". Bisogna scartabellare fra i cimeli del Museo del cinema di Torino per immergersi nel carteggio fra Leonardo Sciascia ed Elio Petri, il regista che portò sul grande schermo A ciascuno il suo, il secondo giallo dello scrittore di Racalmuto dopo Il giorno della civetta. Contesti analoghi per raccontare già a metà degli anni Sessanta i disastri della corruzione e della mafia. Con un omicidio passionale trasformato in paravento per celare un mix di forze occulte impastate di mafia e omertà. Un intrigo «politico», nel solco di una vocazione enunciata fra le lettere della media-biblioteca piemontese. Materia prima per Petri, stupito dall’intransigenza di Sciascia nel carteggio analizzato da uno studioso universitario, Gabriele Rigola, autore di un saggio sulla rivista di studi sciasciani «Todomodo». Severa intransigenza espressa da Sciascia, dopo una intervista di Petri al «Popolo», nella lettera dell’8 settembre 1966, a ridosso delle riprese, contrariato dalla sbandierata scelta del regista di non fare un film «politico». E lui, il maestro di Regalpetra, con aria di rimprovero: «Io scrivo soltanto per fare politica: e la notizia che il mio racconto servirà da pretesto a non farne non può, tu capisci bene, riempirmi di gioia...». Immediata la replica di Petri, appena arrivato a Cefalù per le prime scene del film con Gian Maria Volontè, protagonista della storia ispirata dall’assassinio del commissario di polizia Cataldo Tandoj, caduto sei anni prima ad Agrigento. Romanzo che ruota attorno alla traduzione dal latino di «unicuique suum», frase stampata sulla lettera minatoria introdotta come reperto di indagine sin dalle prime pagine del racconto. E del film. Inquietante missiva composta con vocali e consonanti ritagliate da una copia de «L’Osservatore Romano». Petri legge e risponde ai colpi di fioretto. Si smusserà infine l’equivoco, ma intanto la replica è a prima vista stizzita: «Tu credi che quando sullo schermo appariranno i preti, i notabili, “L’Osservatore Romano”, tu credi che il film non sarà politico? Intendiamoci sulle parole, forse faremo prima: io, per politico, intendo ogni film che si presenti apertamente, massicciamente come libello, o come teorema politico, come un’opera sulla cui materia di ricerca, prevalga — incomba — una tesi politica, che in questo senso è propagandistica». E sempre più incisivo: «Potrei rovesciare il discorso così: volevo fare un film politico non didascalico». La stima era fuori discussione e Sciascia faceva precedere quel rimprovero da una convinzione: «Ho fiducia che farai un buon film, ma sarà in ogni caso un film che non avrà niente a che fare col racconto...». Considerazione confermata dopo aver visto il film, il 10 marzo 1967: «La mia previsione che avresti fatto un ottimo film, ma diverso dal libro, si è avverata. E mi piace riconfermare che non c’è stato alcun malinteso, né io ho avuto delusione o amarezza dal fatto di scoprire, nella sceneggiatura e ora nel film, che tu hai fatto un’altra cosa». Emerge dal dialogo a distanza un’idea del rapporto e della libertà rivendicata per la scrittura di un libro e di un copione, convinto di «dover lasciare all’autore del film ogni possibile libertà, ma evitando accuratamente di diventarne complice». Puntualizzazioni taglienti. Sfumate tre mesi dopo nei progetti che lo scrittore anticipa parlando di un tema che troveremo ne Il contesto, da Francesco Rosi tradotto nel 1971 in Cadaveri eccellenti. Ma quattro anni prima Sciascia lo confida a Petri: «Caro Elio, sono quasi tentato di buttare giù, come soggetto, la mia storia dell’uomo che ammazza i giudici...». E Petri, allora trentottenne, si dannava: «Così è il cinema. Mi viene un grande sconforto se penso che a 50 o 60 anni mi troverò a dover affrontare sempre i medesimi problemi. Come si fa a convincere un produttore che una storia è bella, se non dopo averla realizzata?». Dieci anni dopo, sempre con Volontè, avrebbe trasferito sullo schermo Todo modo, ma intanto Petri si godeva i successi targati «unicuique suum». Inquietante collage sull’omicidio connesso a un mondo politico di funzionari corrotti e poteri forti, nel microcosmo di un paese siciliano, laboratorio di analisi politica e metafora proposta al Paese con la tecnica del giallo. Ma chi si aspetta un giallo in cui il detective incastra l’assassino resterà deluso. Perché a indagare è il professore d’italiano e latino Paolo Laurana armato con gli strumenti del sapere e della ragione, rifiutando assuefazione e tolleranza al delitto, al malaffare, alla connivenza di un intero paese. E il pessimismo sciasciano si specchia nel più bieco cinismo. Non a caso sul professore, ormai vicino alla verità e per questo ucciso, echeggerà l’arrogante epitaffio di uno dei personaggi, «un cretino». Come se connivenza e convivenza fossero intelligenza. Un contrasto per porre davanti all’opzione fra Bene e Male, il lettore e il cittadino. A cominciare dallo stesso Petri che nel carteggio non ha dubbi: «Nella scelta di un personaggio si parte sempre — e comunque — da un processo di identificazione: riderai, se ti dico che io mi sento un poco come Laurana?». Quesito capace di cancellare ogni equivoco, pur lasciando a ciascuno il suo.

Sciascia si misura con il Vangelo. Gli esercizi spirituali del potere. In «Todo modo», pubblicato nel 1974, la decadenza della classe dirigente, ma anche una riflessione profonda sulla natura del messaggio cristiano, scrive Carlo Vulpio il 14 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". Succede, ai grandi. E succede con precisione aritmetica a quei grandi che diventano dei classici quando ancora sono in vita. Com’è accaduto a Leonardo Sciascia, che con il passare degli anni, e soprattutto dopo la sua morte, avvenuta nel 1989, non si è mai più liberato della pletora di sciasciani (e passi) e di sciascisti (e qui, le cose si complicano, perché dall’esegesi all’arte divinatoria il passo è breve), che spesso gli hanno fatto dire cose che non ha detto e non si sono invece accorti di quelle che ha detto, e a volte ha pure ripetuto con insistenza. Prendiamo Todo modo, per esempio. Pier Paolo Pasolini disse che questo è il miglior romanzo di Sciascia. E in effetti lo è. Non perché lo abbia detto Pasolini, ma perché chi abbia frequentato Sciascia sine ira ac studio non può che ritrovarsi a dare lo stesso giudizio. Tutti i libri di Sciascia sono magnifici per i temi che trattano e per come vengono trattati: il bene e il male, la libertà e il potere, la legge e la giustizia, l’uomo e Dio, l’apparenza e la realtà, la verità e la menzogna, la mafia e l’antimafia, il dubbio e il dogma, l’individuo e lo Stato, ma Todo modo li contiene tutti, e dopo quarantadue anni (fu pubblicato da Einaudi nel 1974) ha la stessa freschezza, non perché sia «attuale» — questo schiacciamento sulla «attualità» rischia anzi di tradursi in una diminuzione —, ma perché parla alla nostra coscienza, alla nostra intelligenza, alla nostra natura miserabile di uomini con la forza di un «classico», cioè di un’opera originale, imprescindibile, valida sempre, quasi un canone, da poter quindi essere persino imitabile, ma unica, irripetibile. Todo modo è la locuzione iniziale della massima di Sant’Ignazio di Loyola, fondatore dell’ordine dei Gesuiti — Todo modo para buscar y hallar la voluntad divina, «Qualunque mezzo per cercare e trovare la volontà divina» — ed è lo scopo dichiarato o quanto meno apparente di don Gaetano, il prete protagonista del romanzo, che guida gli esercizi spirituali di alti esponenti della classe dirigente del Paese riuniti in un albergo-eremo siciliano. Nel quale tutto accade, compresi tre omicidi, anch’essi apparentemente senza colpevoli, fuorché l’elevazione spirituale dei partecipanti, descritti come «figli di puttana» costretti da don Gaetano a recitare il Rosario andando su e giù in fila. Sono ministri, deputati, professori, artisti, finanzieri, industriali, «quella che si suole chiamare classe dirigente e che in concreto cosa dirigeva? Una ragnatela nel vuoto, la propria labile ragnatela. Anche se di fili d’oro». Il potere come dominio, certo, quel «cummannari è megghiu ca futtiri» («comandare è meglio che scopare»), proverbio siciliano di portata universale che Sciascia cita in altre sue opere, ma anche il potere come trappola per gli stessi suoi detentori, che esercitandolo se ne inebriano, fino a non riuscire più a farne a meno, come tossicodipendenti. Quando, due anni dopo l’uscita del libro di Sciascia, Elio Petri ne trasse il film omonimo, tutti concordarono che era del personale politico democristiano degli anni Settanta che si narrava, perché allora la Dc era il partito-Stato, mentre tutti gli altri, più o meno, se non potevano andare assolti, erano estranei a questa microfisica del potere tutta democristiano-cattolica. Vero. Ma anche sbagliato. E infatti il film di Petri, per quanto ben fatto, non è all’altezza del Todo modo Sciascia, perché schiaccia un classico sull’attualità del momento e ne depotenzia la universalità. Perché universale è il messaggio cristiano e il discorso sul cristianesimo, e dunque sull’uomo e sul suo rapporto con i suoi simili e con Dio, che pervade il romanzo. Sia quando questo discorso ricorre ai paradossi: «I preti buoni sono quelli cattivi. La sopravvivenza e, più che la sopravvivenza, il trionfo della Chiesa nei secoli, si deve più ai preti cattivi che ai buoni»; sia quando approfondisce la riflessione sul cristianesimo che crede, sbagliando, «che Cristo abbia voluto fermare il male», mentre, scrive Sciascia, Gesù Cristo ha rovesciato questo convincimento, poiché «nella sua vera essenza, questo è il cristianesimo: che tutto ci è permesso. Delitto, dolore, morte». Delitto, dolore, morte non sono soltanto rubriche del codice penale — di cui anche in Todo modo, come in altri romanzi, si occupa un magistrato supponente e mediocre —, ma sono anche gli effetti di quel «maneggiare e modellare come cera» la coscienza altrui, come fa don Gaetano, e come fa, appena ne abbia la opportunità, chiunque eserciti una qualsiasi forma di potere. Tanto negli anni del partito-Stato, quanto (e forse anche peggio) nell’era del web «libero», anzi a «democrazia diretta», che per i suoi «esercizi spirituali» non ha nemmeno bisogno di organizzare incontri in qualche appartato albergo-eremo. Come uscirne? Sciascia, ancora una volta, gioca con le parole, rovescia i concetti, ribalta il senso comune. E invita, anzi istiga il lettore a fare altrettanto. Cummannari? E se invece fosse la libertà la parola chiave? «La libertà è megghiu ca futtiri»: non suona meglio, non è persino più efficace? Dice Giovanni nel suo Vangelo: «La verità vi farà liberi». Ma se rovesciamo anche queste parole non otteniamo: «La libertà vi farà veri»? Può anche darsi che non basti. Ma in Todo modo, quando accade che prevalga la libertà, nemmeno don Gaetano può farci niente.

Sciascia e quello sguardo profetico. Lo scrittore che inaugurò un genere. L’autore aprì gli occhi della letteratura su guasti di società e politica e ne rivelò vizi segreti e pubbliche immoralità. Il «Corriere» lo celebra con un’iniziativa editoriale, scrive Felice Cavallaro il 25 giugno 2016 su “Il Corriere della Sera”. Ricorre spesso un aggettivo quando si discute di Leonardo Sciascia. E succede anche ad Andrea Camilleri di usarlo per dire che il suo amico nato, come lui, a due passi dalla Girgenti di Luigi Pirandello era «profetico». Basta scorrere anche solo i titoli dei libri, in gran parte scritti nella sua casa di campagna, in Contrada Noce, fra le vigne, i pini e i mandorli di Racalmuto, per cogliere questa straordinaria capacità di prevedere con grande anticipo gli sviluppi spesso devastanti della società italiana. Questo manca a Camilleri: «Sciascia aveva la capacità di intervenire costantemente sui nodi della società italiana, non solo sulla politica. Acuto nel prevedere, interpretare, anticipare. I suoi romanzi sono lì. Io, quando ne ho bisogno, spesso, me li rileggo. Mi manca però la risposta di Sciascia alle domande di oggi». Una risposta talvolta ignorata in passato. E i libri da leggere o rileggere stanno lì, a provarlo. L’Italia scopre Tangentopoli nel 1992 ma Sciascia aveva messo tutti in guardia dalla mala politica parlandone trent’anni prima con L’onorevole, descrivendo compromessi e arricchimento di un deputato, con sorpresa della sua stessa moglie. Affresco della corruzione negli anni Sessanta, oggi decantati come gli anni del boom. Un allarme inascoltato. Lo Stato capisce nel 1982, con il sacrificio di Pio La Torre, seguito da quello di Carlo Alberto dalla Chiesa, che bisogna mettere le mani nei portafogli dei mafiosi, ma con Il giorno della civetta, vent’anni prima, Sciascia suggeriva la via da battere, quella di assegni, flussi finanziari, banche. Ed è così per una vasta produzione che resta attualissima, al di là di ogni odiosa polemica talvolta riproposta sui cosiddetti «professionisti dell’antimafia», materia oggi sulla bocca di tanti, delusi da false icone frettolosamente pompate anche dai media. È il tema dell’impostura analizzato nel romanzo che ha per protagonista l’Abate Vella, il cappellano dei Cavalieri di Malta, un fanfarone artefice della grande menzogna che, però, osserva con diffidente pessimismo Sciascia, talvolta si mostra più forte della verità. Un suggerimento a essere guardinghi. Come fu lui davanti ai voltagabbana del dopoguerra. Come provò ad anticipare per quanto rischiava di avvenire perfino nel pianeta antimafia, quando erano inimmaginabili le scivolate di tanti falsi eroi del Bene. Tema di forti contrasti con posizioni spesso osteggiate. Come accadde per la difesa di Enzo Tortora e per la necessità di trattare la liberazione di Aldo Moro. Tormentate pagine vissute da Sciascia anche da deputato del Partito radicale, dopo una brevissima esperienza di consigliere comunale eletto a Palermo nelle file del Partito comunista italiano. Aggrappato sempre alla ragione come religione di riferimento. Anche contro la fanatica caricatura della religione trasformata in strumento di potere, di oppressione. Illustrata da Sciascia in Morte dell’inquisitore. La storia di Fra Diego La Matina, frate a Racalmuto, il presunto eretico che, recluso nelle segrete, riesce a uccidere con in suoi ferri l’inquisitore durante l’interrogatorio o, meglio, durante la tortura. Le maggiori intuizioni anticipatrici restano quelle descritte nei libri a sfondo politico. A cominciare da Il contesto, un apologo della travagliata situazione italiana all’inizio degli anni Settanta quando l’ispettore Rogas, davanti a subbugli di «gruppuscoli» e delitti in quantità, scopre l’immaginario (ma non troppo) «partito rivoluzionario» essere tessera bene inserita nel sistema o sistema esso stesso. Come Sciascia con implacabile ironia lascia sussurrare al vicesegretario: «Non potevamo correre il rischio che scoppiasse una rivoluzione...». Un affronto per politici e intellettuali allora organici o contigui a Sinistra e movimenti extraparlamentari, tutti pronti a scagliarsi contro l’eretico Sciascia. Una prova per lui, visto che si apriva con Il contesto la stagione più sperimentale e innovativa della sua attività, quella di Todo modo e Candido, della Scomparsa di Majorana e L’affaire Moro, di Nero su nero o Cruciverba, come osserva Paolo Squillacioti, lo studioso che cura per Adelphi l’opera completa di Sciascia, sulla scia del curatore delle opere in Francia, Claude Ambroise, e del biografo del «Maestro di Regalpetra», Matteo Collura. Se Il contesto può essere considerato una impietosa radiografia del Pci quando era tempo di intellettuali organici, l’altra chirurgica zoomata di Sciascia sugli intrighi politici del mondo democristiano è Toto modo. Lo scrittore affonda il bisturi fra i vizi di dirigenti politici, banchieri, prelati e industriali, tutti all’opera fra le varie correnti di partito. Un affresco su lobby, logge e parrocchie che rende attualissima la lettura dell’autore delle Parrocchie di Regalpetra, il testo pubblicato sessant’anni fa dopo un carteggio con Vito Laterza, proprio in questi giorni in mostra a Racalmuto, nella Fondazione che Sciascia avrebbe voluto intitolare a Fra Diego, l’eretico.

Sciascia, lo sguardo sulla Sicilia: un rigore lucido ed eretico. A chi vuole narrare la mafia, l’autore ha lasciato soprattutto un metodo di lavoro. Ma la lezione più grande è un’altra: solo la finzione letteraria restituisce la verità, scrive Alfio Sciacca il 28 giugno 2016 su “Il Corriere della Sera”. Sosteneva Leonardo Sciascia: «Lo scrittore è un uomo che vive e fa vivere la verità, che estrae dal complesso il semplice, che sdoppia e raddoppia il piacere di vivere. Anche quando rappresenta cose terribili». Tutto semplice, apparentemente. Se non fosse che nel far «vivere la verità» il maestro di Regalpetra ha finito per trasformarsi in una sorta di «cattivo maestro». Come lo sono quanti svelano cose autentiche, che spesso sono laceranti. Generazioni di siciliani sono cresciute leggendo i libri di Sciascia, in un continuo gioco di specchi in cui sentirsi, allo stesso tempo, registi, attori e comparse delle sue trame. E molti ne hanno tratto anche lezioni di impegno civile da trasferire nella vita e nel lavoro. La prima: essere testimoni del proprio tempo, perché in ogni piccola Regalpetra si può scoprire il mondo. C’è poi la straordinaria capacità di lettura del fenomeno mafioso in una terra che negli anni Sessanta ne negava ancora l’esistenza e l’intuizione del salto di qualità che stava compiendo nel passaggio dalla campagna alla città. Anticipo di quella «mafia imprenditrice» che è la forma più corrosiva assunta da Cosa Nostra. A chi in qualche modo si è trovato a raccontare la Sicilia e, di conseguenza, a scrivere di mafia, Sciascia ha offerto soprattutto un metodo di lavoro: indagare sempre in modo asciutto e senza forzature ideologiche. Non a caso le parole che più si ricordano de Il giorno della Civetta sono pronunciate da un mafioso, don Mariano Arena, con la sua classificazione dell’universo umano in «uomini, mezzi uomini, ominicchi, pigliainculo e quaquaraquà». Curiosità e attenzione che non è certo fascinazione o cedimento morale. Approccio che non è mai piaciuto a certi «professionisti dell’antimafia», ossessionati da un manicheismo di maniera se non di comodo. C’è infine (ed è veramente tanto) il rigore della narrazione, la cura dei dettagli, i dialoghi e le ambientazioni che sono vere e proprie sceneggiature. Tutti insostituibili strumenti di lavoro. Ma quando ci si illude di aver in mano quello che serve per decifrare la Sicilia si scopre, forse, la più lacerante delle lezioni lasciate da Sciascia. E prima di lui da Federico De Roberto e Tomasi di Lampedusa. In Sicilia c’è una sola arma che ti permette veramente di inchiodare i colpevoli e di rendere giustizia alle vittime. E non è la cronaca, l’inchiesta o l’indagine sul campo, ma il romanzo e la costruzione apparentemente di fantasia. Solo la finzione letteraria restituisce verità palesi che invece evaporano quando si pensa di averle afferrate. In Sicilia giornalisti, ricercatori, poliziotti, magistrati (ognuno nel loro campo) a un certo punto sperimentano la strana sensazione di perdersi. Per la semplice ragione che mettere in fila i fatti non sempre porta alla verità. E anzi, troppo spesso, la verità ufficiale è autentica impostura. Forse questo intendeva Sciascia per far «vivere la verità». E così si torna ai suoi libri. L’unico modo per dar pace ai tanti professor Laurana (A ciascuno il suo) che inseguono la verità tra complici e collusi morendo da «cretino». O rendere giustizia a chi come l’avvocato Di Blasi (Il Consiglio d’Egitto) ha la colpa di aver scoperto l’impostura dell’abate Vella e che per questo finisce decapitato. Perché spesso l’impostura è sistema. «Se in Sicilia la cultura non fosse impostura — dice Di Blasi —. Se non fosse strumento in mano al potere baronale e quindi continua finzione e falsificazione della realtà e della storia, l’avventura dell’Abate Vella sarebbe impossibile». Non ci sono colpevoli anche tra potenti e prelati nell’eremo di Zafer (Todo Modo) e chi indaga finisce per sentirsi più colpevole dei colpevoli. Mentre dunque Sciascia rende «semplice ciò che è complesso», grazie al registro del racconto, a molti siciliani lascia il senso di frustrazione in una terra che, ancora oggi, stenta a distinguere tra vittime e i carnefici e non ha certo risolto i suoi problemi anche dopo aver mandato in galera migliaia di mafiosi. E non occorre andare oltre lo scenario siciliano (Il Contesto, Il caso Majorana) per aggiungere inquietudine a inquietudine. Per questo Sciascia ha finito per trasformarsi in un fantastico tormento che spesso ci fa essere sagaci conversatori da salotto, incapaci però di incidere sulla devastazione che affligge la Sicilia. Tormento che forse ha sperimentato lo stesso Sciascia quando si è cimentato con la politica o l’attività pubblicistica. Una trappola che non perdona. In fondo cos’è la polemica sui «professionisti dell’antimafia»? Con decenni di anticipo Sciascia denuncia una verità scandalosa: l’antimafia usata come strumento di potere e carriera. Ma per dare sostanza all’analisi è costretto a fare un nome, quello di Paolo Borsellino. Un dettaglio veramente diabolico che (nonostante tutti i chiarimenti) sarebbe sufficiente per mandare al rogo l’eretico che vede in anticipo la luce accecante della verità.

Perché la battaglia contro la mafia è prima di tutto culturale. Affrontare la realtà anche se non ci piace. Così si combattono le cosche. Ma c’è chi preferisce non guardare. E critica romanzi, film e serie tv come "Gomorra" e "Romanzo criminale". Il libro "Il contrario della paura" di Franco Roberti spiega come affrontare quotidianamente terrorismo e mafie, scrive il 28 giugno 2016 “L’Espresso”. Proponiamo alcuni stralci del libro “Il contrario della paura” di Franco Roberti. Nel volume, pubblicato da Mondadori e scritto con Giuliano Foschini, il procuratore nazionale antimafia spiega come affrontare, anche nei comportamenti quotidiani, il terrorismo e le mafie. Tempo fa mi è capitato, sfogliando un giornale, di leggere di una strana patologia della psiche, che colpisce principalmente le donne. Si chiama «sindrome di Grimilde», come la strega della favola di Biancaneve: le signore che non si piacciono, spesso a causa di alcune, anche piccole, imperfezioni del proprio corpo, preferiscono non guardarsi allo specchio per non essere messe di fronte alla realtà. Uno strumento di difesa, evidentemente, che però impedisce una possibile risoluzione del problema: se non ti guardi, non sai. E se non sai, non puoi prendere le contromisure necessarie per apparire, anche soltanto a te stesso, migliore. La «sindrome di Grimilde», però, non colpisce purtroppo soltanto gli uomini e le donne che non si piacciono. Alle volte, di questa patologia si ammalano anche le istituzioni. Che sottovalutano il fenomeno, non capendo che l’associazione mafiosa non è soltanto un delitto contro l’ordine pubblico, ma il più grave delitto contro la democrazia. (…) Il contrasto alle mafie e alla criminalità organizzata da parte dello Stato, dei poteri pubblici, ha sempre avuto nel nostro paese una gestione emergenziale. E soltanto quando le organizzazioni mafiose sparavano, uccidevano e creavano pericoli per l’ordine pubblico, lo Stato sembrava accorgersi della loro esistenza e interveniva. Come? Intensificando l’azione repressiva. Se invece per un po’ tutto taceva, se le mafie prosperavano in silenzio, se facevano affari e intrecciavano rapporti con la politica e con l’economia, le si trattava come se non esistessero. (…) Passata l’indignazione del momento, passa anche l’attenzione e dunque la lotta. Lo Stato sembra non partire mai all’attacco, non prende mai l’iniziativa. Risponde sempre con provvedimenti tampone. E questo è possibile proprio per via della «sindrome di Grimilde». Allontanarsi dallo specchio è una maniera per scansare il problema. E raccontarsi una bugia: come se quelle pallottole, quelle stragi, quell’attentato alla libertà di ciascuno di noi, fossero un effetto straordinario. Una malattia rara, quasi misteriosa. E non una patologia sistemica, che abbassa le difese immunitarie, e che ti rende ogni giorno vulnerabile. Invece, è così: le mafie sono un elemento costitutivo, una componente endemica della società meridionale. E oggi esiste il rischio concreto che in breve tempo possano diventare presto un elemento strutturale, una parte del tessuto sociale anche di altre regioni. Non riconoscerlo significa non curarsi. Non ammetterlo significa aiutare la malattia, essere in qualche maniera complici involontari di chi ci vuole uccidere. Se non guardiamo in faccia la realtà, se continuiamo con i negazionismi ipocriti, paralizzanti, subdoli, faremo il gioco delle mafie che scommettono tutto su Grimilde per infiltrarsi nelle pubbliche amministrazioni e creare quel sistema alternativo al sistema dello Stato e dei poteri pubblici locali. Non guardarsi allo specchio significa non riconoscere che non possono bastare le norme penali a contrastare la criminalità organizzata, ma che occorre intervenire anche sulle cause sociali del loro sviluppo. (…) La questione è molto delicata. Per questo chiedo a tutti di fare la propria parte: alle associazioni di categoria di offrire la massima assistenza a chi denuncia, e di essere durissimi, invece, con chi paga il pizzo in silenzio. Chiedo alla politica rigide norme sugli appalti pubblici: a Bari, in Sicilia, persino a Milano, ci sono stati casi di pizzo chiesto su lavori effettuati dalle pubbliche amministrazioni. Inaccettabile. Per chiedere questi sforzi, però, è necessario che lo Stato faccia la sua parte. I rapporti sociali funzionano, come funzionano le istituzioni, quando si fondano sulla fiducia. Il concetto di fiducia è fondamentale: se c’è funziona tutto. Fiducia significa affidamento e l’affidamento comporta, inevitabilmente, anche un controllo dei comportamenti. Fiducia è verità (…) Io credo molto al ruolo della verità. Ecco perché, per esempio, mi sono molto interessato al dibattito sorto attorno a opere come “Gomorra” e “Romanzo criminale”. Parlo anzitutto dei libri - che hanno avuto un enorme successo di pubblico e di critica - ma anche dei film e delle serie tv che hanno ispirato. In comune hanno la caratteristica di essere ambiziosi prodotti italiani. Di essere fatti con grande cura e attenzione: moderni, forti, scritti e girati benissimo. E di occuparsi, chiaramente, entrambi di fenomeni criminali, mafiosi. Ma ad accomunarli è anche la circostanza di aver suscitato, oltre a un grande successo di pubblico, grandi polemiche. Mi ha colpito, per esempio, che molti sindaci campani si siano rifiutati di far girare alcune puntate della seconda stagione di “Gomorra” nelle loro città. «Non è una buona pubblicità» hanno dichiarato. E poi ancora, la solita teoria: «Noi non siamo soltanto quello», «In televisione dovremmo andare per le nostre bellezze, per le nostre risorse, e non sempre per la malavita» eccetera eccetera. Capisco la reazione, ma allo stesso tempo penso che si tratti di una posizione sbagliata. Per questo non la giustifico. Non è “Gomorra” che porta i ragazzi a delinquere. È troppo facile pensare che il problema sia “Gomorra”. Il problema è la criminalità che non viene ancora sconfitta. Il problema è lo spaccio per strada, la politica corrotta, il problema è il commerciante che paga il pizzo. “Gomorra”, essendo un prodotto eccellente, non fa altro che rappresentare benissimo quello che succede: lo ha fatto prima nel libro di Roberto Saviano, poi nel film di Matteo Garrone e ora nelle serie di Sky. È un altro pezzo della «sindrome di Grimilde»: non vogliamo guardarci allo specchio? Non vogliamo che in televisione venga rappresentato, seppure con qualche esagerazione romanzesca, ciò a cui noi tutti assistiamo ogni giorno, spesso nell’indifferenza più assoluta? Bisogna avere paura della realtà? Abbiamo paura di noi stessi? “Gomorra”, così come in parte “Romanzo criminale”, fornisce un contributo di conoscenza reale del problema. E fa più paura proprio per questo: perché non è soltanto lo spara-spara. È anche la famiglia Savastano che sbarca a Milano e osserva i grattacieli nuovi, luccicanti. «Genny, è tutto nostro» dice la madre al figlio in una battuta bruciante, evidentemente semplicistica, ma che contiene tutto. Dire: «Ci fate una cattiva pubblicità» fa molto meno male che ammettere che è vero, purtroppo. Magari non sarà tutto, ma molto di quello che ci è attorno appartiene a loro. Palazzi, bar, ristoranti, negozi. (...) Non si può accusare gli intellettuali di raccontare la verità. Non si può chiedere a nessuno di chiudere gli occhi: perché anche se si prova a nasconderla, la realtà continua a esistere. Certo, rispetto a questi prodotti sarebbe importante esercitare un giudizio critico. E per farlo, in questo caso, servono i maestri. È necessario investire sulla cultura dei diritti. È necessario spiegare con parole chiare, e mi pare che questo lo facciano persino le fiction, che a seguire quei modelli si finisce sempre male, sempre in un’unica maniera: o al cimitero o in carcere. Non ci sono altre possibilità.

Intellettuali e politica, Paolo Di Paolo il 19 aprile 2016 su "L'Espresso: l'impegno di Zerocalcare e il silenzio degli altri. Agli intellettuali non interessa più quello che succede nel mondo e nella politica. Sono diventati prudenti fino al conformismo. Con pochissime eccezioni. E un fumettista che fa meglio di loro. Lui, a un certo punto, ci scherza su: «Però contate che ’sto libro magari finisce in mano a gente che di solito non mi legge e che è cascata nella trappola dell’argomento impegnato». Ma in “Kobane Calling”, appena pubblicato da Bao Publishing, prima ancora che l’argomento, conta lo sguardo: raccontando un suo doppio viaggio nel Kurdistan siriano (e perciò, come lui scrive, di qualcosa «che va oltre gli strettissimi cazzi miei»), il fumettista Zerocalcare chiama in causa l’ignoranza, i pregiudizi degli «sciacalli nostrani» (li disegna: Borghezio, Gasparri) e di tutti noi. La distanza e l’indifferenza che impediscono a quella «cosa che conosci benissimo. Che ti porti sempre dietro. Il cuore. Non uno qualsiasi. Il tuo - con i suoi bozzi, le sue cicatrici, le sue toppe» di battere per Kobane. Come tutti i suoi precedenti e come quel piccolo capolavoro che è “Dimentica il mio nome”, “Kobane Calling” fa ridere e fa piangere, senza ricattare mai chi legge; l’autore è antiretorico, smitizza sé stesso («Avoja a lavora’ su me stesso. Io sto come un cantiere della Metro C»), ma non per questo evita di prendere posizione. E una volta messo piede nella regione autonoma curda del Rojava, invita a guardare «le scelte loro e le nostre»: «Loro c’hanno la guerra in casa. Quella vera, a pochi chilometri. Eppure, anche in mezzo a ’sto macello, cercano sempre di aprire più spazi di partecipazione e di democrazia. Noi strumentalizziamo ogni morto per fare esattamente il contrario. Chiudere quegli spazi sempre di più». Raffigura «buona parte della nostra classe dirigente» dandole i tratti di un maiale che dice: «Facciamo vedere ai terroristi che non modifichiamo il nostro stile di vita per loro. Postiamo tutte foto di noi che ci baciamo in piazza, così vince l’amore la vita la mononucleosi. Intanto, però, mettiamo lo stato d’emergenza. Togliamo Schengen…». Fa uno strano effetto leggere “Kobane Calling” accanto a “Tumulto” di Hans Magnus Enzensberger, appena uscito da Einaudi. Che c’entra un fumettista romano trentenne con uno scrittore tedesco ottantenne? La risposta sta nel titolo del vecchio Enzensberger, nella parola “tumulto”. Il libro raccoglie i suoi diari ritrovati degli anni Sessanta: un viaggio a Leningrado insieme a Sartre, De Beauvoir e Ungaretti, un soggiorno cubano, l’impegno pubblico negli anni del grande tumulto individuale e collettivo. Quelle esperienze, dice Enzensberger, «sono sepolte sotto il mucchio di letame dei media, del materiale d’archivio, dei dibattiti, della schematizzazione da vecchi militanti», ma lui non vuole dimenticare «quanto rumore faceva il tumulto». E d’altra parte, «vecchio mio, sai bene quanto me che il tumulto non finisce mai. Semplicemente ha luogo da qualche altra parte, a Mogadiscio, Damasco, Lagos o Kiev, ovunque abbiamo la fortuna di non vivere. È solo una questione di prospettiva». Già, è solo una questione di prospettiva. Enzensberger non prende sul serio fino in fondo le proprie stesse pose da intellettuale engagé, anzi, interroga il trentenne che è stato, lo provoca: perché eravamo così fissati con la guerra del Vietnam? E d’altra parte, però, lascia intendere che - al netto degli eccessi, di un radicalismo pericolosamente privo di misericordia - essere scrittore, per lui, è stato anche questo. Una questione, sì, di partecipazione. La voglia di capire, di vedere, di prendere posizione, di provocare indignazione, e magari - perché no? - di «sbalordire e far imbestialire la società», senza uccidere nessuno. Abbiamo archiviato con disinvoltura, perfino con sollievo, la stagione della militanza intellettuale. Seguitando a incensare Pasolini a ogni festa comandata, abbiamo convinto noi stessi che bisognava guarire dalla febbre degli interventi a gamba tesa nel dibattito civile, degli appelli, dei j’accuse. Se gli anni del riflusso ci hanno addormentato, quelli successivi ci hanno sorpreso in letargo. E così, è bastato un sorrisetto di scherno per chiudere in cantina i proclami di Sartre e il fumo della sua pipa, Moravia, i suoi sgargianti maglioni girocollo, le sue ossessioni sull’inverno nucleare. Era - ci è parso - perfino caricaturale quel piglio da tribuni salottieri, quell’ansia di mettere firme, di dire la propria: autorizzati da chi? Mentre avanzava l’epoca dell’ironia - su tutto, a tutti i costi - e la parola “intellettuale” entrava nel lessico degli insulti, si consolidava la tesi dello scrittore tenuto a impegnarsi solo scrivendo romanzi. Qualcosa, lungo il ventennio berlusconiano, si è mosso, ma in una sola direzione: Antonio Tabucchi incassava querele da Ferrara e daSchifani, Franco Cordelli da Previti. Poi, più niente. All’uscita dal tunnel, è bastata un’alzata di spalle a liquidare un’intera stagione: nelle pagine di “Il desiderio di essere come tutti”, Francesco Piccolo ha messo in ridicolo l’accanimento e il malumore della sinistra tra il 1994 e il 2011, come un gioco di società tutto sommato inutile. Ha polverizzato con un’esclamazione - «E che sarà mai!» - gli ultimi lampi di conflitto, di tumulto. Il Nobel a Dario Fo, nel ’97, fu letto da molti come uno scherzo da comunisti svedesi: per avere il massimo riconoscimento letterario - usa dire dalle nostre parti, con sospetto - conta l’impegno politico. All’indomani della morte di Tabucchi, un orrendo titolo del “Corriere della Sera” imbrigliava l’inquieto autore di “Sostiene Pereira” nella categoria di «antiberlusconiano che scelse l’esilio». Che tristezza! Curioso che poi, se decidono di intervistare uno come David Grossman, gli chiedono conto della sua insofferenza per Netanyahu. C’è qualcosa che non va in un Paese che rimpiange gli scrittori impegnati del passato, celebra quelli stranieri se prendono posizione, e costringe i propri contemporanei a tacere. Più per paura di essere presi in giro che per eccesso di prudenza. L’argine a ogni slancio politico, buono per tutte le stagioni, è quello usato da un ministro per frenare un intervento di Saviano sul caso Boschi: Saviano parli di mafia, ovvero di ciò che sa. Tradotto: è uno scrittore, si occupi d’altro, non emetta «sentenze senza fondamento». Eppure, quante lacrime di coccodrillo versate sull’«io so» pasoliniano! Peccato che a quell’«io so» facessero seguito un’avversativa e una causale piuttosto eloquenti. Io so ma non ho le prove. Io so perché sono uno scrittore. Quei pochi che ancora azzardano prese di posizione nette - e ovviamente discutibili - come Erri De Luca o Michela Murgia sono spesso guardati con diffidenza. Perché De Lucaparla di Tav? Perché parla di trivelle? Uno scrittore che scelga di dire la propria, non è detto che lo faccia da cittadino più intelligente o più esperto, non necessariamente: da cittadino più attrezzati di parole, semmai, e mosso - si suppone - da autentica passione civile. Riusciamo ancora ad accettarlo? Può prendere cantonate, pronunciare enormi sciocchezze: come tutti. Ma a cosa sarebbe ridotta la storia della letteratura se venisse applicata sistematicamente la categoria di «sentenze senza fondamento»? Buttiamo all’aria tutto Brecht e l’intera opera dell’ultimo premio Nobel, Svetlana Aleksievic? La «guerra contro i cliché», come la chiama Martin Amis, si combatte anche a suon di provocazioni, di frasi grosse, di domande irritanti e radicali. Si combatte anche a furia di iperboli: se Mario Vargas Llosa definisce Donald Trumpun clown, sta esagerando. Ma non è detto che sia inutile. E se gli avversari lo definiscono (negli Stati Uniti, ma anche sull’italianissimo “il Giornale”) «intellettuale che rosica», è segno che comunque ha toccato qualche nervo scoperto. La battaglia contro i conformismi si combatte anche a furia di libri sbagliati, o brutti su un piano estetico: “Sottomissione” diHouellebecq disturba, come ogni sua pagina, ma scuote. D’altra parte, mentre i cugini francesi portano in prima serataBoualem Sansal, autore di “2084”, a parlare di islamismo radicale, noi confiniamo gli scrittori ai talk show promozionali. Il paese di Dante e di Belli è diventato allergico alle invettive. Le accetta solo se hanno valore retroattivo, solo sull’onda del «come eravamo». La Resistenza. Settant’anni fa. Il delitto del Circeo. Quarant’anni fa. Fa impressione ripescare dagli archivi il dialogo infuocato tra Pasolini e Calvino nell’autunno 1975. È il 30 ottobre, Pasolini muore tre giorni dopo. Si rivolge così a Calvino: «Tu dici (“Corriere della Sera”, 8 ottobre 1975): «I responsabili della carneficina del Circeo sono in molti e si comportano come se quello che hanno fatto fosse perfettamente naturale, come se avessero dietro di loro un ambiente e una mentalità che li comprende e li ammira». Ma perché questo? Tu dici: «Nella Roma di oggi quello che sgomenta è che questi esercizi mostruosi avvengono nel clima della permissività assoluta, senza più l’ombra di una sfida alle costruzioni repressive... Ma perché questo?». Ripete sei volte lo stesso interrogativo: «Ma perché questo?». Provoca il collega, lo incalza: «Tu sai bene come documentarti, se vuoi rispondermi, discutere, replicare. Cosa che finalmente pretendo che tu faccia». C’è qualcosa di esemplare - al di là del merito - in questo corpo a corpo tra scrittori, in questa sfida reciproca alla responsabilità, alla discussione. In questo - posso dirlo? - prendere sul serio gli eventi, la realtà. Non c’era niente da ridere. Non c’è niente da ridere. O quantomeno, non c’è solo da ridere. Ve lo immaginate Pasolini che ghigna da un profilo Facebook? Sciascia che fa il battutista brillante su Twitter? Verrebbe da concludere che, se gli scrittori sono stati marginalizzati sulla scena pubblica, un po’ l’hanno voluto. Cercando di competere con Crozza o con Spinoza.it, piantati su un terreno che non è il loro; temendo di apparire “pesanti”, hanno annegato nel cazzeggio qualunque spessore. Qualche eccezione c’è, e di solito non appartiene alla generazione dei padri. A quella dei figli cresciuti, come Alessandro Leogrande, Christian Raimo, Igiaba Scego. Se Nicola Lagioia si occupa con intelligenza del delitto Varani, c’è chi fa la ola, ma non dovrebbe essere una rarità. E poi c’è la generazione dei nonni come Enzensberger, e come il sempre troppo inascoltato Busi. «E allora, che sarà mai», scrive in “L’altra mammella delle vacche amiche”, «se rinunci a un po’ del tuo piccolo dolore per te sostituendolo con il dolore più grande degli altri che vuoi che restino dall’altra parte, quella irraggiungibile dalla tua retina ma non dal tuo cuore, quella invisibile per la comodità della tua vecchia antropologia egocentrica che non vede mai alcun futuro se non il suo presente stretto alle sue sole viscere?». Ecco, ancora il cuore chiamato in causa da Zerocalcare. Il quale, come Busi, si sforza di non somigliare a quelli che nei sondaggi riempiono la percentuale del «non sa, non risponde». Dove siamo tutti? Alle prudenze dei cortigiani e dei reggimicrofono, si sommano i nostri silenzi di simpatici e inoffensivi cantastorie. E nessuno prova più nemmeno a scuotere la cappa di conformismo che ci sta uccidendo.

Intellettuali e politica, Michela Murgia su "L'Espresso il 16 maggio 2016: "Noi, scrittori del reale, in trincea contro i media". Chi interviene sui temi sociali viene ingabbiato in ruoli di comodo da giornali e tv. Il contributo della scrittrice sarda al dibattito lanciato da Paolo Di Paolo. Se esista e chi sia oggi o cosa debba fare l’intellettuale engagé, uno coinvolto col suo tempo, è una domanda frustrante che non mi pongo più da anni, perché la risposta imporrebbe che ci fosse un accordo sui termini di “intellettuale” e di “engagé” che invece a monte non c’è quasi mai. Formalmente tutti coloro che scrivono per essere pubblicati sono engagé, da Zerocalcare che disegna Kobane al calciatore di successo che mette il suo nome sulla sua biografia scritta da un altro. A stabilire che esista l’ingaggio è l’atto stesso di pubblicare, che è sempre politico: quelle parole e quelle immagini occuperanno infatti uno spazio che è contemporaneamente pubblico e finito, cioè di tutti ma non per tutti; per il solo fatto di trovarsi lì - su un dato scaffale fisico o virtuale in un esatto momento storico - quelle narrazioni hanno la possibilità di costruire immaginario collettivo e contemporaneamente stanno distruggendo la possibilità che a fare la stessa cosa siano le parole di un altro, qualcuno che quel posto e quel momento avrebbe potuto occuparlo in vece loro. L’ingaggio per chi pubblica è dunque sempre ineludibile, perché genera conseguenze collettive che prescindono dalla volontà di chi scrivendole si è esposto alla vista di tutti. È certo che le migliaia di copie della biografia del calciatore possano essere valutate molto più influenti socialmente di quanto non lo siano le poche decine vendute dal saggio del sociologo o le poche centinaia diffuse dal romanzo cosiddetto civile. In termini di impatto sull’immaginario, Ibrahimovic è assai più engagé di Zagrebelsky, che ne sia o meno consapevole, ma è su quella consapevolezza che si gioca l’altro termine del discorso: l’intellettuale. Se in ragione dell’impatto pubblico si è sempre engagé anche senza avere contezza delle conseguenze delle proprie parole e dei propri silenzi, è intellettuale solo chi la responsabilità di generare quelle conseguenze se l’assume e la porta, a prescindere dalla sua possibilità di influire. Per quanto il campo a questo punto del discorso si restringa di parecchio, rimane comunque ampissimo. È falso che l’intellettuale impegnato non esista più: è piena l’Italia di uomini e donne intellettuali che scrivono con responsabilità ogni volta che prendono la penna in mano o accendono il computer, e quella consapevolezza la applicano a romanzi e saggi, articoli di giornale e blog, tweet e post su Facebook. Non è l’ingaggio né l’intellettuale a mancare: è lo spazio pubblico che permette alle due cose di presentarsi combinate e generare influenza. Se fermassi per strada un passante appartenente a quella categoria della fantasociologia che è il ceto medio riflessivo e gli chiedessi se conosce le riflessioni degli intellettuali che influenzano quotidianamente me - gente come Evelina Santangelo, Giulia Blasi, Francesco Guglieri, Enza Panebianco o Marco Filoni - di certo mi direbbe che non sa chi siano. Eppure il loro pensiero è tecnicamente pubblico sulla carta o sulla rete e quindi accessibile a chiunque. Ciascuno di noi può fare lo stesso inutile gioco e stendere il suo elenco di intellettuali engagé, ma è improbabile che quelli in comune con il passante possano essere più di tre o quattro; e forse saranno i nomi di coloro che negli ultimi anni hanno potuto far passare il loro pensiero sui media mainstream. È sullo spazio, non sul pensiero né sull’impegno, che si gioca la vera differenza. Chi decide quale platea dare all’intellettuale decide implicitamente anche cosa l’intellettuale può dire e la concessione dello spazio di visibilità è fatta sempre per categorie. Me ne resi conto nella prima decade del 2000, quando scoppiò il tema sociale del precariato; per almeno tre anni gli scrittori che avevano pubblicato romanzi o saggi in merito prima che diventasse scottante furono interpellati dai massmedia solo in quanto “precariologi”. Nel tempo in cui l’ideologia è diventata una parola pornografica, l’eventuale visione complessiva di mondo che poteva esserci dietro alla scelta di Nove, Baiani, Desiati, Baldanzi o Platania di scrivere sulla questione del lavoro non interessava a nessuno di quelli che facevano i palinsesti e organizzavano le pagine dei quotidiani. Poi passò di moda il tema e con esso persero voce anche alcuni di quelli che avevano contribuito a farlo divenire tale: la loro influenza non era infatti stabilita dal peso specifico del loro pensiero ma dalla loro funzionalità al sistema mediatico. Lo stesso meccanismo l’ho rivisto all’opera da quando si è cominciato a parlare di femminicidio per le donne uccise per ragioni di genere: anche in questo caso lo spazio mediatico concesso a chi ne ha ragionato era e resta quello della “femminicidiologia” e viene aperto solo corpore praesenti, quando c’è da riempire la colonna del pensatore accanto alla notizia di cronaca dell’ennesimo assassinio di donna. L’intellettuale, per avere diritto di voce davanti ai grandi megafoni, deve essere letto come “esperto” di qualche aspetto parcellizzato della realtà. Deve avere un tema, quella che si definisce “una sensibilità”, un fronte dentro al quale la sua autorevolezza possa essere allo stesso tempo affermata e limitata. Sulla base di questa categorizzazione lo spazio mediatico miracolosamente gli si aprirà e lo incoronerà, ma se per caso l’intellettuale rivendicasse la responsabilità di una visione più generale, se si azzardasse a spostarsi dal recinto in cui si è deciso che la sua parola possa contare qualcosa, allora il meccanismo che scatterebbe è esattamente opposto: la delegittimazione sarebbe immediata e la perdita di visibilità dietro l’angolo. Chi oggi si è assunto senza vergogna il carico di essere intellettuale sa che il gioco è questo: dover sostenere un corpo a corpo continuo con i media di massa perché il termine engagé non implichi che nell’ingaggio egli sia il soggetto passivo, anziché l’agente del suo pensiero. La sola forma di resistenza che conosco al tentativo di rendere strumentale il pensiero non è rinunciare all’ingaggio di esprimerlo, ma accettarlo a patto di essere contronarrativi rispetto alla funzione che gli altri vorrebbero che assumessi, anche a costo di commettere atti di violenza intellettuale. Se c’è una scaletta che prevede che si possano dire delle cose e non altre, ignorarla o contraddirla è per me un dovere. Se il decoro di regime stabilisce che c’è un patto di concessione strumentale della parola all’intellettuale, romperlo e riscriverlo è il primo gesto politico necessario. La cosa realmente complicata è farlo mantenendo aperta la possibilità di poterlo rifare, fino a quando tutti quelli che pensano che non lo si possa fare senza perdere la parola non si sentiranno a loro volta abbastanza forti da fare altrettanto.

Intellettuali e politica, Valeria Parrella su "L'Espresso del 4 maggio 2016: "La mia voce non va in piazza". L'autrice napoletana interviene nella discussione sull'impegno dei scrittori aperta da Paolo Di Paolo. Ci sono molti modi per dare il proprio contributo. Ma non tutti trovano sui media lo spazio che meriterebbero. Se viviamo è per marciare sulla testa dei re» fa dire Shakespeare a Hotspur nell’“Enrico IV”. È così il Bardo: un intellettuale impegnato, al punto che la sua vis politica, traghettata dentro le opere, sale ancora sui nostri palcoscenici a dirci cosa appartiene all’uomo (quando egli è un Uomo). Tiresia, nell’“Antigone” di Sofocle, mette in guardia Creonte dalla ubris, dalla tracotanza del tiranno di sapere cosa è giusto o meno fare non “per” i cittadini, ma “dei” cittadini, per esempio del loro corpo. Anche Sofocle era dunque un intellettuale engagé e usava lo stesso sistema di Shakespeare: faceva parlare i personaggi. Torno al 400 avanti Cristo e me ne vado a spasso per la letteratura europea - ma ha davvero un tempo e una latitudine, la letteratura? - per ragionare su quello che Paolo Di Paolo ha sostenuto la settimana scorsa su “l’Espresso”, in un articolo vibrante di passione. Ho compreso che dicesse che, in un’epoca in cui i governanti mostrano irresponsabilità, l’intellettuale e lo scrittore debbano ingaggiarsi. È povera la stagione della nazione in cui chi ha voce non la usa per impegnarsi su ciò che accade nel mondo. Mi è parso un articolo preciso per ciò che affermava, ma fuorviante per ciò che ometteva. Procedendo per induzione, da lì venivano fuori dei macrotipi: c’è lo scrittore di primo tipo, quello che ha assunto una voce forte grazie al proprio talento e la utilizza per supportare questioni del mondo esterno, senza includerle nella propria produzione: scrive un appello per, scende in piazza con, va in tv contro (Erri De Luca si diceva, allora io dico Tiziano Scarpa assieme a una dozzina di scrittori del Nordest in Piazza dei Signori a Treviso contro le ordinanze razziste dei sindaci veneti). C’è lo scrittore di secondo tipo: quello che, a volte, poiché una cosa del presente lo indigna particolarmente, lo muove o ne sa di più, ne scrive a parte: fa un reportage su un giornale, scrive un volume in una collana dedicata (Lagioia sul delitto Varani si diceva, allora io dico “Zingari di merda” di Antonio Moresco, Effigie). Blog, Twitter, gruppi di lettura, comunità di fan. Il successo di un libro è sempre più affidato agli "influencer", specialisti del passaparola. Poi c’è lo scrittore di terzo tipo: quello che lascia precipitare il presente nella propria opera (Zerocalcare si diceva, allora io dico Giuseppe Genna). Infine uno scrittore di quarto tipo: quello che scrive così bene che, abbia o meno legami immediati con il presente: un giorno qualunque un lettore qualunque prenderà la sua parola e ne trarrà motivo di lotta per sé e per gli altri (tra i citati da Di Paolo ci si poteva riconoscere Pasolini, i miei esempi sono all’inizio di questo articolo). Però l’esperienza umana è una soltanto, non siamo compartimenti stagni ma persone, e perfino io non sono così sciroccata da pensare che gli intellettuali possano essere categorizzati come periodi ipotetici: e quindi le idee circolano, i flussi di pensiero e i campi semantici che li abitano o forse li regolano, gli interessi e gli amori: si mescolano, o meglio si dice in napoletano “si imbrogliano”. Massimiliano Virgilio è più ingaggiato quando scrive “Porno ogni giorno” (Laterza), per parlare del degrado umano che si consuma alle periferie delle nostre città, o quando va nel penitenziario minorile di Nisida a fare laboratori? Quando scrive un reportage da Scampia su “il Venerdì di Repubblica”, o quando organizza da volontario l’unica festa del libro di Napoli o quando in “Arredo casa e poi mi impicco” (Rizzoli) racconta il baratro esistenziale di un trentenne che è tutti i trentenni? Voglio dire che non credo che il mondo delle lettere si possa spartire tra uno scrittore che se ne frega di quello che accade fuori e si ripara sicuro tra le sue carte, e un altro che si stende sui binari assieme ai disoccupati. Soprattutto perché dietro le proprie carte non si è mai al sicuro. Uno scrittore mentre scrive frigge, e quando esce fuori con un articolo o un libro: rischia. Dal disinteresse al linciaggio. Se non scrive libri pensando alle fette di mercato, alle tasche degli adolescenti, se non ammicca al lettore, se non pensa che da quel libro ci si potrà cavare un film, cioè se è onesto intellettualmente, lo scrittore rischia, e dico: rischia ogni cosa perché dopo, dopo quel libro, dopo tre giorni da quell’articolo non ha più nulla. Diventa quella parola scritta che se ne è andata. Paolo Di Paolo lo sa, che c’è più amore di quello che dichiarava lui nell’articolo della scorsa settimana (è proprio questa la bellezza di quell’articolo: che egli stesso affermando che serve l’ingaggio si ingaggia; annichilendosi nella prima plurale dei “cantastorie”, si chiama all’azione). Erri De Luca e Michela Murgia, portati a giusto esempio come impegnati, hanno una voce calda ed esatta, e hanno anche una voce forte. Avere una voce forte significa potersi far sentire. Ma questo ultimo aspetto non dipende solo da loro: il megafono è un concertato tra tre agenti: il sé, il pubblico (utilizzo il termine nell’accezione latina, «che appartiene a tutto il popolo») e il tramite tra i due: i media. Se i media fanno da cassa di risonanza per le battutine liquidatorie del ministro Boschi ci vuole una voce enorme, come quella di Saviano, per rispondere confidando in eguale risonanza. Gli esempi che qui riprendo da Paolo Di Paolo sono quelli di tre scrittori che l’attenzione se la sono conquistata scrivendo, e va a loro onore, ma non può andare a disdoro degli altri il non riuscire a ottenere la stessa visibilità. Quando Loredana Lipperini, Ermanno Rea e Franco Arminio si candidarono nelle liste di L’altra Europa con Tsipras (non male come impegno anti-renziano), dai palchi dei comizi dicevano della questione meridionale, dei paesaggi offesi e vilipesi, del corpo delle donne. Bisognava ascoltarli. Ma chi ha potuto? Sono bastati gli accorati e pensati richiami di Aldo Masullo e di Maurizio Braucci ad arginare il craxiano appello di Renzi al disingaggio referendario? No. Serviva qualcuno che desse loro uguale spazio. Qualche giorno fa Valerio Magrelli sulle pagine romane de “La Repubblica” ha scritto un pezzo sull’inclusione scolastica. Parlava del presente e non lo faceva in versi, ma in quanti l’hanno letto? I Wu Ming fanno caso a sé proprio per questo e per questo anche vanno ricordati: hanno scelto di non utilizzare parte dei media, di non apparire in tv, e manco in occasioni pubbliche ufficiali, di “apparato”. Fa parte del loro essere impegnati, è proprio dal loro impegno civile che nasce questa forma di protesta: che io credo racconti quanto raramente ci si possa fidare di ciò che è eclatante. Cosa è un gesto forte? Quale quello a cui dare udienza? Vogliono, le televisioni, parlare per tre giorni de “I piccoli maestri” e di tutti gli intellettuali che vi prendono parte (piccoli maestri.wordpress.com)? La stampa vuole fare a gara a chi lancia prima l’itinerario 2016 di “Repubblica nomade” (repubblicanomade.org)? Piuttosto mi pare che ai media interessi l’episodio eccellente, e diano pochissimo credito, seguito e spazio a chi costruisce con pazienza nel tempo. Se non hai una voce amplificata te ne resta una melismatica: quella della letteratura, che è una voce necessariamente lenta. La letteratura non crea instant book, abbisogna di tempo, e quel tempo può durare pure vent’anni, pure cento. Magari ne duri cento, cinquecento, mille: che qualcuno torni a essere “cantastorie” come Sofocle, che si possa venir citati come Harry Percy di Northumberland nell’“Enrico IV”.

Intellettuali e politica, interviene Aldo Nove su "L'Espresso il 09 maggio 2016: "La realtà è annichilita, gli scrittori anche". L'autore di "Woobinda e altre storie senza lieto fine" interviene nella discussione aperta da Paolo Di Paolo. Con una rivendicazione. E un'accusa durissima al tempo presente. Oggetto del contributo di Aldo Nove alla polemica avviata sulle colonne di questo giornale da Paolo Di Paolo, dopo l’encomiabile replica di Valeria Parrella, sarà innanzitutto Aldo Nove. Scrittore che forse Paolo di Paolo non conosce, e che da oltre vent’anni interviene in modo molto diretto, per non dire violento, proprio sulla cosiddetta “realtà” nostra. Così come fecero i cosiddetti “Cannibali”, ultimo fenomeno letterario italiano e che Di Paolo salta a piè pari. Trovo completamente sbagliate le premesse metodologiche e l’assunto, così come falsificato è il quadro generale che Di Paolo evidenzia. Insomma si lamenta di ciò che non c’è perché non vede. Lui. Perché non sa quanto mutabile (e oggi in particolare a una velocità insostenibile) sia la concrezione di quello che Lacan definiva “l’impossibile”, ossia il reale. Dicevo che avrei parlato innanzitutto di me. Con il mio libro d’esordio, “Woobinda e altre storie senza lieto fine”, ho descritto l’Italia che, 20 anni fa, cambiava per sempre. L’ho fatto con nomi e cognomi. Sono stato il primo a scrivere, con “Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese”, nel 2004, di precariato, con un libro reportage fondato su una selezione di 100 interviste, quando di precariato non parlava nessuno. E ho sempre parlato del presente. Anche quando ho descritto la vita di San Francesco, cercando di dimostrare quanto il XII secolo fosse attraversato da pulsioni sociali innovativi e da millenarismi che oggi ritornano. Nel mio libro in uscita il 12 maggio, “Anteprima mondiale. Woobinda 2016”, torno a fotografare il presente, quello attualissimo del 2016. E lì si parla di Crozza, di Mario Monti, di Is, e di tutto quanto a Paolo di Paolo farà piacere che si parli. Quello che sfugge è quanto sia complesso oggi definire un processo di mutazione antropologica quando ci si adagia in una categoria (mettiamo pure del realismo, del verismo, dell’interventismo o di qualunque altro ismo a piacere si voglia usare per definire “l’impossibile” di cui ho detto sopra). È di un’ingenuità disarmante considerare attuale un romanzo, un racconto, un fumetto, perché parla di Gasparri. Pure, io, come il bravissimo Zerocalcare, lo faccio. Ma non certo attraverso questa sorta di tassonomia del circo politico attuale creo una qualsivoglia forma di valore aggiunto per comprendere cosa sta succedendo. Mancano innanzitutto quelli che un tempo furono i “presidi culturali” in grado di dare della letteratura una lettura subitanea e in grado di valutarne gli orientamenti. L’appiattimento onnicomprensivo è ovvio che appiattisca anche gli scrittori, come del resto appiattisce i critici. In tale “wasteland” editoriale e culturale le strategie che lo scrittore può attuare sono molteplici. Esiste ad esempio un piano mimetico consapevole (e per questo mi autocito, visto che lo uso, come lo usa Niccolò Ammaniti, come lo usano Tiziano Scarpa e Raul Montanari) che esprime la X quale incognita del presente globalizzato a volte attraverso il recupero di uno sguardo diverso (bambino, adolescente) teso a creare proprio uno slittamento di prospettiva che crei un punto di vista altro. Un altrove. È ben difficile raccontare una realtà che più che fluida è ormai completamente evaporata, azzerata la memoria strategicamente gestita nell’ottica del frammento annichilente ogni coscienza (di classe, ma anche di semplice identità: vedi alla voce “Europa”). Sono passati eoni dai tempi di Moravia e Pasolini. La mia generazione è una generazione di scrittori che hanno vissuto la “cattiva magia” di una finanziarizzazione del reale tale da rendere il subprime un elemento costitutivo dell’anima. La truffa domina in un modo che continuiamo a fingere essere gestibile. Ma non lo è. Non lo sono gli anticipi degli scrittori ridotti a un decimo di quanto lo fossero prima della crisi, così come non lo sono le retribuzioni dei giornalisti avventizi che riempiono pagine di giornali piene di lettere subprime. Quelle letterarie comprese. C’è una sorta di etica del risparmio (economico) e del calcolo (al ribasso, economico) che colpisce con una violenza mai vista, dal Dopoguerra a oggi, gli scrittori e gli addetti ai lavori (tranne le pochissime eccezioni che confermano la regola). Giulio Einaudi stipendiava i suoi autori a prescindere da quanto vendevano. Oggi “devi vendere”. Va tutto a bilancio. Prima viene il Pil. Così come l’abbattimento delle contrapposizioni ideologiche non fa altro che lasciarci galleggiare nel mare di finzioni in cui un potere unico quanto acefalo e violento ci impone, fino a che non diventa parte di noi stessi. Insomma, non ci sono anime salve. Tornando a me (l’oggetto principale di questo mio intervento, dicevo) posso propormi il rigore etico della sincerità, non certo quello della realtà e tantomeno della verità proprio per i limiti oggettivi di cui parlavo prima. E siamo in tanti a farlo. Nomi ne ha già fatti Valeria Parrella. E parecchi se ne potrebbero aggiungere. Come quello di Carmen Pellegrino che ha descritto, nel suo splendido “Cade la terra”, una marginalità italiana che letteralmente frana. Case e anime che franano. Adesso. In un presente che crolla. Rialzarlo con un’operazione di camouflage sarebbe fingere che l’apocalisse non si è compiuta, che vent’anni di berlusconismo non ci hanno cambiati del tutto e che nemmeno più sappiamo, oggi 2016, di che nazionalità siamo. Negli anni del renzismo in cui il primo presidente del Consiglio della generazione subprime, non eletto da nessuno e sorretto solo dal suo ego adultolescente (termine coniato da uno dei più acuti scrittori della generazione degli attuali quarantenni, Danilo Masotti: lo conoscete?) pubblica libri che hanno titoli come “Tra De Gasperi e gli U2. I trentenni e il futuro”. Ecco: tra De Gasperi e gli U2 non c’è un percorso. C’è un salto quantico. Qualcosa d’impossibile che si è però imposto. Una truffa culturale che chi scrive ritiene più interessante da raccontare della stessa realtà di infimo grado che questa truffa ha generato e ogni giorno rigenera. Da De Gasperi agli U2non c’è nulla. Come il nulla che disperatamente rincorrono i vertici delle (anche qua il plurale è un subprime) case editrici maggiori, alla ricerca della biografia del cuoco dell’istante o delle confessioni dell’amante dell’attore dello scorso momento. Una realtà a rischio di insolvenza come quella che viviamo noi non può che produrre una letteratura (e una critica) a rischio d’insolvenza, caro Di Paolo. Non essere in grado di percepire questo vuole dire non rendersi conto del lavoro pazzesco che in tanti fanno per resistere quel minimo che è oggi concesso. Erano belli i tempi in cui Berlusconi si vantava di essere diventato proprietario della casa editrice storicamente a lui più avversa (l’Einaudi) lasciando ad essa mano libera. È stato così fino a che la mutazione antropologica non si è realizzata del tutto e abbiamo introiettato decenni di “realtà” alterata, fino alla creazione di una classe dirigente più realista del re. Lo scrittore, infine, non è un avatar disceso sulla terra e nemmeno un profeta biblico che maledice a beneficio dei secoli futuri l’insubordinazione di Gerusalemme al Dio dei giusti. Lo scrittore è, come proprio Brecht diceva, figlio del proprio tempo. E proprio lui citando, nella traduzione sarcastica di uno che di linguaggio e ideologia la sapeva lunga, Edoardo Sanguineti: «Scusateci, a noi, per il nostro tempo».

Il "Mein Kampf" ritorna. Ma come oggetto di studio. I diritti sul libro, detenuti dalla Baviera, sono scaduti e la "bibbia del nazionalsocialismo" viene ripubblicata in Germania, e non solo. Senza questo testo è difficile capire l'ascesa di Hitler, scrive Matteo Sacchi, Mercoledì 08/06/2016, su "Il Giornale". Un oggetto tabù, eppure un documento storico fondamentale. Un libro che fa paura e che si teme sempre possa ispirare nostalgici del totalitarismo, eppure anche un testo senza il quale diventa difficile spiegare la Shoah o l'attacco nazista alla Russia sovietica. Stiamo parlando del Mein Kampf, il manifesto politico che Adolf Hitler iniziò a stendere, con l'aiuto di Rudolf Hess, in carcere, a Landsberg am Lech, dopo il velleitario (e fallito) colpo di Stato di Monaco del 9 novembre 1923. Il primo volume venne pubblicato nel 1925 (il secondo l'anno dopo) dalla casa editrice Franz Eher di Monaco, dopo che il direttore editoriale Max Amann pretese una riscrittura dell'elaborato, roboante e farraginoso, dell'aspirante dittatore (un autodidatta con talento per i discorsi ma scarse doti letterarie). Il testo ebbe, dopo una partenza stentata, un'enorme fortuna editoriale parallela al diffondersi del partito nazista. Giusto per fare un esempio, sino all'ascesa al potere di Hitler nel 1933 erano state vendute circa 241mila copie che superarono rapidamente il milione una volta che Hitler divenne cancelliere. E non solo in Germania. Il testo (la prima edizione italiana abbreviata rispetto all'originale è del 1934 per i tipi di Bompiani), intriso di antisemitismo e razzismo, ebbe enorme diffusione mondiale, sia tra gli ammiratori del dittatore tedesco sia tra chi voleva conoscere il proprio nemico. Charles De Gaulle nel 1939 urlava inascoltato che le difese francesi fossero insufficienti per fermare l'avanzata nazista, ripeteva: "Ci salteranno alla gola, io lo so: ho letto il Mein Kampf". Nessuno gli diede retta. Dopo la Seconda guerra mondiale vennero distrutti milioni di copie della "Bibbia del nazionalsocialismo". I diritti editoriali vennero affidati al länder della Baviera che ha vietato qualsiasi edizione non a scopo strettamente scientifico. I diritti sono però scaduti il 31 dicembre 2015 e questo ha dato il via a un fenomeno di ritorno di interesse sul testo, quasi maniacale. È andata così per l'edizione tedesca commentata e scientificamente corretta tornata nelle librerie tedesche dopo 70 anni di damnatio memoriae. Scopo dichiarato e promosso proprio dalla Baviera: smontare il mito, strumentalizzato dai neonazisti, che aleggia attorno al manifesto del Führer. Ma le logiche di mercato hanno subito scavalcato gli intenti filologici e pedagogici. E così la prima edizione legale in Germania dal 1945 (due volumi di 2mila pagine con 3.500 note critiche) ha scatenato una corsa all'acquisto dell'oggetto di "culto": la prima tiratura - 4mila copie - è andata esaurita il primo giorno, l'8 gennaio. I librai tedeschi non hanno fatto neppure in tempo a ricevere i volumi, già tutti prenotati. Anzi, una delle prime copie è stata rivenduta su Amazon per quasi 10mila euro. Del resto anche il costo del libro, pubblicato e curato dall'Istituto di Storia contemporanea di Monaco, è elevato: 59 euro. Eppure dal giorno di uscita è tra i cento libri più venduti in Germania (anche se la maggior parte dei librai ha deciso di non esporre il testo, vendendolo solo su richiesta). Chiaro dunque che la decisione di ridare alle stampe il Mein Kampf (che in edizione pirata è sempre circolato) non abbia mancato di suscitare polemiche. Il presidente del Consiglio centrale degli ebrei tedeschi, Josef Schuster, ne ha sostenuto l'utilità: "Il commento critico mostrerà con quali teorie e tesi, false, abbia lavorato Hitler". E in Germania si sta anche molto discutendo sulla forma nella quale reintrodurre lo studio del testo, ovviamente a scopo storico, nelle scuole. Per altro in Germania le edizioni non commentate del Mein Kampf restano vietate. Ma pochi giorni fa un editore di Lipsia, come riportato da Bild, ha deciso di pubblicare il Mein Kampf nell'edizione originale, senza alcun commento a supporto. Si tratta della casa editrice di estrema destra Der Schelm (letteralmente il "briccone"). La procura di Bamberga ha aperto un'inchiesta. Insomma in Germania, e non solo, che si tratti del Mein Kampf o di libri che ricostruiscono la vita del Führer ora per ora come Das Itinerar (edito dalla Berliner Story Verlag, e frutto della fatica di Harald Sandner) o di romanzi/film parodia come Lui è tornato, Hitler resta un personaggio che incuriosisce e divide. Forse è proprio per questo che va studiato e non nascosto.

Il Mein Kampf sabato in edicola con il Giornale. Polemiche in tutta Italia, scrive Antonio Panullo su “Il Secolo D’Italia”, venerdì 10 giugno 2016. Polemiche – prevedibili – dopo che il Giornale ha deciso di regalare una copia del Mein Kampf, da sabato, a chiunque acquisterà una copia del quotidiano. In realtà l’operazione è più complessa, e rientra in operazioni culturali che il quotidiano fondato da Indro Montanelli ha sempre compiuto. Il Giornale, infatti, dopo aver allegato La storia del fascismo di Renzo De Felice, e altre collane storiche, adesso inizia la pubblicazione di una serie di volumi dedicati al Terzo Reich. Il primo titolo è Hitler e il Terzo Reich. Ascesa e trionfo di William Schirer, acquistabile a 11,90 euro. In più ci sarà il Mein Kampf nell’edizione originale, pubblicata in Italia da Bompiani nel 1934, con la prefazione critica di Francesco Perfetti. La comunità ebraica protesta: «Sono molto perplesso. Questo è un libro che non si può regalare con un giornale, come se fosse un romanzo da leggere sotto l’ombrellone, ma è un testo che va maneggiato con molta cura. Se vogliamo leggerlo e studiarlo, facciamolo, ma con i mezzi culturali necessari», ha osservato Ruben Della Rocca, vicepresidente della comunità ebraica romana». Da parte sua il deputato del Pd Emanuele Fiano, che ad Auschwitz ha perso buona parte della sua famiglia, dice: «Penso sia sbagliato, offensivo verso la memoria dei morti e al limite della collaborazione con quell’ideologia. Non è un testo che può essere pubblicato, addirittura regalato, così alla leggera. Che bisogno c’era un’operazione del genere?». Il presidente dell’Unione delle comunità ebraiche in Italia Renzo Gattegna sostiene che «la distribuzione gratuita nelle edicole del Mein Kampf, domani accompagnato al quotidiano Il Giornale, rappresenta un fatto squallido, lontano anni luce da qualsiasi logica di studio e approfondimento della Shoah e dei diversi fattori che portarono l’umanità intera a sprofondare in un baratro senza fine di odio, morte e violenza. Bisogna dirlo con chiarezza: l’operazione del Giornale è indecente. E bisogna soprattutto che a dirlo sia chi è chiamato a vigilare e a intervenire sul comportamento deontologico dei giornalisti italiani», conclude Gattegna. Il Mein Kampf è tornato nelle librerie dopo 70 anni. Da notare che alla scadenza dei diritti – il 31 dicembre 2015 – in Germania il libro del Fuehrer tornato nelle librerie dopo 70 anni con un’edizione commentata di circa 2000 pagine che ha scalato le classifiche. Il quotidiano milanese da parte sua ha così spiegato la scelta editoriale: «La scelta di allegare il Mein Kampf alla collana di opere sul nazismo in edicola da sabato con il Giornale (otto volumi a 11,90 euro più il prezzo del quotidiano) fa discutere. Ma il libro-manifesto della follia xenofoba e antisemita di Adolf Hitler è un documento fondamentale per capire l’orrore della Seconda guerra mondiale e della Shoah. Il politologo Giorgio Galli, esperto dei legami tra nazismo ed esoterismo, spiega le origini del libro più maledetto della storia: “Hitler fu l’ultimo teorico della guerra tra razze. Questo libro non ha nulla di proibito e vietarlo lo ha reso solo più interessante”». Il giorno prima in un altro articolo sul Giornale Matteo Sacchi aveva così concluso il suo articolo Il Mein Kampf ritorna. Ma come oggetto di studio: «Insomma in Germania, e non solo, che si tratti del Mein Kampf o di libri che ricostruiscono la vita del Führer ora per ora come Das Itinerar (edito dalla Berliner Story Verlag, e frutto della fatica di Harald Sandner) o di romanzi/film parodia come Lui è tornato, Hitler resta un personaggio che incuriosisce e divide. Forse è proprio per questo che va studiato e non nascosto». Dall’articolo in questione apprendiamo anche che «dopo la Seconda guerra mondiale vennero distrutti milioni di copie della “Bibbia del nazionalsocialismo”. I diritti editoriali vennero affidati al länder della Baviera che ha vietato qualsiasi edizione non a scopo strettamente scientifico. I diritti sono però scaduti il 31 dicembre 2015 e questo ha dato il via a un fenomeno di ritorno di interesse sul testo, quasi maniacale. È andata così per l’edizione tedesca commentata e scientificamente corretta tornata nelle librerie tedesche dopo 70 anni di damnatio memoriae». Adesso probabilmente anche le copie del Giornale andranno a ruba.

Il Giornale regala il Mein Kampf. Esplode la polemica. La comunità ebraica insorge: "Fatto squallido". Sallusti replica: "Non deve essere un tabù, per capire il male bisogna storicizzarlo", scrive “Il Tempo” l’11 giugno 2016. A partire da oggi, sabato 11 giugno, Il Giornale è in edicola una collana dedicata alla storia del Terzo Reich che si articolerà in 8 volumi con uscita settimanale. Il primo titolo in edicola è "Hitler e il Terzo Reich. Ascesa e trionfo". In omaggio con il volume, viene distribuito il testo originale di Mein Kampf di Adolf Hitler, nell'edizione critica a cura del professor Francesco Perfetti.  Tale decisione ha generato scalpore, scatenando l'ira della Comunità Ebraica e del presidente del Consiglio. "Un fatto squallido" ha commentato Renzo Gattegna, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. "Non aver paura di storicizzare" replica il direttore del quotidiano, Sallusti. Sul caso è intervenuto anche Renzi su Twitter: "Trovo squallido che un quotidiano italiano regali il Mein Kampf di Hitler. Il mio abbraccio più affettuoso alla comunità ebraica #maipiù". La polemica "Se ce lo avessero chiesto, avremmo consigliato loro di distribuire libri molto più adeguati per studiare e capire la Shoah” riferiscono fonti dell’ambasciata d’Israele a Roma. E Gattegna, presidente dell’Unione delle comunità Ebraiche Italiane, commenta come la distribuzione del testo sia "un fatto squallido, lontano anni luce da qualsiasi logica di studio e approfondimento della Shoah e dei diversi fattori che portarono l’umanità intera a sprofondare in un baratro senza fine di odio, morte e violenza". Gattegna poi rincara la dose dicendo che: "Bisogna dirlo con chiarezza: l’operazione del Giornale è indecente". Efraim Zuroff, direttore del Centro Wiesenthal di Gerusalemme gli fa eco: "Che qualcuno abbia pensato di usare il Mein Kampf per accrescere le vendite è un fatto senza precedenti e allarmante". Non si stupisce delle reazioni il direttore de Il Giornale, Alessandro Sallusti. Che replica: "Per capire com’è potuto nascere il male assoluto, bisogna andare alla fonte e non aver paura di storicizzare le tragedie del Novecento. Non avrei problemi, per dire, a pubblicare anche il Libretto rosso di Mao".

Il Mein Kampf in edicola: tutto quello che non sapete. Imparare dagli errori del passato è un nostro dovere. Ecco perché pubblichiamo il manifesto di Hitler, scrive "Il Giornale", Sabato 11/06/2016. È un assioma ricorrente nei manuali di strategia: per sconfiggere il nemico bisogna conoscerlo. E così, se si vogliono comprendere i crimini del nazismo, bisogna leggere il Mein Kampf. Poche storie. Il romanziere scozzese Bruce Marshall, tra i migliori a raccontare i drammi e le aberrazioni della Seconda Guerra Mondiale, lo ripete più volte nei suoi libri: molto si sarebbe potuto salvare se i Capi di Stato del Novecento si fossero presi la briga di leggere questo libro. Sia chiaro: quella che esce oggi con Il Giornale non è la prima edizione italiana del libro di Hitler. Le edizioni Kaos lo hanno stampato anni fa e su Amazon si può acquistare per pochi spiccioli. Chiunque può acquistarlo con un clic. Quindi perché adirarsi? Critiche (legittime) sono arrivate dalla comunità ebraica, ma ad esse ha già risposto il direttore di questo quotidiano, Alessandro Sallusti. Ma, dato il can can mediatico che è stato sollevato in queste ore, val la pena fare alcune precisazioni. Il Mein Kampf allegato a Il Giornale non è gratuito. Chi lo vorrà leggere dovrà acquistare il primo volume della collana sull'ascesa e declino del Terzo Reich scritta da William Shirer, e con note critiche e commenti del professor Francesco Perfetti, docente di storia contemporanea riconosciuto a livello internazionale. La storia sul nazionalsocialismo che uscirà in queste settimane non è certo un'apologia. Anzi...Proprio la lettura di questi libri servirà a dare la giusta lettura al Mein Kampf. Proprio questo mese è uscito in Italia un film interessante, "Lui è tornato", tratto dall'omonimo libro. "Lui" è ovviamente Hitler. Quella tratteggiata nel film è una società distopica, dove il Führer torna e fa il pieno di successo. Per realizzare questa pellicola sono state utilizzate anche scene improvvisate, in cui l'attore che impersona Hitler interagisce con ignari passanti. Chi ha visto il film può confermarlo: molti, ancora oggi, elogiano il dittatore tedesco. I motivi possono essere più disparati, ma sono tutti riconducibili all'ignoranza. Siamo abituati a pensare che Hitler abbia agito così in quanto pazzo: nulla di più falso. Quello del Führer era un piano lucido e criminale. Ottant'anni fa, abbiamo sottovalutato il problema. Non abbiamo letto il Mein Kampf e ci siamo trovati dall'oggi al domani con milioni di morti e una guerra mondiale. Evitiamo di farlo anche oggi.

Capire il Mein Kampf perché non torni più. Con certi venticelli che soffiano qua e là per l'Europa e in Medioriente serve capire dove si può annidare il male e non ripetere un errore fatale, scrive Alessandro Sallusti, Sabato 11/06/2016, su "Il Giornale". C'è un pezzo di storia che fa ancora paura solo a parlarne. Ed è comprensibile perché gli uomini fanno scattare una legittima difesa contro il male assoluto. Parliamo di Hitler e del nazismo, la più grande tragedia - insieme al comunismo staliniano - del Novecento e tra le più orrende della storia intera del mondo. Milioni di ebrei sterminati nelle camere a gas, milioni di tedeschi mandati a morire per una causa aberrante, milioni di uomini liberi morti per estirpare dall'Europa questo cancro. Tutto ha inizio con un farneticante libro scritto nel 1925 dal futuro Führer e tragicamente noto come Mein Kampf, tradotto «La mia battaglia». Il 31 dicembre 2015 sono scaduti i diritti d'autore sul testo, diritti che erano stati affidati al governatorato della Baviera, che per settant'anni ne aveva vietato la pubblicazione. A gennaio l'Istituto di storia contemporanea di Monaco ha deciso di ripubblicare il testo a fini storici in una edizione commentata con l'avallo del presidente delle comunità ebraiche tedesche. In questi giorni si sta discutendo se adottare questo testo nei piani di studio delle scuole superiori. Abbiamo deciso di ripetere l'operazione per l'Italia, rieditando il testo originale stampato dalla Bompiani nel 1938 che oggi, per chi vorrà, è in edicola insieme al quotidiano e al primo numero di una collana dedicata alla storia del Terzo Reich. Ovviamente si tratta di un'edizione commentata. La guida critica alla lettura è del professore Francesco Perfetti, una delle massime autorità nel campo della storia contemporanea. La sola notizia di questa pubblicazione ha già suscitato polemiche, la maggior parte delle quali legittime e comprensibili, e le preoccupazioni degli amici della comunità ebraica italiana, che ci ha sempre visto e sempre ci vedrà al suo fianco senza se e senza ma, meritano tutto il nostro rispetto. Escludo però che ad alcuno possa anche solo sfiorare l'idea che si tratti di un'operazione apologetica o anche solo furba. Non si gioca su una simile tragedia. Semmai il contrario. Perché, con certi venticelli che soffiano qua e là per l'Europa e in Medioriente serve capire dove si può annidare il male e non ripetere un errore fatale. Cito Perfetti: «Al mondo politico, ma anche a quello intellettuale dell'Europa del tempo, può essere oggi rimproverato il fatto di non avere letto in maniera approfondita l'opera e di non averne quindi compreso appieno la dimensione aberrante destinata, come la storia avrebbe tragicamente dimostrato, a minare in profondità le fondamenta del mondo civile». Studiare il male per evitare che ritorni, magari sotto nuove e mentite spoglie. Questo è il senso vero e unico di ciò che abbiamo fatto.

Quanta polemica per un libro venduto pure alla Feltrinelli. Social divisi sulla promozione del «Giornale». Lerner s'infuria ma quando uscì in Germania disse: è giusto, scrive Giuseppe Marino, Domenica 12/06/2016, su "Il Giornale". C'è uno scandalo nel mondo dei media italiani: una nota società editoriale lucra sul Mein Kampf. È la Feltrinelli. Basta cliccare sul sito della libreria on line e cercare il titolo per veder spuntare bene in evidenza il volume pubblicato da «Edizioni clandestine» con tanto di talloncino della promozione «-15%», autore «Hitler Adolf», disponibile in cinque giorni a soli 10,20 euro. E per giunta, a differenza di quella allegata al Giornale insieme a una collana storica firmata da autori di solida fama come William Shirer, quella venduta dall'editore simbolo della sinistra non è un'edizione critica ma il testo integrale. Ma niente da fare, l'occasione per accendere uno scandalo di plastica era troppo ghiotta. Come poteva non caderci Gad Lerner? E infatti sul suo blog consegna ai posteri un giudizio lapidario: «Alessandro Sallusti che distribuisce in edicola il Mein Kampf di Hitler conferma il suo talento nel fare la caricatura di se stesso». Eppure, nello scorso dicembre, in occasione della prima pubblicazione del testo base del nazismo dopo la decadenza dei diritti d'autore, lo stesso Lerner si dichiarava favorevole: «Non mi sento di criticarla anzi trovo positivo il fatto che questo tabù in Germania venga affrontato». Nello stesso articolo del Fatto Quotidiano, si esprimevano anche il politologo Piero Ignazi («Era ora») e lo storico Gian Enrico Rusconi («Un segno di maturità»). Il Mein Kampf del resto non è affatto un pamphlet clandestino. In Italia l'edizione più nota è quella critica curata dal politologo Giorgio Galli per i Tipi della «Kaos», accompagnata da parole sagge: «Questa riedizione del Mein Kampf ha un triplice significato. Il rifiuto etico-intellettuale di ogni tabù e di ogni forma di censura. La storicizzazione di un testo la cui lettura deve rappresentare un imperituro monito. La denuncia di rimozioni e mistificazioni all'ombra delle quali si vorrebbero legittimare disinvolti quanto pericolosi revisionismi storiografici». E ancora: «È opinione diffusa che sia un libro dell'orrore, un compendio di farneticazioni. Si può continuare a ritenerlo tale, ma solo dopo averlo letto». Il libro è tra l'altro accompagnato da una postfazione di Gianfranco Maris, presidente dell'Aned, Associazione nazionale ex deportati politici nei campi nazisti. E che dire del settimanale Focus, che dopo lo scoppio della polemica sull'iniziativa del Giornale, pubblica un vademecum sul «Mein Kampf in pillole» per «non doverlo per forza avere in casa». Lecita iniziativa giornalistica o speculazione? Al di là delle strumentalizzazioni, quelle di chi approfitta di un'iniziativa editoriale per scatenare una polemica da proiettare sul voto alle amministrative, sembra uno scherzo ma davvero nel Pd c'è chi attacca Parisi per questo (e che c'entra?), in tutto il dibattito un punto fermo c'è. Il manifesto hitleriano, comprensibilmente avversato dalle comunità ebraiche, che pure si divisero sul tema della ripubblicazione in Germania, non è mai stato un libro clandestino. Si trova da scaricare on line e, secondo l'associazione hateprevetion.org, ha venduto 70 milioni di copie nel mondo, dal 2008 a oggi. Nonostante questo non trascurabile dato di fatto, la vicenda ha incendiato il dibattito sui social network, con la consueta singolar tenzone parolaia. Quella organizzata (gli account collegati al Pd si sono dati un gran daffare a twittare e ritwittare) e spontanea ironia. Vedi Fulvio Abbate: «La prossima settimana offrirà ai lettori il dissuasore elettrico a bastone». Ma anche tanti che hanno capito il gioco di chi strumentalizza. E replicano in modo altrettanto graffiante. Come «Re Tweet»: «Mi congratulo per la vostra battaglia contro la presenza del #MeinKampf nelle edicole. Khomeini sarebbe fiero di voi».

Veri ipocriti e falsi moralisti. Trovo preoccupante che Renzi non sappia che il Mein Kampf si può acquistare da tempo in libreria, scrive Alessandro Sallusti, Domenica 12/06/2016, su "Il Giornale". Matteo Renzi ha definito «squallida» l'iniziativa de Il Giornale di allegare, all'interno di una collana storica, una edizione commentata del Mein Kampf, atto fondativo di quella tragedia che fu il nazismo. Evidentemente il presidente del Consiglio in vita ha letto tanti fumetti - e questo lo si capisce -, ma pochi libri. Certamente non ha letto Se questo è un uomo di Primo Levi, nel quale, a proposito dell'Olocausto, si legge: «Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre». Trovo poi preoccupante che Renzi non sappia una cosa nota a tutti, cioè che il Mein Kampf lo si può acquistare già da tempo in molte librerie, quelle della Feltrinelli comprese, e con un clic su Amazon. I negazionisti rimuovono la storia scomoda, gli uomini liberi la affrontano, la studiano, la giudicano con la severità che merita. Potremmo ricordare a Renzi che squallido è non pagare i debiti che lo Stato ha con le imprese o illudere i pensionati che presto avranno 80 euro in più. Ma mischieremmo il sacro con il profano. Non possiamo però tacere, a proposito di storia, su quanto sia stato squallido, oltre che pericoloso, ricevere a Roma pochi mesi fa con tutti gli onori (e oscuramento delle statue marmoree dei Musei Capitolini per non offenderlo) Hassan Rouhani, presidente dell'Iran, cioè di un Paese che nega il diritto all'esistenza di Israele e che sul popolo ebraico getterebbe volentieri una bomba atomica per arrivare alla soluzione finale alla pari di Hitler. Alla stupidità di Renzi preferisco la coerenza di Stefano Fassina, uno degli ultimi comunisti ancora in circolazione. Dice Fassina: voglio vedere se Il Giornale avrà il coraggio di pubblicare i diari di Anna Frank. Per noi non si tratta di coraggio, questo giornale è dalla parte di Anna nella storia e anche oggi, ma accetto volentieri il suggerimento e, compatibilmente con i problemi di diritti d'autore, farò il possibile perché ciò accada. Dal Mein Kampf al Diario di Anna Frank, dal male assoluto al sogno di libertà. Ma se mi permettono Renzi e Fassina, punterei alla trilogia. Un'ultima uscita con un libro che rivendichi il diritto di Israele a esistere senza essere quotidianamente minacciato e ferito dal terrorismo palestinese e dall'ostile e complice indifferenza di buona parte della sinistra occidentale. Perché altrimenti tutta questa levata di scudi è soltanto l'ennesima presa per i fondelli.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano dell’11 giugno 2016: vi dico perché ora rischia la galera mezza Italia. In Italia si può negare l'esistenza di dio, ma non si può dubitare della versione ufficiale di un fatto storico, anzi, di alcuni fatti storici, anzi, di uno in particolare. È questa l'obiezione insuperabile alla legge sul negazionismo approvata l'altro giorno (237 sì, 5 no, 102 astenuti) che beninteso, è una legge di ornamento, serve a farsi belli e ad accontentare una minoranza: ma siccome le leggi poi gravano sul groppone di tutti, eccoci qui a dimostrare come una norma-bandiera sia destinata a restare disapplicata o a produrre assurdità o, più probabilmente, a essere risvegliata solo quando si parla di Shoah. Nel dettaglio: la norma introduce la galera da 2 a 6 anni quando la propaganda e l'incitamento all' odio razziale si fondino «in tutto o in parte sulla negazione della Shoah o dei crimini di genocidio, crimini contro l'umanità e crimini di guerra». Già qui salta all' occhio il primo pasticcio: si citano «la Shoah o i crimini di genocidio» come se appartenessero a una classificazione storica diversa. Non è un caso che il principale promotore della legge sia stata l'Unione delle Comunità Ebraiche (ben decisa a separare eticamente "l'unicità" dell'Olocausto) e non è un caso neppure che la stessa Unione, nei suoi comunicati, abbia festeggiato la nuova legge citando solo la Shoah e nessun altro genocidio o crimine di guerra o contro l'umanità: e con ragione, perché il significato politico dell'operazione era indirizzato a loro. Il problema è che la legge, letta nero su bianco, poi vale per tutti: e sulla definizione dei genocidi (altri genocidi) fioccano disaccordi di ogni tipo e a tutti i livelli. È anche per questo che nel suo complicato iter (la norma ha fatto la navetta col Senato per 3 ben volte) gli storici e i politici di ogni schieramento hanno condiviso ogni perplessità per qualcosa che lascerà ai magistrati l'arbitrio di decidere che cosa sia reato e che cosa no; una "verità di Stato" che potrebbe vanificare ogni dibattito controverso. Studiosi di sinistra come Marcello Flores, direttore dell'Istituto storico della Resistenza e curatore della Storia della Shoah per Utet, per dire, su questo si è trovato d'accordo con Carlo Giovanardi o con Pietro Ichino: si rischia, dicono, un pasticcio infernale. Esempi? Centinaia. Dovremmo incriminare, in teoria, Recep Erdogan non appena mettesse piede sul suolo italiano, visto che da sempre si ostina a negare il genocidio degli armeni - riconosciuto dalle massime autorità europee e mondiali - e ha pure promosso delle leggi contro chi ne ammetta l'esistenza. A ruota potremmo mettere sotto indagine il governo Renzi, che nel marzo dell'anno scorso, attraverso il Ministero dei Beni culturali, eliminò la parola "genocidio" da una rassegna dedicata al popolo armeno. Inquisito anche l'ex ministro Franco Frattini, che in passato definì quel genocidio solo «un massacro». In ordine sparso: in galera chiunque metta in dubbio (o apra una discussione) sui crimini di guerra che l'esercito italiano commise tra il 1931 e il 1943 in Cirenaica ed Etiopia; al macero tutti i libri, anche serissimi, che nelle biblioteche negano quei crimini come fece anche Indro Montanelli con l'uso dei gas italiani in Etiopia. Dentro, poi, chiunque non consideri genocidio i fatti di Srebrenica (alcuni giuristi lo contestano) e incriminati anche quei tribunali di Buenos Aires che negarono lo status di genocidio alla repressione dei militari argentini. Nessun problema, invece, per quei manuali che ancor oggi giustificano o "contestualizzano" i milioni di morti dello Stalinismo: la definizione di genocidio, in quel caso, è ancora ufficiosa. Persino Giorgio Napolitano scrisse cose imbarazzanti sul ruolo di Solzenicyn durante l'intervento sovietico a Budapest nel 1956: ci sarebbe da approfondire. Piergiorgio Odifreddi, firma di Repubblica, paragonò l'esercito israeliano e le SS delle Ardeatine: ci sarebbe da approfondire anche qui. Il quotidiano Il Giornale, tra qualche giorno, allegherà una copia del Mein Kampf come documento storico: sarà incitamento? Istigazione? La portavoce del Commissariato Onu per i rifugiati, Carlotta Sami, ma anche Emma Bonino e Gad Lerner, in passato paragonarono lo sterminio pianificato degli ebrei al dramma degli immigrati nel Mediterraneo: fu un buon paragone? Non è che rischiano, ora? Un tempo si rischiava di dire cazzate e basta, ora si rischia che a valutarle sia un giudice. Senza contare l'esperienza di quei Paesi occidentali in cui le leggi anti-negazioniste sono state applicate: la copertura mediatica dei processi che ne sono scaturiti, spesso, ha finito per diventare una tribuna per la propaganda delle tesi che venivano perseguite, e che altrimenti sarebbero state ignorate dall' opinione pubblica. Leggi fallite, in sostanza: l'Italia si è accodata subito.

Renzi si indigna: «Un regalo squallido». Però i veri antisemiti stanno a sinistra. Il premier condanna l'iniziativa con un tweet ipocrita Ma il 25 aprile la Brigata ebraica fu cacciata dal corteo, scrive MMO, Domenica 12/06/2016, su "Il Giornale". «Trovo squallido che un quotidiano italiano regali oggi il Mein Kampf di Hitler. Il mio abbraccio affettuoso alla comunità ebraica. #maipiù». Così Matteo Renzi su Twitter va all'attacco del Giornale per la scelta di regalare il Mein Kampf con il primo volume della collana sulla storia del Terzo Reich. Ma il cinguettio del premier suona ipocrita, considerato che proprio nella sinistra italiana c'è un problema irrisolto - e difficilmente dichiarato - con l'antisemitismo, come testimoniano le puntuali quanto vergognose contestazioni della Brigata ebraica ai cortei del 25 aprile (salutati al grido di «assassini» e «fascisti» a Milano poco più di un mese fa), per dirne una.

Comunali, il Pd milanese punta sull’islamismo politico. Il PD milanese persiste fianco a fianco con gli islamisti: Pierfrancesco Majorino fotografato in questi giorni assieme a Sameh Meligy, legato ai Fratelli Musulmani, scrive Angelo Scarano, Domenica 12/06/2016, su "Il Giornale". Il PD milanese persiste fianco a fianco con gli islamisti. Non sono bastati i collegamenti messi in evidenza dai media durante la campagna per le Comunali tra la candidata Sumaya Abdel Qader e i Fratelli Musulmani, non sono bastate le sue dichiarazioni contraddittorie nei confronti dell’organizzazione islamista e nemmeno i post equivoci del marito, Abdallah Kabakebbji, nei confronti di Israele, definita “una truffa” e un “errore storico”. La rete che collega la candidata del PD e “confratelli” a ambienti come CAIM, Comitato Libertà e Democrazia per l’Egitto, Waqf al-Islami, Associazione Donne Musulmane d’Italia (Admi) e Alleanza Islamica, nonché a Fioe, Femyso. Sarà forse un caso che il presidente del Caim, Maher Kabakebbji, nonché suocero di Sumaya, è anche presidente del Caim e del Waqf al-Islami? Sarà un caso che Maher e il figlio Abdallah (marito di Sumaya) venivano ritratti in foto con Rachid Ghannouchi, leader storico dei Fratelli Musulmani tunisini? Sarà una coincidenza che Souhair Katkhouda, moglie di Maher Kabakebbji, è la presidentessa dell’Admi? Entrambi erano inoltre agli eventi organizzati in nord-Italia per inaugurare moschee finanziate dalla Qatar Charity. E che dire della foto che ritrae il padre di Sumaya Abdel Qader, nonché imam di Perugia, a un evento ufficiale mentre stringe la mano dell’ex presidente egiziano ed esponente dei Fratelli Musulmani, Mohamed Morsi? Guarda caso diversi esponenti del Caim erano stati fotografati e filmati a manifestazioni a favore di Morsi, tra cui Omar Jibril, legato al Comitato Libertà e Democrazia per l’Egitto (gruppo molto attivo con iniziative a favore di Morsi). Omar Jibril e Sumaya Abdel Qader venivano recentemente fotografati a una riunione proprio con il candidato sindaco PD, Beppe Sala. Al momento Beppe Sala si è limitato a dire, durante un confronto televisivo con Parisi, che gli elementi in questione non sono dei Fratelli Musulmani, ma non ha ancora fornito chiarimenti riguardo ai collegamenti più che evidenti messi in luce dai media, così come Sumaya Abdel Qader non si è vista granchè sui grandi schermi e non ha chiarito le sue posizioni nei confronti dei matrimoni gay, delle adozioni, della repressione messa in atto dal governo-regime di Erdogan nei confronti di intellettuali, giornalisti, membri dell’opposizione e curdi. Tutti temi che, almeno in teoria, dovrebbero essere cari alla sinistra. Non dimentichiamo inoltre che in piena campagna elettorale il PD si è visto costretto a ritirare la candidatura di Sameh Meligy, pronto a correre per la zona 4 di Milano e fotografato assieme a Beppe Sala. Le polemiche erano scoppiate in seguito a una sua foto scattata assieme al predicatore legato ai Fratelli Musulmani kuwaitiani, Tareq Suwaidan, al quale è stato recentemente vietato l’ingresso in Italia poiché dal 2014 sulla blacklist dell’area Schengen e la cui enciclopedia illustrata sugli ebrei è ben più pericolosa del Mein Kampf. Meligy era inoltre apparso anche lui a manifestazioni pro-Fratelli Musulmani egiziani assieme a membri del Caim. Le posizioni islamiste intransigenti di Meligy sono ben note. Nonostante ciò, l’assessore alle politiche sociali, Pierfrancesco Majorino, è stato fotografato in questi giorni assieme a Meligy durante i volantinaggi del PD a favore di Beppe Sala. Meligy che è inoltre amico di Usama Santawy, predicatore noto non soltanto pro-Fratelli Musulmani, ma legato anche a personaggi come Musa Cerantonio, predicatore italo-australiano apologeta dell’Isis. Tutto ciò mentre i principi del Qatar, paese notoriamente legato ai Fratelli Musulmani e accusato di supportare i jihadisti in Siria, venivano in Italia a incontrare il Papa e a inaugurare centri islamici. Nel frattempo a Milano, dal 3 al 5 giugno, veniva ospitato a una conferenza organizzata dalla European Muslim Network, Tariq Ramadan, esponente dell’Islam “europeo” ma anche nipote del fondatore dei Fratelli Musulmani, Hassan al-Banna. Non dimentichiamo che l’organizzazione dei Fratelli Musulmani è stata messa al bando in Russia, Egitto, Siria, Arabia Saudita ed Emirati Arabi mentre in Gran Bretagna Cameron aveva fatto aprire un’inchiesta per avere maggiori informazioni sull’organizzazione. Il braccio palestinese dei Fratelli Musulmani è niente meno che Hamas, che pochi giorni fa festeggiava l’attentato di Tel Aviv offrendo pasticcini agli incroci stradali di Gaza. Vista la delicata situazione internazionale, la presenza di elementi legati all’islamismo politico all’interno del PD andrebbe affrontata con le necessarie cautele. Gli elementi emersi non possono non far riflettere. Il PD milanese a questo punto deve fornire delle risposte immediate ed esaustive al riguardo che vadano oltre il “non sono dei Fratelli Musulmani”, visto che la questione è seria. Del resto essere dei Fratelli Musulmani in Italia non comporta reato, dunque, se non c’è nulla da temere, se non ci sono scheletri nell’armadio perché negare? Vale poi la pena considerare un elemento, musulmani e Fratelli Musulmani non sono sinonimi, dunque inglobare nel PD elementi legati a un’ideologia politica significa discriminare la maggior parte dei musulmani che credono e seguono una religione e non un’ideologia.

Nell'islam che noi tuteliamo non c'è spazio per la libertà. La strage in Florida mostra le nostre contraddizioni: difendiamo coloro che sottometteranno i nostri diritti, scrive Magdi Cristiano Allam, Lunedì 13/06/2016, su "Il Giornale".  Ecco quale sarà la sorte di noi italiani, noi europei, noi occidentali qualora sciaguratamente dovessimo essere sottomessi all'islam. A prescindere dal fatto che Omar Saddiqui Mateen, lo stragista del locale gay Pulse a Orlando, 29 anni, cittadino americano dalla nascita, di origine afghana, fosse o meno organico all'Isis o ad altre sigle del terrorismo islamico, è indubbio che la condanna a morte degli omosessuali corrisponda a ciò che Allah prescrive letteralmente e integralmente nel Corano, a ciò che ha detto e ha fatto Maometto, alla prassi nel corso di 1400 anni di storia dell'islam. A oggi tutti gli Stati islamici, nonostante abbiano formalmente sottoscritto la «Dichiarazione universale dei diritti umani», sanzionano in un modo o nell'altro l'omosessualità come reato, mentre la condanna a morte degli omosessuali è ufficialmente vigente in Iran, Arabia Saudita, Pakistan, Nigeria, Sudan, Somalia e Mauritania. Non è affatto casuale che gli omosessuali siano vittime predilette sia dei terroristi islamici, che li lanciano dai tetti di edifici alti e poi vengono lapidati a morte, sia di Stati islamici che noi occidentali consideriamo addirittura «moderati», che li impiccano ostentatamente nelle pubbliche piazze di fronte alle moschee dopo la preghiera collettiva del venerdì. Succede perché tutti i musulmani sono tenuti a sanzionare il rapporto anale definito «liwat», a prescindere dal sesso di chi lo subisce, dove l'omosessuale è indicato come «luti», dal nome di Lot, nipote di Abramo, che per l'islam è un profeta, salvato da Allah dopo aver distrutto Sodoma e Gomorra. Nel Corano (27, 55-58) si legge: «V'accosterete voi lussuriosamente agli uomini anziché alle donne? Siete certo un popolo ignorante! Ma la sola risposta del suo popolo fu: Scacciate la famiglia di Lot dalla vostra città, poiché son gente che voglion farsi passare per puri. E noi salvammo lui e la sua famiglia, eccetto sua moglie, che stabilimmo dovesse restare fra quelli che rimasero indietro. Su di essi facemmo piovere una pioggia: terribile è la pioggia che piove su chi fu ammonito invano!». Così come a Maometto viene attribuito il detto: «Se scoprite chi commette il peccato del popolo di Lot, uccidete chi lo compie e chi lo subisce». È pertanto paradossale che dentro casa nostra siano proprio i paladini più intransigenti dei diritti dell'uomo e persino gli stessi omosessuali, guarda caso quasi tutti schierati a sinistra, a mobilitarsi per la piena legittimazione dell'islam, per la proliferazione delle moschee e persino per la presenza di tribunali islamici che emettono sentenze sulla base della sharia che, in generale, disconosce i diritti fondamentali alla vita, alla dignità, alla libertà di tutti e, in particolare, condanna a morte gli omosessuali. Un caso emblematico è quello del presidente della Regione della Sicilia Rosario Crocetta, dichiaratamente omosessuale, che sta promuovendo la reislamizzazione della Sicilia, consentendo in particolare all'Arabia Saudita e al Qatar di investire decine di milioni di euro per la costruzione di nuove moschee. All'amico Crocetta ricordo che a oggi può professarsi orgogliosamente omosessuale solo perché per sua fortuna si trova su questa nostra sponda del Mediterraneo, dove vige una civiltà laica e liberale dalle radici cristiane, ma se malauguratamente anche da noi dovesse prevalere l'islam gli omosessuali farebbero la stessa fine delle vittime del locale gay di Orlando. Perché è l'islam che lo prescrive, a prescindere dal fatto se il carnefice è un individuo o uno Stato, un terrorista o un «moderato».

Come ebreo vorrei fosse studiato a scuola. Io vado a comprarne una copia. Mi serve per capire il Male. Proprio perché sono interessato al dramma della Shoah questo libro terribile non può mancare nella mia biblioteca, scrive Giampiero Mughini, Lunedì 13/06/2016, su "Il Giornale". Sto per andare alla mia edicola di viale Trastevere dove assieme alla consueta mazzetta di quotidiani comprerò il Mein Kampf di Adolf Hitler di cui Francesco Perfetti (uno dei migliori storici italiani del moderno) ha curato l'edizione per Il Giornale. No, è pericoloso per chi non ha senso critico. Proprio perché sono visceralmente e drammaticamente interessato alla Shoah in ogni sua sfumatura di storia e di personaggi e di tragedia apicale del Novecento, quel libro non può mancare alla mia biblioteca. Lo metterò nello scaffale che ho dedicato a quell'argomento, il più vicino alla sedia su cui lavoro nel mio studio. Gli staranno accanto il libro dello storico inglese Martin Gilbert sulla reticenza degli Alleati a reagire a quel che sapevano stava succedendo nel campo di Auschwitz e altri; il portentoso libro/intervista in cui Gitta Sereny dialogava con l'ex capo nazi di Treblinka; il libro di Hannah Arendt sul processo Eichmann; il libro einaudiano che pubblicava per intero la relazione d'accusa del procuratore generale israeliano contro Eichman; il libro di Robert Faurisson il capo dei «negazionisti» francesi che avevo comprato nella libreria parigina dove negli anni Sessanta aveva comprato una celeberrima rivista trotzchista su cui avevo fatto la tesi di laurea nel 1970. Accanto al libro forse il più sconvolgente di tutti, L'Album d'Auschwitz, il libro dov'erano le foto che un paio di SS di Auschwitz avevano scattato in tutta tranquillità (alla maniera dei selfie nostrani) a donne e uomini che a vagonate erano appena sbarcati ad Auschwitz e che avevano ancora poche ore di vita. Ne potrei elencare cento altri. Il Mein Kampf non lo avevo, e invece cimelio mostruoso com'è non deve mancare da una biblioteca come la mia. All'epoca in cui apparve e fino al momento in cui il popolo tedesco non inondò di voti Hitler, quel libraccio lo avevano letto in pochissimi. Era reputato lo sproloquio di uno squinternato che si stava facendo un po' di galera per avere tentato un (ridicolo) putsch contro la democrazia di Weimar. L'inumana potenza dei carri armati e dei caccia nazi rese quel programma attuabile. Un programma che in tanti avevano sottovalutato. Se una tale porcata a tal punto dilaga e diventa effettuale, come fai a non conoscerne i tratti? Purtroppo non conosco il tedesco e non sono ricco. Fosse dipeso da me avrei volentierissimo comprato l'esemplare della prima edizione che i bouquinistes della Senna hanno venduto una decina d'anni fa. Come non avere un cimelio dell'orrore di tale stazza? E del resto io da ragazzo li avevo comprati i quattro volumi degli Editori Riuniti con le opere complete di Stalin, altro pontefice dell'orrore assoluto. Un paio d'anni fa mi capitò tra le mani la prima edizione italiana del Mein Kampf, un'edizione Bompiani del 1942. Solo che era in cattive condizioni, e la mia anima da bibliofilo si rifiutò. Se la trovo in buone condizioni la compro subito. Un libro uscito quando erano in molti gli italiani anche colti che flirtavano con l'antisemitismo. Ricordatevi di Guido Piovene che aveva fatto un grande elogio del «razzista» all'italiana Telesio Interlandi (personaggio del resto interessantissimo su cui ho scritto 25 anni fa un libro meritorio). Leggere sapere conoscere capire. Più lo fai e meglio è. E poi vi ricordate la gran polemica se sì o no pubblicare i «comunicati» delle Br pur di fare rilasciare un magistrato che loro avevano rapito? Tutti a dire di no, che non bisognava dar loro una vetrina massmediatica. Si distinse in quell'occasione Riccardo Lombardi, uno dei maestri socialisti della mia giovinezza. Ma certo che vanno pubblicati, scrisse, a far vedere a tutti che razza di cretini e delinquenti sono i brigatisti. Quei loro comunicati e «risoluzioni» mi sono messo adesso a cercarli in antiquariato e a leggermeli a uno a uno. Da far accapponare la pelle a pensare che quegli idioti hanno costituito un allarme per la nostra democrazia. Buona lettura.

Forse stiamo diventando tutti nazisti..., scrive Rocco Buttiglione il 10 giugno 2016 su “Il Dubbio”. È di nuovo in circolazione in Italia l’opera fondamentale di A. Hitler Mein Kampf. Non so se essere contento o preoccupato per il fatto che è stato tolto il bando che dalla fine della seconda guerra mondiale gravava su questo libro. Quanto più si progredisce nella lettura tanto più ci si rende conto di quanto tutti noi siamo impregnati dello spirito del nazionalsocialismo, di quanto le categorie culturali del nostro tempo ricalchino quelle che stanno alla base della ideologia nazionalsocialista. Questa può essere l’occasione di un grande esame di coscienza dell’Europa che ci conduca a rivedere profondamente le categorie culturali con le quali pensiamo noi stessi. Oppure può essere l’occasione per accelerare la regressione nella barbarie che caratterizza tanta parte della cultura nella quale siamo immersi. In un certo senso molti di noi potrebbero scoprire con orrore (o con compiacimento?) che eravamo nazisti e non lo sapevamo. Iniziamo con la filosofia di Hitler. Quali sono i presupposti filosofici del nazionalsocialismo? Per prima cosa incontriamo l’evoluzionismo darwiniano elevato a concezione del mondo. Nella Germania di quegli anni queste idee erano nell’aria, soprattutto per opera di E. Haeckel. È appena il caso di osservare che lo scientismo evoluzionistico è anche una componente fondamentale del modo di pensare comune dei nostri giorni. Naturalmente qui la teoria scientifica di Darwin non c’entra, c’entra il fatto che nella mentalità comune essa si trasforma da scienza (che spiega un certo numero di fenomeni propri della biologia) in metafisica che spiega il mistero dell’essere ed in filosofia sociale che spiega il destino dell’uomo. Ma non è proprio in questo modo che essa viene presentata anche oggi alle grandi masse? Il darwinismo popolare genera, allora come adesso, una certa tenerezza verso gli animali ed un certo disprezzo per gli umani. Se siamo tutti parte di una vita cosmica che perennemente si evolve la differenza qualitativa fra l’uomo e gli animali si perde. Siamo autorizzati a trattare gli uomini come se fossero animali e gli animali come se fossero uomini. Se prendete un filosofo che adesso va molto di moda come Peter Singer ritroverete la stessa tenerezza verso gli animali e la stessa negazione della sacralità della vita umana. Oggi parlar male del darwinismo significa essere additati al pubblico disprezzo come difensori di un creazionismo dogmatico e antiscientifico. Nessuno difende la verità fondamentale contenuta nella vecchia idea di creazione: l’uomo ha una dignità che non è paragonabile a quella degli animali e che nessuno ha il diritto di violare. È proprio l’oblio di questa verità il punto di partenza del pensiero di Hitler. L’altro filosofo di Hitler è Nietzsche. Non voglio negare che Nietzsche sia un pensatore che ha molti lati, anche contraddittori fra di loro, e non voglio rendere Nietzsche responsabile del nazismo. È però indubitabile che Hitler costruisce in larga misura il suo pensiero su di uno dei lati del pensiero di Nietzsche. Non esiste una verità oggettiva a cui l’uomo debba obbedire. L’uomo crea lui stesso l’ordine del mondo a partire dalla propria volontà. Questa volontà, che è volontà di potenza e di vita, abita nell’inconscio della razza ed emerge in un individuo che le dà forma storica: la Guida (il Führer). Non esiste una ragione che conosca una legge morale che precede la volontà ed a cui la volontà si debba piegare. L’unica legge è quella della lotta a morte per l’affermazione di se (del proprio popolo). La ragione non ha il compito di indicare alla volontà i fini che devono guidarla ma quello di organizzare i mezzi che le permettono di sottomettere a se la realtà. I parallelismi con il postmodernismo attuale sono evidenti. Esiste (per il momento) una differenza: il postmodernismo attuale non tematizza il concetto di popolo e di inconscio collettivo ma in qualunque momento potrebbe cominciare a farlo. Comune al nazismo ed al postmodernismo è l’odio della legge che pone un limite alla volontà ed al desiderio. La legge è sempre un inganno che vuole mettere in catene la volontà. L’ebreo è la personificazione della legge mentre la libertà germanica è la sua negazione. Non la legge astratta ma il concreto rapporto di fedeltà che si stabilisce fra il Führer ed i suoi seguaci deve guidare il popolo. Qui c’è posto anche per un cristianesimo deebraicizzato (e deellenizzato) ridotto ad una malcompresa polemica di S. Paolo contro la legge ebraica che ricorda da vicino qualche corrente della teologia contemporanea. Il Cristo germanico abolisce la legge e le oppone il vincolo personale che unisce i discepoli attorno alla sua volontà che dà forma ad un mondo nuovo. Non ci vuole molto per arrivare a vedere nel Führer il continuatore di Gesù che completa la sua opera distruggendo il popolo ebraico. I Cristiani Tedeschi (die Deutschen Christen, corrente teologica protestante) qualche anno dopo la pubblicazione di Mein Kampf, questo passo lo fecero. Dove però emerge tutta la personale (diabolica) genialità di Hitler è nella sua teoria della politica. La teoria politica classica si struttura attorno alla idea di bene comune. Al centro della teoria politica di Hitler c’è l’identificazione del nemico. L’unità del popolo si struttura contro il nemico. Max Scheler (che non era nazista) aveva spiegato in quegli anni che la vita psichica si struttura attorno alle due passioni fondamentali dell’amore e dell’odio ed aveva messo in guardia contro la forza dell’invidia e del risentimento. In ogni società come in ogni individuo singolo esiste un fondo di risentimento che ci si sforza di neutralizzare al fine di rendere possibile un comportamento razionale e civilizzato. Per Hitler l’azione politica deve al contrario mobilitare il risentimento, dargli piena legittimazione, farne la guida dell’azione politica. Per sfruttare in pieno la forza del risentimento bisogna affermare che noi e solo noi siamo il popolo. I nazisti non sono un partito. La parola partito viene per quanto possibile evitata perché evoca la idea di parte e dà l’idea che anche altri partiti possano essere parti legittime del popolo. Meglio usare la parola movimento o, meglio ancora, popolo. I nazisti pretendono di essere la parte sana della nazione. Gli altri, gli oppositori, sono la parte malata che va sradicata e gettata nel fuoco. Con essi non si viene a patti, non si argomenta, non si riconosce loro diritto di parola. Non hanno una dignità umana che vada rispettata. L’unica relazione verso di loro è l’invettiva. Non bisogna preoccuparsi nella polemica politica della verità delle cose. Un’unica fondamentale verità sovrasta tutte le altre e le riassorbe in se stessa: il nemico è il nemico e deve morire. Non so se Grillo abbia letto Mein Kampf. Tendo a pensare di no. Se non lo ha letto allora ne ha riscoperto da solo i principi. Per la politica del risentimento il problema non è realizzare il bene comune ma distruggere l’avversario. Sarebbe ingeneroso però vedere in Grillo l’unico discepolo di Hitler nel nostro tempo. Sempre più il linguaggio e l’argomentazione politica si vanno strutturando intorno all’odio verso il nemico piuttosto che intorno alla proposta in positivo di un bene comune. Il tema è sempre: mandiamo a casa Renzi oppure mandiamo in galera Berlusconi. Per quale motivo, se a torto o a ragione, sulla base di quali argomenti e per fare poi che cosa sono considerazioni alle quali non si attribuisce alcuna importanza. Come libro Mein Kampf funziona. Ricorda l’opera di Wagner. Wagner anche lui ha molti lati e uno di questi lati certamente è stato usato da Hitler. L’opera d Wagner mette in scena archetipi fondamentali dello spirito umano, forze potenti che albergano nell’inconscio di ciascuno di noi. Il criterio di verità dell’opera è interno alla soggettività umana, nei personaggi e nella tensione fra di essi rivediamo noi stessi. Avviene la stessa cosa anche in Shakespeare. Pensate per un attimo al Mercante di Venezia ed al personaggio di Shylock, l’ebreo. Lo sentiamo vero e lo odiamo e lo disprezziamo per la sua crudeltà (e anche lo compiangiamo perché Shakespeare ci fa intuire che la sua malvagità è la conseguenza di sofferenze ed ingiustizie che egli stesso ha subito). Odiamo e disprezziamo in lui parti interne di noi stessi ma... Immaginate se rivolgessimo i sentimenti che il dramma suscita in noi non contro il nostro Shylock interno ma contro gli ebrei realmente esistenti trasformando la verità interna dell’opera d’arte in verità politica. Hitler proietta il male fuori di noi nel nemico e ci invita poi a distruggere il male distruggendo il nemico. La sua narrazione è coinvolgente sul piano della rappresentazione artistica ma diventa demoniaca se proiettata sulla realtà. È stato W. Benjamin a vedere nella “estetizzazione” della politica una delle caratteristiche fondamentali del nazismo. Anche qui è evidente la parentela con quello che sta accadendo sotto i nostri occhi. Gli stili si mescolano, il cabaret diventa politica, non vi sono più limiti all’iperbole, ciò che io sento vero (senza nessuna prova empirica) lo metto in scena come se fosse vero e la gente si perde in questa realtà virtuale fino a smarrire la capacità di valutare la situazione e le proposte politiche sul piano della realtà. Come ultima riflessione vorrei consegnare ai lettori un dubbio: non è che per caso siamo (o stiamo diventando) tutti nazisti senza saperlo?  

Siamo di fronte al libero pensiero unificato.

Tutto ciò è avvalorato da quanto scrive su “Il Giornale” Alessandro Gnocchi. Wikipedia come Mao: fa censura per cercare di riscrivere la storia. La popolare enciclopedia on line cancella gli interventi degli utenti che non si attengono alla "linea politica". «L’egemonia culturale è un concetto che descrive il dominio culturale di un gruppo o di una classe che “sia in grado di imporre ad altri gruppi, attraverso pratiche quotidiane e credenze condivise, i propri punti di vista fino alla loro interiorizzazione, creando i presupposti per un complesso sistema di controllo”». La definizione, con ampia citazione di Gramsci, è prelevata da Wikipedia, l’enciclopedia on line ormai egemone nel fornire informazioni a navigatori, studenti, giornalisti e perfino studiosi. Nel mondo di Wikipedia le gerarchie sono quasi inesistenti. Chiunque può contribuire a creare o modificare una voce. La garanzia dell’accuratezza poggia su una doppia convinzione: il sapere collettivo è superiore a quello individuale; la quantità, superata una certa soglia di informazioni, si trasforma in qualità. Molto discutibile, e non solo in linea di principio. Infatti in Wikipedia esiste un problema di manipolazione del consenso, in altre parole è attivo un «sistema di controllo» simil-gramsciano (in sedicesimo, si intende). Le posizioni faziose passano quindi per neutrali, e il collaboratore che obietta può andare incontro a sanzioni che vanno dalla sospensione alla radiazione. Di recente, ad esempio, è stato espulso Emanuele Mastrangelo, caporedattore di Storiainrete.com, sito specialistico, e autore di alcuni studi sul fascismo. La pena «all’utente problematico» è stata comminata, dopo processo non troppo regolare, per un «reato» d’opinione gravissimo: aver affermato che in Italia la fine della Seconda guerra mondiale assunse anche il carattere di una «guerra civile». Opinione, quest’ultima, largamente maggioritaria tra gli storici di ogni orientamento, salvo forse quelli che hanno ancora il mitragliatore del nonno sepolto in giardino. «Guerra civile», per Wikipedia.it, non merita neppure una voce a sé: l’espressione è citata di passaggio all’interno di «Resistenza». Stesso trattamento è riservato alle forze armate che rifiutarono di aderire alla Rsi, facendosi deportare dai tedeschi: un accenno e via. Quanto alle «esecuzioni post conflitto» operate dai partigiani, si sfiora il giustificazionismo. Il paragrafo è preceduto da una imparzialissima (si fa per dire) dichiarazione di Ermanno Gorrieri, sociologo attivo nella Resistenza: «I fascisti non hanno titolo per fare le vittime». E accompagnato da una precisazione imparzialissima (si fa per dire) di Luciano Lama: «Nessuno vuole giustificare i delitti del dopoguerra. Prima di giudicare però si deve sapere cosa accadde davvero. Una guerra qualunque può forse finire con il “cessate il fuoco”. Quella no». Ecco, questo si può dire, è super partes al contrario di «guerra civile», definizione «non enciclopedica» solo per caso usata da una tonnellata o due di studiosi e scrittori di sinistra da Pavone a Pansa. Di conseguenza, dopo qualche giorno di discussione on line, arriva la sentenza: «A un utente che è stato bloccato sei mesi e non ha ancora compreso che la comunità non tollera atteggiamenti di questo tipo, è il momento di dire basta. Con tanto dispiacere, ci mancherebbe, né ho “corda e sapone pronta da lunga pezza”». In effetti l’impiccagione sarebbe stato troppo anche per un revisionista come Mastrangelo. «Pertanto - prosegue il giudice - procedo a bloccare per un periodo infinito l’utente». Al di là di questo caso personale, sono parecchie le voci contestate per una certa parzialità. Da quella sulla malga di Porzûs (dove nel febbraio 1945 i partigiani comunisti massacrarono quelli cattolici dell’Osoppo) a quella sull’attentato di via Rasella, che i wikipediani preferiscono chiamare «attacco», piena di lacune, a esempio sulle polemiche scatenate dall’azione gappista anche all’interno del Pci e degli altri partiti del Comitato di Liberazione a Roma. Oggetto di accese discussioni anche Cefalonia, Pio XII, l’Olocausto, la religione cattolica in generale. Anche in voci meno calde come quelle inerenti il liberalismo, il libero mercato, il neoliberismo emerge nettamente una visione assai orientata contro il capitalismo. Nella voce dedicata all’economista Milton Friedman si legge addirittura un giudizio morale: «Pur ricordando che né Milton Friedman né José Piñera sono stati coinvolti con le torture ed i crimini commessi dal governo Pinochet, la loro correità morale non viene per questo diminuita di fronte alla gravità dei crimini commessi contro l’umanità». Non si direbbe una valutazione «enciclopedica». Il sapere «democratico» di Wikipedia sembra un aggiornamento digitale del maoismo.

Wikipedia «blocca» la Raggi: non ha rilevanza se non è eletta. Secondo le regole, i candidati hanno diritto ad una pagina solo se diventano sindaci, scrive Emanuele Buzzi l’11 giugno 2016 su “Il Corriere della Sera”. Volete consultare la pagina Wikipedia dedicata a Virginia Raggi? Allora qualche nozione di spagnolo, russo o tedesco potrebbe essere fondamentale. Infatti non esiste una voce italiana sulla candidata Cinque Stelle al Campidoglio. Un paradosso del web, contando che Raggi si è conquistata la ribalta sulla stampa di mezzo mondo: dalla Cina alla Russia, dagli Stati Uniti alla Francia. Molti altri candidati, invece, anche di città di molto meno popolose, sono presenti sulla enciclopedia web. Compreso Roberto Giachetti. Sulla Rete c’è chi ha protestato, parlando di «chiara violazione della par condicio e della libertà di informazione» e chiedendo la pubblicazione di una pagina apposita. «Se ne riparla eventualmente dopo il ballottaggio, a seconda del risultato — hanno replicato gli amministratori —. Prima, no. Per inciso: Wikipedia è una enciclopedia e non un servizio giornalistico e in quanto tale non è soggetta alla par condicio». E proprio dai paletti fissati dalla comunità che dà vita alle voci di Wikipedia nasce il paradosso che riguarda Raggi. «Le regole sulla presenza di esponenti politici su Wikipedia risalgono addirittura al 2008, quando l’enciclopedia cominciò a essere famosa e quindi c’era chi voleva sfruttarla a fini elettorali — spiega Maurizio Codogno, wikipediano di lunga data —. La comunità scelse di limitarsi a parlamentari nazionali e sindaci dei capoluoghi di provincia, pensando che i candidati sindaco non avessero rilevanza prima di venire eventualmente eletti. Dopo il 2013, con i casi di Pizzarotti a Parma e Accorinti a Messina, si fece una nuova discussione, ma il consenso finale fu di non cambiare le regole». In altre parole, per ora, Raggi non è politicamente rilevante secondo le norme vigenti per avere una propria pagina. E come lei anche, per citare altri casi, Lucia Borgonzoni (al ballottaggio a Bologna) o Chiara Appendino (a Torino). Lo scopo della comunità è duplice: evitare che la pagina dei candidati venga strumentalizzata durante la campagna elettorale.

Salvatore Aranzulla cancellato da Wikipedia. E lui replica: «Rosiconi». La cancellazione della voce sul noto blogger di informatica dall'enciclopedia online ha scatenato un dibattito e diviso la Rete sulle ragioni che portano alla rimozione, scrive Raffaella Cagnazzo l’11 giugno 2016 su “Il Corriere della Sera”. Un caso che ha aperto una discussione online, ma non solo. La voce Wikipedia su Salvatore Aranzulla è stata cancellata. Una citazione che riguarda uno dei divulgatori di consigli di informatica più conosciuti del web: il suo sito internet è tra i trenta più visitati d’Italia con oltre 400mila visite al giorno, su Facebook ha più di 340.000 follower, un fatturato che supera il milione di euro e chi cerca suggerimenti online su computer, internet e telefonia, difficilmente non si è imbattuto in un suo post. Cosa è successo. «Amici cari, vi dico solo che concorrenti di bassa lega e rosiconi stanno proponendo l’eliminazione della mia voce da Wikipedia» scriveva il 23 maggio scorso Aranzulla sulla sua pagina Facebook. E dopo una lunga discussione sulla piattaforma, la cancellazione è avvenuta. L'accusa mossa ad Aranzulla è di non essere un divulgatore scientifico, in sostanza i detrattori del blogger ritengono non risponda ai criteri di enciclopedicità necessari per essere presente sulla pagina di Wikipedia. Una delle tre ragioni che possono portare alla cancellazione di una voce dalla piattaforma di divulgazione in Rete (le altre sono la forma con cui è scritta una voce e il contenuto quando utile più al soggetto citato che ad un'informazione generale). Per la piattaforma di Wikipedia poco importa che il blogger sia una celebrità online, abbia scritto libri e sia considerato un esperto tanto da essere stato invitato più volte come ospite qualificato in trasmissioni nazionali. La replica di Aranzulla. «Abbiamo fatto scoppiare una bomba: più di 300.000 persone sono venute a conoscenza della cancellazione della mia pagina da Wikipedia. Ho ricevuto migliaia di messaggi di sostegno e centinaia di discussioni sono state avviate e sono in corso in Rete: da Facebook a Twitter, da Reddit a Linkedin. La comunità italiana di Wikipedia è di parte e il mio non è un caso isolato» commenta Aranzulla, spiegando che anche la pagina di Virginia Raggi, al ballottaggio per la poltrona di sindaco di Roma, è stata cancellata. La cancellazione, com'era inevitabile, ha scatenato un dibattito tra chi è un fervido sostenitore del blogger e lo considera un Guru del Web chi, invece, lo accusa di non avere competenze specifiche e di non aver mai programmato. Ma la questione sconfina oltre il singolo caso di Salvatore Aranzulla e apre una disputa sulla scelta delle voci attive su Wikipedia, le cui regole e linee guida sono state stabilite prima del 2004, e dove sono presenti le voci su tronisti di Uomini e Donne, Veline, e più in generale vari personaggi appartenenti alla cultura popolare. Chi è il blogger Aranzulla. Dal suo blog, Salvatore Aranzulla si definisce un divulgatore informatico, con più di 15.000 copie di libri venduti, autore del sito Aranzulla.it, uno dei 30 più visitati in Italia. Offre indicazioni pratiche con post in cui spiega «Come trasformare un Pdf in Jpg» o «Come filmare lo schermo del Pc», «Come cancellare la cronologia di Google» o ancora «Come connettersi ad una rete wireless»: argomenti di uso comune con cui, chi usa la tecnologia, si confronta tutti i giorni.

Wikipedia e la censura su Antonio Giangrande, le sue opere e le sue attività, scrive “Oggi” il 19 luglio 2012. Wikipedia, secondo la presentazione contenuta sulla sua home page web, è un’enciclopedia online, collaborativa e gratuita. Disponibile in 280 lingue, Wikipedia affronta sia gli argomenti tipici delle enciclopedie tradizionali sia quelli presenti in almanacchi, dizionari geografici e pubblicazioni specialistiche. Wikipedia, a suo dire, è liberamente modificabile: chiunque può contribuire alle voci esistenti o crearne di nuove. Ogni contenuto è pubblicato sotto licenza Creative Commons CC BY-SA e può pertanto essere copiato e riutilizzato adottando la medesima licenza. La comunità di Wikipedia in lingua italiana è composta da 771.190 utenti registrati, dei quali 8.511 hanno contribuito con almeno una modifica nell’ultimo mese e 105 hanno un ruolo di servizio. Gli utenti costituiscono una comunità collaborativa, in cui tutti i membri, grazie anche ai progetti tematici e ai rispettivi luoghi di discussione, coordinano i propri sforzi nella redazione delle voci. Quello che non si dice di Wikipedia, però, è che, pur lagnandosi essa stessa del pericolo della censura, i suoi utenti con ruolo di servizio svolgono proprio un’attività censoria. Non tutti i contenuti inseriti, nuovi o di rettifica, sono pubblicati sulla cosiddetta enciclopedia libera. Wikipedia ha una serie di regole e di linee guida per la pubblicazione, ma poi ti accorgi che sono puri accorgimenti per censurare contenuti e personaggi non aggradi all’utente di turno con mansioni di servizio. Censura dovuta ad ignoranza o mala fede. Un esempio: provate a cercare Antonio Giangrande pur avendo 200 mila risultati sui motori di ricerca (siti web che parlano di lui), o cercate i suoi 100 libri, o Associazione Contro Tutte le Mafie. Non troverete nessuna pagina a loro dedicata, e si potrebbe capire non reputandoli degni di attenzione, ma non troverete anche alcun riferimento a contenuti attinenti ed esistenti ed inclusi in altre pagine. Per esempio, alla voce mafia tra le associazioni antimafia non vi è l’Associazione Contro Tutte le Mafie. Addirittura hanno tolto il riferimento bibliografico al libro con il titolo “Sarah Scazzi, il delitto di Avetrana. Il resoconto di un Avetranese”, scritto da Antonio Giangrande e da tempo inserito alla pagina “Il Delitto di Avetrana”. Ognuno, comunque, può verificare da sé con i propri contenuti. Alla fine ti accorgi che, mancando alcune opere, fatti, personaggi o contenuti nuovi o di rettifica, dovuti al fatto perché vi è impedimento al loro inserimento, Wikipedia proprio un’enciclopedia libera non è.

E poi c'è la massa di frustrati. Il 9 giugno 2016 mi trovo sulla mia pagina Facebook la richiesta di amicizia di un tipo insignificante a da me ignorato. Attingo le sue informazioni: libero pensatore (?) di Milano e con pochi amici. Confermo la richiesta. Facebook lo impedisce. Cerco di eliminarla, idem. Dopo un paio di giorni vedo citato il mio nome a sua firma in un blog sconosciuto. E leggo quanto su di me racconta. Il tipo, sicuramente, lo fa con un certo astio, non avendo letto alcun mio libro. Oppure, avendo letto quello su Milano, ne sia rimasto risentito.  “Lenzuolate. Cercando informazioni sul sempreverde Paglia, al secolo Giancarlo Pagliarini mi sono imbattuto in codesto personaggio, tal Antonio Giangrande. Uno che le mitiche lenzoluate di Uriel Fanelli sono termini delle elementari. Un grafomane assoluto come non ne avevo mai visti. Nu tipo tutto d’un pezzo. Uno che tiene ‘na caterva di siti. Insomma una specie di professionista della neNuNZia civil/penale. Uno che – parole sue: Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, calunnia o pazzia le accuse le provo con inchieste testuali tematiche e territoriali. Per chi non ha voglia di leggere ci sono i filmati tematici sul 1° canale, sul 2° canale, sul 3° canale Youtube. Non sono propalazioni o convinzioni personali. Le fonti autorevoli sono indicate. Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d’informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l’uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. Gli ingredienti del complottista ci sono tutti:

è convinto che gli altri lo taccino di mitomania, calunnie o pazzie (oh, por ninin)

si ritiene ingiustamente maltrattato (oh, pora stela)

ritiene di essere perseguitato per la sua azione “meritoria”. Infatti:

i media lo censurano (oh, por ninin)

le istituzioni lo perseguitano (oh, pora stela)

ma chicca delle chicche, questa missione superiore oh, poffartopo,

gli impedisce di lavorare!

Dico, ma quello che fa a casa mia si chiama “giornalismo”. Tant’è vero che vende i suoi libri su Amazon, su Google libri, e perfino su Lulu o su Create Space. È talmente preso dal bisogno morboso e patologico di scrivere, di dire al mondo che è tutto un’ingiustizia che non si rende nemmeno conto che forse a strillare così come un ossesso sembra davvero fuori di cotenna. Poi capisco la foga di dire al mondo la notizia. Ma diamine scrive come se parlasse alla radio! E ne sà, ma quante ne sà. In lungo e in largo, su ogni tema e su ogni zona di codesto infame paese E son tutti cattivi con lui: non lo sfiora neanche per un attimo che forse è proprio il suo atteggiamento che lo rende poco credibile. Ma no, lui ci ha la CiuSDiZia nelle vene.

Giusto per non farsi mancare niente, leggete come si descrive – in inglese:

THE ASSOCIATION AGAINST ALL THE MAFIAS

INTRODUCES

THE RELATION OF THE JUSTICE IN ITALY

President: Antonio Giangrande been born in Avetrana in the 2nd June 1963.

Professions: entrepreneur, private investigator, lawyer.

he emigrated in Germany when he had 16 years, because he was poor.

today, in Italy, for the threats and the attacks of the Mafia, he is unemployed.

today, in Italy, for the irregular examinations, he is unemployed.

The President with the degree is unemployed.

His wife is unemployed.

His son with the 2 degrees is unemployed.

His daughter with the diploma is unemployed.

They are unemployed because they fight the Mafia.

The judges do not punish the Mafia.

In Italy the environment is polluted;

In Italy the administrators publics do not respect the law;

In Italy the insurance agencies do not respect the law;

In Italy the lawyers do not respect the law;

In Italy the banks do not respect the law;

In Italy all the examinations are irregular, wins who is more cunning.

In Italy the authorities ignore the disabled, the prisoner, the unemployed, the poor people.

In Italy the judges do not respect the law;

In Italy the police does not respect the law;

In Italy the authority does not respect the law;

In Italy the authority misuses its power.

In Italy the authority says to the citizen: you undergo and be quiet!

The Italian citizen is silent.

You can translate the complete relation. It is in Italian.

Nessuno è onesto, son tutti disonesti, farabutti ecceterì ecceterà. Ma se è così un campione di superiore intelligenza….. perché non è andato all’estero a far faville? Mistero….Personalmente io sono una mezza sega, ma almeno sò di esserlo… codesto è il genio dei farlocchi incompresi. O meglio, sembra esserne convinto…”.

Non aspiro al consenso assoluto, comunque grazie per la pubblicità. Oscar Wilde diceva “Bene o male, purchè se ne parli…” Il detto «Nel bene o nel male, purché se ne parli» (e simili) parafrasa un brano de Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde (1890): “... ma attirare l'attenzione delle persone su di te ha due risvolti: il primo è che se non sei indifferente ad esse, e che quindi parlano, anche male, di te, vuol dire che comunque esisti; ma quando a parlare male di te sono persone disperate, derise dal resto del mondo e che passeranno su di esso senza lasciare alcuna traccia, allora è proprio triste...E ancora, se l'unica cosa che meriterebbero queste "persone" sarebbe un Oscar, se ne esistesse uno per la capacità di fingere, per la falsità con cui gestiscono i rapporti anche tra loro, allora è ancora più triste. Il mio errore più grande è stato quello di adeguarmi a frequentare "esseri" i cui neuroni sono pochi e purtroppo anche stanchi... e per adeguarmi intendo dire che ho accettato i loro limiti intellettivi, umani, culturali e sono passato sopra alle cose anche gravi che hanno fatto... così, perchè ho deciso di adottare la filosofia secondo la quale tutti siamo diversi... per intelletto, umanità e cultura... E quando mi sono sentito chiedere: "Come fai a stare con certa gente?" ho risposto che le persone è necessario conoscerle prima di giudicarle. Il problema è che io mi faccio conoscere come sono, ma spesso mi illudo di conoscere chi mi sta intorno. Forse sottovaluto ciò di cui possono essere capaci...Non avevo idea di come potesse essere cattiva la gente, o meglio, non pensavo di poterlo provare sulla pelle, di essere io l'oggetto della cattiveria di qualcuno/a... e mentre mettevo in guardia le persone a cui tengo di più, non mi accorgevo che dovevo stare anche io in guardia....La cosa che questi esseri (scusate ma non so proprio come definirli) non capiscono è che mentre cercano di rovinare la tua reputazione, dispensando giudizi negativi e gratuiti su di te, non si accorgono che la loro è già compromessa, o forse sono solo consapevoli che se si concentrano sui tuoi difetti non vedono i propri... Tu comunque non vieni intaccato, perchè ciò che dicono rimane nel loro piccolo mondo di cacca che si sono costruiti, e fuori da quel mondo di cacca tu sei apprezzato e rispettato, intrecci rapporti lavorativi, sociali, interagisci con persone diverse, mentre loro suscitano ilarità, disprezzo o peggio ancora indifferenza...Ecco perchè dopo tutto ciò non sono deluso, o triste, ma provo solo pietà... perchè io so, e sapevo, di tutta questa ilarità, disprezzo e indifferenza... la leggevo negli occhi di quelle stesse persone alle quali oggi gli esseri dispensano giudizi negativi e gratuiti su di me...Che falsità, che ipocrisia...Finchè nella tua vita non fai niente di "speciale", niente che possa suscitare l'invidia delle persone, passi inosservato, e nessuno si sente in diritto di giudicarti... ma quando eccelli in qualcosa, quando volente o nolente "ti fai notare" allora sei fottuto... e cosa ancora più grave proprio da chi ti diceva - Ma come sei bravo, diventerai un bravo ing., ecc.! . Giuda almeno ci ha guadagnato 30 denari con un bacio...L'importante è avere la stima delle persone a cui tieni di più: la tua famiglia, gli Amici veri, e perchè no, la gente con cui lavori... ma soprattutto il tuo orgoglio, il resto è niente... un tassello da aggiungere ad un puzzle, un pezzo che vorresti perdere ma che comunque fa parte del quadro, e senza mancherebbe sempre qualcosa, ci sarebbe un vuoto. Ben vengano le critiche allora, gli sguardi invidiosi, le maldicenze... sono prove a cui la vita ci sottopone, e ne usciamo più forti. Ci sono due tipi di "invidia": quella "malata", che porta molti a credere che per avere successo bisogna affondare chi è meglio o credi sia meglio di te, e quella "sana" che porta a migliorarti, perchè sai che tu puoi essere meglio di come sei ... che ti stimola a perfezionarti, perchè è così che si ottiene il successo. Purtroppo, come la gramigna, la prima è più diffusa, è insita nella natura umana, e propria di chi non vuole far fatica a mettere a prova sè stesso... è più facile distruggere chi rappresenta una minaccia...Rappresento una minaccia per qualcuno? non so, può darsi. Suscito invidia? Forse... ma non penso che qualcuno riesca a distruggermi.”

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!

Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.

Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013. 

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.

Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...

Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa". 

Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.

La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.

Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.

Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.

Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.

Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.

Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.

Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.

Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.

E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.

Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.

E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.

Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.

Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.

Ergo. Ai miei figli ho insegnato:

Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;

Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;

Le banche vi vogliono falliti;

La burocrazia vi vuole sottomessi;

La giustizia vi vuole prigionieri;

Siete nati originali…non morite fotocopia.

Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere. 

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo? 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.

Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.

Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite. 

Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

La “mediocrazia” ci ha travolti, così i mediocri hanno preso il potere, scrive Angelo Mincuzzi il 19 giugno 2016 su L’urlo del “Il Sole 24ore”. Una «rivoluzione anestetizzante» si è compiuta silenziosamente sotto i nostri occhi ma noi non ce ne siamo quasi accorti: la “mediocrazia” ci ha travolti. I mediocri sono entrati nella stanza dei bottoni e ci spingono a essere come loro, un po’ come gli alieni del film di Don Siegel “L’invasione degli ultracorpi”. Ricordate? “Mediocrazia” è il titolo dell’ultimo libro del filosofo canadese Alain Deneault, docente di scienze politiche all’università di Montreal. Il lavoro (“La Mediocratie”, Lux Editeur) non è stato ancora tradotto in italiano ma meriterebbe di esserlo se non altro per il dibattito che ha saputo suscitare in Canada e in Francia. Deneault ha il pregio di dire le cose chiaramente: «Non c’è stata nessuna presa della Bastiglia – scrive all’inizio del libro -, niente di comparabile all’incendio del Reichstag e l’incrociatore Aurora non ha ancora sparato nessun colpo di cannone. Tuttavia, l’assalto è stato già lanciato ed è stato coronato dal successo: i mediocri hanno preso il potere». Già, a ben vedere di esempi sotto i nostri occhi ne abbiamo ogni giorno. Ma perché i mediocri hanno preso il potere? Come ci sono riusciti? Insomma, come siamo arrivati a questo punto? Quella che Deneault chiama la «rivoluzione anestetizzante» è l’atteggiamento che ci conduce a posizionarci sempre al centro, anzi all’«estremo centro» dice il filosofo canadese. Mai disturbare e soprattutto mai far nulla che possa mettere in discussione l’ordine economico e sociale. Tutto deve essere standardizzato. La “media” è diventata la norma, la “mediocrità” è stata eletta a modello. Essere mediocri, spiega Deneault, non vuol dire essere incompetenti. Anzi, è vero il contrario. Il sistema incoraggia l’ascesa di individui mediamente competenti a discapito dei supercompetenti e degli incompetenti. Questi ultimi per ovvi motivi (sono inefficienti), i primi perché rischiano di mettere in discussione il sistema e le sue convenzioni. Ma comunque, il mediocre deve essere un esperto. Deve avere una competenza utile ma che non rimetta in discussione i fondamenti ideologici del sistema. Lo spirito critico deve essere limitato e ristretto all’interno di specifici confini perché se così non fosse potrebbe rappresentare un pericolo. Il mediocre, insomma, spiega il filosofo canadese, deve «giocare il gioco». Ma cosa significa? Giocare il gioco vuol dire accettare i comportamenti informali, piccoli compromessi che servono a raggiungere obiettivi di breve termine, significa sottomettersi a regole sottaciute, spesso chiudendo gli occhi. Giocare il gioco, racconta Deneault, vuol dire acconsentire a non citare un determinato nome in un rapporto, a essere generici su uno specifico aspetto, a non menzionarne altri. Si tratta, in definitiva, di attuare dei comportamenti che non sono obbligatori ma che marcano un rapporto di lealtà verso qualcuno o verso una rete o una specifica cordata. È in questo modo che si saldano le relazioni informali, che si fornisce la prova di essere “affidabili”, di collocarsi sempre su quella linea mediana che non genera rischi destabilizzanti. «Piegarsi in maniera ossequiosa a delle regole stabilite al solo fine di un posizionamento sullo scacchiere sociale» è l’obiettivo del mediocre. Verrebbe da dire che la caratteristica principale della mediocrità sia il conformismo, un po’ come per il piccolo borghese Marcello Clerici, protagonista del romanzo di Alberto Moravia, “Il conformista”. Comportamenti che servono a sottolineare l’appartenenza a un contesto che lascia ai più forti un grande potere decisionale. Alla fine dei conti, si tratta di atteggiamenti che tendono a generare istituzioni corrotte. E la corruzione arriva al suo culmine quando gli individui che la praticano non si accorgono più di esserlo. All’origine della mediocrità c’è – secondo Deneault (nella foto qui sopra) – la morte stessa della politica, sostituita dalla “governance”. Un successo costruito da Margaret Thatcher negli anni 80 e sviluppato via via negli anni successivi fino a oggi. In un sistema caratterizzato dalla governance – sostiene l’autore del libro – l’azione politica è ridotta alla gestione, a ciò che nei manuali di management viene chiamato “problem solving”. Cioé alla ricerca di una soluzione immediata a un problema immediato, cosa che esclude alla base qualsiasi riflessione di lungo termine fondata su principi e su una visione politica discussa e condivisa pubblicamente. In un regime di governance siamo ridotti a piccoli osservatori obbedienti, incatenati a una identica visione del mondo con un’unica prospettiva, quella del liberismo. La governance è in definitiva – sostiene Deneault – una forma di gestione neoliberale dello stato, caratterizzata dalla deregolamentazione, dalle privatizzazioni dei servizi pubblici e dall’adattamento delle istituzioni ai bisogni delle imprese. Dalla politica siamo scivolati verso un sistema (quello della governance) che tendiamo a confondere con la democrazia. Anche la terminologia cambia: i pazienti di un ospedale non si chiamano più pazienti, i lettori di una biblioteca non sono più lettori. Tutti diventato “clienti”, tutti sono consumatori. E dunque non c’è da stupirsi se il centro domina il pensiero politico. Le differenze tra i candidati a una carica elettiva tendono a scomparire, anche se all’apparenza si cerca di differenziarle. Anche la semantica viene piegata alla mediocrità: misure equilibrate, giuste misure, compromesso. È quello che Denault definisce con un equilibrismo grammaticale «l’estremo centro». Un tempo, noi italiani eravamo abituati alle “convergenze parallele”. Questa volta, però, l’estremo centro non corrisponde al punto mediano sull’asse destra-sinistra ma coincide con la scomparsa di quell’asse a vantaggio di un unico approccio e di un’unica logica. La mediocrità rende mediocri, spiega Denault. Una ragione di più per interrompere questo circolo perverso. Non è facile, ammette il filosofo canadese. E cita Robert Musil, autore de “L’uomo senza qualità”: «Se dal di dentro la stupidità non assomigliasse tanto al talento, al punto da poter essere scambiata con esso, se dall’esterno non potesse apparire come progresso, genio, speranza o miglioramento, nessuno vorrebbe essere stupido e la stupidità non esisterebbe». Senza scomodare Musil, viene in mente il racconto di fantascienza di Philip Klass, “Null-P”, pubblicato nel 1951 con lo pseudonimo di William Tenn. In un mondo distrutto dai conflitti nucleari, un individuo i cui parametri corrispondono esattamente alla media della popolazione, George Abnego, viene accolto come un profeta: è il perfetto uomo medio. Abnego viene eletto presidente degli Stati Uniti e dopo di lui i suoi discendenti, che diventano i leader del mondo intero. Con il passare del tempo gli uomini diventano sempre più standardizzati. L’homo abnegus, dal nome di George Abnego, sostituisce l’homo sapiens. L’umanità regredisce tecnologicamente finché, dopo un quarto di milione di anni, gli uomini finiscono per essere addomesticati da una specie evoluta di cani che li impiegano nel loro sport preferito: il recupero di bastoni e oggetti. Nascono gli uomini da riporto. Fantascienza, certo. Ma per evitare un futuro di cui faremmo volentieri a meno, Deneault indica una strada che parte dai piccoli passi quotidiani: resistere alle piccole tentazioni e dire no. Non occuperò quella funzione, non accetterò quella promozione, rifiuterò quel gesto di riconoscenza per non farmi lentamente avvelenare. Resistere per uscire dalla mediocrità non è certo semplice. Ma forse vale la pena di tentare.

PARLIAMO DI RACCOMANDAZIONI NEI CONCORSI PUBBLICI E NELLE ABILITAZIONI DI STATO.

Pavia, supera il test ma lo annullano perché è difficile. Concorso da rifare. Alla selezione per un posto nell’Asl si sfidano in 64. L’unica idonea non viene presa: «Prova troppo complessa, da rifare». Lei fa ricorso: si vuole favorire qualcuno, scrive Luigi Ferrarella il 24 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". Troppo brava per essere assunta, così la prossima volta impara a rispondere esattamente alle domande «troppo difficili». Su 64 candidati è l’unica giudicata «idonea» dalle prove d’esame per un posto di coadiutore amministrativo da assegnare al Dipartimento Prevenzione Veterinaria, quindi vince il concorso pubblico bandito dall’azienda sanitaria locale di Pavia: ma non viene assunta perché appunto l’«Azienda Tutela Salute» pavese annulla il concorso, e ordina di farne uno nuovo, con il surreale e postumo argomento che le domande sarebbero state «viziate» da «eccessiva complessità». Michael Young, il sociologo britannico di matrice laburista autore nel 1958 del manifesto «L’avvento della meritocrazia», si rivolterebbe nella tomba a vedere la chirurgica precisione burocratica con la quale 52 pagine di un decreto dell’Ats di Pavia sembrano incaricarsi di dimostrare plasticamente che meritocrazia continua a essere solo una parola della quale riempirsi la bocca ai convegni. In aprile l’azienda sanitaria di Pavia bandisce un concorso per un ruolo amministrativo nel settore veterinario. Gli ammessi alla graduatoria sono 64, e svolgono l’esame (con «idoneità» fissata a 6 punti su un massimo di 9) in tre convocazioni il 16-17-18 maggio, rispondendo a tre blocchi di domande. All’esito della procedura di selezione, la Commissione d’esame dichiara «idonea» una sola candidata, la 39enne D.C., con 8 punti. C’era un posto da coprire, c’è una persona selezionata per assumere quel ruolo, sembrerebbe tutto semplice. E invece no. In un trionfo burocratico di cinque «visto che», tre «richiamato che», quattro «preso atto che», un «esaminato», un «acquisiti» i pareri dei direttori sanitario-amministrativo-sociosanitario, e due «ritenuto che», ecco che «a tutela dell’interesse pubblico» un decreto del direttore generale stabilisce «necessario procedere all’annullamento in autotutela degli atti endoprocedimentali», e dispone «il rinnovo della fase valutativa della procedura nei confronti» di tutti i «candidati presenti alle tre convocazioni» di maggio: «al fine da un lato di assicurare il superamento del vizio rilevato, e dall’altro di garantire il rispetto del principio di conservazione degli atti giuridici e di divieto di aggravamento del procedimento». E quale sarebbe il grave «vizio rilevato» che imporrebbe l’annullamento del concorso? Dubbi di esami truccati? Errori nelle tracce? Irregolarità tra i Commissari? Macché. Si annulla tutto perché «le domande formulate dalla Commissione esaminatrice nell’ambito delle tre convocazioni non rispettano, in termini di eccessiva complessità, le indicazioni del bando per quanto attiene alle prove di idoneità in esso contenute, con conseguente violazione della lex specialis che il bando medesimo costituisce». Ma cosa veniva chiesto di così tremendo? A occhio e croce cose non esattamente da Premio Nobel, ma quesiti (rispettivamente da 2 minuti di risposta, 5 minuti e 5 minuti) su conoscenze basilari per un operatore amministrativo nel settore veterinario. E cioè elementi essenziali di anagrafe zootecnica (come il codice allevamento, documenti di trasporto, registro di carico e scarico); saper utilizzare Word per inviare alcuni tipi di lettere di contestazione di contributi evasi; e saper usare Excel per predisporre un elenco di aziende con suini e avicoli, da inviare ai vari veterinari per i controlli. «Ma quale tutela dell’interesse pubblico», obiettano gli avvocati Valeria Sergi e Stefano Nespor che ora faranno ricorso al Tar per conto della ragazza: «La tutela dell’interesse pubblico consiste nell’attribuire il posto a concorso al candidato più meritevole, l’unico che ha ottenuto l’idoneità», anzi in teoria «risultato ancor più meritorio tenuto conto della (pretesa) “eccessiva complessità” delle prove. Al contrario, la decisione assunta non tutela alcun interesse pubblico, ma semmai l’interesse di candidati palesemente non meritevoli di provare nuovamente a ottenere il posto a disposizione (e non c’è dubbio che qualcuno di questi riuscirà, con le nuove prove, a ottenerlo). Senza contare che il costo di una nuova selezione graverà sull’Azienda e, quindi, sui contribuenti».

Il nepotismo a Cinque Stelle. Eliminare una classe dirigente considerata in larga misura corrotta, collusa e inadeguata è il primo passo se davvero si vogliono cambiare le cose. Ma sostituirla con le fidanzate, i figli o i congiunti dei colleghi di partito non ci sembra il modo migliore, scrive Sergio Rizzo il 5 luglio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Nelle ricostruzioni delle mappe del potere grillino in questi giorni successivi alle amministrative prevale la caratteristica familiare. Lunghissimo e sorprendente risulta l’elenco di consiglieri, assessori, presidenti di circoscrizione e presunti loro collaboratori che hanno fra di loro vincoli di parentela, senza dire dei rapporti coniugali o equipollenti. Succede nelle migliori famiglie politiche, si sa. E spesso sono gli stessi esponenti del Movimento 5 stelle a stigmatizzare (giustamente, aggiungiamo) la commistione fra relazioni parentali e amministrative, come nel recente caso del figlio del governatore della Campania, Vincenzo De Luca, quando si è profilato il suo approdo alla giunta comunale salernitana con un importante incarico. A maggior ragione, quindi, la straordinaria rete di relazioni familiari in quella che ormai è una vera e propria nomenclatura grillina non può non suscitare qualche riflessione. La prima è la già mancanza di una classe dirigente, conseguenza in parte della rapidità con cui il Movimento si è affermato, ma anche della inesistenza di palestre dove formarla (la rete a questo serve a poco). Carenza che costringe a curiosi ripescaggi di figure anche piuttosto usurate nei ruoli tecnici, e in mancanza di alternative può innescare la suggestione di ricorrere alle uniche persone di cui ci si può fidare, in un clima di generale diffidenza verso tutto ciò che non è il Movimento. E chi se non i familiari, che magari condividono pure la medesima fede politica. Ma indipendentemente, temiamo, da capacità e competenze. Chi fa l’esame al marito per stabilire se è adatto a fare il capo di gabinetto della moglie? Eliminare una classe dirigente considerata in larga misura corrotta, collusa e inadeguata è il primo passo se davvero si vogliono cambiare le cose. Ma sostituirla con le fidanzate, i figli o i congiunti dei colleghi di partito non ci sembra il modo migliore. Anche con le migliori intenzioni si chiama sempre allo stesso modo: nepotismo.

I veleni romani dei Cinque Stelle. La battaglia per i posti di potere. Tra i dirigenti del Movimento c’è chi vuole mettere sotto controllo la sindaca e il suo «raggio magico». E nelle scelte chiave non manca il familismo, scrive Alessandro Trocino l’1 luglio 2016 su “Il Corriere della Sera”. «Tutto bene», giura una nota ufficiale, «basta gossip, stiamo lavorando per voi». Eppure volano i coltelli in una guerra tra quelli che, se si parlasse di Pd, verrebbero definitivi «capibastone» e «correnti». Invece siamo tra i 5 Stelle. Epicentro del terremoto, Roma. Qui Virginia Raggi, trionfatrice alle urne, stenta a far nascere la giunta, anche a causa di risentimenti e invidie. Tra i dirigenti nazionali c’è chi vuole mettere sotto tutela la neosindaca e il suo «raggio magico». Ad aumentare entropia e tensione, le accuse di dossieraggi, il malumore crescente dei senatori e lo sconcerto di molti per la deriva familistica del MoVimento, dove amori, amicizie e poltrone sono sempre più intrecciati in un circolo non proprio virtuoso. I fronti son ben definiti. Da una parte c’è Virginia Raggi, sostenuta da Alessandro Di Battista. Dall’altra, le deputate romane mandate ad aiutare (e controllare) il sindaco, Paola Taverna e Roberta Lombardi, che appoggiavano lo sfidante della Raggi, Marcello De Vito. Punto di riferimento nazionale nel direttivo, Luigi Di Maio. La Raggi ha potuto fare poco in questi primi giorni, ma quel poco ha subito innervosito: le nomine di Daniele Frongia a capo di gabinetto «dimezzato» (causa legge Severino) e del vice Raffaele Marra. Siccome la purezza in politica è arte astratta, sono venuti fuori (grazie a una «manina» interna, dicono i rumors) precedenti imbarazzanti per l’ortodossia a 5 Stelle: Marra ha collaborato con Gianni Alemanno e Renata Polverini; Frongia, rivela Andrea Augello, fu collaboratore della giunta Storace. Di Maio minimizza: «Chi ha dimostrato competenze dia una mano». Poi definisce «fumettesche», con ardito neologismo, le indiscrezioni della stampa. Ma che ci sia una guerra di potere è palese. La Raggi vuole mani libere. Per questo vorrebbe nominare portavoce il fedelissimo Augusto Rubei. Non è dello stesso parere la Comunicazione a 5 Stelle, che vorrebbe un suo uomo all’Avana. La Lombardi, intanto, infiamma le chat interne, mettendo in dubbio la qualità delle scelte e chiedendo assessori fedeli. A dispetto dei tanto sbandierati metodi meritocratici, i 5 Stelle sin dalla nascita sono endogamici. Un gruppo apparentemente aperto, nel quale dilaga il familismo. Nel pacchetto che doveva portare De Vito a diventare vice (diventerà, forse, capogruppo), è prevista la nomina della moglie Giovanna Tadonio a mini assessore al terzo municipio. Nello staff romano potrebbe entrare Francesco Silvestri, ex collaboratore del senatore Giovanni Endrizzi ed ex fidanzato di Ilaria Loquenzi, capo comunicazione alla Camera. La Loquenzi fu portata dalla Lombardi. I casi di coppie sono molti: Di Maio-Virgulti, Nesci-Nuti, Giordano-Mantero, Taverna-Vignaroli. Così come i casi di parenti e amici assunti come collaboratori. Barbara Lezzi aveva assunto la figlia del suo compagno, Libera. Wilma Moronese ha preso come collaboratore il compagno. Il senatore Andra Cioffi ha assunto Alessandra Manzin, fidanzata di Paolo Adamo, dei social network del Senato. Una Parentopoli? La senatrice Paola Nugnes, un giorno disse: «Quando scegliamo il nostro esercito, i soldati devono essere fedeli». I risultati non sono sempre all’altezza delle aspettative. Molte fedeltà sono crollate e gli ex sono avvelenati. L’ex capo della Comunicazione Claudio Messora ha rilanciato un articolo che immagina un inedito asse di Di Maio con i poteri forti, Mario Monti e la Trilateral (è seguita denuncia M5S). Serenella Fucksia spiega: «Con Gianroberto Casaleggio c’era un’umanità che non c’è più. Ora c’è una deriva di ragazzetti senza un minimo di etica e di idealità, gente arida. Dovevano combattere la casta, la stanno solo sostituendo». Vero o falso, il clima peggiora e i senatori friggono. Persino ortodossi come Vito Crimi e Nicola Morra sono irritati. La mozione dei senatori che chiede l’uscita dalla Nato è stata ampiamente rimaneggiata dai deputati, provocando gravi malumori. Intanto, la giunta è ferma. Qualcuno già teme un «effetto Pizzarotti», con una presa di distanza del Movimento dalla Raggi (e viceversa), sul modello di quello che è accaduto a Parma. Scenario decisamente infausto, ma soprattutto prematuro. Per ora siamo alle schermaglie. E alle mani avanti del deputato Danilo Toninelli: «Sicuramente commetteremo errori, ma saranno in buona fede».

Mogli assessori e figliastri portaborse: dilaga la Parentopoli a Cinque Stelle. De Vito “ricompensato”: la consorte verso il Terzo Municipio. Così deputati e senatori sono riusciti a sistemare i famigliari, scrive Ilario Lombardo il 2 luglio 2016 su “La Stampa”. «Quando scegliamo il nostro esercito, i soldati devono essere fedeli». La massima degna di Sun Tzu è di Paola Nugnes, senatrice con le 5 Stelle cucite sul petto. E quale fedeltà migliore di chi è sempre al tuo fianco, amico, parente, compagno? Il M5S è un po’ famiglia, un po’ clan, un po’ due cuori e una capanna. C’è chi sotto il vessillo di Beppe Grillo si è dato il primo bacio, chi ha trasformato la passione di coppia in passione politica.

Mogli, mariti, figli e fidanzati Scoppia la parentopoli grillina. Ecco tutti gli intrecci del Movimento, scrive Daniele Di Mario il 5 luglio 2016 su “Il Tempo”. Lotta tra capibastone, guerra fra correnti, incarichi e ruoli per mogli, fidanzati, amici. Il MoVimento 5 Stelle vince, si struttura, diventa partito insomma. E dei partiti mutua tutto, ma proprio tutto. Comprese lotte intestine e «parentopoli». Dietro le difficolta della seindaca di Roma Virginia Raggi di comporre la giunta si celano, infatti, i dissidi tra correnti. Da un lato Alessandro Di Battista, sponsor della Raggi, dall’altra Roberta Lombardi e Paola Taverna, controllori della sindaca e vicine a Marcello De Vito. Ma sulle relazioni pericolose che inciampa il MoVimento 5 Stelle. Dietro la nomina - poi revocata - di Daniele Frongia a capo di gabinetto c’è il forte legame personale tra l’ex consigliere comunale e la Raggi. Così come nei Municipi i legami familiari abbondano. Giovanna Tadonio, moglie di De Vito, è infatti in predicato di entrare come assessore alla Legalità nella giunta del Municipio III guidata dalla minisindaca Roberta Capoccioni. Nell’esecutivo VII Municipio (Appio-Cinecittà) ha invece trovato casa Veronica Mammi, fidanzata del consigliere comunale Enrico Stefano e già assistente della parlamentare grillina Federica Daga: la presidente Lozzi l’ha scelta per occuparsi di Politiche sociali. Insomma, nonostante Il Tempo abbia rivelato quanto i Municipi pesino sul bilancio comunale i presidenti del M5S non sembrano diversi da quelli degli altri partiti. Anzi. Un caso curioso poi è rappresentato dall’VIII Municipio (Garbatella-Montagnola). Il minisindaco Pace sta attingendo alla mailing list pentastellata per varare la propria giunta. Tra gli eletti in Consiglio municipale, intanto, spuntano fuori rapporti di parentela di ogni tipo. Nel parlamentino di via Benedetto Croce hanno infatti ottenuto uno scranno Teresa Leonardi (40 preferenze) ed Eleonora Chisena (91 voti), madre e figlia. Ma c’è gloria anche per Giuseppe Morazzano (41 preferenze) e Luca Morazzano (34 voti), padre e figlio. Delle due l’una: o la passione pentastellata è un affare di famiglia e coinvolge generazioni diverse o la difficoltà di chiudere le liste ha messo a dura prova la fantasia dei vertici grillini. Ma il familismo travalica i confini del Grande raccordo anulare e arriva anche in provincia. Per la precisione a Genzano, Comune dei Castelli Romani dove i pentastellati si sono imposti alle ultime amministrative, come del resto a Marino, Nettuno e Anguillara. In Consiglio comunale a Genzano sono stati eletti Elena Mercuri e Luigi Nasoni, moglie e marito che hanno approfittato alla grande della doppia preferenza di genere. Entra in Comune genzanese anche Daniela Fattori, sorella dell’omonima senatrice pentastellata. Insomma, nel MoVimento 5 Stelle il familismo dilaga. Nello staff romano potrebbe entrare Francesco Silvestri, ex collaboratore del senatore Giovanni Endrizzi ed ex fidanzato di Ilaria Loquenzi, capo comunicazione alla Camera. La Loquenzi fu portata dalla Lombardi. I casi di coppie, del resto, sono molti: Di Maio-Virgulti, Nesci-Nuti, Giordano-Mantero, Taverna-Vignaroli. Così come i casi di parenti e amici assunti come collaboratori. Barbara Lezzi aveva assunto la figlia del suo compagno, Libera. Wilma Moronese ha preso come collaboratore il compagno Giuseppe Rondelli. Il senatore Andra Cioffi ha assunto Alessandra Manzin, fidanzata di Paolo Adamo, uomo della Casaleggio e assistente in Senato di Rocco Casalino, con delega ai social network. I risultati non sembrano però sempre all’altezza delle aspettative. Anche perché quando i rapporti finiscono vengono a galla i veleni. L’ex capo della comunicazione Claudio Messora ha rilanciato un articolo che immagina un inedito asse di Di Maio con i poteri forti, Mario Monti e la Trilateral. Attacco al quale è seguita una denuncia del MoVimento 5 Stelle. Serenella Fucksia, come riportato qualche giorno fa dal Corriere della Sera, spiega: «Con Gianroberto Casaleggio c’era un’umanità che non c’è più. Ora c’è una deriva di ragazzetti senza un minimo di etica e di idealità, gente arida. Dovevano combattere la casta, la stanno solo sostituendo». Insomma, il clima all’interno del non partito che è cresciuto diventando partito vero e proprio, con tutti i suoi difetti, peggiora di giorno in giorno. Secondo alcune indiscrezioni giornalistiche a essere irritati sarebbero anche i grillini di più stretta osservanza, come Vito Crimi e Nicola Morra. Tra litigi e malumori, intanto la giunta Raggi è ancora in alto mare. E le prime nomine effettuate dalla sindaca di Roma - Daniele Frongia e Raffaele Marra - bloccate dal minidirettorio e da Beppe Grillo in persona, che hanno imposto alla Raggi di revocarle.

Tutto questo per dimostrare che la raccomandazione è bipartizan.

SAGHE FAMILIARI. Alfano, Pizza, Boschi e gli altri "fratelli di". Con l'inchiesta romana Labirinto siamo all'apoteosi: il fratello di Pizza che si vanta di aver fatto assumere il fratello di Angelino. Ma nell'enciclopedia del "tengo famiglia", il capitolo è lungo. E spesso dolente, scrive Susanna Turco il 6 luglio 2016 su “L’Espresso”. L’ultimo giro è in fondo un raddoppio da capogiro: Raffaele, fratello dell’ex sottosegretario e proprietario del simbolo Dc Giuseppe Pizza, che si vanta al telefono di aver fatto assumere alle Poste Alessandro, il fratello del ministro Alfano. Roba quasi da scomodare i doppi di Borges. L’altro Pizza. L’altro Alfano. E così, complice l’ultima inchiesta romana su appalti e tangenti, spunta nel pacco delle intercettazioni l’annosa categoria dei fratelli. Meno frequente per la verità nella grande enciclopedia dell’italico “tengo famiglia”, un capitolo minore. Forse però più dolente. Perché poi se dietro ogni “figlio di” vi è necessariamente un padre (o una madre), insomma un sistema francamente piramidale, nel caso dei fratelli vi è spesso qualcosa di obtorto, concorrente, al limite ostile. Parallelo forse, paritario quasi mai. Insomma, senza tirare in ballo Romolo e Remo: c’è ne è di solito uno solo che la spunta. “Mio fratello Raffaele? Ovviamente lo conosco, ma non c’è mai stata una grande comunanza fra noi. E raramente passo per il suo ufficio”, spiega ad ogni buon conto, a Repubblica, l’ex sottosegretario di Berlusconi Giuseppe Pizza, che comunque è indagato (il fratello è in galera). Mentre Alfano, prontissimo a difendere il padre dal fango (“barbarie, è malato”, ma “quell’uomo lo conosco bene perché è mio padre”), di Alessandro dice poco o niente: mentre la Stampa lo chiama “il fratello scomodo”, ne ricorda la laurea a 44 anni e qualche pasticcio, Angelino si limita a protestare per le intercettazioni “usate a fini politici”, che “non riguardano me, bensì terze e quarte persone. Persone che non vedo e non sento da anni”. Per carità: non alluderà mica anche al fratello? Perché poi anche questo, può accadere. “L’ultima volta che ci siamo visti è stato sette anni fa, e la volta prima altri sei”, disse una volta il dantista Vittorio Sermonti, parlando addolorato di suo fratello maggiore Rutilio: “Ma non abbiamo mai veramente litigato. Semplicemente non ne potevo più di sentire le stesse stupidaggini”. Insomma lo spettacolo davvero raro è quello di assistere al cuore oltre l’ostacolo che mostrò una volta Alberto Dell’Utri, fratello gemello di Marcello, in Publitalia dal 1983, nel giorno in cui questi tornò dal Libano per scontare la condanna definitiva: “La condanna? Una assoluta ingiustizia”; il “tentativo di fuga? Erano solo congetture, mi sembra che non fosse vero niente. Impossibile che fosse una fuga. Conosco mio fratello”. Rari anche gli slanci come quello che ebbe nel 2012 il sindaco leghista di Arona, Alberto Gusmeroli, determinato a nominare assessore il fratello Marco, prima di scoprire che, ahilui, la legge lo impedisce: “Mi dispiace proprio”. Più spesso, c’è un fratello più in ombra che va in scia di quello in luce. Volente o nolente, con benefici o senza: perché poi un vantaggio vero è a volte da dimostrare. Mentre per dire Emanuele, fratello della ministra Boschi, faceva la gavetta in banca insieme al padre, Pier Francesco Boschi, il minore, è stato così bravo da trovare lavoro a 27 anni, grazie a curriculum e laurea, nella cooperativa muratori e cementisti di Ravenna. E se il fratello della presidente Laura Boldrini, Andrea, pittore professionista, è riuscito ad avere una personale al Maxxi di Roma, si è dovuto però pure beccare una serie di articolacci dalla stampa di centrodestra. E il fratello minore di Beatrice Lorenzin, Lorenzo, poliziotto al Reparto mobile, che cura il collegio elettorale della sorella (Ostia e Acilia), è costretto da un paio d’anni a smentire la notizia di far parte della Direzione dell’Ncd: se pure ci è stato, ora comunque non più. A volte il fratello sostiene e così si fa strada: Claudio de Magistris, fratello di Luigi, si è trasformato nel giro di sette anni da organizzatore di eventi a spin doctor del sindaco di Napoli e ora avrà un ruolo nel suo movimento politico. In altri, tira giù: come nella vicenda giudiziaria che ha coinvolto in Emilia i fratelli Errani, costando a Vasco la poltrona di governatore.  In alcuni casi, ma rari, è il fratello a superare il fratello: Fulvio Martusciello, prima di diventare il volto (e le preferenze) di una lunga stagione di Forza Italia in Campania, era il “fratello piccolo di Antonio”, dirigente di Publitalia, colui che lo spinse in campo. E chissà come andrà il futuro a Silvio Cuffaro: col fratello ex governatore Totò in carcere, si è fatto rieleggere sindaco a Raffadali, provincia di Agrigento, sia pure per soli otto voti di scarto. Pur sempre un inizio.

La rete di potere intorno ad Angelino Alfano. Tra moglie e avvocati, giro d'affari da capogiro. Incarichi pubblici, posti di potere nelle banche, cattedre universitarie e le immancabili consulenze. Da Andrea Gemma ai fratelli Clarizia, passando per la consorte del ministro dell'Interno, ecco i nomi e cognomi degli angeli di Angelino, scrive Emiliano Fittipaldi il 16 aprile 2015 su “L’Espresso”. Frank Cavallo, il "facilitatore" di Maurizio Lupi arrestato un mese fa per corruzione, conosce Andrea Gemma solo di fama. Sa che è un avvocato romano, che insegna all’università, che è vicinissimo ad Angelino Alfano. Ma sa pure che è l’uomo giusto per risolvere certi problemi. Così, quando un suo amico imprenditore si vede recapitare un’interdittiva antimafia dalla prefettura di Udine e gli confida che ha scelto Gemma per difendersi, Cavallo telefona al giovane avvocato per sollecitarlo: «Professore, volevo dirti che hai nelle mani le palle di Claudio De Eccher», ironizza lo scorso luglio Frank col legale, senza sapere di essere intercettato dai pm di Firenze. «Frank! Io ti ringrazio della tua raccomandazione affettuosa, del tuo, come dire, consiglio...», risponde Andrea. «Perché noi non ci conosciamo tanto bene, ma ho sempre trovato in te un atteggiamento di grande benevolenza, simpatia, disponibilità nei miei confronti». La fiducia di Frank è ben riposta: in 35 giorni Gemma risolve il casino, e ottiene dal Tar del Friuli una sentenza che sospende l’interdittiva antimafia e critica pesantemente la decisione del prefetto. Un trionfo per lui e per De Eccher, a cui però viene un mezzo infarto tre mesi dopo, quando riceve la parcella del suo nuovo legale: 650 mila euro. «Frank! E che madonna! Sto’ Gemma è un delinquente! Una roba allucinante Frank! Cioè, io in 40 anni non ho mai visto una roba del genere! Persona pessima eh... pessima!». L’imprenditore forse non conosce il mercato: i servigi dei “Mr Wolf”, soprattutto di quelli bravi, costano caro. E Andrea Gemma non è certo un avvocato qualsiasi, ma la punta di diamante di una rete di potere gigantesca, una lobby compatta e sconosciuta che ha nel ministro Angelino Alfano uno dei suoi cardini principali, e nei professionisti Renato e Angelo Clarizia due incursori fenomenali. Un gruppo i cui interessi spaziano da incarichi pubblici da centinaia di migliaia di euro a cattedre di importanti università, dal business delle curatele fallimentari alle poltrone di cda di partecipate come Eni. In un intreccio di rapporti professionali e amicali, di scambi e di favori, che coinvolgono non solo banchieri e avvocati, ma anche il ministro dell’Interno e sua moglie Tiziana Miceli. Andiamo con ordine, partendo dall’inizio. Spulciando vecchie carte dell’università di Palermo, si disegna il profilo di un’amicizia antica. «Andrea Gemma sta ad Alfano come Marco Carrai sta a Matteo Renzi», raccontano dalla Sicilia. In realtà, se la coppia di Firenze s’è conosciuta ai tempi dei boyscout, l’avvocato e il ministro dell’Interno si sono incontrati dopo la laurea in giurisprudenza, che il primo ha preso alla Luiss di Roma e il secondo alla Cattolica di Milano. Entrambi figli d’arte (Angelino è il rampollo di un notabile della Dc di Agrigento, Gemma di Sergio, avvocato con studio avviatissimo nella Capitale), le loro strade si incrociano grazie a Salvatore “Savino” Mazzamuto e alla professoressa Rosalba Alessi, due mammasantissima di diritto privato a Palermo. È falso, come hanno scritto alcuni giornali, che Gemma avesse conosciuto Alfano perché suo tutor ai tempi dell’università. Ma è certo che nel 1998 - nonostante i tanti impegni politici (al tempo Angelino era presidente del gruppo di Forza Italia all’Assemblea regionale siciliana) - il futuro segretario di Ncd riesce a trovare il tempo per vincere un dottorato in “Diritto d’impresa”, tenuto proprio dalla Alessi. I due ragazzi di belle speranze si conoscono allora (Gemma e Mazzamuto scriveranno due libri insieme) e si piacciono subito. Moderati ma ambiziosi, scrivono qualche articolo su “Europa e diritto privato” (rivista diretta da Mazzamuto, la Alessi è nel comitato scientifico) e promettono di non lasciarsi più. Finora nessuno dei due ha tradito il giuramento. Se Angelino scala rapidamente posizioni in Forza Italia e diventa prima ministro poi delfino «senza quid» di Berlusconi, Andrea alla politica preferisce gli affari e la carriera accademica. Leggenda vuole che Gemma sia un ragazzo prodigio che s’è fatto da solo. In realtà il talento è ereditato dal padre Sergio, un professionista assai affermato negli ambienti che contano della Città eterna, liquidatore di decine di aziende, ex consigliere di amministrazione della Banca del Mezzogiorno e della Unicredit Medio Credito, sindaco e presidente di collegi sindacali di aziende pubbliche come Equitalia Giustizia, Trenitalia, Fs Logistica e Sogin. Un curriculum sterminato, a cui nell’ottobre 2011 aggiunge anche l’incarico di commissario straordinario della Banca commerciale di San Marino. Sul Monte Titano Gemma senior viene chiamato da due vecchi amici, il professore Renato Clarizia, ordinario di diritto privato all’Università Roma Tre e presidente della Banca centrale della piccola Repubblica, e da Mario Giannini, braccio destro di Clarizia e fratello di Giancarlo, l’ex potente presidente dell’Isvap. Quella a San Marino per Gemma sarà un’esperienza sfortunata: si dimetterà infatti dopo nemmeno due mesi di lavoro; ufficialmente per «motivi personali», in realtà perché travolto da uno scandalo finanziario di cui - ancora oggi - non sono chiari i contorni. È un fatto che Gemma nel dicembre 2011, nonostante sulla banca gravasse un regime di blocco dei pagamenti, autorizzò un bonifico da oltre un milione di euro verso la Finanziaria Infrastrutture, gestita dall’ex segretaria di Giancarlo Galan Claudia Minutillo. Le polemiche investirono in pieno anche Clarizia, ma il prof è ancora saldo al suo posto. Di poltrone, in realtà, Clarizia ne ha due. Quella in banca e quella dietro la cattedra all’ateneo Roma Tre, università in cui Gemma junior è diventato ricercatore nel 2003. Clarizia, inoltre, è anche il segretario della commissione d’esame che l’8 novembre 2013 gli ha assegnato una nuova, prestigiosa cattedra da associato in diritto privato a Roma Tre. “L’Espresso” ha letto il verbale della procedura, scoprendo che al bando dell’ateneo ha fatto domanda un solo candidato. A chi piace vincere facile? Ma a Gemma, naturalmente, che da un anno e mezzo somma la nuova docenza e quella ottenuta nel 2006 all’Università di Palermo. Andrea conosce assai bene non solo il suo mentore Renato Clarizia, ma anche il fratello Angelo, altro avvocato di fama con origini salernitane. Da anni i due professionisti lavorano a braccetto, e da poco hanno anche vinto (con un raggruppamento temporaneo d’impresa) l’importantissima gara per i servizi legali dell’Expo da 630 mila euro. Un colpaccio, solo l’ultimo di una lunga serie: leggendo un’ordinanza del Tar Lazio della fine 2011, infatti, risulta che Angelo Clarizia ha ottenuto consulenze legali pure per la Valtur, di cui Gemma era diventato commissario straordinario qualche settimana prima. E quando Andrea, lo scorso 3 febbraio, non è potuto andare a difendere il partito di Alfano (da una recente sentenza del Consiglio di Stato risulta che Gemma difende anche l’Ncd), ha mandato proprio il socio d’affari Angelo a rappresentare gli interessi del Nuovo centro destra. Ma non è tutto. Spulciando una deliberazione del comune di Lacco Ameno, a Ischia, si scopre che con lo studio di Angelo Clarizia ha lavorato anche la moglie di Alfano, l’avvocato Tiziana Miceli: i due fino al 2014 hanno infatti curato gli interessi di una società (la Serit) di cui Gemma è commissario straordinario. «L’avvocato Miceli tiene a precisare che l’unica consulenza da lei svolta a favore di una pubblica amministrazione, ad oggi, è quella ricevuta dall’assessore alla Sanità della Regione Sicilia nel 2003-2004», si legge in una richiesta di risarcimento danni mandata a “l’Espresso” tre anni fa. In realtà - come dimostrano alcune carte del Tar Sicilia - la moglie di Angelino ha difeso altri enti pubblici, come il comune di Casteltermini, un’azienda ospedaliera di Palermo, l’Istituto autonomo Case popolari di Palermo (guidato fino al 2001 dal forzista Diego Cammarata) e la provincia di Agrigento, incarico assegnatole nel 2006 quando il presidente era Vincenzo Fontana, attualmente deputato regionale in Sicilia dell’Ncd. Oggi la Miceli è titolare di uno studio romano poco conosciuto (la “RM Associati”, con sede a Piazza Navona), che non ha un sito internet e non ama farsi pubblicità sul web. Nella RM, oltre a Tiziana, c’è un altro avvocato di Angelino, Fabio Roscioli. Dopo gli incarichi in Sicilia sembra che le cose stiano andando bene anche nella capitale: non solo nel 2010 Tiziana ha guadagnato 229 mila euro (la moglie del ministro dell’Interno ha dato il consenso per pubblicare la dichiarazione dei redditi solo quell’anno), “l’Espresso” ha scoperto che la Miceli tra fine 2014 e inizio 2015 s’è aggiudicata dalla Consap (la concessionaria dei servizi assicurativi pubblici controllata dal ministero dell’Economia) ben cinque consulenze nuove di zecca. Gli importi, si legge nelle determine firmate dall’amministratore delegato Mauro Masi (ex dg della Rai in quota berlusconiana) «saranno quantificati all’esito delle attività». Speriamo, per le casse pubbliche, non siano troppo alti. Intanto Andrea, una volta guadagnata la cattedra e puntellata l’alleanza con i Clarizia, comincia a darsi da fare anche con il suo studio legale. Come il padre ha buone entrature nel settore pubblico: così, giovanissimo, nel 2008, il capo dell’Isvap Giancarlo Giannini (poi indagato per corruzione nell’affaire Ligresti) lo nomina commissario liquidatore di Alpi Assicurazioni, incarico a cui ne seguiranno una mezza dozzina. Alfano, diventato Guardasigilli, lo chiama pure al ministero della Giustizia a fare «il soggetto attuatore giuridico del Piano Carceri», ovviamente a cachet. Ma il legale con la faccia d’angelo deve alla politica anche un’altra poltrona di peso: il 18 ottobre 2011 il ministro del Pdl Paolo Romani decide di promuoverlo come commissario straordinario della Valtur, azienda stritolata dalla crisi e dalle vicende giudiziarie della famiglia Patti. La nomina sembra quantomeno inopportuna: il papà di Gemma, Sergio, era stato infatti presidente del collegio sindacale del colosso dei Patti tra il 1999 e il 2002. Per la cronaca Alfano - diventato segretario del Pdl qualche settimana prima della nomina dell’amico - ad agosto 2011 aveva trascorso le vacanze proprio in un villaggio Valtur della Grecia, godendo di uno sconto di 3.500 euro. Grazie, sostenne qualcuno, all’amicizia con i Patti. «Alfano non ha intrattenuto nessun rapporto con Carmelo Patti sebbene lo abbia conosciuto», spiegò furioso il suo avvocato Roscioli, oggi socio della moglie. «In occasione di alcuni soggiorni ha semplicemente conseguito sconti previsti da catalogo o normalmente praticati a personaggi pubblici». Gemma e Angelino sono tipi che vanno dritti per la loro strada. Così nel 2013 Andrea per volontà dell’ex prefetto di Palermo Giuseppe Caruso (nominato nel 2010 dal governo Berlusconi e poi diventato direttore dell’Agenzia dei beni confiscati alla mafia) diventa pure commissario dell’Immobiliare Strasburgo, un colosso che gestisce le proprietà (valgono centinaia di milioni) confiscate ai boss della famiglia Piazza. Passano pochi mesi, e Alfano mette il fedelissimo nella lista dei consiglieri della più importante azienda pubblica del paese, l’Eni, con un compenso da 80 mila euro lordi l’anno più bonus (che per il 2014 si avvicinano ai 50 mila euro). Angelino è uno che non si dimentica mai degli amici che stima. Così il professor Mazzamuto, antiche (e scolorite) simpatie di sinistra, trasferitosi anche lui all’Università Roma Tre, nel 2008 diventa consigliere personale del ministro della Giustizia. Arrivato Mario Monti a Palazzo Chigi, Angelino riesce a sponsorizzarlo addirittura come sottosegretario alla Giustizia (alcuni ricordano ancora quando si prese i fischi della Camera per essere intervenuto parlando con le mani in tasca), mentre nel 2013 - quando Alfano è vicepremier del governo Letta - lo convoca come suo «consigliere giuridico» con un bonus (recitano i documenti ufficiali) da 50 mila euro l’anno. Oggi Mazzamuto è passato all’Interno, dove ha ottenuto l’ennesimo incarico come «consigliere per le politiche della formazione». Stavolta, pare, a titolo gratuito. Anche la Alessi (che Stefania Giannini ha incontrato qualche giorno fa per discutere del pasticcio dell’abilitazione nazionale di diritto privato, «mi ha dato solo un suo parere», spiega il titolare dell’Istruzione) grazie a qualche succoso incarico pubblico è riuscita ad arrotondare il suo stipendio accademico: nel lontano 1999 la professoressa fu nominata dall’allora assessore all’Industria della Regione Sicilia Giuseppe Castiglione (al tempo vicino all’Udeur, oggi braccio destro di Alfano in Sicilia e sottosegretario dell’Ncd sotto inchiesta) come commissario liquidatore di vecchi carrozzoni improduttivi, tra cui l’Ente minerario siciliano e l’Ente siciliano per la promozione industriale. Sono passati 15 anni, ma le società e Alessi sono ancora lì: facendo i conti della serva (sappiamo che nel 2006 prendeva 44 mila euro per ogni ente, scesi nel 2012 a 33 mila), la prof di Angelino ha incassato circa un milione in tre lustri. Non male davvero, per due società morte che nessuno sembra voler seppellire.

Consulenze pubbliche alla moglie di Alfano. E l'avvocato del ministro vince l'appalto Expo. Mauro Masi, l'ex dg Rai a capo della Consap, ha girato almeno cinque incarichi a Tiziana Miceli, la consorte di Angelino. Andrea Gemma, avvocato dell'Ncd e fedelissimo di Alfano piazzato all'Eni, ha vinto un bando da 630 mila euro. Ecco la rete di interessi del titolare dell'Interno. Che replica: "Mistificazioni". Ma non smentisce, scrive Emiliano Fittipaldi il 16 aprile 2015 su “L’Espresso”. Che Angelino Alfano sia un ministro miracolato (dal caso dell'espulsione illegittima della dissidente Alma Shalabayeva alle manganellate della polizia agli operai delle acciaierie di Terni, in due anni appena il Parlamento ha già votato - e respinto - due richieste di dimissioni) è cosa nota. Meno nota, invece, è la rete di "relazioni pericolose" del titolare dell'Interno, e l'intreccio di interessi politici e economici che "L'Espresso" è in grado di raccontare per la prima volta. Partendo dalla moglie del ministro dell'Interno Angelino Alfano, Tiziana Miceli, che ha appena avuto cinque consulenze dalla Consap, la concessionaria dei servizi assicurativi pubblici controllata dal ministero dell'Economia che fornisce servizi al ministero dell'Interno e a quello dello Sviluppo Economico. In una dichiarazione firmata il 24 febbraio 2014 la Miceli dichiara di essere già «titolare di incarichi di assistenza legale conferiti da Consap», ma tra fine 2014 e l'inizio del 2015 lo studio della Miceli (il poco conosciuto RM-Associati, di cui risulta socio anche Fabio Roscioli, avvocato di Alfano) ha ottenuto altri cinque incarichi, l'ultimo a fine gennaio. La moglie di Angelino è stata assunto grazie a una delibera firmata da Mauro Masi, amministratore delegato della Consap ed ex direttore generale della Rai ai tempi del governo Berlusconi, boiardo vicino al centro destra che il governo di Matteo Renzi ha persino promosso qualche mese fa, confermandolo sulla poltrona di ad e concedendogli anche quella da presidente. «Gli importi» della consulenza della Miceli, si legge nelle determine, «saranno quantificati all'esito delle attività». Speriamo, per le casse pubbliche, non siano troppo alti. Non è tutto. La Miceli in passato ha ottenuto altri incarichi da alcune amministrazioni pubbliche siciliane (dalla provincia di Palermo all'Istituto autonomo case popolari di Palermo) sempre controllate dal centro destra, mentre nel 2014 la moglie di Angelino risulta aver difeso anche gli interessi di una società (la Serit) insieme al collega Angelo Clarizia. Non un avvocato qualsiasi, Clarizia: è infatti socio in affari di Andrea Gemma, amico storico di Alfano e altro vertice di peso della sua rete relazionale, in passato consigliere ministeriale a cachet e oggi membro del cda dell'Eni e commissario liquidatore di aziende importanti come la Valtur. Gemma e Clarizia sono legatissimi: i loro studi hanno di recente anche vinto un appalto per i servizi legali dell'Expo (da 630 mila euro) e, in barba a qualsiasi conflitto di interessi potenziale, "L'Espresso" ha scoperto che da poco i due hanno difeso anche gli interessi del Nuovo Centro Destra, il partito del ministro dell'Interno.

Ore 19: Il ministro Alfano ha voluto replicare al nostro articolo. Qui il suo commento e la nostra replica. "Purtroppo L'Espresso insiste e ci ricasca: non appagato dalla recente condanna per diffamazione subita in Tribunale - dove mi è stato riconosciuto il danno subito - replica il disegno denigratorio nei confronti miei e di mia moglie. Come al solito, "L'Espresso" costruisce scenari mistificatori e suggestivi. Ancora una volta questo organo di disinformazione mirata si esercita nel tentativo vano, ma non per questo meno grave, di gettare discredito, e non soltanto sulla mia persona''. ''Ci rivedremo, mio malgrado, di fronte a un Tribunale che saprà individuare tra persone defunte date per vive, circostanze false, notizie irrilevanti, fatti comici, errori marchiani e astruse manipolazioni della realtà, tutti gli elementi del doloso e reiterato intento diffamatorio".

La nostra risposta. Prendiamo atto della dichiarazione del ministro Alfano. Che però non smentisce nessuna delle circostanze documentate che abbiamo descritto nell'inchiesta. Nel frattempo l'ad della Consap Mauro Masi ha ammesso pubblicamente che Tiziana Miceli lavora per la sua società dal 2011. E.F.

Ore 17, venerdì 17: Mauro Masi replica alla nostra inchiesta. Egregio Direttore, faccio riferimento all’ articolo “Gli Angeli di Angelino” apparso sull’ Espresso oggi in edicola. In qualità di Amministratore Delegato e Presidente della Consap SpA ho il dovere di precisare che la Consap non ha mai affidato incarichi di consulenza professionale all’Avv. Tiziana Miceli. L’Avv. Tiziana Miceli è stata esclusivamente affidataria di alcuni incarichi di patrocinio legale per conto di Consap in procedimenti che vedevano coinvolta la società in sede giudiziale. Incarichi peraltro indicati pubblicamente (come tutti quelli che riguardano la Società) sul sito di Consap SpA. E’ inoltre doveroso precisare che l’Avv. Miceli ha sottoscritto sin dal 28 settembre 2011 la convenzione tipo che Consap applica a tutti gli avvocati che difendono la società sull’intero territorio nazionale, e che prevede un abbattimento degli onorari almeno del 25% rispetto ai limiti tariffari minimi previsti della legge professionale vigente con evidente vantaggio per Consap anche nel caso, come quelli che riguardano l’Avv. Miceli, di cause relative ad importi molto modesti. Invio i migliori saluti e Le auguro buon lavoro. Mauro Masi, ad Consap.

La nostra risposta. Ringraziamo Mauro Masi per la gentile precisazione. Sottile è la differenza tra consulenza professionale e incarico legale: giudichino i lettori. Scopriamo grazie a lui che la moglie del ministro dell'Interno Angelino Alfano Tiziana Miceli ha ottenuto incarichi presso la Consap già a partire dal 2011. E.F.

I pasticci di casa Alfano tra pacchi di curriculum e falsi esami di laurea. Padre, figli, mogli: la rete di rapporti della famiglia siciliana vissuta all'ombra della Dc, scrive Anna Maria Greco, Giovedì 7/07/2016, su “Il Giornale”. Che famiglia, la famiglia Alfano. Ad Agrigento coltiva i suoi sogni di scalata sociale all'ombra del potere politico, allora incarnato dalla Dc, la Balena bianca che tutti fagocita e con la quale il professor Angelo, docente di licei, diventa consigliere comunale e assessore, legato alla corrente di Calogero Mannino. Poi in Fi, nel Pdl e nell'Udc, dove il figlio Angelino costruisce la sua carriera salendo ai vertici del partito e dei vari governi. Ma anche chi in politica non s'impegnava direttamente, vive nell'ombra di quel potere. Nell'ultima inchiesta «Labirinto» viene fuori dalle intercettazioni telefoniche prima il nome di Alessandro, fratello minore del ministro dell'Interno e leader Ncd, assunto a Postecom sembra con qualche spintarella interessata di troppo, che già ha alle spalle una serie di «infortuni». Poi quello di papà Angelo, descritto alle prese con una serie di raccomandazioni, 80 dicono le intercettate, sempre alle Poste. Se si allarga lo sguardo agli acquisiti della famiglia, si scopre che di chiacchiere, sospetti e polemiche ce ne sono stati parecchi anche su di loro. Ne ha suscitati la moglie di Angelino Alfano, l'avvocato Tiziana Miceli, per una serie di consulenze di cui si è occupato il suo studio, comprese quelle che dal 2011 le ha affidato la Consap, concessionaria dei servizi assicurativi pubblici controllata dal ministero dell'Economia. La moglie di Alessandro Alfano, invece, lavora nell'ufficio comunicazione del gruppo Ncd della Camera. La giovane Flavia Montana è di Lampedusa, l'isola siciliana primo approdo dei profughi. E il padre Lorenzo, ex assessore al Bilancio del comune, finisce nel 2014 al centro di una dura polemica, perché deve andare a dirigere il centro di accoglienza per gli immigrati, chiuso in precedenza per lo scandalo della doccia antiscabbia ripresa dalle tv e passato dalla cooperativa Sisifo alla Confederazione nazionale delle Misericordie, dopo un negoziato della prefettura di Agrigento. Lorenzo Montana dice che è stato scelto per le sue «qualità personali, umane, professionali e intellettuali», ma i più sono convinti che ci sia lo zampino del parente ministro dell'Interno. Così, il suocero di Alfano junior è costretto a rinunciare al vertice del Cspa. Alessandro è quello che nella famiglia ha il curriculum più ricco di guai. Lo descrivono come ben diverso per carattere dal primogenito serioso. Più estroverso e gaudente, sembra che non si preoccupi molto di mettere in imbarazzo il ministro suo fratello, sgomitando nella sua ombra e pretendendo sempre di più. Classe '65, laurea triennale in Economia a 44 anni con sospetti di esami comprati, in ogni posto dove arriva provoca guai e difficoltà. Contestazioni per il concorso come segretario generale della Camera di Commercio di Trapani lo costringono a lasciare dopo qualche mese. Poi chiede il reintegro che gli viene negato. Contestazioni dopo la nomina a dirigente di Postecom del 2013 (quella di cui si occupa l'inchiesta), costringono l'amministratore Massimo Sarmi ad un audit interno di verificare. Arriva la conferma, ma 2 anni dopo viene trasferito a Poste tributi, mentre cambia il vertice ed arriva Francesco Caio. Altro trasferimento a Poste e lui fa causa all'azienda per dequalificazione. Si trova un accordo, ma a settembre scorso finisce a Palermo, Area immobiliare Sud. Senza poteri di spesa, ad occuparsi della pulizia degli uffici postali.

LA CRICCA DELLE NOMINE. Il Labirinto della corruzione: politica e affari all’ombra del Parlamento. Blitz della Guardia di Finanza con 24 persone finite in manette. Al centro del groviglio di interessi tra imprenditoria e Palazzo il faccendiere Raffaele Pizza, fratello dell’ex sottosegretario Giuseppe, e Antonio Marotta, parlamentare alfaniano, ex membro del Csm, scrive Michele Sasso il 4 luglio 2016 su “L’Espresso”. Il Labirinto è quello di un «sistema affaristico-criminale». E in questo caso il nome dell’operazione della Guardia di finanza calza a pennello: corruzione, riciclaggio delle mazzette, truffa ai danni dello Stato, appropriazione indebita e creazione di un’associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale. All’alba è scattato il blitz degli uomini delle Fiamme Gialle con 24 persone arrestate (di cui 12 ai domiciliari), 50 indagati e nel corso dei controlli sono stati sequestrati beni e quote societarie per 1 milioni e duecentomila euro. Tra gli indagati ci sono Raffaele Pizza, il fratello di Giuseppe, l’ex sottosegretario all’Istruzione, che rivendica la titolarità del simbolo originale della Democrazia Cristiana, partito di cui è segretario. Sotto il simbolo dello scudo crociato anche un altro indagato, Antonio Marotta, eletto nel 2013 tra le fila del Popolo della Libertà in quota Dc e poi passato tra gli uomini di Angelino Alfano nel Nuovo Centrodestra. Il 68enne Marotta è un avvocato penalista che grazie alla politica è arrivato nelle stanze del potere: nel 2002 è stato nominato componente del Consiglio superiore della magistratura dal Parlamento in seduta comune, con 589 voti in quota centrodestra capeggiato dall’Udc, ricoprendo vari incarichi. Dopo tre anni, sempre grazie all’Udc di Casini, entra per la prima volta in Parlamento. Ora è indagato per traffico d’influenza illecita – ma i pm avevano chiesto senza successo al gip la misura cautelare per corruzione e associazione a delinquere – è accusato di aver aiutato nelle attività di illecita intermediazione lo stesso Pizza. «È un equivoco - ha commentato a caldo Marotta - Io credo di essere al di fuori di tutto al cento per cento». Nel labirinto di fatture false, vorticosi giri di denaro per oltre dieci milioni di euro (emesse per creare fondi neri e riserve occulte di denaro), ci sono anche controlli fiscali ammorbiditi e corsie preferenziali per agevolare le pratiche si sono immersi gli investigatori scoprendo operazioni sospette e fatturazioni false o sovraffaturazioni per aggirare il fisco messe in cantiere da un consulente tributario. Dal professionista sono partiti per arrivare fino alla mente del gruppo Raffaele Pizza. Conoscere «qualcuno» a Roma, si sa, è determinante. E quel qualcuno nella zona grigia tra affari, politica e lobby è il faccendiere fratello del politico calabrese di lungo corso, Giuseppe, ex sottosegretario all’istruzione del governo Berlusconi, che ancora oggi rivendica il simbolo della Democrazia Cristiana. Dopo anni di battaglie giudiziarie per tenersi il simbolo dell’ex balena bianca ridotta ad acciuga di voti, oggi è anche lui finito nell’inchiesta come indagato per riciclaggio. Raffaele Pizza, adoperando i suoi legami stabili con il mondo della politica, rappresentava lo snodo cruciale degli affari con gli enti pubblici, svolgendo secondo gli investigatori «un'incessante e prezzolata opera di intermediazione tra i suoi interessi e quelli di imprenditori senza scrupolo» allo scopo di aggiudicarsi gare di forniture. Molti dei contatti venivano portati avanti nello studio di Pizza in via Lucina, alle spalle del Parlamento, dove sarebbe avvenuto anche lo scambio di denaro in varie occasioni. A cento passi dal cuore delle istituzioni, la rete sarebbe riuscita a ottenere appalti per la fornitura di servizi e beni di diversi enti statali e anche di alcuni ministeri. Commesse vinte grazie al pagamento di tangenti, smistate senza paura a destra e a manca. E spesso realizzate con prestazioni e materiali di qualità inferiore a quanto previsto. Inoltre alcuni degli appartenenti all'associazione per delinquere si sarebbero occupati di fornire documentazione fittizia per creare i fondi neri destinati ad alimentare le tangenti. Pizza, con il nome in codice «Polifemo» non è nuovo alle cronache giudiziarie. Dieci anni fa è stato arrestato dal Pm Henry John Woodcock nell'ambito dell'inchiesta su una serie di truffe a imprenditori. In dieci ore di interrogatori, l'uomo ne aveva raccontate di tutti i colori. Che Ilaria Alpi era stata «vittima della sua superficialità al 100 per cento» ed era stata ammazzata dai somali perché «aveva scoperto il passaggio strategico di materiale importantissimo, piccolo ed occultabile», cioè uranio partito forse dalla Basilicata. Che «il Dc9 Itavia l'hanno abbattuto gli italiani» in una sera di guerra fra aerei libici, americani e italiani. Che sulla scomparsa di Emanuela Orlandi «non c'è mai stata nessuna attività di indagine seria». E poi ore e ore di «rivelazioni» sulla massoneria, i servizi segreti, i signori della guerra somali... La parte più succosa, però, è la chiusura della notizia d'agenzia Ansa dell’epoca: «Nei due interrogatori, Pizza si definisce rappresentante del governo somalo, "agente provocatore", consulente storico, consulente, bibliografo, "scambiatore di notizie", analista, venditore di informazioni e anche "truffatore ma non musulmano", quando ricorda che è stato vicepresidente dell'Associazione musulmana italiana». Prometteva una terra di nessuno dove ogni traffico era possibile, dalla droga ai rifiuti tossici. E grazie ai suoi contatti incassava tangenti milionarie per business mai conclusi. Sfruttando le sue entrature nel Corno d'Africa, vendeva abitualmente informazioni, cercando di infilarsi, secondo la ricostruzione dei magistrati, in un altro affare lucroso: il traffico d'armi.

La cricca delle nomine. "Così ho fatto assumere il fratello di Alfano alle Poste". Il documento. L'incontro di Pizza con Berlusconi, la raccomandazione per il congiunto del ministro e il piano per la designazione di un generale nei Servizi, scrive Giuseppe Scarpa e Fabio Tonacci il 5 luglio 2016 su “La Repubblica”. Non c'è dubbio, l'uomo delle relazioni "ad altissimo livello", quello che può ammorbidire una commissione d'appalto o mettere la parola giusta con il direttore giusto, è Raffaele Pizza. La mente dell'associazione a delinquere, secondo i magistrati romani. Ha costruito una ragnatela, attorno a sé. È il profondo conoscitore dei salotti buoni del potere, l'instancabile tessitore di trame. I finanzieri del Nucleo Speciale di Polizia Valutaria lo ascoltano per mesi e mesi parlare e straparlare al telefono e nel suo ufficio di via Lucina, a due passi da Montecitorio. Di Angelino Alfano e di suo fratello assunto alle Poste Italiane, di Vittorio Crecco l'ex dg dell'Inps, di Silvio Berlusconi, di Antonio Cannalire il braccio destro di Ponzellini in Bpm. Gran parte delle intercettazioni sono contenute nella richiesta di arresto dei pm Paolo Ielo e Stefano Fava, di cui Repubblica è venuta in possesso. È il 9 gennaio del 2015. I finanzieri registrano una conversazione tra Pizza e Davide Tedesco, collaboratore politico del ministro dell'Interno Alfano. "Pizza - scrivono le fiamme gialle - sostiene di aver facilitato, grazie ai suoi rapporti con l'ex amministratore Massimo Sarmi, l'assunzione del fratello del ministro in una società del Gruppo Poste".

Pizza: "Angelino lo considero una persona perbene un amico... se gli posso dare una mano... mi ha chiamato il fratello per farmi gli auguri...tu devi sapere che lui come massimo (di stipendio, ndr) poteva avere 170.000 euro... no... io gli ho fatto avere 160.000. Tant'è che Sarmi stesso glie l'ha detto ad Angelino: io ho tolto 10.000 euro d'accordo con Lino (il soprannome di Pizza, ndr), per poi evitare. Adesso va dicendo che la colpa è la mia, che l'ho fottuto perché non gli ho fatto dare i 170.000 euro... cioé gliel'ho pure spiegato... poi te li facciamo recuperare...sai come si dice ogni volta... stai attento... però il motivo che non arriviamo a 170 è per evitare che poi dice cazzo te danno fino all'ultima lira. Diecimila euro magari te li recuperi diversamente".

Tedesco: "Ma di chi parlava?"

Pizza: "Hai la mia parola d'onore che questo (Alessandro Alfano, il fratello del ministro, ndr) va dicendo in giro che io l'ho fottuto. Perciò io ho paura... dico... cazzo te faccio avere un lavoro... aoh... m'avve a fare u monumento... mo a minchia la colpa mia che quistu dice che (incomprensibile) 10.000 euro in più... che è stata una scelta politica come tu sai".

Tedesco: "Oculata e condivisibile".

Pizza: "E condivisa... no ma… io glie l'ho fatto dire da Sarmi al fratello davanti a me".

Il faccendiere Raffaele Pizza ha un modo particolare di chiamare Vittorio Crecco, l'ex dg dell'Inps dal 2004 al 2009. "Il mitico". C'è un perché, e lui lo spiega al telefono parlando con il senatore di Ncd Guido Viceconte, ex sottosegretario al ministero dei Trasporti. "È la prima volta che me capita uno che viene nominato dalla destra e dalla sinistra". Crecco, racconta Pizza, sarebbe diventato dg dell'Inps grazie all'interessamento di Silvio Berlusconi. A presentarlo all'allora Cavaliere sarebbe stato, ancora una volta, lui.

Pizza: "Sono un grande amico del Senatore Bonferroni e lui mi ruppe i coglioni, diceva: dobbiamo andare ad Arcore, ti devo presentare il Cavaliere perché deve fare una grande cosa, aprire i call center. Io gli dissi: ok ci vengo, e ci portai Agostino Ragosa, che poi è diventato direttore generale dell'Agenda digitale e prima era responsabile grazie a me della parte informatica delle Poste. E anche Vittorio Crecco, che era responsabile dell'informatica dell'Inps. Crecco dice al Cavaliere di dare un milione di lire ai pensionati e gli fece tutta l'operazione sette o otto mesi prima delle elezioni. Il Cavaliere è impazzito, di fronte alla proposta, e questo gli manda quanto sarebbe costata perché ce l'aveva lui. E quindi nasce questa operazione del milione di lire alle pensioni. Ad un certo punto ci fu un "Porta a Porta" famoso, quello in cui ci fu il famoso contratto con gli italiani. Questo (Berlusconi, ndr) mi rompeva i coglioni attraverso Valentini (riferimento a Valentino Valentini, braccio destro dell'ex premier per i rapporti con l'estero), e io prima che finisse di registrare la cosa di Porta a Porta gli porto un dossier che mi ricordo a quadri. Lo diedi a Valentino (dicendogli) di darlo al Presidente. Quando lui cominciò a parlare del milione di lire, tutto questo e il resto, quello gli dice "quanto costerebbe?", e questo "zaaac". E Vittorio in cambio diventò Direttore Generale dell'Inps. Poi lui è bravissimo, lo fece rinominare da Franco Marini quand'era Presidente del Senato. Tant'è che lo chiamavano "mitico", perché è la prima volta che me capita uno che viene nominato dalla destra e dalla sinistra. È un genio assoluto".

Viceconte: "Adesso lui dove sta?"

Pizza: "Adesso lui è in pensione, è stato 10 anni....ma lui ha cambiato l'Inps".

Pizza si dimostra uomo capace di avere un'influenza pure sulle nomine degli apparati militari e dell'intelligence. Tanto che gli arriva una richiesta da un "non meglio specificato generale del corpo per una collocazione pressoi i servizi di informazione". È quanto capta una cimice dei finanzieri del Valutario il 9 gennaio 2015, nel corso di una conversazione con tale Danilo Lucangeli.

Lucangeli: "Allora Cannalire (Antonio, il manager vicino a Massimo Ponzellini, ex presidente di Banca Popolare di Milano, ndr) mi parlava di questo suo amico del Generale della Finanza che li vorrebbe".

Pizza: "Che vorrebbe?"

Lucangeli: "Il vice Comandante generale della Finanza".

Pizza: "Che vuole?"

Lucangeli: "Vorrebbe in qualche modo cercare se è possibile, ho detto, la collocazione con Manenti (Alberto, l'attuale direttore dell'Aise, ndr).

Pizza: "Con Ma... io non posso! potrei fare una cosa diversa, provare a presentarglielo. Se ci riesco, e se mi dà l'ok Alfano".

Con manager di Transcom, interessato agli appalti dell'Inps, Pizza si incontra nel suo ufficio il 20 gennaio 2015.

Pizza: "Stai tranquillo che per un altro anno l'avemo scappottato...capito io Damato anche".

Boggio: "Ho sentito Boeri, era un..."

Pizza: "Boeri ci penso io quand'è il momento, è amico di... ma siamo a livelli altissimi.... con Sarmi se gli dico una cosa la fa... capito, non rompesse il cazzo... quand'è il momento, io sono in grado di intervenire, amico amico suo proprio.... è anche una persona di grandi qualità".

Attraverso intercettazioni "casuali" e "fortuite", viene ascoltato anche il parlamentare di Area Popolare Antonio Marotta, molto vicino ad Alfano.

Il 5 marzo del 2015 Marotta è a colloquio con un alto ufficiale dell'Arma. Il colonnello - che non è stato identificato - chiede una mano all'esponente dell'Ncd per ottenere un trasferimento, e il deputato si mostra disponibile.

Marotta: "Mi dica che è successo?"

Colonnello: "Volevo dirle se c'era, siccome adesso inizieranno a chiamare per comandi, e io mi sono proposto, ho già fatto diciamo degli interventi. Nel caso in cui non ce la faccia da solo, se c'erano delle possibilità dei contatti, nel caso... che so...".

Marotta: "Si decide in questo momento e io... tramite... ma poi io parlo indirettamente con il comandante generale. Tramite qualche amico comune".

Marotta è stato nel 2002 membro laico del Csm in quota Udc. È stato anche vicepresidente di un paio di commissioni, all'interno del Consiglio. Quei giorni se li ricorda bene, e con nostalgia. Con l'imprenditore Luigi Esposito, nell'ufficio di Pizza, si lascia andare a uno sfogo. È scontento di fare il deputato, e vorrebbe tornare al Csm "trattandosi - scrive il giudice - di un luogo in cui si esercita il vero potere".

Marotta: "Devono passare i quattro anni, perché sennò non ci posso tornare, no? Se potevo rimanere lì me ne fottevo di venire a fare il deputato a perdere tempo qua, che cazzo me ne sfottevo. Stavo tanto bene là, il potere là è immenso, là è potere pieno, non so se rendo l'idea. Ci sono interessi, sono grossi interessi non avete proprio idea".

Il 12 dicembre 2014 Benedetti, ritenuta una delle menti del sistema di società cartiere e fatture false, commenta le nuove nomine decise dal governo Renzi. "Io con tutti gli amici che c'avevo m'ha levato un sacco di possibilità... perché levà Sarmi, tenere Croff... c'ha messo quel coglione di che quello non se po'. Dopo tanti anni vanno sotto con il bilancio le Poste...Caio, là... l'Agenzia delle Entrate ce doveva mette un amico ed è uscita fuori sta Orlandi, che è un'allieva de Visco, il ministro la... ma tutti de sinistra e quasi tutti toscani, gente che non se conosce e te devi rifà da capo tutte le grotte (fonetico)".

La rapida carriera di Alessandro Antonio Alfano, fratello di Angelino: docente alla Sapienza prima ancora di laurearsi, scrive "La Stampa" il 6/07/2016. Una carriera tutta in discesa, quella di Alessandro Antonio Alfano, fratello del ministro dell'Interno Angelino. E' quanto ricostruisce un articolo de La Stampa. Secondo il quotidiano torinese infatti, il fratello del ministro è riuscito a diventare docente all'Università Sapienza di Roma ancor prima di laurearsi. Nel 2008 non si è ancora laureato, il titolo triennale in economia e finanze lo conseguirà solo nel 2009, e già risulta docente del laboratorio di «Principi e strumenti di marketing» presso la Facoltà di comunicazione alla Sapienza di Roma. Non finisce qui: Dopo poco partecipa al concorso per diventare segretario generale della Camera di commercio di Trapani. Lo vince, ma nel giro di qualche mese è costretto a lasciare per «cause di forza maggiore». Gli viene contestata la veridicità di alcuni punti inseriti nel curriculum, interviene la Guardia di finanza che sequestra tutta la documentazione e si scopre che il fratello del ministro ha autocertificato un incarico, quello di direttore regionale di Confcommercio Sicilia, che non ha mai ricoperto. Era semplicemente distaccato presso la Confcommercio regionale in veste di direttore provinciale di Agrigento. Alfano jr viene poi nominato in Postecom dove arriva senza concorso, grazie all'intercessione di Raffaele Pizza, l'uomo al centro dell'inchiesta della Procura di Roma su appalti e assunzioni sospette. "Prende servizio il 2 settembre 2013, qualifica di dirigente e compenso fissato in 170mila euro lordi all’anno che l’ad del Poste, Massimo Sarmi, taglia a 160mila", riporta la Stampa.

La stupefacente carriera di Alessandro Antonio Alfano, scrive il 6/07/2016 “Giornalettismo”. La Stampa racconta il percorso professionale del fratello del ministro dell'Interno. Alessandro Antonio Alfano è il fratello del ministro degli Interni, Angelino. I loro nomi sono emersi nell’inchiesta che riguarda Raffaele Pizza, in un’intercettazione relativa all’assunzione di Alessandro Alfano alle Poste, che sarebbe stata spinta dal titolare del Viminale. La Stampa ha dedicato un ritratto alla carriera di Alessandro Antonio Alfano, che ha tratti sicuramente peculiari, che in diversi casi hanno messi in imbarazzo il fratello Angelino. Paolo Baroni e Francesco Grignetti raccontano su La Stampa di mercoledì 6 luglio 2016 il percorso professionale di Alessandro Antonio Alfano. Attualmente dirigente nelle Poste, il fratello del leader di NCD si è laureato a 34 anni (edit: in un primo momento in questo pezzo era segnalato 44 anni, come veniva riportato dal quotidiano La Stampa, che ha poi ammesso l’errore). Nato nel 1975, nel 2009 ha conseguito una laurea triennale in economia e finanza. L’anno prima, nel 2008, non ancora laureato, è già però docente alla Sapienza di Roma in un laboratorio sui principi e strumenti del marketing. Dopo la laurea Alessandro Alfano partecipa al concorso, come unico concorrente, per diventare segretario generale della Camera di Commercio di Trapani. Vinto il concorso, dopo poco è costretto a lasciare per una falsa autocertificazione sul suo curriculum. Alessandro Alfano aveva inserito nel suo CV un incarico, direttore generale di Confcommercio Sicilia, mai effettivamente svolto. Nel 2013 Alessandro Antonio Alfano viene assunto in Postecom. Raffaele Pizza si vanta al telefono di aver fatto diventare il fratello dell’allora segretario del Pdl dirigente in Poste, come rimarca La Stampa. Il compenso di Alfano è pari a 170 mila euro lordi, che l’Ad Sarmi tagli a 160 mila. Dopo soli due anni Alessandro Alfano, intanto oggetto di numerose interrogazioni parlamentari, è spostato a un altro ufficio in Poste. Ne nasce una causa di lavoro, poi risolta grazie al trasferimento a un nuovo incarico in Sicilia come responsabile degli immobili regionali.

“Così ho fatto assumere il fratello di Alfano”. Replica del ministro: soltanto scarti giudiziari. Tangenti nei ministeri, il faccendiere Pizza intercettato tira in ballo il titolare dell’Interno. Cinque Stelle all’attacco: spieghi al Parlamento e al Paese. Lui: uso delle carte a fini politici. Caio (Poste): valuteremo la situazione, scrive il 5/07/2016 Antonio Pitoni su “La Stampa”. Nell’ufficio di Via in Lucina, a due passi da Montecitorio, il faccendiere Raffaele Pizza, fratello dell’ex sottosegretario all’Istruzione dell’ultimo governo Berlusconi e segretario della Dc Giuseppe, intratteneva rapporti di peso e coltivava relazioni influenti. «Sfruttando i legami stabili con influenti uomini politici, spesso titolari di altissime cariche istituzionali», scrive il gip di Roma Giuseppina Guglielmi nell’ordinanza di custodia cautelare che lo ha spedito in carcere insieme ad altre 11 persone (altre 12 ai domiciliari) nell’ambito dell’inchiesta «Labirinto» coordinata dal procuratore aggiunto Paolo Ielo e dal sostituto Stefano Roco Fava. E’ lì, nella prestigiosa sede del centro storico, che Raffaele Pizza parla delle sue entrature mentre i militari del Nucleo Speciale di Polizia Valutaria lo intercettano. Il 9 gennaio del 2015. Pizza conversa con Davide Tedesco, collaboratore del ministro dell’Interno Angelino Alfano. E sostiene, annotano le Fiamme Gialle, «di aver facilitato, grazie ai suoi rapporti con l’ex amministratore Massimo Sarmi, l’assunzione del fratello del ministro in una società del Gruppo Poste». 

Pizza: «Angelino lo considero una persona perbene un amico... se gli posso dare una mano... mi ha chiamato il fratello per farmi gli auguri... tu devi sapere che lui come massimo (di stipendio, ndr) poteva avere 170.000 euro... no... io gli ho fatto avere 160.000. Tant’è che Sarmi stesso glie l’ha detto ad Angelino: io ho tolto 10.000 euro d’accordo con Lino (il soprannome di Pizza, ndr), per poi evitare. Adesso va dicendo che la colpa è la mia, che l’ho fottuto perché non gli ho fatto dare i 170.000 euro... cioè gliel’ho pure spiegato... poi te li facciamo recuperare... sai come si dice ogni volta... stai attento... però il motivo che non arriviamo a 170 è per evitare che poi dice cazzo te danno fino all’ultima lira. Diecimila euro magari te li recuperi diversamente». Al che Tedesco sbotta: «Ma non lo dice come è entrato lì il “sistema” per gestire gli appalti». 

La segretaria intercettata: “Il padre di Alfano mi ha mandato 80 curriculum per le assunzioni”. Le carte dell’inchiesta: «Gli abbiamo sistemato la famiglia», scrive “La Stampa” il 5/07/2016

Dopo il fratello, spunta anche il padre del ministro dell’Interno, Angelino Alfano, nelle carte dell’inchiesta “Labirinto” portata avanti dalla procura di Roma. L’uomo, a quanto riferito nel corso di una conversazione intercettata e contenuta nella richiesta di arresti del pm, avrebbe mandato 80 curriculum per presunte assunzioni a Poste Italiane. A colloquio il 17 maggio del 2015 sono Marzia Capaccio, indagata, segretaria del faccendiere Raffaele Pizza ed un’altra persona, Elisabetta C. Le due donne sembrano lamentarsi per qualcosa che il ministro non avrebbe fatto. 

CAPACCIO: «Io ti ho spiegato cosa ci ha fatto a noi Angelino...» 

ELISABETTA: «E...lo so...lo so...lo so...». 

CAPACCIO: «Cioè noi gli abbiamo sistemato la famiglia...questo doveva fare una cosa....la sera prima...mi ha chiamato suo padre...mi ha mandato ottanta curriculum... ottanta....».

ELISABETTA: «Aiuto....aiuto...». 

CAPACCIO: «Ottanta.... e dicendomi...non ti preoccupare....tu buttali dentro...la situazione la gestiamo noi...e il fratello comunque è un funzionario di Poste....anzi è un amministratore delegato di Poste...».

ELISABETTA: «Sì..sì..lo so..lo so...». 

CAPACCIO: «E questo è un danno che ha fatto il mio capo (ndr. Pizza)...io lo sputerei in faccia solo per questo...». 

ELISABETTA: «Vabbè...tanto ce ne sono tanti Marzia...è inutile dirsi...questo è il sistema purtroppo...».

CAPACCIO: «Sì ma io l’avevo già capito questo guardava solo ai cazzi suoi...glielo avevo già detto...io a differenza tua non mi faccio coinvolgere più di tanto, perchè cerco di razionalizzare un attimo di più e di valutare le persone che ho davanti...cosa che il mio capo...purtroppo in alcune circostanze nonostante la sua esperienza non è in grado di fare...». 

In precedenza era emersa un’altra intercettazione, questa volta tra Raffaele Pizza e un collaboratore del ministro, Davide Tedesco. In questa il faccendiere sosteneva di aver facilitato, grazie ad i suoi rapporti con l’ex amministratore Massimo Sarmi, l’assunzione del fratello del titolare del Viminale in una società del Gruppo Poste. 

Quell'incarico a Pizza costato al Viminale 82 mila euro. Giuseppe Pizza, ex sottosegretario, è stato collaboratore dell'ufficio comunicazione del ministero di Alfano. Per due anni. Con un compenso annuo di 41.600 euro. È scritto negli elenchi dei collaboratori e consulenti del ministro. Dove spunta anche la società della cricca utilizzata per i suoi affari. Ora è indagato per riciclaggio con il fratello faccendiere Raffaele (agli arresti) e il deputato Ncd Marotta, scrive Giovanni Tizian il 6 luglio 2016 su “L’Espresso”. Il primo contratto con il Viminale, Giuseppe Pizza, lo ha firmato il primo settembre 2013. Alla casella durata incarico si legge «fine mandato governativo». L'anno successivo, però, pur risultando ancora tra gli otto fortunati prescelti dell'ufficio stampa e comunicazione nella stessa casella compare la date di fine incarico: 21 febbraio 2014. Per questi due anni trascorsi al ministero l'uomo che ha lottato per tenersi il simbolo della Dc ha ricevuto un compenso annuo di oltre 41.600 euro. Giuseppe Pizza è ora indagato per riciclaggio nell'inchiesta Labirinto della procura di Roma. Non solo. Nel documento letto da “l'Espresso” relativo all'incarico del 2014 spunta la società Piao. In pratica Pizza indica quale altro incarico ricoperto il ruolo che ha nella società di via della Cellulosa 25 a Roma, nei cui uffici, hanno scoperto i detective delle fiamme gialle, il «sodalizio riceveva ingenti flussi di denaro pubblico senza realizzare alcuna lavorazione, riscuotendo ingenti somme di denaro contante dai privati corruttori presso l’ufficio della PIAO». In uno dei capi di imputazione dei pm, le date di coinvolgimento della Piao, la società utilizzata per gli affari della cricca, partono fin dal 2013. Anno in cui l'ex sottosegretario Pizza lavorava per il ministero, nell'ufficio stampa. Nei giorni scorsi gli uomini del nucleo valutario della Guardia di finanza hanno eseguito 24 ordini di custodia cautelare, centinaia di perquisizioni, cinque misure interdittive (obbligo di dimora e divieto di attività professionale) e sequestrato più di 1,2 milioni di euro tra immobili, conti correnti e quote societarie a carico di altrettanti indagati, gravemente indiziati dei reati di associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale, corruzione e riciclaggio, truffa ai danni dello Stato e appropriazione indebita. Complessivamente sono 50 tra arrestati e indagati. Al centro della rete criminale proprio il fratello di Giuseppe Pizza, Raffaele. Faccendiere che poteva contare su contatti di altissimo livello istituzionale. Secondo gli inquirenti è lui che decide e influenza appalti in enti e ministeri. Raffaele Pizza è uno dei protagonisti, inoltre, dell'intercettazione in cui si vanta di aver fatto assumere il fratello del ministro Alfano alle Poste. Ne parla con un fedelissimo di Angelino, Davide Tedesco: lo spin doctor agrigentino cresciuto di pari passo con la carriere del capo del Viminale e del Nuovo centro destra. Davide Tedesco, quindi, è stato da sempre un collaboratore di Alfano. Così come Giuseppe Pizza. Pizza parla dell'assunzione del fratello del ministro con Davide Tedesco. E' più che un collaboratore del ministro: è l'uomo fidato che ha registrato il marchio Ncd e cura la comunicazione. Da assessore ad Agrigento è sbarcato a Roma. Dove ha ottenuto anche incarichi al Viminale e ancora prima al ministero della Giustizia. Mentre il primo, però, non risulta indagato, il secondo, già sottosegretario all'Istruzione nel governo Berlusconi, è uno dei volti di primo piano di questa cricca affamata di appalti e mazzette. A finire sul registro degli indagati anche Antonio Marotta, Ncd ed ex membro del Csm. Proprio ieri il ministro rispondendo alle prime intercettazioni che lo tiravano in ballo, ha definito i dialoghi «scarti giudiziari di un'inchiesta che non lo riguarda». Precisando, poi, di non sentire da anni le persone che lo citano. Circostanza, questa, smentita dai fatti riportati nelle informative degli investigatori e nelle carte dei magistrati. Perché Alfano, evidentemente, conosce Giuseppe Pizza. Il decreto di nomina è ministeriale. Così come conosce molto bene il suo spin doctor Davide Tedesco, che pur non essendo indagato è colui il quale riceve le confidenze del faccendiere arresto e fratello dell'ex collaboratore del ministero. Fino al 2014, perciò, Giuseppe Pizza entrava e usciva dal palazzo ministeriale in qualità di collaboratore. E questo è un fatto. Non proprio uno scarto d'indagine. Se poi, questo, viene letto insieme a un'intercettazione riportata nella richiesta di arresto dei pm di Roma, i contorni della cricca si fanno ancora più nitidi. A parlare sono sempre Raffaele Pizza e Davide Tedesco. Dice il faccendiere: «Io ad Angelino glie lo dissi chiaro...da questo momento ti prego...perché Angelino tu non sai il passato...Angelino mi...quando lui ancora era...non era diciamo quello che era diventato...mi chiese una mano se poteva essere lui la mediazione con il Cavaliere della DC...eh...e io...da grande persona corretta...dissi va bene...ho detto vieni...tanto è vero che lui mi ha accompagnato un sacco di volte con...dal Cavaliere...no...questo ti volevo dire...tant'è che una volta misero qualche difficoltà per difendere me...no difendere me...perchè io al Cavaliere l'avevo mandato a cagare....io...io presi...intanto mi aveva...mi aveva offerto dei soldi e io gli ho detto che non faccio il cameriere de nessuno». A questo punto della conversazione Pizza quantifica la proposta economica di Silvio Berlusconi e descrive le reazioni di Alfano: «E io i soldi...sono ricco de mio...io non faccio (inc)...lui è rimasto...perciò poi è nato il rapporto con me...io penso che sia stato l'unico... lui mi ha offerto un milione di euro...mica pensi delle lire...a Lì ma di chi cazzo ti credi di rivolge...e chiediglielo a (inc) se ti dico le cazzate...è amico tuo...poi una volta mi sono trovato a parlare...ma di che cazzo stai parlando...chiaramente...(inc) in volgare...per rimanere educato...perchè sono una persona educata...il quale Angelino aveva capito che io...cioè...eravamo...io assettato cà...Angelino vicino a mia...u Cavaliere difronte...e a destra c'era...come si chiamava Bondi?....quando ancora Angelino era un ragazzo di bottega...e allora io...il Cavaliere diceva le cose e io...gli ribattevo...Angelino che l'avevo...che capiva...dice "Presidente"...che u (inc) si bloccò invece...non lo pozzo dimenticare...perchè dice "non ti mettere in mezzo in queste cose». In pratica, stando al racconto del faccendiere e fratello dell'ex collaboratore di Alfano, i rapporti con l'attuale ministro dell'Interno erano solidi.

Se il pesce comincia a puzzare dalla testa…Ecco come la massa emula…

Il concorso del ministero è una "bufala" di quiz. Quesiti ridicoli o errati. Il Mibact cerca 500 nuovi funzionari per arte e cultura. Ma i test sono pieni di strafalcioni, scrive Simonetta Caminiti, Venerdì 29/07/2016, su "Il Giornale”. Non solo l'obiettivo è centrare con una crocetta l'informazione esatta fra tre alternative; non solo non è richiesto sebbene si tratti di un concorso che farà dei candidati migliori nuovi funzionari nelle arti e nella cultura di analizzare e sviluppare, ma solo di sfruttare un caleidoscopio di nozioni sparse: le nozioni in questione sono anche, clamorosamente, sbagliate. Di che parliamo? Del concorso pubblico bandito dal Mibact (Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo) per la selezione di 500 nuovi funzionari: le preselezioni sono iniziate martedì 26 luglio e andranno avanti fino al 4 agosto. I candidati sono 19.479 e i quesiti 4.600. Ma molti dei quiz impiegati nel concorso presentano degli strafalcioni. I bronzi di Riace sono in marmo, in legno o in bronzo? Certo, qualcuno si starà chiedendo se nei quiz era richiesto anche il colore del «cavallo bianco di Napoleone», come vuole un vecchio indovinello per bambini. Addirittura, qua e là nelle tre alternative di qualche quesito, non è presente la risposta esatta. Si domanda al candidato se «I banchi lignei (plutei) della Biblioteca michelangiolesca a Firenze furono realizzati da: a. Giorgio Vasari; b. Baccio Bandinelli; c. Giovanni Battista Tasso e Antonio di Marco di Giano, detto il Carota». Ma le alternative sono tutte e tre errate: secondo Giorgio Vasari, furono realizzati dagli intagliatori Giovan Battista del Cinque e Ciapino. Ancora, tra i quesiti ci sono informazioni di questa caratura: «Come è denominato il complesso delle più grandi Terme della Roma antica costruito tra il 298 e il 300 d.C. e costituente oggi una delle sedi del Museo Nazionale Romano?». Risposte possibili: «a. Terme di Diocleziano; b. Terme di Stigliano; c. Terme di Saturnia». Buona parte dei quesiti contiene definizioni tratte da Wikipedia; la maggior parte una porzione forse eccessiva verte su Roma. «Ma una volta accettata la prassi, che almeno la compilazione delle domande sia rigorosa», commentano gli esperti del gruppo Emergenza Cultura, critici verso le politiche culturali del governo Renzi e del ministro Franceschini. Indignati, come una parte dei candidati, per il macroscopico paradosso di simili domande in un importante concorso che ha al suo nucleo la cultura. In un altro quesito si richiede con tre alternative l'autore della statua bronzea del Pugilatore conservata al Museo Nazionale Romano: ma quella statua, un autore certo e noto, non lo ha mai avuto. Un concorso, quello del Mibact, che ha visto concorrere soprattutto donne (il 70%); 3.623 i concorrenti per un ruolo di funzionario architetto e 4.700 per l'ambito della promozione e comunicazione. 3.286 gli archeologi, 2.416 gli storici dell'arte. Seguono archivisti, restauratori, aspiranti bibliotecari, pochi antropologi e demo-etnoantropologi. Soprattutto laziali, i candidati: e l'1.01% degli iscritti al concorso proviene dall'estero. Niente posti destinati a Calabria, Campania e Puglia. Nonostante le polemiche, il quiz del ministero viene rivendicato come una grande chance dal ministro Franceschini: «Dopo 9 anni ha dichiarato il ministro il Mibact torna finalmente ad assumere». È il Formez a occuparsi del concorso e ha anche stilato la classifica della provenienza dei candidati. Speranze e delusioni fermentano sul web, dove imperversa il tormentone, il quiz giudicato più divertente dagli stessi candidati. Cosa fa Lucio Dalla nella scultura di Carmine Susinni, esposta anche all'Expo di Milano? È fermo in piedi col clarinetto, parla con un gatto, o sta seduto su una panchina? Spassoso. Ma non esattamente una priorità.

Università, chi giudica i giudici? Si scrive su Scuola di vita de "Il Corriere della Sera" a cura di Carlotta De Leo il 5 settembre 2016. Pubblichiamo la lettera di Gilda Policastro, ricercatrice, sulla selezione all’interno delle università e i nuovi criteri di valutazione Anvur. "Chi giudica i giudici? Come si valutano le competenze, si attribuiscono incarichi, quando l’autorevolezza di chi giudica è dubbia? Un esempio sistemico di come le vecchie strutture autoritarie abbiano perduto credibilità pur continuando a perpetuarsi e autolegittimarsi al loro interno è l’università attuale, oscillante tra il vecchio baronato, in cui le carriere venivano predeterminate su principi localistici e gerarchici, e il nuovo criterio della valutazione, che si picca di scegliere i più meritevoli sulla base di tradizionali concorsi e regolari bandi pubblici, pur restando nei fatti entro l’alveo della cooptazione (che in altri sistemi, come quello angloamericano o francese, è istituzionale e regolare). Forse non tutti sanno come funzionano i concorsi universitari in Italia: si bandiscono dei posti, si assegnano a un candidato che sa – mesi o forse anni prima – di dover vincere, a scapito di altri concorrenti che o ignari o ostinati si iscrivono comunque e vengono poi sottoposti all’umiliazione di un colloquio che può tradursi in una farsa o addirittura accanimento (specie quando il candidato designato non abbia grandi crediti). La recente Abilitazione nazionale sembrava voler spezzare il vincolo delle investiture baronali, a partire dai cosiddetti criteri oggettivi, il curriculum premiato in base a parametri chiari e condivisi, dalle mediane all’impact factor alle peer review. Il problema è che vi si pone mano, a quelle leggi o regole o indicazioni di massima che siano, con molta più discrezionalità e meno discrezione che nei decenni in cui la casta dei baroni veniva contestata in nome della qualità che riusciva, pur con molte deroghe e oscillazioni, a garantire. L’idoneità attribuita secondo i nuovi criteri Anvur da ormai un biennio a una non larghissima percentuale di candidati, non è valsa poi come requisito preferenziale in nessuno dei concorsi (apparentemente) liberi che si sono nel frattempo banditi con molta parsimonia nelle sedi universitarie di tutta Italia e ha funzionato esclusivamente come veicolo di messa in regola degli scatti di carriera, aggirando le lungaggini dei concorsi tradizionali. Diversa sorte hanno i candidati degli attuali concorsi della scuola o dei beni culturali, per i quali abilitazioni e titoli professionali riconosciuti e certificati costituiscono condizione preliminare irrinunciabile anche solo per concorrere, figurarsi per vincere. All’università si ricomincia sempre daccapo, come nel supplizio di Sisifo: tutto quello che si produce, in termini di titoli e pubblicazioni, può non essere ritenuto sufficiente, a dispetto della valutazione abilitante ed essere giudicato insoddisfacente a conquistare un accesso alle posizioni previste (prima e seconda fascia, docente ordinario o associato), a seconda degli umori o delle simpatie del singolo commissario, di volta in volta, caso per caso. Caso che molto spesso coincide con una commissione protetta, incline al designato e ostile ai concorrenti anche ove favoriti in partenza dall’idoneità e persino da parte degli stessi membri della commissione incaricata di attribuire quella stessa qualifica in prima istanza: possono, nel frattempo, ad arbitrio e capriccio personale, aver cambiato idea, tali membri, sul medesimo candidato e sul singolo titolo specifico. Si dirà: è sempre accaduto, le scelte sono suscettibili di errori e ripensamenti, l’uomo è fallibile, il giudizio è comunque insindacabile, tanto che gli avvocati sconsigliano ai candidati bistrattati dalle commissioni dei concorsi cosiddetti blindati di ricorrere, perché i tribunali sono conservativi e non si metteranno certo a sindacare nel merito dei giudizi individuali. Si può ricorrere, invece, in presenza di errori materiali, e spesso ve ne sono di marchiani (incarichi che cambiano sede e durata, titoli che vengono inizialmente considerati e poi dimenticati nei giudizi comparativi e altre astrusità o raggiri), ma in quel caso è sconsigliabile per un aspetto meramente economico: il candidato aspirante docente di solito non gode di stipendio, meno ancora di 7-8 mila euro in esubero da devolvere in cause e risarcimenti eventuali. Perciò si procede, il sistema si autolegittima nell’acquiescenza o nell’ignoranza generale, nessuno è contento, i docenti che perdono allievi brillanti e meritevoli per strada, chi deve rinunciare perché non può consentirsi di aspettare il concorso del 2040 in cui forse gli toccherà una miglior sorte, mentre impilando titoli, pubblicazioni, competenze certificate si sente parcheggiato come Baggio ai mondiali del ‘94. I concorsi sono materia di narrazione infinita e argomento di geremiadi ricorrenti da parte degli esclusi: anni fa Nicola Gardini ne raccontava nel pamphlet I baroni da un comodo scranno a Oxford, rivoltando la scarpa con tutta la suola, altro che sassolini. Anche Walter Siti in Scuola di nudo si mostrava tutt’altro che amabile col sistema universitario, marchiando le nefandezze dei suoi personaggi con identità ed epiteti bestiali. Ma no, non possiamo continuare con le narrazioni amusing dell’atteggiamento dimesso imposto a candidati con più titoli in curriculum dei loro esaminatori e che non devono in nessun caso però mostrarsi agguerriti o pronti al contraddittorio, pena la  mortificazione di giudizi dove tutto può essere svalutato o trascurato a dispetto di altri precedenti e differenti giudizi sulla medesima produzione scientifica e a tutto vantaggio del designato, il quale dal canto suo potrà serenamente fregiarsi di soli titoli editi in edizioni semiclandestine o self-publishing.  E non diremo dei commissari che si barricano dentro col vincitore annunciato, dopo aver platealmente premesso che il concorso si sarebbe svolto a porte aperte “per la regolarità della procedura”, o dei docenti che entrano intimidatori nelle stanze in cui è riunita una commissione di cui non fanno parte ma che sta per giudicare il loro candidato, infine sorvoleremo sui colloqui che non corrispondono ai criteri enunciati dai bandi, prevedendo l’accertamento di competenze del tutto aliene da quelle previste dal ruolo per cui si concorre (come nel caso di un colloquio in francese per l’assegnazione di un posto da ricercatore di Letteratura italiana in un dipartimento di Studi americani: “perché la favorita l’inglese non lo sa”). E trascuriamo anche il fatto che siano già pronte a insediarsi nuove commissioni strapagate per sfornare ulteriori abilitati che come i precedenti a nulla potranno far valere il titolo conseguito, se non a trascriverlo in curricula che non verranno mai esaminati al dettaglio, figurarsi considerati di un qualche peso o valore. D’altra parte abbiamo delle vite lunghissime e garantite, possiamo ben consentirci di moltiplicare la forza lavoro e le sue aspettative, senza sforzarci nel frattempo di liberare o creare in tempi accettabili a programmarsi non dirò un futuro ma un presente appena superiore alla sopravvivenza posti, occasioni, percorsi puliti e realmente concorrenziali. Non resta che provare a rispondere alla domanda iniziale: chi giudica coloro che giudicano e perché il loro operato è insindacabile, anche ove mostrino incompetenza o malafede? A qualcuno, me compresa, non piace ridurre una questione pubblica a un esercizio di controllo: che ci rimanga almeno di poter ridere, se la pietà per costoro non riesce a prevalere, quando leggiamo quei verbali lacunosi, imprecisi e scritti male che al di là dei criteri di merito sfacciatamente disattesi proprio non ce la fanno a sembrare qualcosa di diverso da una presa in giro.

Università, concorsi truffa: “Bocciati i migliori per far passare i raccomandati”. La Legge Gelmini avrebbe dovuto eliminare il problema delle "spintarelle" nei bandi per diventare professori, ma - secondo la segnalazione di uno dei partecipanti che pubblichiamo integralmente - ha soltanto peggiorato la situazione, scrive "Il Fatto Quotidiano il 15 novembre 2013. Bocciare i più bravi per fare passare i raccomandati. La Legge Gelmini avrebbe dovuto eliminare il problema delle “spintarelle” nei concorsi locali per diventare professore, introducendo la cosiddetta abilitazione nazionale per spostare la valutazione dei candidati a livello nazionale. Ma, secondo la segnalazione di un ricercatore di organizzazione aziendale, ha soltanto peggiorato la situazione. L’aspirante idoneo, che ha rivelato la sua identità a ilfattoquotidiano.it ma preferisce restare anonimo, racconta di avere scoperto di non avere passato il concorso nel settore 13 B3-organizzazione aziendale grazie all’anticipazione dei risultati, che di per sé rappresenta una violazione del segreto professionale richiesto ai commissari. E spiega come con la nuova riforma le pressioni sulla commissione non si limitano più alle raccomandazioni per fare passare qualcuno, ma viene anche chiesto ai commissari di bocciare i candidati più bravi, che altrimenti rischierebbero di ostacolare i raccomandati nella selezione successiva a livello locale. Ecco la segnalazione che abbiamo ricevuto: “In occasione dell’annuale convegno dell’Associazione Italiana di Economia Aziendale (AIDEA) tenutosi a Lecce il 19, 20 e 21 sono stati anticipati i risultati dell’Abilitazione Scientifica Nazionale (ASN) nel settore concorsuale 13 B3 – Organizzazione Aziendale che saranno ufficializzati il prossimo 30 novembre. La notizia ha fatto il giro d’Italia in pochi minuti (potenza dei cellulari e di internet) e cosi la notizia dell’esito, è diventata praticamente di dominio pubblico. Il fatto che questo rappresenti una violazione alle disposizioni amministrative e penali previste dall’ordinamento a tutela del “segreto d’ufficio” (art. 15 del D.P.R. n.3 del 1957 e art 326 C.P) non sembra importare. Ma cos’è l’Abilitazione Scientifica Nazionale? La legge 240/2011, detta legge Gelmini, introduce la cosiddetta abilitazione nazionale. Ossia, al fine di rimediare alle “combine” dei concorsi locali (si vedano gli scandali di Bari, Messina e un’altra decina di università Italiane equamente sparse sul territorio nazionale). La legge ha spostato la valutazione dei candidati a livello centrale, ossia nazionale, in modo da evitare che interessi locali (parentopoli e varie) potessero influire sulla valutazione di chi si sottopone a un concorso pubblico. Lodevole l’idea, pessima la sua applicazione. In pratica per legge 5 commissari decidono del futuro di centinaia di persone: gli aspiranti idonei. E’ facile immaginare a quali pressioni i commissari siano stati sottoposti da parte di chi aveva un allievo sotto esame e non solo. In più, in raggruppamenti piccoli come quello di Organizzazione Aziendale, è altamente probabile che i commissari si trovino a valutare i propri allievi, di qui potete immaginare le negoziazioni e gli scambi di favore che ne scaturiscono. Il quadro che sta emergendo dalle anticipazioni ed indiscrezioni è quello di un sistema in cui, alla fine, non è cambiato assolutamente nulla. I giornali hanno già riportato il caso della commissione di diritto costituzionale dove uno dei commissari si è dimesso denunciando “una regia occulta ed esterna” volta a pilotare i risultati della commissione. Il caso, mi sembra non isolato. Almeno a giudicare dalle notizie della commissione di Organizzazione Aziendale. Il sistema infatti sembra aver trovato il modo di sfruttare a suo favore la nuova procedura. Soprattutto in quei settori “piccoli” con poche centinaia di afferenti. Secondo un meccanismo tipicamente italiano, il sistema ha elaborato la pratica secondo la quale, oltre a raccomandare o spingere candidature per un esito positivo, si fanno arrivare alla commissione le “raccomandazioni a-contrario”. Ossia si fa pressione per “bloccare” eventuali candidati scomodi. Ma Perché scomodi? Va detto che l’abilitazione nazionale non è un concorso. La commissione deve decidere solo se un candidato ha un curriculum che soddisfa criteri generali di qualità (che la stessa commissione deve aver dichiarato e pubblicato). Quindi chi ottiene l’abilitazione non ottiene un posto, ma solo “il titolo” di potenziale associato o ordinario che lo abilita appunto a partecipare ad un eventuale futuro concorso o selezione di una qualche università Italiana. Per diventare veramente associato o ordinario (e progredire nella carriera), Il candidato ha quindi due possibilità: o viene “promosso” per meriti dalla sua università oppure deve partecipare ad un concorso bandito dalla sua o da un’altra università. E qui si svela il gioco. Se voglio continuare a gestire le chiamate e le carriere a livello locale non posso permettere che dalla commissione nazionale escano solo quelli bravi. Devono uscire quelli che servono. Soprattutto ora, dove con il blocco del turn-over, i posti a disposizione sono pochi, anzi pochissimi. Per completare il quadro con e tra quelli che servono ci sono anche quelli bravi (così posso dire: vedete che è stato premiato il merito?) dietro cui nascondere tutto il resto. E allora perché rischiare e violare la legge anticipando gli esiti? Per tre ragioni: 1. Certezza dell’impunità. A chi interessa un fatto del genere? A nessuno. In fondo non hanno ucciso nessuno. Hanno semmai evitato a molti l’angoscia del dubbio. 2. Strategia. Si fanno sapere ora i risultati, soprattutto per quelli da togliere di mezzo. In questo modo gli interessati si arrabbiano oggi, ma non possono fare nulla perché il risultato non è ufficiale. Quindi i “trombati” passano uno o due mesi a cercare di capire perché sono stati fregati, ma non possono fare nulla perché in realtà sanno ma non potrebbero/dovrebbero sapere. Alla fine dopo due mesi di frustrazione ufficializzano il risultato e i trombati sono già troppo stanchi e amareggiati per fare qualsiasi cosa. Si rassegnano, imprecano contro quest’Italia che non funziona e amen! 3. Gestione del potere. Sapere ora che ci sono un certo numero di abilitati dà la possibilità di negoziare le “chiamate” e l’allocazione delle risorse (che ricordiamo che i posti sono pochi, quindi prima mi muovo meglio mi trovo). Se oggi so prima degli altri che il mio allievo ha l’abilitazione, posso andare dal direttore di dipartimento o dal rettore e iniziare la negoziazione prima degli altri. Quindi, la morale per l’università qual è: “lasciate ogni speranza o voi che entrate”. Amen. Con affetto, Uno dei tanti partecipanti all’ennesima farsa di questa vostra povera Italia”.

Insegnamento scolastico. Cose strane al concorsone. Concorso scuola, le denunce sul web: “È caos, chiamati i carabinieri”. Il Miur: “Tutto regolare”. Nel giorno delle prime prove scritte segnalate irregolarità a Roma e Palermo: «Mancano le commissioni». La replica: «Non ci risulta». E i sindacati proclamano lo sciopero generale. L’entrata di alcuni partecipanti al «concorsone» per la scuola al liceo Virgilio, Roma, scrive il 28/04/2016 Lidia Catalano su “La Stampa”. Si è aperto tra le polemiche e qualche denuncia il primo giorno del concorso scuola 2016. Questa mattina alle 8 i primi 1.356 candidati si sono presentati nelle sedi previste dagli uffici scolastici regionali per rispondere agli 8 quesiti, per la prima volta al computer. I primi a cimentarsi con lo scritto sono stati i professori di Storia dell’arte, Scienze, tecnologie e tecniche agrarie, Laboratorio di liuteria, Design del libro, Scienze e tecnologie nautiche e Laboratorio di scienze e tecnologie meccaniche. Ma la partenza - denunciano le associazioni dei precari - è stata tutta in salita. Sui social network molti hanno segnalato che è stato richiesto l’intervento delle forze dell’ordine per mettere a verbale l’assenza della commissione esaminatrice e delle griglie di valutazione. I disordini sono stati segnalati in particolare all’Istituto Virgilio di Roma e al Mario Rutelli di Palermo. Il ministero però ha smentito le irregolarità: «Smettiamola, il concorso è partito regolarmente», ha dichiarato all’Ansa il Miur. Sono oltre 165mila i candidati che si contenderanno le 63mila cattedre bandite dal Ministero dell’Istruzione. Le prove scritte durano 150 minuti e prevedono 6 quesiti a risposta aperta più due domande in lingua straniera. Tra i partecipanti, oltre otto su dieci sono donne e l’età media è di 38,6 anni. Si tratta in maggioranza di candidati in possesso del Tfa (Tirocinio formativo attivo) e del Pas (il percorso abilitante speciale riservato agli insegnanti con tre anni di esperienza). Insomma, chi arriva al concorso ha già superato una selezione durissima, con esami e discussione della tesi finale. Il calendario degli scritti si chiuderà il 31 maggio con il test per la scuola dell’infanzia.  I paletti di accesso al concorso imposti dalla Buona Scuola hanno fatto insorgere i non abilitati, che hanno presentato una pioggia di ricorsi al Tar e hanno fatto storcere il naso anche agli stessi abilitati: «Ci hanno già giudicati, cos’altro dobbiamo dimostrare?», è il commento più diffuso tra gli iscritti ai gruppi Facebook «No concorso». Il Miur ha dovuto fare i conti anche con una serie di intoppi burocratici, come la penuria di commissari, l’assenza di griglie di valutazione univoche o la polemica sulla pubblicazione tardiva del bando, prevista entro l’1 dicembre e slittata al 29 febbraio.  Questa mattina il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini è intervenuta ai microfoni di Rainews24: «Sono prove innovative, tengono conto che gli aspiranti docenti sono tutti abilitati e quindi abbiamo già avuto modo di controllare verificare le loro competenze la loro conoscenza delle materie su cui si presentano. Quello che ci interessa è verificare come sanno insegnare, quindi sia nell’orale che nello scritto sarà prevalente la metodologia, la volontà di vedere se saranno dei buoni insegnanti». «Credo - ha detto il ministro - che sia storicamente il concorso più grande che la scuola italiana abbia organizzato, finalmente si torna alla Costituzione dopo tantissimi anni in cui i concorsi erano stati bloccati». In merito ai ricorsi il ministro ha spiegato: «Ci sono stati alcuni ricorsi parliamo di unità su centosessantacinquemila domande inoltrate quindi un numero piccolissimo».  Intanto i sindacati della scuola - Cgil, Cisl, Uil e Snals - hanno proclamato per il 23 maggio uno sciopero generale. L’annuncio è arrivato nel corso di una manifestazione a Montecitorio cui hanno partecipato le sigle insieme a docenti, Ata e dirigenti provenienti da tutta Italia, per «raccontare la loro idea di scuola: «Una scuola vera, fatta di partecipazione, collegialità, autonomia e contrattazione, una scuola che valorizza tutte le professionalità e ascolta i bisogni di tutto il personale che vi lavora ogni giorno». L’annuncio non è piaciuto al ministero. «Trovo singolare proclamare uno sciopero contro un governo che assume ed annunciarlo nel giorno in cui parte un concorso da 63.712 posti - è il commento di Giannini - Ricordo che questo è un governo che investe sull’istruzione 3 miliardi di euro in più all’anno».   

I commissari del Concorsone pagati 50 centesimi a esame. «La nuova legge? È inutile», scrive Gian Antonio Stella il 18 luglio 2016 su “Il Corriere della Sera”. A cento giorni dalla denuncia del caso, mancano i decreti attuativi. Meglio raccogliere pomodori. Cento giorni dopo aver chiesto provocatoriamente se fosse peggio il caporalato agricolo che paga gli schiavi nei campi 2 euro l’ora o il caporalato statale che ai commissari del concorsone voleva dare 1 euro e 5 cent, abbiamo la risposta. Lo Stato, per ora, non dà lezioni neppure agli schiavisti. E l’ingaggio di 63mila docenti, a due mesi dall’apertura delle scuole, è sempre più complicato. Matteo Renzi c’entra e non c’entra. Dopo aver letto il 9 aprile la denuncia del Corriere, nata da quella di «Tuttoscuola», sulla difficoltà di trovare tutti i membri necessari per le commissioni di esame anche a causa di paghe da fame («50 centesimi di euro pari a mezzo caffè per la correzione di ogni elaborato e 50 centesimi di euro per ogni candidato esaminato all’orale») il premier era infatti andato (giustamente) su tutte le furie esigendo che l’Economia e l’Istruzione mettessero subito una pezza alla figuraccia. Lunedì 11 aprile il governo annunciava «un immediato intervento riparatorio». E già il giorno dopo, riconosce la rivista, il ministero dell’Economia chiese a quello dell’Istruzione «i dati necessari per quantificare l’onere finanziario e corrispondere all’impegno assunto dal premier. La macchina amministrativa pertanto si mosse con tempestività, dietro la diretta sollecitazione del capo dell’esecutivo». Imperativo: «massima urgenza». Il problema, come ricorda il periodico di Giovanni Vinciguerra, «è che serve una legge per modificare il compenso. Il 20 aprile il sottosegretario Faraone annuncia il raddoppio dei compensi per gli incarichi (un’integrazione di 8 milioni sui fondi stanziati). E dichiara che il Governo ha presentato un emendamento a un decreto legge in fase di conversione». La strada parlamentare «più rapida possibile». Il Senato accoglie l’emendamento «e il 12 maggio (un mese dopo le dichiarazioni del premier) approva in prima lettura le legge. Si passa alla Camera, che il 25 maggio approva definitivamente la legge, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 28 maggio. Il 29 maggio entra in vigore. Sono passati 49 giorni da quando il premier aveva preso la decisione». Ma non è finita. L’emendamento prevede «che entro un mese dall’entrata in vigore della legge venga emanato un decreto interministeriale di applicazione». Ma come: non ci era stato promesso mille volte il superamento dei decreti attuativi («ne abbiamo trovati in eredità 889», sbuffò Maria Elena Boschi) promettendo leggi e leggine «auto-applicative»? Macché. Anzi, quel mese di tempo scadeva il 28 giugno. Pochi giorni e ne scadrà un altro. E magari Renzi, alle prese con altre grane, è pure convinto che ormai quella pratica sia sbrigata… Morale: cento giorni, in scadenza esattamente oggi, non sono bastati a fare chiarezza neppure su un caso specifico, «minore» e relativamente semplice la cui soluzione era invocata da tutto l’arco parlamentare, da destra a sinistra, grillini compresi. E meno male che, per ordine del premier in persona, era stata decisa la «massima urgenza»…Cento giorni: quelli sufficienti a Napoleone (evaso dall’Elba, sbarcato a Cannes e tornato trionfante a Parigi in un mese) per riprendersi la Francia, fare una nuova costituzione, convocare su questa e vincere il plebiscito, riordinare un esercito di 300 mila uomini, attaccare i prussiani, invadere il Belgio e sfidare il Duca di Wellington a Waterloo… Per carità, i tempi della democrazia saranno anche sacri ma qui c’è qualcosa che non va. Tanto più che la chiarezza sulla (magra) mercede, ricorda Tuttoscuola, «doveva servire anche a incentivare dirigenti scolastici e docenti con determinati requisiti a farsi avanti per l’incarico di commissario». A quelle condizioni, «pochi erano votati al sacrificio». E pochi, nell’incertezza sui compensi (quanti? a chi? quando?), sono rimasti. Intanto, ricorda la rivista in uscita, «le prove scritte si sono concluse. Da settimane si tengono le prove orali di molte classi di concorso, e gli uffici scolastici regionali ancora si affannano a cercare i commissari». E questo, dicevamo, a meno di due mesi dall’inizio del nuovo anno scolastico che dovrebbe vedere l’ingresso, dalle materne alle superiori, di quei 63.712 nuovi docenti in corso di selezione tra i 165.578 candidati, alcuni dei quali «avevano presentato più di una domanda di partecipazione». Non bastasse, per alcune materie son previste prove tecniche e comunque tra la pubblicazione di chi ha passato gli scritti e gli orali devono passare «almeno 20 giorni». Risultato: «visti i tempi delle procedure», il termine utile per le graduatorie, che dovevano essere definite entro il 31 agosto, è stato spostato al 15 settembre. Auguri. Tanto più che per una ventina di queste graduatorie «si sono rese necessarie prove scritte suppletive per effetto di un’ordinanza di sospensiva del Tar che ha accolto il ricorso di candidati esclusi». Ma quante graduatorie saranno definite in ritardo, «dispiegando la loro efficacia soltanto dal 2017-18?». Tuttoscuola è pessimista: «Certamente arriveranno fuori tempo massimo i concorsi di scuola dell’infanzia e scuola primaria per posti comuni, che riguardano circa la metà dei candidati». Auguri bis. Peggio: giovedì scorso Stefania Giannini ha dovuto firmare un’ordinanza: poiché «in alcune regioni non è stato possibile reperire un numero sufficiente di presidenti, commissari e componenti aggregati per l’accertamento delle conoscenze informatiche e delle competenze linguistiche», i responsabili regionali per questi settori possono «prescindere dai requisiti» fissati dal Decreto ministeriale «ferma restando la conferma in ruolo». Se proprio non ce la fanno neppure in questo caso, cioè con la precettazione e l’abbuono dei requisiti («ad esempio almeno 5 anni di ruolo: in teoria sarebbero possibili commissari anche i neo-assunti», spiega Vinciguerra) potranno «ricorrere con proprio decreto motivato alla nomina di componenti aggregati assicurando la partecipazione alle commissioni giudicatrici di esperti di comprovata competenza». Cioè gente presa, par di capire, sul libero mercato. Scommettiamo? C’è chi sta già scrivendo i ricorsi…

I prof interrogati al concorsone dalla collega bocciata allo scritto. Ma l’insegnante chiamata a fare la commissaria rifiuta: «L’etica va rispettata». Antonella Scilef, 51 anni, otto anni da supplente alle spalle, è una delle migliaia di bocciati alle prove scritte del concorso per professori, scrive Valentina Santarpia il 29 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". «Sono stata giudicata un’imbecille: forse lo sono, ma allora non sono neanche in grado di giudicare i miei colleghi. Va bene tutto, ma c’è un’etica da rispettare, quello che sta succedendo è profondamente sbagliato». Antonella Scilef, 51 anni, otto anni da supplente alle spalle, è una delle migliaia di bocciati alle prove scritte del concorso per professori. Ma nello stesso giorno in cui ha appreso di non essere stata ammessa agli orali per insegnare francese alle superiori, è stata chiamata dalla segreteria della sua scuola- l’istituto alberghiero di La Spezia- per essere parte della commissione che avrebbe giudicato i colleghi candidati che ce l’avevano fatta. Un paradosso, dovuto probabilmente al fatto che la segreteria non era a conoscenza dell’esito dell’esame, ma era a caccia di commissari, come in molte altre regioni, dove le paghe basse hanno portato a un boom di dimissioni: «E infatti ho detto subito di no, non ci ho pensato un secondo», racconta ancora incredula la professoressa, laureata in Lingue e letterature moderne, abilitata all’insegnamento da un Tfa (Tirocinio formativo attivo) nel 2013, già insegnante all’Einaudi Chiodo da tre anni con contratti annuali. La candidata bocciata che diventa commissario: «Come posso essere io a giudicare gli altri?» «Se non sono abbastanza brava da aver superato la prova scritta per diventare insegnante a tempo indeterminato, come posso permettermi di giudicare i miei colleghi? Meritano di essere valutati da professori superiori, non di pari livello, o addirittura inferiori, come sono io evidentemente. Che io sia un’imbecille ci sta, posso anche accettarlo- insiste sconfortata - ma chi ce l’ha fatta merita trasparenza e giustizia». È il ritornello che vanno ripetendo da giorni i candidati alla nuova selezione per docenti: falcidiati alle prove scritte (le prime stime, al ribasso, parlano del 50% di bocciati sui 165 mila candidati che concorrono per 65 mila posti), hanno iniziato a confrontarsi sui social network e hanno scoperto che in moltissime classi di concorso si stanno verificando pasticci, incongruenze, irregolarità. Ci sono classi di concorso- come quella per insegnare Filosofia alle medie in Calabria- dove nessuno è stato ammesso agli orali. Altre - come Musica- dove i prof candidati erano in concorrenza con i commissari, aspiranti supplenti sulle stesse cattedre. Altre ancora- vedi i Laboratorio di Tecnologia e Microbiologia- dove al posto delle prove venivano svolte delle relazioni scritte. Ma anche software malfunzionanti, domande inesistenti nei programmi, intere commissioni dimissionarie in Toscana e in Lombardia. «Siamo tutti abilitati: qualcosa non ha funzionato». «Ho sempre rispettato le regole, ma qui le hanno capovolte». Manie di persecuzione, come dicono le malelingue? Antonella non ne soffre: «Io ho sempre accettato i giudizi, anche stavolta non ho nemmeno fatto la richiesta di accesso agli atti, e non so se la farò. Ho sempre rispettato le regole, ho due figlie di 17 e 12 anni a cui mi sono dedicata prima di decidermi di tentare la strade dell’insegnamento, e che hanno sempre frequentato la scuola pubblica, in cui io credo profondamente. Ma in questo caso le regole sono cambiate sotto i nostri occhi. Se non ho superato il concorso, allora chi ha sbagliato? Chi mi ha formato e mi ha dato un’abilitazione, con tanto di esame e saldo di 1200 euro finale? La formazione allora in Italia non funziona? Il sistema di abilitazione?». Eppure Antonella non s è neanche fermata ai canali ufficiali, pur di essere preparata: oltre alle frequenti visite in Francia per mantenere la dimestichezza con la lingua, ha conseguito un diploma privato all’Alliance: «Ho preso 89,5 su 100 per il livello B2, non mi sembra poco. Se entro in una classe so di avere una responsabilità». «Sarò brava per fare la supplente?» Perciò quando l’hanno chiamata per fare la commissaria, non ha avuto neanche la minima tentazione di rivalsa: «No, neanche per un attimo. Siamo tutti sullo stesso barcone. C’è una solidarietà, c’è un’etica da rispettare, ci resta solo questo a cui aggrapparci. Io resterò probabilmente senza lavoro- e qui la voce si spezza- Butterò all’anno anni e anni di studio e impegno, non vedrò più i miei ragazzi: ma pazienza, prenderò la disoccupazione, o magari mi chiameranno come supplente». Ed è questo, lo spettro che aleggia sul concorso, che insieme al maxi piano di assunzioni - 90 mila assunti finora su 103 mila promessi- avrebbe dovuto mettere fine alla supplentite: in realtà ci sono già centinaia di cattedre che, anche promuovendo tutti gli ammessi agli orali, resteranno scoperte. A coprirle saranno i supplenti: i bocciati, per capirci. «Per un posto a tempo determinato- commenta amara Antonella- forse non sarò più tanto imbecille».

Concorso prof nel caos: bocciata allo scritto chiamata a fare il commissario all’orale. L'ennesimo pasticcio sul concorsone per professori. A Palermo, per la classe di sostegno per le scuole medie, sono stati persi i codici con cui vengono abbinati i compiti agli aspiranti professori. I candidati sono stati convocati per riconoscere il proprio compito, ma molti si sono rifiutati, scrive Valentina Santarpia il 18 luglio 2016 su “Il Corriere della Sera”.

1. La candidata bocciata che diventa commissario. Non era tanto brava da essere ammessa agli orali, ma lo è per giudicare gli altri candidati. L’ennesima beffa del concorsone prof viene raccontata sulle pagine di Orizzonte scuola. La candidata di cui parla il sito specializzato in aggiornamenti sul mondo dell’insegnamento è in possesso di abilitazione TFA I ciclo, ma ha già alle spalle vari anni di precariato nella scuola e può vantare varie certificazioni nel proprio curriculum. Deve essere stato proprio questo a indurre l’Ufficio scolastico regionale - alla disperata ricerca di commissari - a sceglierla, probabilmente come commissario aggregato, per far parte della commissione giudicatrice. Peccato però che l’aspirante prof, essendo stata bocciata agli scritti, abbia preferito declinare l’offerta.

2. Nessun filosofo promosso in Calabria. Nessun ammesso alle prove orali per la casse di concorso di Filosofia e Scienze umane in Calabria. È l’ennesima beffa di questo concorso per professori, certificata dalla commissione che due giorni fa a Vibo Valentia si è riunita per sancire che non ci saranno gli orali per i prof di filosofia, e che tutti i posti a disposizione saranno quindi coperti da supplenti. «Mi rifiuto di pensare che i miei colleghi in questo caso tutti siano impreparati», scrive un’aspirante professoressa, che parla di «mattanza».

3. Palermo, codici «spariti» nella classe di sostegno. Quando si sono visti arrivare la mail per la convocazione a scuola, si sono stupiti non poco i candidati nella classe di concorso al sostegno nelle scuole medie a Palermo. «Nessuna possibilità di delega», c'era scritto nella mail di invito a presentarsi a scuola. Ma quando hanno scoperto il motivo, sono rimasti più che basiti: i commissari hanno chiesto loro di riconoscere i propri compiti, perché- dopo la correzione- sono stati «persi» i codici che permettono l'abbinamento del compito al candidato, e quindi nessuno era più in grado di associare il voto al candidato, e di stilare la classifica per l'ammissione agli orali. È successo il finimondo. Anche se la commissione ha presentato una regolare denuncia per furto contro ignoti, moltissimi candidati si sono rifiutati di riconoscere la prova, e hanno chiesto l'annullamento. Altri invece lo hanno fatto, sperando di accelerare la procedura e far andare avanti il concorso. Cosa succederà? Per ora non si sa.

4. Record di bocciati. Quello di Palermo è solo l'ultimo pasticcio di un concorso contestatissimo, dove le segnalazioni di pasticci e irregolarità si moltiplicano giorno dopo giorno. Secondo una prima stima sui dati parziali degli uffici scolastici regionali, solo il 55% dei candidato è stato promosso alle prove scritte. Un'alta percentuale di bocciati, dunque, per motivi che potrebbero non avere a che fare con la giusta severità delle commissioni, ma con procedure e organizzazioni inadatte a giudicare in maniera imparziale. È il caso della gaffe dell’ufficio scolastico regionale lombardo, che ha commesso errori nell’associare un gruppo di docenti della classe di concorso A051: dopo la richiesta di accesso agli atti, è stato ammesso l’errore e sono stati ammessi tutti agli orali con il punteggio minimo. Ma i candidati colpiti - circa 90 persone tra Piemonte, Liguria e Lombardia - sono intenzionati a chiedere l’annullamento della prova: «Questo non è un torneo di bocce».

5. Lombardia: ci sono tre commissari con lo stesso cognome. È solo uno dei casi strani del concorsone per professori, segnalati dai docenti abilitati che stanno tentando di superarlo per conquistare l’agognata cattedra. La commissione lombarda per la casse A28, di matematica e scienze, è cambiata per l’ennesima volta. Stavolta, dopo la rinuncia della commissaria Daniela Songini, è stata nominata la professoressa Claudia Panzeri, docente presso l’istituto comprensivo Lecco 4, che -guarda caso- ha lo stesso cognome della presidente, Anna Panzeri, dirigente scolastico dell’IC di Oggiono, e di un’altra commissaria, Chiara Panzeri, docente presso il Parini di Lecco, e aggregata sia di spagnolo che di francese che di tedesco. «È normale che la commissione A028 Lombardia continui a cambiare e che nell’ultima versione ci siano tre commissari con lo stesso cognome evidentemente imparentati?? In tutto questo non sappiamo ancora quando sosterremo la prova pratica», dice Paolo Conforti.

6. Toscana e Veneto: dimissioni in massa e commissari introvabili. In Toscana l’intera commissione della classe di concorso A31 ha rassegnato le proprie dimissioni. Le motivazioni non sono state ancora chiarite, ma è probabile che stia accadendo qualcosa di simile a quanto, da settimane, sta succedendo in Veneto per quanto riguarda la classe di concorso della scuola primaria: ancora una volta un commissario ha rassegnato le proprie dimissioni e si è alla ricerca di chi potrà sostituirlo. Sembra sia ritenuto lesivo della dignità docente lavorare come commissario a circa 2 euro all’ora: una cifra che tra l’altro non è neanche stata confermata dai decreti attuativi, e che quindi potrebbe essere rivista al ribasso. In più, dati i ritardi, questi docenti dovrebbero rinunciare alle proprie ferie: in Campania, ad esempio, gli orali si terranno anche in pieno mese di agosto. Il Miur potrebbe correre ai ripari chiamando docenti universitari o esperti del settore. Ma il ricorso è dietro l’angolo.

7. Il software che cancella le risposte. A proposito di ricorso, sono proprio i ricorrenti di Adida, un’associazione nata partendo dai professori bocciati e arrabbiati, a segnalare alcune delle anomalie delle prove concorsuali, che avrebbero inficiato la loro validità. Tanto è vero che hanno già pronta una denuncia, firmata da oltre 400 insegnanti, per chiedere l’annullamento del concorso. Una di queste riguarda lo svolgimento della prova computerizzata, che prevedeva l’utilizzo di un supporto elettronico dotato di uno specifico software per l’esecuzione della prova, uguale su tutti i PC e per tutti i candidati. «Oltre ad essere state date errate istruzioni sul loro funzionamento, inducendo gran parte dei candidati a commettere errori compromettenti ai fini del risultato, anomalie importanti si sono verificate anche per ciò che attiene tali software», secondo quanto si segnala nella denuncia che sta per essere presentata alla Procura. Un esempio su tutti? Non vi erano informazioni che premendo il tasto «indietro» sul supporto elettronico, che normalmente viene utilizzato per rileggere le risposte date, il testo già scritto veniva cancellato. Ovviamente ciò ha comportato per molti candidati un’ulteriore perdita di tempo perché hanno dovuto riscrivere le risposte che il software ha erroneamente eliminato, le hanno dovute riscrivere. In alcuni casi i candidati hanno preteso che il disguido venisse verbalizzato.

8. Le griglie di valutazione: queste sconosciute. La quasi totalità dei candidati lamenta l’assenza delle griglie di valutazione con cui si sarebbero dovuti stabilire i parametri di utilizzo per le valutazioni delle prove previste dal bando e svolte dai candidati interessati. L’assenza di griglie ha interessato l’intero territorio nazionale, generando legittimi dubbi sulla regolarità delle procedure. In una sede di Bologna, dopo l’ingresso in aula, ma prima dell’inizio della prova, i candidati hanno chiesto gli atti di nomina dei commissari agli stessi e le griglie di valutazione. «Nulla di tutto ciò è stato fornito prima dell’inizio della prova», si legge nella denuncia.

9. La domanda che non c’è. A Torino si svolgeva la prova di arte e storia dell’arte quando i candidati hanno segnalato l’assenza di supplenti della commissione giudicatrice. Ma, soprattutto, che una delle domande presenti nel test (la n.4), non risultava citata in alcun libro di testo e nemmeno nelle indicazioni nazionali, nè tantomeno nei programmi ministeriali.

10. Musicisti senza abilitazione. Nella prova di Concorso AD02 (area disciplinare umanistica-linguistica-musicale), si segnala che hanno partecipato alla selezione anche persone non abilitate, che era invece una condizione necessaria indicata nel bando ministeriale. I candidati privi del requisito dell’abilitazione non avrebbero potuto prendervi parte. Ed invece, risultavano regolarmente inseriti nell’elenco dei partecipanti e hanno svolto, altrettanto regolarmente, le prove previste per la selezione, senza averne assolutamente titolo e senza neanche essere stati ammessi da un tribunale amministrativo previo ricorso.

11. Le aule «casuali». Gli elenchi dei concorrenti partecipanti alle classi di concorso per i docenti candidati all’insegnamento presso le scuole primaria e dell’infanzia della provincia di Roma, presentavano delle importanti singolarità. Gli elenchi in cui si stabiliva l’assegnazione dei candidati alle aule dove si tenevano le prove, secondo quanto stabilito dal bando di concorso, seguivano l’ordine alfabetico. L’assegnazione presso le aule per lo svolgimento delle prove, in alcuni casi, e quindi per alcune persone, non rispettava però il criterio dell’ordine imposto dal bando. L’ordine alfabetico per alcune pagine viene interrotto, e capitava di ritrovare candidati in classi uguali, senza un’apparente criterio logico che legittimasse tale assegnazione.

12. Matite o penne? Il 16 giugno 2016 si svolgevano le prove concorsuali per la classe A60 di tecnologia in Veneto: e anche qui «si sono verificati dei fatti poco chiari», spiega Valeria Bruccola di Adida. Ai candidati era stato consigliato di portare del materiale specifico per lo svolgimento di tali (matite, squadrette, compasso, temperino e gomma). Molti concorrenti hanno portato materiale diversi da quelli indicati (es. colori e penne). In alcune sedi le commissioni hanno lasciato libertà di utilizzo, mentre in altre no. Anche l’atteggiamento dei commissari era molto diverso in base alle situazioni. Non sono stati fatti depositare i telefoni cellulari, e come se non bastasse, alcuni candidati hanno scritto il proprio nome sul compito prima di essere consegnato, cosa assolutamente vietata.

13. Una prova «poco» pratica. Nell’allegato A del Bando (Prove e programmi d’esame), a pag. 96 viene chiaramente indicato come deve svolgersi la prova pratica per la classe A050 - Scienze Naturali, Chimiche e Biologiche. Nel testo originale sono chiaramente indicati due prerequisiti: esecuzione e interdisciplinarietà riferita ai campi delle Scienze Naturali, Chimiche e Biologiche. Tranne che in Sardegna, le prove non sono state né eseguite né interdisciplinari. In Abruzzo, ad esempio, non c’erano materiali per far fare la prova a tutti i candidati, che quindi hanno dovuto scrivere una relazione. «Come sarà stata valutata la nostra prova pratica, che di pratico non ha avuto niente???», si chiede una docente. In un altro caso i candidati hanno svolto la prova pratica di laboratorio in gruppo collaborando reciprocamente. «Nel mio caso specifico, l’esperienza di laboratorio da sostenere era il saggio alla fiamma di due sali noti- racconta una delle insegnanti bocciata nel Lazio- Convinta di dover svolgere l’intero esperimento in totale autonomia, mi sono ritrovata a svolgere una parte dell’esperimento: il tecnico del laboratorio ha acceso il becco Bunsen, una collega ha preparato il sale da saggiare e una seconda collega ha eseguito la pulizia del filo di platino e il saggio alla fiamma del primo sale; la prima collega ha poi preparato il secondo sale e io ho eseguito la pulizia di un secondo filo e il saggio alla fiamma del secondo sale. Concluso l’esperimento siamo stati mandati in un’aula per scrivere la relazione».

Ecco le storie dei prof bocciati al concorsone: dal tenore pugliese all’insegnante di francese. Da Milano a Napoli è record di non ammessi all’orale. Migliaia di cattedre finiranno ai supplenti, scrive Valentina Santarpia il 15 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera".

1. «Siamo tutti abilitati: qualcosa non ha funzionato». Anche se non ci sono ancora risultati ufficiali sul territorio nazionale, i primi resoconti degli uffici scolastici regionali somigliano a bollettini di guerra. In Emilia-Romagna su 37 candidati per i laboratori di Scienze e tecnologie meccaniche, ammessi agli orali in 16. In Lombardia 7 su 68 iscritti hanno superato la prima prova per il Laboratorio di scienze e tecnologie chimiche. I posti banditi sono 51. Sul sostegno è una débâcle: in Sardegna per 18 posti alle superiori ammesso un solo candidato alla prova orale, in Piemonte alla primaria ce l’hanno fatta in 130 su 333. «Le prime stime parlano del 55% degli ammessi», dice Rosa Sigillò, coordinatrice di Mida precari. Le cattedre scoperte dovranno essere assegnate a supplenti, in barba alle promesse del governo. Sui social corre la rabbia, ed è pronto un esposto per contestare malfunzionamenti e incongruenze delle prove. «Siamo tutti preparati e abilitati — spiega Valeria Bruccola, dell’associazione Adida —. Qualcosa non ha funzionato».

2. Il tenore respinto alla prova di canto: «Spartito impossibile». Dai palchi dei teatri lirici di tutto il mondo alla bocciatura alla prova di canto per il concorso per insegnanti a Modena. Quella di Gianni Coletta, 40 anni, tenore, pugliese, diplomato al conservatorio di Monopoli e poi specializzato all’istituto Vecchi di Modena, è una storia paradossale. «Avevo deciso di fare il concorso come insegnante di canto nei licei musicali perché la carriera da concertista era troppo pesante, ora che ho due bimbi e mi pesa viaggiare tanto. È dal 2006 che lavoro a scuola. Mai avrei creduto di essere bocciato alla prova pratica»: eppure è andata così. «Mi hanno dato il giorno prima un brano di repertorio contemporaneo da preparare, era un pezzo difficilissimo, sette pagine di spartito: ho studiato e credo di aver fatto una buona esibizione. Invece mi sono trovato tra i non ammessi: sono stati promossi in 10 per 5 regioni. E ho scoperto che altri candidati, che neanche si sono mai esibiti, avevano avuto in sorte brani più facili».

3. La prof di francese: «Otto anni in cattedra e mi hanno bocciata». Da otto anni si sveglia alle 4.50 per raggiungere la «sua» scuola, quella di Gaggio Montano, a un’ora e mezza da Bologna, dove vive da quando si è trasferita da Catania. Adriana Severino, 38 anni, siciliana, è una insegnante di francese, laureata in lingue, specializzata e abilitata con un Pas (un Percorso abilitante speciale), ma per i commissari del concorsone non è abbastanza brava da conquistare una cattedra. «Studio da una vita, mi sono preparata al concorso mentre lavoravo, con grandi sacrifici, ma quando ho saputo che in Lombardia per una classe di concorso sono stati ammessi all’orale anche insegnanti che non avevano partecipato agli scritti (c’è un’indagine in corso su questo caso, ndr) ho capito che il concorso non è stato organizzato bene e ho chiesto l’accesso agli atti, voglio vederci chiaro». Intanto, «ho incontrato un ex alunno che non studiava francese da anni e ricordava tutto quello che aveva imparato con me: è la mia rivincita».

4. Rosa Borsellino, l’insegnante di sostegno super-specializzata. Sessantaquattro ammessi su 240 candidati: e i posti a disposizione sono 62. È successo a Palermo, dove gli insegnanti di sostegno, come in molte altre parti d’Italia, sono stati letteralmente falcidiati alla prova scritta. Le malelingue sussurrano che sia normale, dato che per entrare nel mondo della scuola in passato molti aspiranti professori si sono buttati sul sostegno, senza avere di base la preparazione necessaria. Ma per Rosa Borsellino non è stato così: lei, a 31 anni, è laureata in Pedagogia, ha superato sia il Tfa (Tirocinio formativo attivo) che il corso di sostegno, abilitandosi per insegnare anche Filosofia e Scienze umane e acquisendo un corso di specializzazione biennale che le ha dato sei punti nelle graduatorie. «Quando mi hanno chiamata per lavorare sul sostegno a Livorno, mi sono trasferita dalla Sicilia senza pensarci un attimo. Ma adesso pensavo col concorso di stabilizzarmi: e invece sono stata bocciata. Per me le domande erano tutte facili, anche i quesiti in inglese erano fattibili, ma ho la sensazione che abbiano proprio deciso di stroncarci senza pietà. Conosco tanti che hanno partecipato alla prova scritta, e non ce l’ha fatta nessuno di loro. Mi sembra impossibile. Ho chiesto l’accesso agli atti, voglio capire cosa è andato storto».

5. Luana Sigrùn, 35 anni: «Domande sbagliate». Laureata a Catania, abilitata ad insegnare francese alle superiori alla Ca’ Foscari di Venezia, vincitrice di borse di studio al centro linguistico in Francia e al ministero degli Affari esteri, denuncia: «Mi sono resa conto che le domande erano sbagliate: formulate male e con errori linguistici e di contenuto. Ho anche scritto una lettera insieme ai miei colleghi, protocollata dall’Usr, inviata anche a un avvocato: non so ancora gli esiti degli scritti, ma sono convinta di essere stata bocciata, proprio per l’incongruenza dei quesiti per la D05 in Piemonte. «La presidente della commissione era un insegnante di tedesco!», conclude amara.

6. Silvia Del Re, insegnante di francese. «Sono laureata in lingue e letterature straniere con 110 e lode e abilitata da un Tirocinio formativo attivo per la classe di concorso A246, per insegnare francese alle medie e alle superiori: ma sono stata bocciata allo scritto dagli stessi professori che hanno fatto i corsi del Tfa». Secondo Silvia Del Re, di Pescara, 34 anni, «la beffa» è che gli stessi professori che l’hanno bocciata l’avevano esaminata dandole sempre il massimo dei voti e complimentandosi con lei. «Il tutto mentre aspettavo il mio terzo figlio. Sono disposta a tutto per avere giustizia». Silvia ha già alle sue spalle due anni di supplenze continuative, con incarichi annuali, ed era stata anche chiamata a svolgere il ruolo di commissario agli esami di maturità, incarico che ha dovuto rifiutare per prepararsi per il concorso. Ma adesso rischia di non tornare in cattedra.

7. Antonietta Sgambati, insegnava in Svizzera. Abilitata in Svizzera e in Italia, ma non dalla «terribile» commissione del concorsone dell'Emilia Romagna, a cui aveva partecipato per insegnare francese alle superiori. «Sono stata bocciata, ad una prova assurda, dove le griglie di valutazione usate dalla commissione sono state pubblicate due giorni la pubblicazione degli esiti degli scritti, anche se la data di protocollo coincide con quella della pubblicazione dei risultati!», racconta, in attesa di avere accesso agli atti e di capire, attraverso un avvocato, se la sua prova è stata correttamente valutata. Antonietta è nata 36 anni fa a Marsicovetere (PZ), si è laureata a Salerno in Lingue con 110/110 e lode. Nel 2004 si è trasferita in Svizzera, a San Gallo (cantone germanofono) dove ha insegnato italiano per stranieri e francese presso scuole pubbliche e private, sia medie che superiori. Una tra tutte, l'Institut auf dem Rosenberg, prestigiosa boarding school elvetica, che all'interno ha una sezione italiana legalmente riconosciuta dal governo italiano. Nel 2012 è rientrata in Italia per conseguire l'abilitazione all'insegnamento tramite TFA, e così si è iscritta alle graduatorie di istituto di seconda fascia. Quando poi è uscito il bando di concorso pensava di poter far valere il servizio prestato in Svizzera, ma il governo italiano non lo ha riconosciuto in quanto non svolto nella comunità europea. «Ad ogni modo, negli ultimi due anni ho lavorato sempre presso la stessa scuola: l'Ipssar Pellegrino Artusi di Riolo Terme- racconta Antonietta - È un istituto professionale ma i ragazzi sono meravigliosi, in due classi sono riuscita a fare anche due moduli di letteratura e sono orgogliosa di aver svolto in una quinta proprio Zola, e in particolare modo di aver letto con loro il brano relativo all'importanza della rivendicazione dei propri diritti in Germinal «Du pain du pain»! I miei ragazzi mi danno tanto, sono soddisfazioni intangibili con cui nessun bonus potrà mai essere alla pari. Vorrei poter tornare da loro a settembre e dirgli: dai ragazzi impegno e studio!». Ma, se non dovesse essere rivista la sua posizione, non potrà farlo.  

Concorsi pubblici truccati nelle Forze Armate. NAPOLI: 50 MILA EURO PER VINCERE I CONCORSI DELL’ESERCITO. ORGANIZZAZIONE ILLEGALE PROMETTE DI VINCERE I CONCORSI DELL’ESERCITO, scrive “CongedatiFolgore” il 6 luglio 2016. La Finanza ha perquisito uffici e abitazioni di 14 persone, tra cui un generale in pensione, indagate per concussione per induzione e millantato credito. Si tratta di una inchiesta del pm Stefania Buda a lei affidata dal procuratore aggiunto Alfonso D’Avino. Sembra, da alcuni esposti, che alcuni concorsi banditi negli ultimi mesi siano stati truccati per favorire chi versava un pizzo. Secondo i meccanismi di selezione, sembrerebbe impossibile che persone appartenenti all’Esercito possano riuscire a truccare i concorsi. Presumibilmente si potrebbe trattare di millantatori. Il reato finale configurato potrebbe essere quello della concussione per induzione e, ovviamente, il millantato credito. Nelle caserme dove prestano servizi i militari indagati (tutti sottufficiali) hanno ispezionato scrivanie e armadietti. Il materiale sarà esaminato nelle prossime settimane, ma al momento i primi riscontri sarebbero già emersi. Sarebbe stato trovato un tariffario per le persone interessate a superare il concorso: si andava da poche migliaia di euro fino a 10 o 20mila; in un caso anche 50.000. Si tratta dei concorsi VFP1, che consentono di prorogare il servizio o di partecipare alle selezioni per la polizia o altri Corpi

Quella del pm Buda non è l’unica inchiesta che mira a far luce su presunte irregolarità nei concorsi per le Forze armate. Il pm della Dda Maria Di Mauro, infatti, sta approfondendo alcuni concorsi per entrare nell’Arma dei carabinieri.

Cinquantamila euro per superare il concorso: 14 indagati. La guardia di finanza sta effettuando numerose perquisizioni, scrive “Otto pagine” il 6 luglio 2016. Cinquantamila euro per indossare una divisa. Questa era la tangente da pagare per superare il concorso nelle forze armate. Sotto inchiesta ci sono 14 persone, tra cui un generale dell’esercito, un finanziere e alcuni sottufficiali delle forze armate. L’inchiesta della procura di Napoli parte da una denuncia di un giovane. Ora la guardia di finanza sta effettuando una serie di perquisizioni tra case e uffici degli indagati. I pm procedono sia per il reato di concussione per induzione, sia per millantato credito. Gli inquirenti infatti vogliono accettare se le richieste di denaro, generalmente comprese fra i 10mila o 20mila euro, fossero realmente dirette ad alterare l’esito del concorso o se, al contrario, si sia trattato di un raggiro organizzato alle spalle degli aspiranti militari e deliro congiunti. Le perquisizioni hanno riguardato anche quattro scuole private che preparano i candidati al concorso. Dopo la prima denuncia l’inchiesta è andata avanti con interrogatori e acquisizioni di documenti. Dal lavoro degli investigatori è emerso che le famiglie erano disposte ad impegnare tutti i loro risparmi pur di ottenere un posto di lavoro per il figlio. All’esame c’è molto materiale: decine di computer, telefoni cellulari, comprese le memorie e i messaggi whatsapp.  

“Concorsi truccati per l’Esercito”, diecimila euro per conoscere l’algoritmo e superare il test: arrestati quattro militari. In tutto gli indagati dalla Procura di Napoli sono sette, tra cui un finanziere, accusati a vario titolo di corruzione per aver fornito "informazioni riservate". Si indaga su un'altra cinquantina di candidati che potrebbero aver passato il quiz grazie alla "formula magica" che consentiva di rispondere correttamente a tutte le domande, di cui il Fatto.it aveva già dato conto. Forze armate: "Parte lesa, condanniamo e garantiamo massima collaborazione", scrive il 19 luglio 2016 "Il Fatto Quotidiano". Diecimila euro in cambio della “formula magica” per superare il test e conquistare così un posto fisso nell’Esercito italiano. E’ questa – secondo la Procura di Napoli Nord – la somma che un operaio della provincia di Napoli ha consegnato ad alcuni militari per ottenere informazioni “riservate” sul concorso di accesso e una loro “segnalazione” per la figlia nelle prove del concorso per il reclutamento 2015. Secondo gli investigatori, gli indagati avevano messo in piedi un ampio e articolato “sistema” di acquisizione di informazioni e atti riservati relativi ai test di accesso e di “segnalazioni” per il superamento del concorso, sfruttando una fitta rete di relazioni personali. A inizio luglio, ilfattoquotidiano.it era riuscito a leggere l’algoritmo – sequestrato durante le indagini – grazie al quale si poteva rispondere correttamente a tutte le domande del quiz e superare il concorso con successo. A quattro di questi militari stamani la Guardia di Finanza ha notificato un’ordinanza cautelare (due agli arresti domiciliari; due sospesi per un anno dal servizio) per associazione per delinquere finalizzata alla commissione di più delitti di corruzione. Stessa ipotesi di reato – si apprende dalla Procura di Napoli Nord – per un appartenente alla Guardia di Finanza, colpito dalla misura cautelare dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, e per altre due persone. L’ordinanza, emessa dal gip di Napoli Nord, è stata eseguita dai finanzieri del Nucleo di Polizia Tributaria di Napoli. Le Fiamme gialle stanno facendo perquisizioni personali e locali alla ricerca di eventuali prove relative alle posizioni di un’altra cinquantina di candidati che – secondo l’ipotesi investigativa – si sarebbero rivolti agli stessi militari per superare il concorso. In una nota l’Esercito scrive di aver “immediatamente avviato le procedure di sospensione per i militari coinvolti nell’indagine e si dichiara parte lesa. L’Esercito altresì dichiara la massima fiducia negli inquirenti e ha disposto ai propri uffici di continuare a dare la massima collaborazione all’autorità giudiziaria”. Inoltre “si riserva l’adozione di ogni provvedimento utile a tutelare la propria immagine. Si ribadisce comunque, la ferma condanna di tali condotte e la netta presa di distanza da chiunque abbia osservato un qualsiasi atteggiamento immorale nonché illegale, che lede fortemente la dignità e l’onore dell’Esercito e di tutti i suoi militari che quotidianamente con onestà e professionalità svolgono il proprio devoto servizio alla Nazione, in Italia e all’estero, anche a rischio della propria vita”.

 “Concorsi truccati per l’Esercito”, decifrato l’algoritmo per vincere il quiz e assicurarsi il posto fisso. La "formula magica" è stata trovata nel corso di una delle circa 40 perquisizioni compiute su ordine della Procura di Napoli. Ed è stata letta dal Fatto.it. Non era di facile decrittazione, ma se imparata a memoria "funzionava", assicurano gli inquirenti. Il costo era di 50.000 euro, scrive Vincenzo Iurillo l'8 luglio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". E’ un foglio A4, scritto a penna in orizzontale. Con sopra scarabocchiata, con sufficiente chiarezza, una formula matematica. Un algoritmo. Mandato a memoria, farebbe vincere il concorso nell’Esercito e fa conquistare l’agognato posto fisso nelle forze dell’ordine, perché traccerebbe il percorso vincente attraverso lo slalom dei quiz a risposta multipla. Ilfattoquotidiano.it è riuscito a vederlo e a leggerlo. E’ stato appena acquisito agli atti dell’inchiesta condotta dalla Finanza di Napoli sui concorsi truccati. Lo hanno trovato nel corso di una delle circa 40 perquisizioni compiute nei giorni scorsi su ordine del pm Stefania Buda, che sta coordinando il lavoro investigativo e mettendo in ordine i tasselli del puzzle. L’algoritmo non è di semplice decrittazione: l’allievo concorrente deve ricordare l’ultima cifra della domanda (ad esempio, per il quesito 83, il numero 3), poi aggiungere il numero di lettere della prima parola della domanda precedente, più una serie di variabili e di x che cambiavano a seconda se la domanda era di numero pari o dispari, e in quel caso il conteggio attraverso il quale arrivare alla risposta esatta andava letto da sinistra a destra in un caso, da destra a sinistra nell’altro. Ed è proprio sulle "variabili" che si concludeva la trattativa tra la rete degli indagati e i ‘clienti’ che puntavano a vincere il concorso attraverso la scorciatoia dell’imbroglio. La ‘x’, insomma l’ultima parte della formula magica, veniva fornita solo a chi pagava l’ultima rata del ‘pacchetto’ da 50.000 euro. “Funzionava”, assicurano fonti inquirenti. Quasi certe che questa rete di mediatori finita sotto inchiesta, aveva agganci in qualche ganglo intermedio intorno all’organizzazione dei concorsi per entrare nelle forze armate, oppure in qualche tecnico informatico. Per ora sono solo supposizioni investigative, pm e finanzieri lavorano alla ricerca di riscontri. L’algoritmo è scritto a mano, forse sotto dettatura. Non è quindi detto che chi lo abbia scritto ne sia anche l’autore. Potrebbe anche averlo copiato da chi lo aveva "messo in vendita": perché di questi tempi un investimento di 50.000 euro per avere un posto fisso e sicuro sino alla pensione, sono un ottimo investimento.

Il metodo di correzione negli esami di Stato o nei concorsi pubblici è sempre lo stesso: si dichiarano corretti i compiti che non sono stati nemmeno visionati. Per attestare ciò detto non si abbisogna di microfoni o micro spie nelle segrete stanze delle commissioni e dei "Compari". Basta verificare i tempi di correzione se siano sufficienti e controllare le prove se e come sono state corrette, anche in relazione alle altre prove ritenute idonee. I Tar di tutta Italia ne scrivono di nefandezze commesse. Nel ribellarsi, però, non si caverà un ragno dal buco: perchè così fan tutti!! Giudicanti, ingiudicati.

L’inchiesta del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce inascoltate di centinaia di migliaia di candidati estromessi di tutta Italia.

Parliamo della Magistratura. E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano.

Truccati anche i loro concorsi. I magistrati si autoriformino, scrive Sergio Luciano su “Italia Oggi”. Numero 196 pag. 2 del 19/08/2016. Il Fatto Quotidiano ha coraggiosamente documentato, in un'ampia inchiesta ferragostana, le gravissime anomalie di alcuni concorsi pubblici, tra cui quello in magistratura. Fogli segnati con simboli concordati per rendere identificabile il lavoro dai correttori compiacenti pronti a inquinare il verdetto per assecondare le raccomandazioni: ecco il (frequente) peccato mortale. Ma, più in generale, nell'impostazione delle prove risalta in molti casi – non solo agli occhi degli esperti – la lacunosità dell'impostazione qualitativa, meramente nozionistica, che soprattutto in alcune professioni socialmente delicatissime come quella giudiziaria, può al massimo – quando va bene – accertare la preparazione dottrinale dei candidati ma neanche si propone di misurarne l'attitudine e l'approccio mentale a un lavoro di tanta responsabilità. Questo genere di evidenze dovrebbe far riflettere. E dovrebbe essere incrociato con l'altra, e ancor più grave, evidenza della sostanziale impunità che la casta giudiziaria si attribuisce attraverso l'autogoverno benevolo e autoassolutorio che pratica (si legga, al riguardo, il definitivo I magistrati, l'ultracasta, di Stefano Livadiotti). Ne consegue una constatazione ovvia, per quanto dolorosa, che nulla toglie al merito – a volte condotto fino all'eroismo – di singoli magistrati che sacrificano le loro giornate e a volte la loro vita per compiere al meglio un dovere esigentissimo: la constatazione è che di tanti singoli magistrati ci si può fidare, della magistratura come «sistema» no. Essa è parte del problema generale dell'inefficienza di una macchina statale e burocratica che rappresenta il vero male oscuro (mica tanto oscuro) dell'Azienda Italia. Pensare che questa magistratura, così com'è, sia la soluzione al problema generale della cattiva amministrazione è quantomeno ingenuo. I vizi del nostro pubblico impiego – talmente eclatanti da essere meritatamente tema costate della commedia all'italiana – ricorrono tutti anche nella «casta delle toghe»: clientelismo, furbettismo, «demeritocrazia», pressappochismo. Bisognerebbe riformare la magistratura: ma non può farlo nessuno, se non essa stessa. Chi ci prova dall'esterno – compreso Renzi – viene respinto con perdite e anatemi. E immediatamente comincia a temere, forse a torto forse no, rappresaglie. Allora che la magistratura si autoriformi. Piercamillo Davigo, il segretario dell'Associazione magistrati, è certo un magistrato duro, serio e severo. Non sarà contento che le nuove leve della categoria siano selezionate grazie ai geroglifici che segnano sui compiti per farli riconoscere dagli esaminatori imbroglioni.

Cuori, truffe e mazzette: è la farsa “concorsoni”. Trucchetti - I compiti dei vincitori dell’ultimo esame per la magistratura sono pieni di strani segni (alla faccia dell’anonimato). Per Bankitalia le selezioni pubbliche costano 1,4 miliardi l’anno, scrive Virginia Della Sala su "Il Fatto Quotidiano" il 15 agosto 2016. Erano in 6mila per 340 posti. Luglio 2015, concorso in magistratura, prova scritta. Passano in 368. Come in tutti i concorsi, gli altri sono esclusi. Stavolta però qualcosa va diversamente. “Appena ci sono stati comunicati i risultati, a marzo di quest’anno, abbiamo deciso di fare la richiesta di accesso agli atti. Abbiamo preteso di poter visionare non solo i nostri compiti ma anche quelli di tutti i concorrenti risultati idonei allo scritto”, spiega uno dei concorrenti, Luigi R. Milleduecento elaborati, scansionati e inviati tramite mail in un mese. Per richiederli, i candidati hanno dovuto acquistare una marca da bollo da 600 euro. Hanno optato per la colletta: 230 persone hanno pagato circa 3 euro a testa per capire come mai non avessero passato quel concorso che credevano fosse andato bene. E, soprattutto, per verificare cosa avessero di diverso i loro compiti da quelli di chi il concorso lo aveva superato. “Ci siamo accorti che su diversi compiti compaiono segni di riconoscimento: sottolineature, cancellature, strani simboli, schemi”. Anche il Fatto ha potuto visionarli: asterischi, note a piè di pagina, cancellature, freccette. In uno si contano almeno due cuoricini. In un altro, il candidato ha disegnato una stellina. “Ora non c’è molto che possiamo fare per opporci a questi risultati – spiega Luigi – visto che sono scaduti i termini per ricorrere al Tar. Inoltre, molti di noi stanno tentando di nuovo il concorso quest’anno. Ecco perché preferiamo non esporci molto mediaticamente”. Eppure, decine di sentenze dimostrano come sia possibile richiedere l’annullamento anche per un solo puntino. “Cancellature, scarabocchi, codici alfanumerici. Decisamente un cuoricino è un segno distintivo per cui può essere sollecitata l’amministrazione – spiega l’avvocato Michele Bonetti –. Qui si parla di un concorso esteso. Ma mi è capitato di assistere persone che partecipavano a un concorso in cui, dei cinque candidati, c’era solo un uomo. Capirà che la grafia di un uomo è facilmente riconoscibile come tale”. Al di là delle scorrettezze, una ricerca della Banca d’Italia pubblicata qualche giorno fa ha dimostrato che in Italia, i concorsi pubblici non funzionano. O, per dirlo con le parole dei quattro economisti autori del dossier Incentivi e selezione nel pubblico impiego (Cristina Giorgiantonio, Tommaso Orlando, Giuliana Palumbo e Lucia Rizzica), “i concorsi non sembrano adeguatamente favorire l’ingresso dei candidati migliori e con il profilo più indicato”.

Ma in magistratura è sempre stato così!

Anno 2015. Atto Camera Interrogazione a risposta in commissione 5-06088 presentato da COLLETTI Andrea testo di Venerdì 17 luglio 2015, seduta n. 464 COLLETTI. — Al Ministro della giustizia. — Per sapere – premesso che: il concorso in magistratura è uno degli esami più difficili per i laureati in giurisprudenza, che richiede anni di preparazione e ciò è giustificato dalla importanza e della delicatezza del lavoro che i vincitori saranno chiamati a svolgere, nonché dalla relativa retribuzione; all'esito dell'ultimo 2015, tenutosi nelle giornate del 7, 8 e 10 luglio 2015, è emersa da fonti di stampa una gravissima denuncia, relativa alla seconda giornata in cui sono state svolte le prove, e segnatamente, alla assegnazione della traccia in materia di diritto civile. Parrebbe, infatti, che la formulazione della detta traccia sia stata pilotata al fine di favorire i partecipanti di uno dei costosi corsi privati di preparazione al concorso. Circostanza, questa, che pare confermata dal fatto che gli stessi organizzatori del corso in questione, poche ore dopo la lettura della traccia, esultavano: «Centrato l'argomento» e, in ottica pubblicitaria, segnalavano la forma «praticamente identica» rispetto ad una traccia affrontata dai docenti del loro corso di preparazione. Ad insospettire i partecipanti è stato soprattutto l'oggetto della prova: «Negoziazione degli strumenti finanziari, alea contrattuale e funzione speculativa. Profili di meritevolezza». Un argomento molto particolare, molto specifico, al confine con il diritto bancario e dei valori immobiliari, che però era stato trattato proprio in uno dei costosi corsi di preparazione all'esame; relativamente a questa vicenda il Codacons, dopo aver ricevuto decine di segnalazioni, ha deciso di raccogliere e spedire il materiale al Ministero della giustizia, al Consiglio Superiore della magistratura e alla procura di Roma. Tra le segnalazioni, se ne trovano di dettagliatissime: «Vi segnalo che due commissari, il professor Agostino Meale e il professor Fernando Greco, collaborano con due case editrici «collegate» a un noto corso di preparazione per il concorso in magistratura. Vi chiedo se queste nomine siano state opportune e se non vi siano motivi di astensione»; sempre da fonti di stampa, si desume che già in passato il concorso in magistratura ha subito forti critiche in relazione alla mancanza di trasparenza nei confronti dei partecipanti –: se il Ministro interrogato sia a conoscenza dei fatti di cui in premessa e ritenga legittima la possibilità che nella commissione del concorso della magistratura 2015 vi siano soggetti che collaborano con case editrici «collegate» a uno dei costosi corsi privati per il concorso in magistratura; se il Ministro sia intenzionato ad intraprendere delle iniziative volte a verificare la fondatezza dei fatti denunciati, ad impedire il verificarsi di situazioni analoghe e se, nel frattempo, ritenga necessario annullare la seconda prova del concorso in questione. (5-06088).

E poi... Anno 2014. Concorso magistratura 2014, “Irregolarità”. Piovono denunce, rischio annullamento. Torna a far discutere il concorsone che aveva rischiato di slittare per il ricorso di un candidato invalido. Dopo le prove alla Fiera di Roma fioccano segnalazioni su codici vietati, tracce già disponibili, commissari compiacenti. Tutto da verificare, ma alcuni candidati varcano la soglia della Procura e il Codacons chiede i verbali. E il Ministero, imbarazzato, per ora tace, scrive Thomas Mackinson il 4 luglio 2014 su “Il Fatto Quotidiano”. Si presentano in 7mila, affamatissimi di un posto tra i 365 in palio. Ma qualcosa va storto. Segnalazione dopo segnalazione, prende piede il sospetto che anche gli aspiranti magistrati della Repubblica commettano illeciti d’ogni tipo pur di diventarlo: smartphone imboscati con cui farsi dettare le risposte, tracce diffuse in anteprima da alcuni rispetto alla dettatura per tutti, codici commentati introdotti abusivamente fino al classico compito collettivo. Peggio, i magistrati chiamati a vigilare sulla correttezza della prova, secondo le testimonianze, avrebbero fatto spallucce delle tante segnalazioni rese dai partecipanti, omettendo di prendere gli opportuni provvedimenti, e perfino di verbalizzarle. Insomma, un putiferio sul concorso dei magistrati. E proprio mentre si torna a parlare di riforma della giustizia. Il concorso incriminato è quello per ordinari della Magistratura che aveva già fatto notizia per il rischio che saltasse tutto, dopo il ricorso di un ragazzo disabile impossibilitato a partecipare alle prove per tre giorni consecutivi (poi scongiurato da una sentenza lampo del Consiglio di Stato). Ma evidentemente il concorso è destinato a fare ancora notizia e forse a saltare davvero, stavolta per annullamento. Bandito con decreto il 30 ottobre 2013 è stato preso d’assalto con 20mila domande. Le prove scritte si sono tenute per tre giorni, 25, 26 e 27 giugno 2014, alla Fiera di Roma. L’ultima, quella di venerdì, sarebbe stata scandita da una serie di irregolarità tali da spingere alcuni candidati a varcare la soglia della Procura di Roma, il Codacons a chiedere i verbali della commissione, molti altri “aspiranti” a organizzare via web una protesta che potrebbe portare in piazza un sacco di gente, il 7 luglio. Sullo sfondo il Ministero che, contattato, non ha saputo fornire alcuna conferma o smentita circa i fatti. Restano una collezione di testimonianze che fioccano da ogni parte e alimentano la polemica, soprattutto sul web. Ad esempio sul sito miniterno.it che è il ricettacolo dei commenti pre e post e degli affanni dei concorsisti dilagano ricostruzioni e testimonianze che si spingono alla “parente del commissario con la traccia già scritta in bagno”. Ma c’è anche chi sta raccogliendo testimonianze circostanziate e non anonime, che saranno utili a chi vorrà vederci chiaro. Un giornalista del Corriere Università, Raffaele Nappi, le sta collezionando una ad una visto che di prove documentali (tracce audio-video) anche le vittime dei brogli non ne hanno potute produrre per mancanza di quei supporti che, invece, sembra impazzassero tra i colleghi meno onesti. I problemi sembra abbiano riguardato i padiglioni 3 e 4. “Più di uno aveva codici commentati” e con tanto di timbro del commissario, racconta ad esempio Fabrizio Ruggeri. Che aggiunge: “I candidati con i codici commentati sono stati espulsi. Pertanto, se, a fronte di una irregolarità così macroscopica sono stati espulsi i candidati, è evidente che la Commissione giudicatrice ha ripristinato la regolarità del concorso”. “Ho visto alcuni candidati fare il compito a gruppetti, e la commissione invece di intervenire ha solo chiesto di fare meno rumore”, racconta Giovanni R. Una candidata racconta che, a fronte di nessun controllo su alcuni, ad altri veniva effettuata una perquisizione corporale da criminali di strada, parti intime comprese. Altre testimonianze ancora potranno arrivare dagli avvocati dello studio Santi Delia e Michele Bonetti a loro volta hanno ricevuto diverse segnalazioni e in seguito il mandato da parte di un gruppo di candidati per presentare istanza di accesso al Ministero della Giustizia per chiedere copia dei verbali di concorso. Sullo stesso fronte si muove poi il Codacons che circostanzia la sua azione al caso, l’unico per ora che sembra trovare riscontri netti, di tre candidati in possesso di codici commentati. “Qualora risultasse accertato quanto denunciato – spiega l’associazione in una nota – si determinerebbero serie e gravi responsabilità sia per i 3 candidati autori dell’illecito sia per i membri della Commissione, qualora non abbiano adottato le misure previste dalla legge nei confronti dei tre candidati scorretti”. Insieme a tutto il resto, è un’altra vicenda da chiarire.

Quel concorso per magistrati e la rabbia dei candidati: “Questa volta abbiamo toccato il fondo”, scrive il 4 luglio 2014 Raffaele Nappi su “Corriere Università”. “Irregolarità inaccettabili. Mi auguro che la vicenda finisca in prima pagina, ma dopo aver capito a cosa possono arrivare la corruzione e il disprezzo per la funzione pubblica, dubito che una riedizione del concorso segua comunque la regolarità”. Piovono denunce sul concorso per magistrati che si è tenuto alla Fiera di Roma il 25, 26 e 27 giugno. Perquisizioni alle candidate fin dentro le mutande, codici commentati in possesso di alcuni concorsisti, commissioni distratte, svolgimenti a “gruppetti”, fogli con tracce che circolano prima di essere dettate. Questa volta, assicurano i candidati, pare si sia toccato davvero il fondo. Partiamo dall’inizio. Il 30 ottobre 2013, con un apposito decreto, l’ex ministro Annamaria Cancellieri ha firmato un bando di concorso per 365 posti di magistrato ordinario. Termine di scadenza per la domanda 9 dicembre 2013. Le prove scritte si sono tenute a Roma, presso la Fiera Roma, nei giorni 25, 26 e 27 giugno 2014. Sono 20.787 le domande di partecipazione, di cui 6.776 inviate con PEC e 14.011 inviate online. Tante, tantissime le segnalazioni raccolte dai candidati: “Sono state compiute irregolarità inaccettabili e di una gravità che probabilmente molti dei concorrenti neanche hanno compreso appieno. Mi auguro che la vicenda davvero finisca in prima pagina, ma dopo aver capito a cosa possono arrivare la corruzione e il disprezzo per la funzione pubblica, dubito che una riedizione del concorso segua comunque la regolarità. Si è prospettata anche la possibilità di un annullamento del concorso: sembra davvero un’ipotesi molto difficile, ma è fondamentale che se ne parli”. “Al padiglione 3 – racconta A. C. – sono state espulse alcune persone poiché avevano codici commentati ammessi per l’abilitazione di avvocato vidimati dalla commissione, che si è giustificata dicendo: “È stata una svista”. Un’altra candidata, invece, è stata trovata con fogli del Ministero con tre schemi di tre tracce diverse addirittura prima che la stessa commissione dettasse la traccia di Amministrativo. Ciò vuol dire che le tracce escono prima della dettatura, ma solo per gli eletti”. Molti candidati chiedono di rimanere anonimi, per paura di ritorsioni. Su Facebook, inoltre, è nato un gruppo che raccoglie idee e proteste. “Sono andata a fare il concorso dopo ben 8 anni dall’ultima volta: ho trovato tutto molto peggio di come l’avevo lasciato, i controlli per niente rigorosi, ed una calca mostruosa!” – racconta un’altra concorsista. Diversi candidati si lamentano del fatto che qualcuno è stato trovato in possesso di codici commentati. Eppure, due giorni prima delle prove, la commissione ha convocato tutti per analizzare dettagliatamente ogni singolo testo, ed apporvi il timbro ministeriale. “Chi ha sbagliato è chi ha fatto passare i codici – racconta D. I. – Nel padiglione 3 erano in più di uno coloro che avevamo i codici commentati. La cosa che fa più specie è l’assoluta grossolanità del modo in cui sono entrati. Ora mi domando e vi domando: quanti codici a cui avran cambiato la copertina sono entrati e non sarebbero dovuti entrare? Certo è che, visto il sistema si può risalire anche al commissario che ha messo il timbro. (Sempre che i codici non siano entrati nottetempo con l’aiuto di qualche inserviente che ha messo il timbro) …”. “Secondo me questi codici non hanno passato nessun controllo e sono entrati tra il primo e il secondo giorno di prova – commenta un altro candidato –. Questi furbacchioni (e credo sia evidente a chi mi riferisca) pensano che basti mettere alcuni timbri sui codici non ammessi per scaricare qualsiasi colpa sui commissari. Non posso e non voglio credere che ci sia il coinvolgimento dei commissari, quindi non trovo altre spiegazioni. Spero di non sbagliarmi”. La rabbia, intanto, sale. “Si dice che ci fossero un numero infinito di raccomandati – racconta S. C. -. Tutto questo mi fa schifo. Io non sono figlia di nessuno, ho rinunciato a tutto per venire a Roma. Se davvero c’erano personaggi con le tracce in anticipo auguro loro di vergognarsi a vita! So solo che io ingenuamente sono stata perquisita in modo disgustoso e c’era pure un poliziotto uomo: io come una cretina con le lacrime agli occhi ho detto: cosa dovrei avere? Tutto ciò mi fa schifo”. “Io sono tra quelli che hanno consegnato con tanta rabbia, soprattutto pensando ai sacrifici fatti e ai miei piccoli bimbi. Non ho parole”. Già dall’inizio delle prove, si sono contati i primi disagi. L’ingresso dei candidati, infatti, era previsto per le ore 8. All’articolo 3 del Decreto 7 marzo 2014 (Diario delle prove scritte del concorso a 365 posti di magistrato ordinario indetto con d.m. 30 ottobre 2013) si legge: “L’ingresso dei candidati sarà consentito fino alle ore 9.00; successivamente verranno chiusi i cancelli esterni e saranno ammessi all’esame solo i candidati presenti all’interno degli stessi”. Ma le cose sembrano essere andate diversamente. “Sono arrivata a Fiera di Roma molto presto. L’inizio delle prove era previsto per le 9 – racconta G., una candidata –. Ho fatto la fila il primo giorno dalle 8 alle 11:30. Hanno dettato la traccia di civile alle 12. E’ stato un massacro: tre ore in piedi per entrare. Il secondo giorno, giovedì 26 giugno, la traccia è stata dettata intorno alle 11:30, sempre con due ore e mezza di ritardo. Il terzo giorno, venerdì, ci sono stati parecchi casini: la tracia è stata dettata dopo le 12:30!”. Anche da dislocazione nei padiglioni era anomala. La lettera D era assieme alla Z, la L con la E… Scorso concorso la d era assieme la a b e c, com’è nell’ordine naturale”. Il regolamento, poi, vieta assolutamente ai candidati di parlare tra loro. All’articolo 4, del Decreto 7 marzo 2014, ancora, si legge: “E’ loro rigorosamente inibito, durante tutto il tempo di svolgimento delle prove, di conferire verbalmente con i presenti o di scambiare con questi qualsiasi comunicazione per iscritto, come pure di comunicare in qualunque modo con estranei”. Il concorso in questione è stato avvolto dalle polemiche anche per la questione di un ragazzo disabile che, dovendo fare la dialisi, ha chiesto lo spostamento delle prove fissate per 3 giorni di fila. Ha fatto presente il suo problema al ministero nei tempi e nei modi corretti. Al Ministero sarebbe stato sufficiente che modificassero le date delle prove e tutto si sarebbe potuto svolgere regolarmente, nella piena legalità e soprattutto nel pieno rispetto dei diritti della persona disabile in questione. E invece no. Il TAR del Lazio ha fatto sospendere il concorso, venendo incontro all’istanza presentata dal ragazzo disabile. Il 9 giugno 2014, però, ecco la risposta del ministero che, con un decreto monocratico del Consiglio di Stato (il 2435), blocca l’istanza di sospensione del Tar. Il concorso si fa e le date rimangono quelle, in barba al ragazzo disabile ed alla legge che prevede che ci siano per tutti condizioni di parità per accedere ai concorsi pubblici. La questione, però, non è ancora finita. Il 10 luglio si pronuncerà il Consiglio di Stato sulla questione, anche se difficilmente ribalterà la sentenza. Il 13 ottobre, però, toccherà di nuovo al TAR esprimersi. Il Codacons, intanto, ha deciso di intervenire nelle procedure selettive: è stata fatta richiesta di visionare i verbali della giornata di venerdì 27 giugno in particolare, perché i commissari verosimilmente non hanno espulso i candidati scorretti, violando chiaramente le regole. Il Ministero, al momento, non ha ancora chiarito la questione. Restano solo una serie di polemiche, che si scatenano soprattutto sul web. E la rabbia, mischiata alla delusione, dei candidati che hanno passato mesi e mesi di studio sui libri per presentarsi pronti. Raffaele Nappi

E poi... Anno 2008. "Quel concorso da giudice: tutto truccato". Il racconto a "Il Giornale" di una candidata che ha partecipato al concorso di Milano: Ho visto troppe irregolarità. Sui banchi codici commentati o intere enciclopedie. Decine le denunce. Il ministero ha aperto un’inchiesta, scrive Luca Fazzo, Giovedì 27/11/2008, su “Il Giornale”. «Una scena che non dimenticherò facilmente. Marasma totale, candidati che chissà come erano riusciti a portarsi appresso intere enciclopedie giuridiche, nessuno che sapeva che pesci pigliare, e in mezzo al caos un membro della commissione che strillava “Fermate quello spelacchiato che incita le persone”. Sembrava di essere al mercato, non al concorso per una delle professioni più delicate della nostra società». Questo è il racconto di V. che ha trent’anni e - per motivi che spiegherà più avanti - non vuole vedere il suo nome sui giornali. Ma il suo nome ce l’ha il ministro della Giustizia Angiolino Alfano, in calce all’accorata lettera che V. gli ha mandato per raccontargli le condizioni surreali in cui si è svolto a Milano, dal 19 al 21 novembre, il concorso per 500 posti da magistrato. Delle decine di testimonianze come quella di V. si dovranno occupare in diversi. Il ministero, che ha avviato una inchiesta interna. Il Consiglio superiore della magistratura che - su richiesta dei Movimenti riuniti e di Md - stamattina aprirà una sua indagine. E la Procura della Repubblica di Milano sul cui tavolo sono arrivati gli esposti che alcuni candidati inferociti si sono precipitati a depositare dopo avere rinunciato a portare avanti la prova. «Io non voglio buttarla in politica», dice V., «non voglio ipotizzare che ci fossero forme di corruzione o di connivenza. Non sta a me accertarlo. A noi spetta denunciare le irregolarità macroscopiche che erano sotto gli occhi di tutti e che la commissione ha fatto finta di non vedere. Adesso leggo che il ministero per fare luce sulla vicenda ha chiesto una relazione al presidente della commissione. Che obiettività ci si può aspettare? Perché non vengono sentiti anche i candidati?». Tema dello scandalo: l’introduzione - da parte di numerosi candidati all’oceanica prova d’esame convocata presso la Fiera di Milano - di vietatissimi codici commentati. Tradotto per i profani: agli esami per magistrato i temi riguardano faccende astruse («diritto di abitazione del coniuge superstite e della tutela del legittimario nel caso di atti simulati da parte del de cuius», recitava una traccia di settimana scorsa) cui i candidati debbono rispondere basandosi unicamente sui testi di legge, e non sui codici assai diffusi in commercio che, in fondo alle pagine, forniscono le risposte a ogni dubbio. Peccato che alla Fiera di Milano i codici del secondo tipo circolassero quasi liberamente. Risultato: sollevazione degli onesti, assalto alla presidenza, la prova che si blocca, riparte, finisce a notte inoltrata tra urla di «vergogna, buffoni», minacce, metà dei 5.600 candidati che abbandonano senza consegnare il compito. Come è stato possibile? Il presidente della commissione d’esame, il consigliere di Cassazione Maurizio Fumo, rifiuta ogni spiegazione. Così per ricostruire i fatti - che rischiano di portare all’annullamento della prova - bisogna affidarsi al racconto di V. e degli altri candidati. «La mia non è una denuncia anonima - dice V. - il ministro ha il mio nome in mano. Ma io quell’esame voglio riprovare a affrontarlo, stanno per essere banditi altri 350 posti. E se il mio nome girasse ne uscirei enormemente penalizzata». Che una aspirante magistrata sia convinta che il «sistema» si vendicherebbe della sua denuncia civile la dice lunga sull’aria che tira. V. non si dichiara ancora ufficialmente una disillusa, ma poco ci manca. «Io da sei anni non faccio altro che prepararmi per questo concorso. Voglio fare il magistrato, e credo che lo farei bene. Non ho aspirazioni missionarie, non ho una visione giustizialista della società. Ma credo che ogni società abbia bisogno di una cultura delle regole, e che per questo servano magistrati equilibrati e preparati. Io credo di essere entrambe le cose. Consideravo il concorso per magistratura l’ultima trincea della meritocrazia, evidentemente mi sbagliavo. All’idea che questo concorso premi i furbi che “ci hanno provato” mi sento profondamente indignata». «Abbiamo passato un giorno intero - racconta - a fare controllare i testi di cui chiedevamo di servirci. A me hanno tolto persino i segnapagine. Il giorno dell’esame ci sono ragazze che si sono viste perquisire anche la busta dei Tampax. I controlli, insomma, sembravano seri. E invece quando siamo entrati nell’aula è arrivata la sorpresa. C’erano candidati che avevano sul banco, con tanto di autorizzazione, codici commentati, manuali di diritto, enciclopedie. A quel punto è partita la protesta». Ma chi è stato, a permettere l’ingresso dei testi vietati? «I controlli li facevano i vigilantes, gli stessi che poi giravano tra i banchi. Non so chi li abbia istruiti. Ma so che un codice semplice si distingue facilmente da uno commentato: c’è scritto in copertina, e uno è alto un terzo dell’altro. Impossibile non accorgersene». E allora? Come è stato possibile? «Non lo so. Era una situazione surreale. E il presidente diceva: la prova va avanti, non è successo niente. Nei due giorni successivi il concorso è andato avanti così, chi copiava dai testi e chi si arrangiava in qualche modo. Se provavi a guardare il banco del vicino quello ti saltava in testa: cosa vuoi, fatti i fatti tuoi, vattene». Ed era il concorso da cui sarebbero usciti i magistrati di domani.

Parliamo della Avvocatura. E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in avvocatura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dal dr Antonio Giangrande, che ha provato sulla sua pelle per ben 17 anni l’ignominia e la gogna di non essere all’altezza per una funzione meritatissima. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. Ha scritto dei saggi in base alla sua esperienza. Ha pubblicato dei video per chi non vuol leggere. Per questo gli hanno inibito la professione di avvocato e, addirittura, processato per aver denunciato e scritto cose che tutti sanno.

Potevano bastare questi esempi per dimostrare l’illibatezza dei nostri tutori della legalità? Certo che no!!

Tra bocciati record e correzioni fantasma, i praticanti avvocato chiedono trasparenza sull'esame. A Palermo nasce il movimento #praticantealzalatesta. I ragazzi scrivono al ministro della Giustizia Orlando per chiedere trasparenza nella correzione dei compiti, scrive Nadia Ferrigo il 9/07/2016 su “La Stampa”. «C’è qualcuno che sa svolgere la prova di penale? Lei? Bene. Posso fotocopiare il suo compito, così lo passo a un ragazzo che proprio non sa niente?». La surreale richiesta è stata rivolta a uno dei candidati alla seconda prova del concorso di avvocatura della Corte d’Appello di Palermo: una tra le tante scorrettezze che hanno convinto gli aspiranti togati a reagire con il movimento#praticantealzalatesta. «Ho rifiutato di consegnare il mio compito perché fosse fotocopiato e distribuito agli altri candidati - racconta uno dei portavoce del movimento che ha scelto di parlare a nome del gruppo -. Solo 404 su 1.122 hanno superato lo scritto, tra questi a nche una ragazza che ha firmato il compito. È inaccettabile. Il ricorso per poter accedere agli atti è una scelta individuale, ma vogliamo far sentire la nostra voce: a Palermo come nel resto d’Italia, l’esame da avvocato è un calvario dall’esito incerto». Anche il preside della facoltà di Giurisprudenza siciliana Camilleri in un’intervista al quotidiano La Repubblica ha affermato che trai bocciati ci sono anche alcuni laureati dell’università di Palermo risultati i migliori durante l’ultimo concorso in magistratura. Per diventare avvocato, oltre a un praticantato di due anni, bisogna superare una prova scritta divisa in tre parti: parere di diritto civile, penale e la redazione di un atto. Gli esami sono a dicembre, la correzione arriva solo a giugno, da settembre si inizia con gli orali: una trafila che in tutto dura un anno e mezzo. Quest’anno la media delle di chi è passato agli orali è ancora più bassa che in passato, poco più di un terzo: il capoluogo con più promossi è Torino, circa il 58 per cento, a Milano invece sono appena il 35 per cento, a Napoli il 29 per cento.  Con il blog #praticantealzalatesta e una lettera al ministro della Giustizia Andrea Orlando i praticanti palermitani chiedono più trasparenza nella correzione dei compiti. A oggi non esistono tabelle di valutazione, nè criteri: chi chiede di rivedere gli scritti nella stragrande maggioranza dei casi si trova davanti a pagine immacolate, senza nessuna correzione. Oltre a una risposta del ministro che ancora non è arrivata, tra gli intenti del blog c’è creare una rete tra i praticanti: le perplessità e le difficoltà, a Palermo come a Milano, sono sempre le stesse. Le storie sono tante, ma è difficile trovare chi ha voglia di esporsi. Claudia, nome di fantasia, 31 anni, si è laureata con ottimi voti all’università di Pavia e lavora da quattro anni in uno studio milanese: per lei è la quarta bocciatura. «Ho sempre richiesto di vedere i miei compiti, sperando di poter imparare dai miei errori. Ma non ho trovato nessuna correzione, niente di niente. Li ho fatti leggere ad alcuni avvocati, per tutti erano assolutamente validi. La sensazione è quella di partecipare a una lotteria». Stessa storia, ma con un finale diverso per Alberto, altro nome di fantasia, praticante nel foro di Torino e ora diventato abogado in Spagna: la normativa europea consente infatti di prendere l’abilitazione in un qualsiasi paese europeo, per poi chiederne l’abilitazione anche in Italia. Cosìproliferano i professionisti dell’esame in trasferta. «Non ne vado fiero, sto aspettando il riconoscimento del titolo anche in Italia - racconta Alberto -. Dopo sei anni da praticante, dopo aver frequentato ogni corso di preparazione possibile con un gran dispendio di soldi ed energia senza successo, per me ormai l’esame era diventato un incubo».  

Parliamo della Guardia di Finanza: Lo dice il maresciallo capo della Finanza Antonio Izzo ai genitori di un aspirante finanziere, mentre davanti a un caffè illustra la proposta indecente: 1500 euro in cambio del superamento dei test attitudinali per il figlio. “Signora, questa è una cosa normale. Voi pensate che non ci siano persone corrotte? Qui tutto il sistema è corrotto”, scrive Vincenzo Iurillo su “Il Fatto Quotidiano” del 14 dicembre 2015. «Non si entra in Guardia di Finanza se non per queste vie». È la frase che il maresciallo della Gdf Bruno Corosu ha pronunciato, scrive “Il Corriere del Mezzogiorno" del 24 marzo 2015. Un finanziere romano e alcuni aspiranti marescialli avevano in casa copia dei test a risposta multipla del concorso svolto a Bari nell’aprile scorso. Lo hanno scoperto i militari del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanzi di Bari durante le perquisizioni disposte dalla magistratura barese nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Bari dove si ipotizzano i reati di corruzione e rivelazione di segreti d’ufficio nei confronti di sette persone, tra finanzieri in servizio e ex militari, tutti romani, e partecipanti al concorso per 297 posti da allievo maresciallo nella Guardia di finanza, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno” il 2 dicembre 2013.

Parliamo della Polizia Penitenziaria. Concorso agenti polizia penitenziaria a Roma: scoperti dal servizio di sorveglianza durante i controlli. Tutto per un posto in carcere. Anche, magari, rischiando il carcere stesso. 88 persone tra gli undicimila uomini e le duemila donne partecipanti al concorso per agenti della polizia penitenziaria, tenutosi a Roma tra il 20 e il 22 aprile, sono state indagate e denunciate a piede libero: le operazioni di controllo effettuate dalla task force di vigilanza tra i banchi della Nuova Fiera di Roma hanno infatti portato a scoprire materiale con cui i presunti furbetti cercavano di passare il test a pieni voti. Ne scrive il 26 aprile 2016 il Messaggero con Michela Allegri.

E poi, non poteva mancare lo scandalo per la Polizia di Stato.

Parliamo della Polizia di Stato. Polizia, concorso sospetto: troppi vincitori campani, scrive Daniela De Crescenzo l’8 giugno 2016 su “Il Mattino”. In rete già parlano di «concorso miracoloso». Ma c’è anche chi lo ha soprannominato «concorso truffa»: è quello per selezionare 559 allievi agenti della polizia di Stato. La prima prova si è tenuta il 13 maggio e ben 194 candidati non hanno sbagliato nemmeno una delle ottanta risposte, un record. 134 hanno commesso un solo errore e 93 ne hanno commessi 2. In totale 421 persone che si sono cimentate su un test a risposta chiusa di cui non era stata in precedenza pubblicata la banca dati risultando praticamente infallibili. Basta guardare il grafico dei risultati per notare un’impennata finale in corrispondenza proprio delle votazioni più alte, quelle superiori al 9. Un risultato definito da molti sospetto e che ha fatto scattare una serie di segnalazioni all’Authority anticorruzione guidata da Raffaele Cantone che le sta verificando. Intanto il diario degli accertamenti dell’idoneità fisica, psichica ed attitudinale è stato rinviato e dovrebbe essere pubblicato il 17 giugno. Una brutta storia che si va ad aggiungere a quella del concorso per allievi agenti Polizia Penitenziaria: anche in quell’occasione i risultati avevano dato adito a dubbi tanto che il Dap ha momentaneamente sospeso il concorso. In quell’occasione, però, un centinaio di candidati furono espulsi perché sorpresi a consultare cellulari, tablet e bignamini. Non solo: il Silp Cgil ha pubblicato sul suo sito l’elenco nominativo dei candidati ammessi alla prova fisica: «Una anomalia visto che i nomi degli idonei sono protetti dalla normativa sulla privacy e quindi ogni candidato ha accesso solo alla propria posizione», spiega l’avvocato Francesco Leone che sta preparando una raffica di ricorsi. Ma da questa prima enumerazione si evidenza anche un’altra anomalia: gli ammessi sono quasi tutti campani. Il segretario campano dello stesso sindacato Silp, Tommaso Delli Paoli «dopo una attenta e dinamica riflessione, denuncia lo stato di confusione in cui versa, ormai da anni, l’ufficio per le attività concorsuali, situazione questa diventata ormai insostenibile» e chiede quindi una «attività ispettiva del preposto ufficio». La protesta sale anche in rete: si sono formati anche dei gruppi su Facebook ed è partita una raccolta di firme per chiedere lo stop alle prove. Il sindacato autonomo AdP si è rivolto a Raffaele Cantone, ma anche al ministro Angelino Alfano, raccogliendo le proteste Movimento Militari in Congedo. Non è una prima volta che si grida all’imbroglio in occasione di concorsi pubblici: un fatto analogo è accaduto di recente anche con il concorso per agenti di polizia penitenziaria. In seguito a numerose segnalazioni, il DAP ha deciso di sospendere il concorso, durante il quale furono anche espulsi un centinaio di candidati pizzicati a consultare smartphone, tablet ecc.

Atto Camera. Interrogazione a risposta scritta n. 4-13538 presentata da Tofalo Angelo. Martedì 21 giugno 2016, seduta n. 639. TOFALO. — Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro dell'Interno. — Per sapere – premesso che:

è in corso di svolgimento il concorso interno per 1400 vice ispettori della polizia di Stato, concorso bandito nel mese di settembre 2013, per il quale sono state presentate circa 22.000 domande;

sembrerebbe che l'analisi dei compiti non sia stata uniforme, alla luce di quanto emerso dai candidati esclusi che hanno acquisito tutti gli atti del procedimento amministrativo, compresi tutti gli elaborati che la commissione ha giudicato idonei;

sembrerebbe che ci siano anomalie anche nella composizione della commissione che ha corretto i compiti;

se sia stato e sarà garantito il precetto costituzionale di cui all'articolo 97, comma 1, secondo il quale «i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati secondo il quale il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione»;

quali determinazioni ed iniziative intendano intraprendere in merito al prossimo corso di formazione per vice ispettore della polizia di Stato visto che, da quanto emerge, sembrerebbero essere state disattese le norme sulla trasparenza nei concorsi pubblici e sulla formazione della commissione;

quali determinazioni ed iniziative intenda intraprendere il Ministro interrogato, atteso che nel ruolo degli ispettori della polizia di Stato vi è una carenza organica di oltre 11.000 posti, ossia oltre il 50 per cento della pianta organica. (4-13538)

Concorso Vice Ispettori: gli esclusi devono avere delle risposte, scrive Il Sap Nazionale il 21 marzo 2016. I candidati non idonei alla prova scritta del concorso per 1.400 posti da Vice Ispettore devono avere delle risposte e tanti dei loro elaborati risultano non essere inferiori di altri che hanno superato l’esame. E’ quanto emerge con chiarezza dalla lettera inviata il 18 marzo 2016 dal SAP al Capo della Polizia Alessandro Pansa e per conoscenza al Ministro dell’Interno Angelino Alfano. Secondo il SAP non è accettabile che i numerosi colleghi risultati non idonei alla prova scritta del concorso siano così bistrattati anche quando, dopo il difficilissimo accesso agli atti, hanno scoperto le carte e le hanno messe sul tavolo. Documenti che sono stati analizzati dallo stesso Sindacato, il quale condivide quanto è stato rappresentato da molti degli esclusi. Non c’è mai stata una manifestazione di dissenso così forte. Basti pensare che è stata costituita anche un’associazione chiamata “Tutela e Trasparenza” con l’obiettivo di tutelare i colleghi esclusi ingiustamente dalla prova scritta. La stessa associazione ha ricordato che la pubblica amministrazione deve assicurare il rispetto dei principi costituzionali del buon andamento e dell’imparzialità, senza dimenticare il principio di trasparenza che deve valere anche per gli appartenenti alla Polizia di Stato. Il SAP auspica che l’Amministrazione riveda i temi giudicati non idonei e rivaluti quelli che effettivamente risultano meritevoli di consentire l’accesso alle prove orali. Da ultimo, e forse la cosa più importante, l’Amministrazione deve valutare un allargamento dei posti previsti dall’attuale bando, che avrebbe costi esigui e non paragonabili con quelli abnormi che si dovranno affrontare con il concorso esterno.

L’incontro organizzato dall’associazione “Tutela & Trasparenza” che si è svolto lunedì 7 marzo 2016 a Milano presso Hotel Galles, relativa all’esito dell’accesso agli atti della prova scritta per 1400 v.isp, è stato un autentico successo di pubblico. Il Presidente Walter Massimiliani ha approfondito il discorso, ricostruendo per intero gli avvenimenti che hanno portato all’incontro e, dopo aver precisato che non si tratta di una guerra a coloro che sono stati ritenuti idonei alla prova scritta ma semplicemente di una richiesta di equità di giudizio, ha mostrato alcuni dei numerosi elaborati che sono stati analizzati e per i quali sono state rilevate evidenti criticità sotto vari punti di vista, in particolare:

presenza di elaborati con segni o frasi non inerenti lo svolgimento della traccia;

elaborati con ampi passi identici a testi o link presenti sulla rete;

elaborati con contenuti palesemente inadatti e scarsi dal punto di vista sintattico grammaticale e/o di concetti giuridici. L’Avvocato Leone il 28 gennaio 2016 ha preso parte all’importante incontro/dibattito svoltosi all’Hotel Holiday Inn di Cava de’ Tirreni (SA) in merito al ricorso per il Concorso Interno per 1400 Vice Ispettori della Polizia di Stato, organizzato dalla Associazione di agenti “Tutela e Trasparenza”. Tantissimi i presenti accorsi presso la sede designata, per cercare di approfondire dal punto di vista giuridico il bando di concorso, che presenta una serie di criticità degne di nota, nonché la fase di correzione e di valutazione degli elaborati che, in modo manifesto, appare illogico e illegittimo.

Al fine di consentire di capire di cosa stiamo parlando descrivo brevemente il concorso in argomento: nel mese di giugno 2014 si è svolta una prova preselettiva articolata con nr. 80 quiz a risposta multipla su 5 materie d’esame (diritto penale, procedura penale, diritto amministrativo, diritto civile, diritto costituzionale) cui hanno partecipato 22mila candidati ed alla quale sono risultati idonei 7032 candidati;

nel mese di gennaio 2015 si è svolta una prova scritta consistente nella stesura di un elaborato di diritto penale, conclusa da 6355 candidati ed alla quale sono risultati idonei 2127 candidati che hanno riportato una votazione superiore a 35/50.

Il 17 dicembre 2015, a distanza di 11 mesi dalla prova scritta, è stata diffusa una lista degli idonei che sin da subito a suscitato forti dubbi di correttezza per la distribuzione dei voti. Infatti oltre 2/3 degli idonei (più di 1400) hanno superato la prova con il voto di 35/50; nessun candidato ha conseguito 34/50 e solo in 73 hanno conseguito la sufficienza compresa tra 30/50 e 33/50. Inoltre una gran parte dei candidati sono stati valutati non idonei con il voto di 25/50 e 28/50. Si evidenzia che l’associazione “Tutela & Trasparenza”, ha effettuato un accesso agli atti straordinario e storico richiedendo ed ottenendo TUTTI i 2127 elaborati dei candidati idonei e TUTTI gli atti endoprocedimentali. L’analisi di tale materiale effettuata con una task force di colleghi poliziotti che in dieci giorni ha controllato tutti gli elaborati, ha permesso di scoprire delle considerevoli anomalie, in particolare:

numerosissimi elaborati con palesi errori sintattico grammaticali diffusi;

numerosissimi elaborati con palesi errori concettuali grossolani e confusione su elementi basilari di diritto penale tali da stravolgerne completamente le basi;

numerosi elaborati singolarmente identici a libri di testo e/o da documenti rinvenuti sulla rete internet;

alcuni elaborati con segni o con messaggi di testo rivolti alla commissione come: SI RINGRAZIA PER L’ATTENZIONE, NOTA PER IL FUNZIONARIO CHE CORREGGE, SCUSATE PER LA CALLIGRAFIA E GRAZIE et.

Il lavoro dell’associazione non si è comunque esaurito in tale fase, sono stati infatti presentati circa 400 ricorsi al TAR, circa 50 al Presidente della Repubblica e circa 150 istanze di ricorrezione al Dipartimento di P.S., tali numeri hanno di fatto bloccato le udienze in Camera di Consiglio al TAR Lazio al punto che ad oggi non risultano ancora calendarizzati la maggior parte dei ricorsi.

D'altronde di cosa parliamo: è tutta “Cosa nostra”. Si sa la famiglia in Italia è sacra.

Parliamo del Corpo Forestale. Amici e parenti la grande famiglia della Forestale. E’ sempre una notizia attuale e quindi utile leggere l’articolo de “La Stampa” del 13 maggio 2009 riguardo il Corpo Forestale. I figli di dirigenti e comandanti alla corte di papà. Bravi. Anzi, bravissimi. Ma non c’erano dubbi, visto che spesso la sapienza passa di padre in figlio. E così, da una parte il caso, dall’altro le conoscenze e le tante doti è accaduto che tra i 500 vincitori al concorso allievi per il Corpo forestale, molti tra questi sono figli di comandanti, dirigenti, uomini di stretta vicinanza del capo del Corpo, Cesare Patrone. Il fato, infatti, è stato così generoso nei loro confronti, che molti di costoro sono stati, addirittura, assegnati nelle stazioni dove comandano i loro capo famiglia. Non sfugge, infatti, che la sorte abbia riservato a Matteo Colleselli la stazione di Candaten proprio nell’area dove papà, comanda la regione Veneto; e così è accaduto a Stefano Piastrelli figlio del capo di Perugia, o a Massimiliano Giusti discendente diretto del numero due della regione Umbria. Ma le regalie della dea bendata non finiscono qui. Tanto che a trarne beneficio è toccato pure a Matteo Palmieri, «omonimo» del capo della segreteria del Corpo e destinato in Puglia, terra d’origine, a Francesco Polci (figlio del vice comandante d’Abruzzo assegnato a Chieti), a Massimo Priori (omonimo del caposervizio del personale assegnato a Livorno), a Vittorio Scarpelli (figlio del dirigente del servizio ispettivo assegnato nel vicino Abruzzo), nonché al figlio del comandante di Taranto, Pasquale Silletti, assegnato alla stazione di Cassano Murge a Bari, a Dante Stabile, parente del capo di Napoli finito alla stazione di Boscoreale in Campania. E’ chiaro, però, che la fortuna non poteva girare a tutti. Ma dove non osò la sorte, giunsero i «pizzini» del patronato: per Alfonso, figlio di Rosetta, per Emidio figlio di Cesarina di zio Antonio, o per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria. E ancora, per Massimiliano, cugino di Rosetta, ma anche per Paolo che è nel cuore di zio Domenico e altri. Del resto si sa, in Italia le cose marciano spedite solo se stanno veramente a cuore a qualcuno. E tra le camicie verdi del Corpo Forestale la regola, stavolta, non fa eccezione. I capisaldi sembrano tre: l’ambiente e il soccorso, il rispetto della legge ma anche la famiglia. Non a caso, infatti, a capo del Corpo è finito Cesare Patrone, figlio dell’ex geometra della Forestale, Michele. Al suo fianco ci sono anche il fratello Amato (sovrintendente), la moglie di quest’ultimo Serena Pandolfini (sovrintendente), Domenico, zio del capo ma ora in quiescenza, dalla fulgida carriera e la figlia di quest’ultimo Rosa, primo dirigente del Corpo, la quale classificatasi quarta al concorso da primo dirigente (i posti erano tre) si è vista riconoscere dall’amministrazione il ruolo, ma senza arretrati per la decorrenza della nomina dal 1 gennaio 2002 (data del posto vacante), secondo quanto stabilito dall’ufficio centrale del bilancio del Ministero. Nomina sì, dunque, ma senza «indennizzo». Ma per la serie, la speranza è l’ultima a morire, ecco che in soccorso di Rosa Patrone, la Camera ha approvato un emendamentino ad hoc che si «applica anche agli idonei nominati, nell’anno 2008, nelle qualifiche dirigenziali» e che risarcisce e stabilisce anche le quantificazioni economiche: oltre 177mila euro per il 2008, 24mila per il 2009 e altri 24 mila per il 2010. Insomma, un indennizzo niente male, che desta non pochi malumori. Così come destano sorpresa i risultati del concorso per 182 posti da vice ispettore. Dopo la prova scritta tra i primi posti a piazzarsi ci sono i più stretti collaboratori del capo del Corpo. Uomini certamente brillanti e qualificati come il suo autista Domenico Zilli (voto 30 su 30), Marco Giurissich della segreteria (30/30), Amato Patrone, fratello del capo (30/30), Noemi La Motta, segretaria del capo (29,5/30), Serena Pandolfini, la cognata di Patrone (29,5/30), Claudio Bernardini, segreteria della cugina del capo del corpo (29/30), Cristiano De Michelis, assistente del capo (29/30), Quintilia Pomponi, segreteria della cugina del capo (29/30), Vania La Motta, sorella di Noemi, cognata di Zilli l’autista del capo. Tanta conoscenza e bravura, nelle prove scritte, ha stupito il parlamentare del Pdl, Marco Zacchera che in una interrogazione spiega «che dall’esame dei 50 concorrenti che hanno superato il punteggio di 28/30 appaiono alcune anomalie, ovvero che ben 32 di essi hanno sede di lavoro a Roma, molti negli uffici dell’ispettorato generale, mentre altri 8 hanno sede di lavoro in Calabria e solo 10 nel resto d’Italia», e quindi chiede «di accertare se i testi dei quiz siano stati resi pubblici a nicchie» e se non si ritenga di «dover sospendere il concorso». Niente da fare, ovviamente. Il concorso va avanti, così come procede spedita anche un’altra interrogazione. Stavolta, a siglarla è il parlamentare leghista, Maurizio Fugatti al quale non sfugge che «dei 29 candidati che hanno riportato voti tra il 29 e il 30, ben 21 provengono dal medesimo ispettorato generale». Attitudini spiccate? Chissà. Di certo, nemmeno Fugatti sembra capacitarsi di «un personale così altamente qualificato in servizio all’ispettorato - scrive - e che sarebbe consigliabile correggere tale squilibrio sul territorio nazionale, assegnando a compiti territoriali almeno parte delle migliori risorse ora collocate a mansioni amministrative». Ma nonostante ciò al Corpo si guarda avanti. L’attenzione nelle ultime ore è rivolta a tutta una serie di promozioni varate in una delle riunioni del cda della Forestale presieduto dal ministro Zaia. Anche qui, la fortuna ha lasciato il segno. Tangibile, ma solo per pochi, «posandosi» sui fascicoli di nove candidati, otto dei quali del nord Italia e Veneto, che così hanno ottenuto il punteggio massimo pur non avendo alcuni titolo speciale valutabile.

Polizia penitenziaria, concorso con il trucco: 90 denunciati. Lo rivela il sindacato Fns-Cisl: nel giorno della prova scritta i partecipanti sono stati colti sul fatto con radiotrasmittenti, auricolari e bracciali contenenti risposte alle domande. Sequestrati gli «aiuti». L’esame, valido per 400 posti, non è stato annullato, scrive il 26 aprile 2016 "Il Corriere della Sera”. Neanche agli esami di maturità si è mai arrivati a tanto: candidati in possesso di radiotrasmittenti, auricolari, bracciali contenenti risposte alle domande e colti sul fatto il giorno della prova scritta per il concorso per allievi agenti penitenziari. Tutti gli «aiuti» illegali sono stati sequestrati da una apposita task force di vigilanza, schierata alla prova di esame che si è tenuta a Roma il 20 aprile scorso. La denuncia è della sigla sindacale Cisl Fns (Federazione nazionale sicurezza), secondo la quale una novantina di autori della tentata truffa sono stati già segnalati all’autorità giudiziaria. Il concorso si è svolto alla Nuova Fiera di Roma il 20, 21 e 22 aprile. Vi hanno partecipato 11 mila uomini per 300 posti e duemila donne per cento posti. I dubbi su possibili irregolarità erano emersi già nei giorni precedenti, visto che voci in merito giravano da qualche tempo: per questo l’amministrazione penitenziaria aveva disposto una task force composta da agenti del Nic (Nucleo investigativo centrale) e da due commissari. Tutte e tre i giorni le operazioni di controllo e sequestro del materiale, svolte da personale della polizia penitenziaria, hanno molto allungato i normali tempi di svolgimento del concorso, che si sono protratti fino all’una di notte e addirittura fino alle tre di notte l’ultimo giorno. Diversi partecipanti sono stati denunciati a piede libero e a loro volta hanno fatto i nomi di altre persone. Il concorso non è stato annullato.

Roma, trovate radiotrasmittenti al concorso agenti penitenziari, in 50 avevano già le risposte, scrive “Il Messaggero” il 26 aprile 2016. Radiotrasmittenti, auricolari, bracciali contenenti le risposte, cellulari contraffatti, cover dei telefonini con all'interno le soluzioni. C'era un pò di tutto al concorso per agente penitenziario che si è svolto a Roma, complesso della nuova Fiera, il 20, 21 e 22 aprile scorsi. A scoprire la vicenda è stata la stessa amministrazione penitenziaria, che avendo captato da una serie di rumors già prima delle prove, ha predisposto un'apposita task force, formata da uomini del Nic, il Nucleo investigativo centrale, e da due commissari, scelti appositamente tra quanti non avessero partecipato in precedenza ad attività di controllo nei concorsi per agenti carcerari. Il caso è emerso dopo la segnalazione di un sindacato di polizia, la Cisl Fns, che ha reso nota l'apertura di un'indagine da parte dell'autorità giudiziaria per individuare i responsabili. E, dalle prime ricostruzioni, emerge che sarebbero una novantina - 88, secondo le prime indicazioni - gli indagati, e tra questi una cinquantina di persone trovate in possesso delle risposte d'esame. Ma i contorni e l'esatto quadro delle responsabilità sono ancora da chiarire, anche rispetto a un punto molto delicato: l'eventuale pagamento di denaro per ottenere gli aiuti. Le verifiche non sono solo sul piano penale, ma anche su quello amministrativo. Non a caso, lo stesso ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha immediatamente chiesto una relazione urgente sul caso al capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria, Santi Consolo. Al concorso - che al momento non è stato annullato - hanno partecipato 11mila uomini per 300 posti e 2mila donne per cento posti. Tutte e tre i giorni di prova, le operazioni di controllo e sequestro del materiale, svolte da personale della polizia penitenziaria, hanno molto allungato i normali tempi di svolgimento del concorso, che si sono protratti fino all'una di notte e addirittura fino alle tre di notte l'ultimo giorno. Molti dei partecipanti, denunciati a piede libero, hanno a loro volta fatto i nomi di altre persone coinvolte. L'indagine della Procura di Roma dovrà chiarire se elementi del sistema penitenziario, non solo e non tanto a livello centrale, ma anche nelle diramazioni territoriali, abbiano avuto un ruolo e se ci siano figure esterne coinvolte. E andrà accertato se sono fondate talune indiscrezioni secondo cui partecipanti al concorso abbiamo pagato somme di denaro- fino a 25mila, secondo le stesse indiscrezioni - per ottenere aiuti e soluzioni anticipate delle prove d'esame.

Avvocati, De Tilla (Anai): “gli esami di avvocato sono una lotteria”, scrive "AGENPARL") il 29 febbraio 2016. Numero programmato all’Università, con selezione al quarto anno e successivo anno specialistico: l’Associazione nazionale avvocati propone un diverso percorso selettivo per arrivare alla pratica della professione forense. «Bisogna cominciare dall’Università con un numero programmato in uscita da selezionare al quarto anno con un successivo anno specialistico per la professione forense. Ha illustrato il presidente Anai Maurizio De Tilla – Dovrà poi seguire un anno e mezzo di tirocinio serio e continuativo, alternato ad una formazione adeguata (di tipo francese) finanziata possibilmente dallo Stato. L’esame di abilitazione finale è il sigillo finale di un percorso rigoroso in base ad una scelta definitiva per il professionista. Tutto ciò porterà ad una sensibile riduzione degli iscritti agli albi, ma non c’è altra soluzione allo scottante problema dell’accesso». «Un tempo i giovani laureati in giurisprudenza, dopo la pratica forense che durava un anno, accedevano ad un esame selettivo e si affacciavano alla professione forense con il titolo di procuratore legale – ha continuato De Tilla – Dopo sei anni diventavano avvocati. Gli avvocati non erano più di quarantamila. Oggi, si accede direttamente, dopo diciotto mesi di pratica, all’esame di avvocato, con esami di abilitazione che sono, più che una prova selettiva, una lotteria per la disuguaglianza delle sedi e delle Commissioni esaminatrici che correggono gli scritti e procedono con un metodo incrociato con gli esami orali effettuati in altri Distretti. Si susseguono disparati giudizi di valutazione nella correzione degli scritti, combinati a non poche copiature, oltre che a raccomandazioni agli orali. Recentemente è stato accertato che una fonte diffusa per dare un buon esito agli scritti è data dall’uso durante gli esami di siti appositamente attrezzati al fine di offrire un aiuto ai partecipanti. Gli esami di abilitazione non sono, quindi, più attendibili». Di qui secondo l’Anai, la necessità di riformare integralmente e subito il percorso per l’accesso alla professione di avvocato, che parta dal numero programmato all’Università con un percorso selettivo che non si affidi solo alla lotteria dell’esame di abilitazione finale.

Test per avvocato, i post della vergogna: «Cambiate le parole altrimenti annullano». Nel forum del sito che aiutava i candidati, decine di richieste, tracce e commenti, scrive Titti Beneduce il 27 febbraio 2016 su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Si chiama mininterno.net, ma con il ministero dell’Interno non c’entra nulla. È il sito, invece, su cui quelli che partecipano a concorsi pubblici cercano non solo sostegno morale o dritte, ma proprio le tracce dei temi. In modo da poter copiare. Su mininterno.net, lo scorso dicembre, la chat degli aspiranti avvocati era rovente. Il giorno 15, primo degli scritti, fin dalle otto del mattino si percepiva l’impazienza di procurarsi l’argomento del compito. Erano familiari, fidanzati e amici dei candidati che si preparavano a confezionare i temi, mentre gli aspiranti avvocati, col cellulare silenziato e nascosto, attendevano fiduciosi:

«Forza ragazzi! Qualcuno ha novità?»

«Ancora credo non abbiano dettato in nessuna sede!»

«Postate le tracce al più presto che vi aiuto»

«Ci sono anche io per aiutare!»

«Buongiorno a tutti ragazzi! anch’io per il terzo anno consecutivo sono qui a prestare il mio aiuto... C’è nessuno dalla Basilicata? Lo scorso anno fu tra le prime a dettare».

«Ciao ragazzi, anche io sono qui per aiutare, per la mia compagna che lo fa a Napoli. Condividerò appena ho info. Unione fa la forza!»

Qualcuno dissente: «Ma fatemi capire la gente è con i cellulari dentro quindi e li usa? Solite cose all’italiana...»

E viene coperto di insulti: «Ma perché non ti vai a fare un giro? ma guarda te... fatti i fatti tuoi e sparisci. Solite cose all’italiana? Dici? Ma ti rendi conto che questo non è un concorso pubblico ma una mera abilitazione... Abilitazione che per altri ordini è automatica o quasi. Per noi avvocati deve essere invece uno stress e uno strazio completo sia fisico sia psichico. Ma vai va’... sei un povero, povero povero e non aggiungo altro per decenza».

Quando gli insulti si fanno più pesanti, la persona replica così: «Sono avvocato dal 19 novembre di quest’anno e lo scorso anno non ho copiato da nessuna parte (mi sono portata solo le maschere); il mio fidanzato oggi è a fare lo scritto dopo essere stato ingiustamente bocciato all’orale ma di certo non ha portato con sé il cellulare né io lo aiuterò da fuori. È una questione di decenza anche se si tratta di una buffonata. Poi ognuno fa quello che vuole ma non la trovo una cosa corretta. Se non mi credete vi do nome e cognome e controllate voi stessi se ho superato o meno lo scritto».

Molti ammettono che l’esame è «una farsa»: «Se gli esami fossero svolti correttamente, a cominciare da chi dovrebbe controllare all’interno dei padiglioni e invece spesso chiude un occhio, altre volte invece li sbarra entrambi, beh nessuno oggi sarebbe qui. Evidentemente quest’esame è una farsa, ma tant’è esiste e va superato».

La prima traccia viene postata alla 10.40, la seconda alle 11.03. Poco dopo arrivano anche i temi, che parenti e amici smisteranno prontamente ai candidati. Non mancano le raccomandazioni: «Soluzione traccia 2. Eventualmente decidete, non copiatela identica, mi raccomando».

«Ragazzi, cambiate le parole altrimenti si rischia l’annullamento del compito...».

La discussione continua fino a sera per riprendere il mattino successivo. Qualcuno ancora dissente: «Due temi così facili e c’è anche chi fotografa in aula? Dove siamo arrivati. E questi saranno gli avvocati del futuro?»

Altri si preoccupano di cancellare i post «compromettenti», in un italiano da brividi: «Poiché la finalità era aiutarci a superare l’esame e te ne siamo davvero grati - e l’anno scorso sono stati annullati migliaia di compiti riportando l’indirizzo della pagina da cui era stato copiato l’esame - volevo chiederti di eliminare il commento della traccia cosicché da non essere motivo di espulsione».

Come diventare avvocato copiando all’esame. Bufera sul concorso di Napoli. Noi nel 2009 avevamo già documentato i controlli inesistenti, scrive Antonio Crispino e lo documenta su Corriere TV il 25 febbraio 2016. «Milano smaschera Napoli», «Trento smaschera Potenza», «Catania smaschera Lecce». Periodicamente sui giornali si leggono titoli di questo tipo. Si riferiscono alle prove d’esame che le commissioni di turno annullano agli aspiranti avvocati che si cimentano con l’esame di Stato. Perché risultano essere elaborati copiati dalla prima all’ultima parola. I candidati di una regione, infatti, sono esaminati da una commissione di provenienza territoriale diversa, scelta tramite sorteggio dal ministero della Giustizia. «Il 20% dei compiti consegnati a Napoli sono risultati copiati» scriveva il Corriere del Mezzogiorno riferendosi alle sedute del 15-16 e 17 dicembre scorso dove si presentarono circa 6000 aspiranti avvocato. Una percentuale che nella realtà è anche più alta a giudicare da quello che avevamo documentato già nel 2009 a Roma. È il 16 dicembre e all’hotel Ergife si svolge la seconda prova scritta per diventare avvocato. Le domande devono essere presentate per via telematica sul sito della Giustizia ma questo non impedisce di entrare anche senza aver fatto nulla di tutto ciò. Come facciamo noi. Saltiamo i controlli (abbastanza di manica larga, la calca all’ingresso ci agevola) e entriamo nell’aula con migliaia di candidati. Del resto già il fatto che riusciamo a varcare l’ingresso con una telecamera la dice lunga. Non tutti si presentano, basta occupare un posto vacante. Su ogni banco c’è un’etichetta con il nome dell’aspirante avvocato prenotato. Poco prima di iniziare è facile individuare quelli che mancano. E così fingiamo di essere praticanti e ci sediamo, non prima di aver sfilato qualche foglio protocollo dagli altri banchi. Sono forniti tassativamente dalla commissione e hanno un timbro in alto a destra che ne certifica la provenienza. Prima di aprire le buste con le tracce un commissario passa per vedere se ognuno ha il suo foglio timbrato. Potremmo essere chiunque. Anche un familiare, un amico di un candidato venuto per aiutare il parente o l’amico. O magari sostituirci a un’altra persona. Ma a giudicare da quello che vediamo nemmeno ce ne sarebbe bisogno. Ci fingiamo avvocati per un giorno, facciamo l’esame, copiamo e nessuno ci controlla. Dopo la dettatura della traccia (quando andiamo noi si svolge la prova di diritto penale) iniziano le consultazioni. Poi il passaggio dei vari testi, codici, riassunti, appunti. Di tutto di più. Chi proprio non riuscisse a parlare con tranquillità in aula può sempre recarsi nei bagni dove si forma una specie di commissione consultiva. Noi siamo fortunati. Il vicino di sedia è preparato ed è quello che si preoccupa di dare le dritte a tutti gli altri. Noi chiediamo di più: «Mi detti il compito? Non ho fatto la pratica e non so niente». Aspettiamo che svolga il suo e poi inizia la dettatura. Dopo appena tre ore abbiamo il nostro tema bello e fatto. Nel frattempo gli altri si scambiano di tutto. C’è persino un ragazzo con un auricolare. Siamo un po’ distanti e non riusciamo a capire se sia a telefono con qualcuno. Ogni tanto tasta la mano sull’orecchio. Anche la consegna deve passare al vaglio della commissione. Ma quando decidiamo di aver visto abbastanza, prendiamo borsa, telefono e telecamera e andiamo via.

Avvocati, bufera sul concorso. Annullate due prove su dieci. I compiti di Napoli corretti a Milano, risulterebbero copiati da un sito web specializzato, scrive Patrizio Mannu su "Il Corriere del Mezzogiorno" il 24 febbraio 2016. Copia copiella e se si tratta della versione di latino al liceo, passi. Ma se parliamo d’una prova d’esame per diventare avvocato, be’, allora la cosa si complica. E parecchio. Tanto che il concorso potrebbe arrivare in Procura, fino — nell’ipotesi peggiore — per essere annullato. Accade tutto a Milano, sede di corte d’Appello, che quest’anno esamina gli elaborati dei candidati di Napoli alla professione di avvocato. Ebbene, fino ad oggi, «alla quarta settimana di correzione — spiega al Corriere del Mezzogiorno una fonte qualificata — il 20 per cento degli elaborati risulta copiato». Il ministero dell’Interno è stato avvisato; i compiti fino a oggi sgamati, annullati. La bufera è soltanto all’inizio. Il 15, 16 e 17 dicembre dello scorso anno, circa 6.000 aspiranti avvocato si presentano alla Mostra d’Oltremare; 4.400 quelli residenti nel territorio di competenza della Corte di Appello di Napoli (in queste settimane esaminati a Milano). Sono ai cancelli dalle 6 del mattino, fa freddo, e la fila la si vede già da viale Augusto. Entrano e prendono posto nei banchi. Davanti a loro tre prove: un parere in tema di Diritto civile; uno in Penale, il terzo è un atto a scelta fra Civile, Penale e Amministrativo. Si comincia: si sfogliano i Codici, si mordicchiano le penne; terminata la prova, tutti gli scritti sono raccolti, imballati e inviati a Milano per le verifiche incrociate fra Corti d’Appello: quella meneghina opera su quella partenopea. Da qualche anno gli abbinamenti si sorteggiano, in maniera tale da evitare percentuali bulgare di promossi. Quando non era così, ci sono stati casi come quello storico di Catanzaro con il 95% dei promossi. Insomma, le correzioni cominciano il primo di febbraio. Al lavoro 15 sottocommissioni da 10 membri ciascuna, si dovrebbe terminare (a meno di altre sorprese) a metà aprile. È a 900 chilometri di distanza da Napoli che si scopre il fattaccio. «Abbiamo notato — racconta la nostra fonte — che una buona parte dei compiti consegnati era copiata. Non parliamo di ispirazione, ma di una copiatura furibonda. Parola per parola, virgola su virgola. Alcuni temi erano evidentemente uguali fra loro, e questo tutto sommato è comprensibile, ma la stragrande maggioranza dei testi era stato preso da un sito: mininterno.net, che ha pubblicato le tracce e poi le soluzioni. Oggi, soltanto per fare un esempio, su 10 elaborati esaminati, 2 erano copiati». Ecco il raggiro. Chiariamo subito: il sito mininterno.net non è del dicastero guidato da Alfano, né in alcun modo gestito dallo stesso. È un portale come tanti se ne trovano sul web, specializzati e pronti alla soffiata. Operazione utilissima e a buon fine «visto che — spiega la fonte — un quarto d’ora dopo la lettura delle tracce, le medesime sono state postate sul sito. Un’ora e mezza più tardi anche le soluzioni». E dal web al foglio di protocollo come ci sono arrivate? Più della preparazione potè lo smartphone. «È chiaro — spiega ancora la fonte — che i candidati hanno utilizzato i cellulari di ultima generazione per collegarsi al web e scaricare le soluzioni». Un cellulare in “classe”? Evidentemente sì. La prova, come detto, s’è tenuta a Napoli, i controlli, semmai le perquisizioni, avrebbero dovuto farli qui; probabilmente non tutto avrà funzionato. «Ricordo — afferma ancora la fonte — che quando fui in commissione d’esame in una precedente prova, noi a Milano controllammo finanche negli zaini». Evidentemente tutto questo non è stato, simm’e Napule paisà. Tutte le prove scritte risultate copiate sono state immediatamente annullate. Il 20%, fino a ora, dei candidati non vestirà la toga grazie a questo concorso. «Per intanto — racconta la fonte — abbiamo allertato l’ispettore ministeriale (ce n’è uno per ogni sessione di verifica) e messo a verbale le irregolarità riscontrate. Ora il ministero della Giustizia dovrà decidere cosa fare e come intervenire». Teoricamente le strade sono molteplici: il blocco dell’esame in attesa di verifiche; l’annullamento, addirittura, dell’intero concorso; l’allertamento della Procura. Insomma, sarebbe tutto da rifare. I furbetti del compitino sono avvisati.

Test copiati all’esame per avvocati. «Niente fondi per controlli efficaci». De Carolis, presidente della Corte d’Appello di Napoli, ammette: «Situazione frustrante» continua Patrizio Mannu su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Sempre colpa dei denari, che sono pochi; anzi, non ci sono proprio. E senza quelli, niente metal detector, niente controlli. Così la fanno franca i furbetti del compitino; la bufera è quella che ha investito l’esame per avvocato tenutosi a Napoli alla fine dello scorso anno: le prime correzioni delle prove — sotto verifica in questi giorni a Milano — hanno evidenziato che il 20% dei test risulta copiato da un sito web. Copiato perché — ipotizza una delle commissioni meneghine (sono 15 quelle alle prese con gli scritti dei 4.400 aspiranti avvocato napoletani) — in aula sarebbero stati introdotti degli smartphone, cosa vietatissima, con i quali scaricare le giuste risposte. «Evidentemente qualcosa non ha funzionato nei controlli», aveva detto ieri una fonte qualificata al Corriere del Mezzogiorno. L’Ordine degli avvocati di Napoli è pronto a dare a Cesare quel che è di Cesare. «Devo precisare — spiega in un comunicato il presidente Armando Rossi — che l’organizzazione degli esami di avvocato è di competenza esclusiva delle Corti d’Appello. L’Ordine si limita soltanto all’indicazione e designazione di parte dei componenti delle commissioni di esame, che vengono scelti tra gli avvocati iscritti alle giurisdizioni superiori, con esperienza almeno ventennale, vera espressione della prestigiosa avvocatura napoletana».

Presidente Giuseppe De Carolis, lei è a capo della Corte di Appello di Napoli. L’organizzazione è di sua competenza. Dunque?

«È vero. È la Corte di Appello a sovrintendere gli aspetti organizzativi dell’esame, di concerto con la commissione, presieduta da un avvocato. Per l’espletamento dei controlli ci avvaliamo delle forze dell’ordine che presidiano gli ingressi, ognuno con una propria competenza sulla zona assegnata».

E fin qui siamo alla procedura da manuale. Il fatto è che sembrerebbe che in aula siano stati introdotti dei cellulari, con i quali sarebbero state scaricate le risposte ai test.

«Il problema è questo: Internet. Interrompere la connessione al web. Con il presidente della commissione avevamo pensato di schermare l’intera zona (quella della Mostra d’Oltremare, dove si sono svolte le prove, ndr) in maniera tale da non essere raggiunta dal segnale».

E perché non l’avete fatto?

«Da un lato, perché non abbiamo un budget talmente ampio da permetterci di coprire i costi. Dall’altro, perché i tecnici ci hanno spiegato che era impossibile farlo in così poco tempo. Troppo complicato».

Complicazioni che hanno allargato le maglie dei controlli, nei quali è passato più di un cellulare...

«Posso immaginare. Ma le ho detto...».

Sa quanto è costato approntare la tre giorni di esami?

«Non ricordo, per essere più preciso dovrei chiedere ai miei uffici».

Presidente, va bene la complicazione di schermare le sale. Si potevano installare dei metal detector sullo stile degli aeroporti.

«Ci abbiamo pensato e sarebbe stato l’ideale. Ma ripeto, come Corte di Appello non abbiamo tante risorse. Tenga conto, che filtrare attraverso i metal detector i candidati avrebbe comportato un dispendio di tempo enorme. Sarebbero dovuti arrivare quattro o cinque ore prima».

Tuttavia mi sa che anche le perquisizioni hanno lasciato qualche varco.

«Guardi, le forze dell’ordine hanno fatto quel che potevano. Ma tenga conto che perquisire minuziosamente 6.000 persone, cioè i candidati, poi i commissari e i vari addetti non è cosa facilissima. Se su 6.000 persone qualche cellulare è sfuggito è possibile. Tenuto conto delle situazioni che ho spiegato. Pensi che anche in Tribunale, nonostante i controlli qualcosa sfugge. Ricorda la polemica di qualche tempo fa al tribunale di Milano?».

Presidente, la vedo allargare le braccia. S’abbandona ad un fatalismo frustrante.

«Sì, certo è frustrante. Che dirle? facciamo il fuoco con la legna che abbiamo».

Secondo lei due compiti copiati su dieci è una percentuale alta? E dico: parliamo di aspiranti avvocato, di chi in futuro dovrà essere garante del Diritto e della legalità.

«Le ripeto, è una storia frustrante. Non so se due compiti copiati su dieci è una percentuale alta. Bisogna capire da dove si parte. E potrei ribaltare: è almeno consolante che otto candidati sono stati onesti».

C’è una via d’uscita?

«Svolgere la prova in una unica sede, come accade per il concorso in Magistratura. Il ministero ne assuma l’intera responsabilità, operando a livello nazionale e appostando anche risorse».

Quali esiti avrà la bufera, è tutto da vedere. Per adesso tutte le prove scritte risultate copiate sono state immediatamente annullate. La commissione milanese ha allertato l’ispettore ministeriale (ce n’è uno per ogni sessione di verifica) e messo a verbale le irregolarità riscontrate. Ora il ministero della Giustizia dovrà decidere cosa fare e come intervenire. Teoricamente le strade sono molteplici: il blocco dell’esame in attesa di verifiche; l’annullamento, addirittura, dell’intero concorso; l’allertamento della Procura. Insomma, sarebbe tutto da rifare. I furbetti del compitino sono avvisati.

Esami di avvocato, l’opinione di Orazio Abbamonte su “Il Roma”. Sono giorni che sui quotidiani cittadini, a seguito d'uno scoop del Corriere del Mezzogiorno, s'è sviluppato un singolare dibattito sull'esame d'abilitazione all'esercizio della professione d'avvocato. In breve: risulterebbe che una cospicua percentuale degli elaborati presentati dai candidati come opera propria, forse il 20 %, sarebbe stata mutuata pedissequamente da una chat, una delle tante e ben note dove filantropici esperti pubblicano in tempo reale lo svolgimento delle prove sottoposte agli aspiranti togati. Addirittura, la notizia è di ieri, niente di meno che la Procura della Repubblica partenopea avrebbe manifestato l'intenzione d'approfondire il tema per verificare la configurabilità d'ipotesi di reato. Molti hanno fatto le mostre della meraviglia quando hanno appreso della vicenda; altri hanno preferito minimizzare, ascrivere i casi alla categoria dell'eccezione; altri ancora hanno stabilito improbabili comparazioni con diverse professioni del mondo giuridico, i notai ed i magistrati. Insomma, solite esibizioni nostrane, non molto diverse da quelle ciclicamente animate dalla scoperta di malati in barella o dell'assenteismo negli uffici. Qualche giorno di battage e poi tutto resta com'era. Perché del fenomeno si guardano sempre gli effetti e giammai le cause, sarebbe troppo scomodo perché poi bisognerebbe intervenire. Non credo di dover temere la scure degli inquirenti cittadini se rendo una testimonianza dell'effettività delle cose, non foss'altro per il tempo, lungo ahimé, trascorso. Gli esami d'avvocato, una volta si definivano di procuratore, in partibus infidelium, vale a dire da Napoli in giù (ma anche un po' più in su) sono sempre stati una gran bailamme. Ricordo d'averli sostenuti in quel di Potenza, per due ragioni: perché i risultati si avevano in tempi ragionevoli (in città, all'epoca, erano necessari anche più di due anni d'attesa, solo per le prove scritte) e perché a Napoli non era nemmeno ipotizzabile provarsi a pensare: forse copiare era soluzione necessitata, tale e tanta era la confusione che regnava durante lo svolgimento delle prove, generalmente allestite in strutture destinate normalmente ad attività sportive. Dire che si copiasse è poco: in realtà, quel che veniva fuori era il frutto della collaborazione di distretti di candidati, spontaneamente sviluppantesi per ragioni logistiche, con tanto d'ufficiali di collegamento fra distretti per gli opportuni confronti. Ed ovviamente non mancavano le fonti, vale a dire maree di fotocopie, rimpicciolite alla bisogna, che venivano cavate da ogni anfratto dell'abbigliamento, singolarmente sovrabbondante, che candidati e candidate – talora simulanti l'imminente procreazione – usavano indossare per l'evenienza. Oggi, evidentemente le cose sono mutate, grazie alla tecnologia che ha reso superflui i travestimenti. Ma mutate negli strumenti, non nella sostanza. Io non ho mai svolto funzioni da commissario, se non in quel del Molise su indicazione della mia Università e molti anni or sono. Non mi sono mai proposto né mai il mio Consiglio dell'Ordine ha mai creduto di chiedermelo, indicando colleghi certamente più idonei. Quindi non posso sapere per scienza diretta quanto accade oggi. Per scienza diretta no, ma indiretta ho anch'io le mie esperienze e mi limito a dire che non ho provato alcuna meraviglia circa l'accaduto. Conosco l'ambiente professionale e ciò che quell'esame produce, sicché tante ipocrite reazioni mi paiono del tutto fuor di luogo. Per la semplice ragione che la selezione tale non è, indipendentemente dal fatto che l'esame lo si superi copiando o concependo il proprio compitino. Sono cose banali, che non si sa perché nessuno osa dire. Ed in luogo della forza della ragione, interviene quella della Procura. Cosicché tutto rimarrà come prima, fino alla prossima sorpresa.  

Esame di avvocato e lo scandalo ciclico delle copiature. L’Opinione del dr Antonio Giangrande, scrittore, blogger e youtuber. Bufera sul concorso di Napoli. Noi nel 2009 avevamo già documentato i controlli inesistenti su Roma, scrive Antonio Crispino e lo documenta su Corriere TV il 25 febbraio 2016. «Milano smaschera Napoli», «Trento smaschera Potenza», «Catania smaschera Lecce». Periodicamente sui giornali si leggono titoli di questo tipo. Si riferiscono alle prove d’esame che le commissioni di turno annullano agli aspiranti avvocati che si cimentano con l’esame di Stato. Perché risultano essere elaborati copiati dalla prima all’ultima parola. I candidati di una regione, infatti, sono esaminati da una commissione di provenienza territoriale diversa, scelta tramite sorteggio dal ministero della Giustizia. Basta prendersela con qualche candidato per giustificare l’incapacità di tutti. Da sempre si copia tra candidati o si detta da parte dei commissari. Certo che nè giornalisti, né magistrati osano verificare quello che di ignobile succede dentro le stanze buie e segrete dove si riuniscono le commissioni di esame. Da arrestare tutti. I compiti sono dichiarati falsamente letti e corretti: cosa non vera. Giornalisti e magistrati verifichino i tempi dedicati al singolo elaborato rispetto ai tempi di apertura e chiusura del verbale e verifichino sugli elaborati quanti errori sono stati corretti. Ho scritto un libro per dimostrare che da sempre l’esame forense è truccato ed ho scritto un altro libro per dimostra che tutti i concorsi pubblici sono truccati, anche quello per magistrati. In questo caso coloro che sono stati abilitati con tale sistema, commissioni di esame e magistrati inquirenti e giudicanti, hanno il coraggio di perseguire?

Da quanto analiticamente già espresso e motivato si denota che violazione di legge, eccesso di potere e motivi di opportunità viziano qualsiasi valutazione negativa adottata dalla commissione d’esame giudicante, ancorchè in presenza di una capacità espositiva pregna di corretta applicazione di sintassi, grammatica ed ampia conoscenza di norme e principi di diritto dimostrata dal candidato in tutti e tre i compiti resi.

1.     Qui si evince un fatto, da sempre notorio su tutti gli organi di stampa, rilevato e rilevabile in ambito nazionale: ossia la disparità di trattamento tra i candidati rispetto alla sessione d’esame temporale e riguardo alla Corte d’Appello di competenza. Diverse percentuali di idoneità, (spesso fino al doppio) per tempo e luogo d’esame, fanno sperare i candidati nella buona sorte necessaria per l’assegnazione della commissione benevola sorteggiata. Nel Nord Italia le percentuali adottate dalle locali commissioni d’esame sono del 30%, nel sud fino al 60%. Le sottocommissioni di Palermo sono come le sottocommissioni del Nord Italia. I Candidati sperano nella buona sorte dell’assegnazione. La Fortuna: requisito questo non previsto dalle norme.

2.     Qui si contesta la competenza dei commissari a poter svolgere dei controlli di conformità ai criteri indicati: capacità pedagogica propria di docenti di discipline didattiche non inseriti in commissione.

3.     Qui si contesta la mancanza di motivazione alle correzioni, note, glosse, ecc., tanto da essere contestate dal punto di vista oggettivo da gente esperta nella materia di riferimento.

4.     Qui si evince la carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque si contesta la fondatezza dei rilievi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta mancanza di motivazione al giudizio, didattica e propedeutica al fine di conoscere e correggere gli errori, per impedirne la reiterazione.

5.     Altresì qui si contesta la mancanza del voto di ciascun commissario, ovvero il voto riferito a ciascun criterio individuato per la valutazione delle prove.

6.     Altresì qui si contesta l’assenza ingiustificata del presidente della Commissione d’esame centrale e si contesta contestualmente l’assenza del presidente della Iª sottocommissione.

7.     Altresì qui si contesta la correzione degli elaborati in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito.

Puglia, la beffa dei ricercatori: vincono il bando per essere assunti, ma alla fine vengono presi altri. I precari avevano partecipato al bando regionale “Future in Research” per 170 posti proponendo i loro progetti. I nuovi assunti con contratto triennale da 150mila euro non saranno però loro, scrive Francesca Russi il 7 febbraio 2016 su “La Repubblica”. Partecipano a un bando regionale destinato ai ricercatori pugliesi precari e propongono il loro progetto. La loro idea viene selezionata da una commissione nazionale e vince il concorso. Ma non c’è nessun premio in palio per loro. Anzi. I progetti migliori ottengono un finanziamento da 26 milioni di euro che consente ai quattro atenei pugliesi di assumere tramite concorso 170 ricercatori. La beffa, però, è che i nuovi assunti, con contratto triennale da 150mila euro, non saranno gli autori del progetto. È il pasticcio del concorso "Future in Research", destinato alle “eccellenze della ricerca pugliese”, bandito a dicembre 2013 dall’Agenzia regionale per la tecnologia e l’innovazione. In ballo ci sono 26 milioni del Fondo europeo per lo sviluppo e la coesione per favorire il “ricambio generazionale” nelle università pugliesi, che così potranno assumere 170 ricercatori a tempo determinato. I partecipanti al bando sono tenuti a indicare nel progetto “un unico dipartimento universitario per le attività di ricerca”. A ottobre 2014, dopo una selezione fatta da una commissione con docenti provenienti da tutta Italia, viene pubblicata la graduatoria regionale. Si passa così alla seconda fase dove nulla è scontato. “Anche perché – racconta Antonio Giampietro, uno dei ricercatori beffati - al momento del bando ci avevano fatto firmare una rinuncia ai diritti economici sull’idea e chi è precario purtroppo firma pur di partecipare”. La Regione rilascia ai dipartimenti indicati delle quattro università pugliesi (80 posti soltanto a Bari) le idee migliori su cui bandire, a fine 2015, il concorso per reclutare i ricercatori. Un concorso per titoli e pubblicazioni, però, nazionale a cui si presentano precari da tutta Italia. “Succede che ogni commissione d’esame stabilisce i criteri di selezione – spiega Giampietro, ricercatore di letteratura italiana contemporanea – senza dare in molti casi un maggior punteggio a chi aveva vinto il progetto. Io mi sono trovato a competere con altri sette ricercatori tutti più grandi di me dagli 8 ai 13 anni con una carriera più lunga e più pubblicazioni. Così mi sono trovato nella situazione di aver passato una selezione senza vincere nulla: abbiamo regalato le nostre idee e 150mila euro a qualcun altro. Intanto continuo a lavorare gratis, cerco di arrangiarmi con contrattini esterni perché se una commissione nazionale mi ha detto che ho delle idee buone e che sono capace di fare il ricercatore ne vale la pena”. Come lui sono in tanti i ricercatori beffati. “È finita così per quasi il 30 per cento dei partecipanti” fa i conti Giampietro. “Vale così poco la paternità di un’idea?”, si chiedono ora gli esclusi.

Ordine dei giornalisti, all’esame il metal detector ferma i reggiseni. Ragazze costrette a toglierlo. L'improbabile scena allo scritto per diventare professionisti. Il presidente dell'Ordine lo aveva persino scritto nel vademecum: "Evitate quella marca con i gancetti magnetici". Per le malcapitate previsto un separè. E molto imbarazzo, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 5 febbraio 2016. Roma, Hotel Ergife. Ritrovo alle ore 8.30 per uno degli appuntamenti più importanti della vita lavorativa: l’esame da giornalista professionista. Peccato che per i 180 candidati, ed in particolare le quasi 90 donne iscritte alla sessione, ci sia un ostacolo in più da superare: il terribile metal detector attraverso cui passare prima di arrivare in aula, che non perdona pc, smartphone e tablet che potrebbe avvantaggiare gli aspiranti reporter durante la prova. Ma che suona all’impazzata anche per qualsiasi oggetto di metallo, scatenando un caos che dura ore. Rallentamenti e disagi per tutti i candidati, già sotto stress per l’importanza della prova. Imbarazzi soprattutto per le ragazze, però. Perché se agli uomini è bastato togliersi orologi, catenine e braccialetti, in certi i casi anche le scarpe, per le donne il problema è stato un po’ più “intimo”: il metal detector si è rivelato particolarmente sensibile ai gancetti dei reggiseno, in particolare di quelli a chiusura magnetica tanto in voga di recente. Il presidente dell’Ordine dei giornalisti, Enzo Iacopino, lo aveva detto nel vademecum di preparazione: nel glossario inviato a tutti gli iscritti c’era un’apposita sezione intitolata “reggiseno”. “Ecco che infilo la testa nella ghigliottina. Premesso che non lo indosso (sono pure dimagrito, da ultimo), una signora magistrato mi informa che la chiusura magnetica del reggiseno prodotto da una diffusissima marca… molto intima (niente pubblicità) fa impazzire il metal detector. Mi scuso con le colleghe, ma questo so e questo dico senza osare indicare rimedi (sono anche un po’ bacchettone e parlare di certe cose mi imbarazza)”. L’avvertimento evidentemente non è servito: forse non tutte avevano letto, molte assicurano che il metal detector ha fatto le bizze anche con i semplici gancetti. Sta di fatto che per sostenere l’esame la maggior parte delle candidate ha dovuto improvvisare una specie di spogliarello. Via il reggiseno, davanti ad una pattuglia di ispettori formata da soli uomini. Visto che il problema si era già verificato in passato, stavolta nella sala delle ispezioni era stato approntato un piccolo separè dietro cui cambiarsi. Non proprio un baluardo di riservatezza, giusto due pannelli posizionati un po’ maldestramente accanto ai tavoli dove tutti i candidati, ragazzi compresi, dovevano lasciare borse e cappotti (qualcuno attardandosi un po’ più del dovuto per godersi lo “spettacolo”…). Almeno un passo avanti rispetto all’ultima volta, quando era stato chiesto di sfilarsi il reggiseno da sotto il maglione davanti a tutti. In certi casi, però, neanche lo striptease ha risolto la questione, col metal detector che continuava a suonare e illuminarsi allo sfilare delle ragazze senza biancheria. Col povero Iacopino che, accorso al perdurare dell’intoppo, si rivolgeva timido alla malcapitata dicendo: “Avvicinati che ti dico un segreto nell’orecchio”, alludendo al problema del reggiseno. E la ragazza, molto più esasperata che imbarazzata: “Presidente, è da un pezzo che me lo sono tolto il reggiseno, ma continua a suonare”, sventolando il capo di biancheria. Dopo due ore e mezza di code e lamentele, tutti sono riusciti a superare il temuto ostacolo. E in un paio di casi proprio irrisolvibili gli ispettori hanno deciso di chiudere un occhio. L’esame è cominciato alle 11.45 ed è finito sei ore dopo. Per i risultati ci vorranno una ventina di giorni, poi a marzo gli idonei dovranno sostenere la prova orale. L’ultima per diventare professionisti, stavolta senza bisogno di spogliarsi.

Giornalisti, ecco quanto costa essere professionisti, scrive Eleonora Bianchini il 7 dicembre 2013 su "Il Fatto Quotidiano". Ho finito il praticantato al Fatto Quotidiano.it. Fatto l’esame, passato, giornalista professionista. Evviva. Siamo partiti, più o meno, in 300 allo scritto e siamo arrivati in 170 all’orale. Insieme a noi c’erano parecchi disoccupati e precari, magari con una famiglia a carico. Ho fatto qualche calcolo su quanto ho speso per questo esame. Senza polemiche o strumentalizzazioni, si tratta di cifre oggettive che dimostrano quanto la professione costi cara anche in un periodo di crisi, tagli ai giornali, licenziamenti e disoccupazione. Vediamo:

- Corso a Fiuggi (obbligatorio per accedere all’esame per chi non ha fatto una scuola di giornalismo o non ha potuto seguire il corso organizzato presso l’ordine regionale): 450 euro;

- Tassa d’esame: 400 euro;

- Posta certificata obbligatoria: 15,73 euro.

Passo lo scritto e, quindi, accedo all’orale. Promossa, ma i costi non sono finiti. Una volta portato all’Ordine regionale di appartenenza il documento che attesta il superamento dell’esame, bisogna pagare (leggi):

- Tassa d’ammissione: 100 euro;

- Costo della tessera: 16 euro;

- Marca da bollo: 16 euro;

- (chi prima non era già pubblicista deve aggiungere 168 euro come “tasse di concessioni governative”).

Così siamo già a 997 euro, centesimi esclusi. E meno male che ero già pubblicista. Poi ci sono le spese vive per chi non abita a Roma e si deve spostare per sostenere scritto e (se va bene) orale. Due prove che coincidono spesso anche con due notti di albergo. Quindi:

- Viaggi Milano/Roma, 2 andate e ritorno: mettiamo che una persona sia fortunata e trovi una tariffa economy per il Frecciarossa a 49 euro. Moltiplichiamo per 4: 196 euro;

- Albergo: 50 a notte. Totale: 100 euro.

Escludiamo il costo delle raccomandate postali, visto che ho mandato tutto via pec (ed è l’unico uso che ho fatto di quella casella di posta creata ad hoc per l’esame di Stato) e i 100 euro circa che dovrò pagare a gennaio, come tutti gli anni, per la tassa annuale di iscrizione all’Ordine. Il mio totale è più o meno di 1.293 euro. Per tanti, uno stipendio. Per chi non ha uno stipendio, un salasso. E senza contare che, in teoria, chi è iscritto all’albo da meno di 10 anni viene cancellato dopo due anni di inattività. O almeno, così dice una regola dell’Ordine.

Formalismi del cazzo. COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME DI AVVOCATO PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA PER 17 ANNI SONO DICHIARATI TALI. DEVI SUBIRE E DEVI PURE TACERE, IN QUANTO NON VI E' RIMEDIO GIUDIZIARIO O AMMINISTRATIVO.

Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 dal dr Antonio Giangrande contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti di presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante tutti gli altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo con identiche doglianze hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti,  R.G. n. 1647 del 2012, e dell'avv. Angelo Vantaggiato, R.G. n. 1469 del 2012, in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza, perchè, a detta della Corte per il primo: "Infatti, il parere di diritto penale risulta estremamente sintetico, sostanziandosi in una pagina e mezza, limitandosi a riportare gli articoli di legge, relativi ad un solo reato ipotizzabile nella fattispecie in esame, e la relativa giurisprudenza". Oppure per il secondo: "Passando al vaglio della prova sostenuta dal ricorrente, non sono ravvisabili i profili di erroneità della valutazione denunciati in quanto il parere di diritto civile risulta estremamente sintetico tanto che lo stesso ricorrente dichiara di non aver “avuto modo di completare definitivamente l’elaborato” (p. 7 del ricorso); elaborato che si sostanzia in una facciata e mezza e si limita a riportare gli articoli con la relativa giurisprudenza". Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar è stato oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente. Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti!

Alcune puntualizzazioni sul Diritto di Cronaca, Diritto di Critica, Privacy e Copyright.

In seguito al ricevimento di minacce velate o addirittura palesi nascoste dietro disquisizioni giuridiche, per ledere il mio diritto di cronaca e di critica e non essendoci ragioni valide per farlo se non quelle soggettive dell’istante di soprassedere ad un problema di interesse pubblico, che era tale fino a sua abilitazione avvenuta, tengo a precisare che la cortesia di acconsentire a qualsivoglia richiesta è nel mio dna, così come anche il mio essere refrattario alle intimidazioni e, quindi, al pari loro si palesa quanto segue. Quanto riferito in questa pagina riguarda solo l'inchiesta svolta sull'operato della giustizia amministrativa a Lecce e le sue ricadute sull'esame di abilitazione all'avvocatura, con conseguente danno a scapito degli utenti, in violazione del principio di legalità, imparzialità e buon andamento della Pubblica Amministrazione. I riferimenti ad atti pubblici ed a persone ivi citate, non hanno alcuna valenza diffamatoria e sono solo corollario di prova per l'inchiesta. Le persone citate, in forza di norme di legge, non devono sentirsi danneggiate. Ogni minaccia di tutela arbitraria dei propri diritti da parte delle persone citate al fine di porre censura in tutto o in parte del contenuto del presente dossier o vogliano spiegare un velo di omertà su come si svolge l'abilitazione forense sarà inteso come stalking o violenza privata, se non addirittura tentativo di estorsione mafiosa. In tal caso ci si costringe a rivolgerci alle autorità competenti.

Come è noto, il diritto di manifestare il proprio pensiero ex art. 21 Cost. non può essere garantito in maniera indiscriminata e assoluta ma è necessario porre dei limiti al fine di poter contemperare tale diritto con quelli dell’onore e della dignità, proteggendo ciascuno da aggressioni morali ingiustificate. La decisione si trova in completa armonia con altre numerose pronunce della Corte. La Cassazione, infatti, ha costantemente ribadito che il diritto di cronaca possa essere esercitato anche quando ne derivi una lesione dell’altrui reputazione, costituendo così causa di giustificazione della condotta a condizione che vengano rispettati i limiti della verità, della continenza e della pertinenza della notizia. Orbene, è fondamentale che la notizia pubblicata sia vera e che sussista un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti. Il diritto di cronaca, infatti, giustifica intromissioni nella sfera privata laddove la notizia riportata possa contribuire alla formazione di una pubblica opinione su fatti oggettivamente rilevanti. Il principio di continenza, infine, richiede la correttezza dell’esposizione dei fatti e che l’informazione venga mantenuta nei giusti limiti della più serena obiettività. A tal proposito, giova ricordare che la portata diffamatoria del titolo di un articolo di giornale deve essere valutata prendendo in esame l’intero contenuto dell’articolo, sia sotto il profilo letterale sia sotto il profilo delle modalità complessive con le quali la notizia viene data (Cass. sez. V n. 26531/2009). Tanto premesso si può concludere rilevando che pur essendo tutelato nel nostro ordinamento il diritto di manifestare il proprio pensiero, tale diritto deve, comunque, rispettare i tre limiti della verità, pertinenza e continenza.

Diritto di Cronaca e gli estremi della verità, della pertinenza e della continenza della notizia. L'art. 51 codice penale (esimente dell'esercizio di un diritto o dell'adempimento di un dovere) opera a favore dell'articolista nel caso in cui sia indiscussa la verità dei fatti oggetto di pubblicazione e che la stessa sia di rilevante interesse pubblico. In merito all'esimente del Diritto di Cronaca ex art. 51 c.p., la Suprema Corte con Sentenza n 18174/14 afferma: "la cronaca ha per fine l'informazione e, perciò, consiste nella mera comunicazione delle notizie, mentre se il giornalista, sia pur nell'intento di dare compiuta rappresentazione, opera una propria ricostruzione di fatti già noti, ancorchè ne sottolinei dettagli, all'evidenza propone un'opinione". Il diritto ad esprimere delle proprie valutazioni, del resto non va represso qualora si possa fare riferimento al parametro della "veridicità della cronaca", necessario per stabilire se l'articolista abbia assunto una corretta premessa per le sue valutazioni. E la Corte afferma, in proposito: "Invero questa Corte è costante nel ritenere che l'esimente di cui all'art. 51 c.p., è riconoscibile sempre che sia indiscussa la verità dei fatti oggetto della pubblicazione, quindi il loro rilievo per l'interesse pubblico e, infine, la continenza nel darne notizia o commentarli ... In particolare il risarcimento dei danni da diffamazione è escluso dall'esimente dell'esercizio del diritto di critica quando i fatti narrati corrispondano a verità e l'autore, nell'esposizione degli stessi, seppur con terminologia aspra e di pungente disapprovazione, si sia limitato ad esprimere l'insieme delle proprie opinioni (Cass. 19 giugno 2012, n. 10031)".

La nuova normativa concernente il rapporto tra il diritto alla privacy ed il diritto di cronaca è contenuta negli articoli 136 e seguenti del Codice privacy che hanno sostanzialmente recepito quanto già stabilito dal citato art. 25 della Legge 675 del 1996. In base a dette norme chiunque esegue la professione di giornalista indipendentemente dal fatto che sia iscritto all'elenco dei pubblicisti o dei praticanti o che si limiti ad effettuare un trattamento temporaneo finalizzato esclusivamente alla pubblicazione o diffusione occasionale di articoli saggi o altre manifestazioni del pensiero:

può procedere al trattamento di dati sensibili anche in assenza dell'autorizzazione del Garante rilasciata ai sensi dell'art. 26 del D. Lgs. 196 del 2003;

può utilizzare dati giudiziari senza adottare le garanzie previste dall'art. 27 del Codice privacy;

può trasferire i dati all'estero senza dover rispettare le specifiche prescrizioni previste per questa tipologia di dati;

non è tenuto a richiedere il consenso né per il trattamento di dati comuni né per il trattamento di dati sensibili.

Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. Infatti sono autore del libro che racconta della vicenda. A tal fine posso assemblarle o per fare una rassegna stampa.'''

Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar è stato oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente. Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti! 

VADEMECUM DEL CONCORSO TRUCCATO.

INDIZIONE DEL CONCORSO: spesso si indice un concorso quando i tempi sono maturi per soddisfare da parte dei prescelti i requisiti stabiliti (acquisizione di anzianità, titoli di studio, ecc.). A volte chi indice il concorso lo fa a sua immagine e somiglianza (perché vi partecipa personalmente come candidato). Spesso si indice il concorso quando non vi sono candidati (per volontà o per induzione), salvo il prescelto. Queste anomalie sono state riscontrate nei concorsi pubblici tenuti presso le Università e gli enti pubblici locali. Spesso, come è successo per la polizia ed i carabinieri, i vincitori rimangono casa.

COMMISSIONE D’ESAME: spesso a presiedere la commissione d’esame di avvocato sono personalità che hanno una palese incompatibilità. Per esempio nella Commissione d’esame centrale presso il Ministero della Giustizia del concorso di avvocato 2010 è stato nominato presidente colui il quale non poteva, addirittura, presiedere la commissione locale di Corte d’Appello di Lecce. Cacciato in virtù della riforma (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180). La legge prevede che i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere Commissari d’esame (e per conseguenza i nominati dal Consiglio locale per il Consiglio Nazionale Forense, che tra i suoi membri nomina il presidente di Commissione centrale). La riforma ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame di avvocato sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Essenziale nelle commissioni a cinque è la figura del magistrato, dell’avvocato, del professore universitario: se una manca, la commissione è nulla. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari.

I CONCORSI FARSA: spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come il concorso truffa a 1.940 posti presso l’INPS, bandito per sistemare i lavoratori socialmente utili già operanti presso l’Ente.

LE TRACCE: le tracce sono composte da personalità ministeriali scollegate alla realtà dei fatti. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Altre volte si son riportate tracce con massime vecchissime e non corrispondenti con le riforme legislative successive. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.

LE PROVE D’ESAME: spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni prima, come è successo per il concorso degli avvocati (con denuncia del sottosegretario Alfredo Mantovano di Lecce), dei dirigenti scolastici, o per l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti all’estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito.

MATERIALE CONSULTABILE: c’è da dire che intorno al materiale d’esame c’è grande speculazione e un grande salasso per le famiglie dei candidati, che sono rinnovati anno per anno in caso di reiterazione dell’esame a causa di bocciatura. Centinaia di euro per codici e materiale vario. Spesso, come al concorso di magistrato o di avvocato dello Stato ed in tutti gli altri concorsi, ad alcuni è permessa la consultazione di materiale vietato (codici commentati, fogliettini, fin anche compiti elaborati dagli stessi commissari) fino a che non scoppia la bagarre. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010. Al concorso di avvocato, invece, è permesso consultare codici commentati con la giurisprudenza. Spesso, come succede al concorso di avvocato, sono proprio i commissari a dettare il parere da scrivere sull’elaborato, tale da rendere le prove dei candidati uniformi e nonostante ciò discriminati in sede di correzione. Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo».  «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Ecco perché i commissari d’esame, con coscienza e magnanimità, aiutano i candidati. Altrimenti nessuno passerebbe l’esame. I commissari dovrebbero sapere quali sono le fonti di consultazioni permesse e quali no. Per esempio all’esame di avvocato può capitare che il magistrato commissario d’esame, avendo fatto il suo esame senza codici commentati, non sappia che per gli avvocati ciò è permesso. I commissari d’esame dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio,  presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza. Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo). Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso. Impuniti, invece sono coloro che veramente copiano integralmente i compiti. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è  malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la  penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico  e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.

IL MATERIALE CONSEGNATO: il compito dovrebbe essere inserito in una busta da sigillare contenente un’altra busta chiusa con inserito il nome del candidato. Non ci dovrebbero essere segni di riconoscimento. Non è così come insegna il concorso di notaio. Oltre ai segni di riconoscimento posti all’interno (nastri), i commissari firmano in modo diverso i lembi di chiusura della busta grande consegnata.

LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:

• apertura della busta grande contenente gli elaborati;

• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;

• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;

• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;

• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;

• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;

• redazione del verbale.

Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.

La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».

Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.

Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR  per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.

Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.

Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.

In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.

GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.

TUTELA AMMINISTRATIVA: non è ammesso ricorso amministrativo gerarchico. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.  Il presidente di Commissione d’esame di Lecce, ricevendo il ricorso amministrativo gerarchico contro l’esito della valutazione della sottocommissione, non ha risposto entro i trenta giorni (nemmeno per il diniego) impedendomi di presentare ricorso al Tar.

TUTELA GIUDIZIARIA. Un ricorso al TAR non si nega a nessuno: basta pagare la tangente delle spese di giudizio. Per veder accolto il ricorso basta avere il principe del Foro amministrativo del posto; per gli altri non c’è trippa per gatti. Cavallo di battaglia: mancanza della motivazione ed illogicità dei giudizi. Nel primo caso, dovendo accertare un’ecatombe dei giudizi, la Corte Costituzionale, con sentenza 175 del 2011, ha legittimato l’abuso delle commissioni: “buon andamento, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito, il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”, secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte Costituzionale per ragion di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio. Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire. Fatto assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che supportino quel voto. Elementi di fatto che spesso mancano o sono insussistenti. All’improvvida sentenza della Corte Costituzionale viene in soccorso la Corte di Cassazione. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull’elaborato sottoposto a valutazione. In sostanza il TAR può scendere sul terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l’accesso a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da evidente illogicità e da travisamento del fatto. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. Insomma, la Cassazione afferma che le commissioni deviano il senso della norma concorsuale.

Sì, il Tar può salvare tutti, meno che Antonio Giangrande. Da venti anni inascoltato Antonio Giangrande denuncia il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ha ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Prima di tutto l’ostracismo all’abilitazione. Poi, insabbiamento delle denunce contro i concorsi truccati ed attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presenta l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei suoi compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farlo partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il ricorso di Antonio Giangrande va rigettato, ma devono spiegare a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal Giangrande e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?

In Italia tutti sanno che i concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente, tantomeno i magistrati. Gli effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le sorti del sistema Italia, ma l’incompetenza e l’imperizia. Non ci credete o vi pare un’eresia? Basta dire che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo anni di giudizi amministrativi, è stato costretto ad annullare un concorso già effettuato per l’accesso alla magistratura. Ed i candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare indefessi ed ad archiviare le denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra i beneficiari del sistema, vi sono nomi illustri.

Certo che a qualcuno può venire in mente che comunque una certa tutela giuridica esiste. Sì, ma dove? Ma se già il concorso al TAR è truccato. Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. “Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa”, ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si è svolto un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di Presidenza – Cpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Si è già scritto della incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008), che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Dopo il concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse le prove scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato (Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza (Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi Antonio Rovelli). Ma anche il concorso al Consiglio di Stato non è immune da irregolarità. Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove. Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente! Ecco perché urge una riforma dei concorsi pubblici. Riforma dove le lobbies e le caste non ci devono mettere naso. E c’è anche il rimedio. Niente esame di abilitazione. Esame di Stato contestuale con la laurea specialistica. Attività professionale libera con giudizio del mercato e assunzione pubblica per nomina del responsabile politico o amministrativo che ne risponde per lui (nomina arbitraria così come di fatto è già oggi). E’ da vent’anni che Antonio Giangrande studia il fenomeno dei concorsi truccati. Anche la fortuna fa parte del trucco, in quanto non è tra i requisiti di idoneità. Qualcuno si scandalizzerà. Purtroppo non sono generalizzazioni, ma un dato di fatto. E da buon giurista, consapevole del fatto che le accuse vanno provate, pur in una imperante omertà e censura, l’ha fatto. In video ed in testo. Se non basta ha scritto un libro, tra i 50, da leggere gratuitamente su www.controtuttelemafie.it o su Google libri o in ebook su Amazon.it o cartaceo su Lulu.com. Invitando ad informarsi tutti coloro che, ignoranti o in mala fede, contestano una verità incontrovertibile, non rimane altro che attendere: prima o poi anche loro si ricrederanno e ringrazieranno iddio che esiste qualcuno con le palle che non ha paura di mettersi contro Magistrati ed avvocati. E sappiate, in tanti modi questi cercano di tacitare Antonio Giangrande, con l’assistenza dei media corrotti dalla politica e dall’economia e genuflessi al potere. Ha perso le speranze. I praticanti professionali sono una categoria incorreggibile: “so tutto mi”, e poi non sanno un cazzo, pensano che essere nel gota, ciò garantisca rispetto e benessere. Che provino a prendere in giro chi non li conosce. La quasi totalità è con le pezze al culo e genuflessi ai Magistrati. Come avvoltoi a buttarsi sulle carogne dei cittadini nei guai e pronti a vendersi al miglior offerente. Non è vero? Beh! Chi esercita veramente sa che nei Tribunali, per esempio, vince chi ha più forza dirompente, non chi è preparato ed ha ragione. Amicizie e corruttele sono la regola. Naturalmente per parlare di ciò, bisogna farlo con chi lavora veramente, non chi attraverso l’abito, cerca di fare il monaco.

Un esempio per tutti di come si legifera in Parlamento, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani.

Le stranezze del concorso di Polizia: dubbi e perplessità sulla correttezza dell’esame, scrive Anonimo su "Oggi" del 23 settembre 2013. Il sottoscritto è un ex vfp1 dell’Esercito Italiano in congedo che ha partecipato quest’anno al concorso per il reclutamento di 964 Allievi Agenti della Polizia di Stato, e che vorrebbe rimanere anonimo nonostante la disponibilità per eventuali repliche o risposte via mail. Come tutti sanno il servizio militare obbligatorio è stato abolito da oltre 10 anni e con esso anche gli “ausiliari” nelle Forze dell’Ordine, perciò il reclutamento per il personale della Polizia di Stato Carabinieri Finanza Penitenziaria e via dicendo, è soggetto al requisito essenziale dell’aver svolto almeno 1 anno come vfp1 nelle Forze Armate…Come (quasi) ogni anno la Polizia di Stato bandisce i concorsi pubblici per Agenti rivolto, come descritto in precedenza, esclusivamente ai vfp1 in servizio o in congedo. Anche quest’anno il concorso è uscito (non senza polemiche in quanto coprirà solo una piccola parte dei pensionamenti, con relativo aumento di sotto-organico per la Polizia di Stato), per la precisione indetto sulla Gazzetta Ufficiale 4° Serie Speciale “Concorsi Pubblici”. Avendo partecipato al quiz di cultura generale (il primo step del concorso) mi sento di dovere, anche se a distanza di qualche mese, di segnalarVi alcune incongruenze o lacune o cose strane (qualunque termine anche penale può essere considerato idoneo a descrivere tali cose) che sono accadute durante tale quiz, con riferimento al giorno in cui il sottoscritto ha effettuato il test ovvero il 13 giugno alle ore 14:00 presso l’Aeroporto Militare di Guidonia. Breve premessa… Dopo gli anni “sporchi” della corruzione dilagante degli anni passati, in tutti i concorsi pubblici sono stati istituiti dei metodi e dei dispositivi di sicurezza volti ad assicurare la massima trasparenza e meritocrazia all’interno degli stessi, che sono senza dubbio una ottima occasione per far valere la preparazione culturale del “libero cittadino in libero Stato”. Gli essenziali di essi possono essere elencati e descritti in questa modalità:

-1-Codici a barre applicati sui “fogli risposte”;

-2-Libertà di scegliere il banco su cui effettuare la prova;

-3-Estrazione casuale dei quesiti da parte di un candidato qualsiasi scelto a sorteggio;

-4-Correzione ottica mediante sistema informatizzato e pistola ottica dei “fogli risposte” vigilata da un candidato scelto a sorteggio.

Il sottoscritto, lungi dal voler creare polemiche sterili ed alimentare il sospetto ed il terrorismo psicologico che regna sui concorsi pubblici, Vi sta scrivendo poichè nessuno di questi fondamentali dispositivi e tecniche di meritocrazia sono stati applicati nel concorso per 964 Allievi Agenti della Polizia di Stato bandito nel c.a..Nello specifico desidero descrivere analiticamente tutte le lacune in merito ai dispositivi elencati in precedenza. Punto 1. I codici a barre erano presenti sotto forma di rettangoli di carta autoadesiva e venivano consegnati al candidato che doveva poi autonomamente apporli sul “foglio risposte” e sul “foglio anagrafico” (talloncino riservato ai dati personali del candidato quali Cognome Nome Nascita Residenza et cetera). Tuttavia TUTTI gli aspiranti (me compreso), in TUTTE le diverse sedi geografiche di esame e di TUTTE le sessioni, indistintamente e senza dubbi o incertezze di sorta; hanno lamentato (vocalmente alla vigilanza e sul famoso social network Facebook) lo scandaloso fatto che gli stessi codici a barre SI STACCAVANO senza che ci fossero motivi di sorta. In pratica, la colla che permetteva la auto-adesività dello stesso era scarsa. Taluni potrebbero affrontare questa mancanza con una semplice risata, ma se osserviamo l’avvenimento sotto una più attenta lente di ingrandimento potremmo tranquillamente denunciare che, con qualsiasi tipo di “raccomandazione” o aiuto tipici della dilagante corruzione italiana che ogni anno la Corte dei Conti denuncia nel suo rapporto consuntivo al Parlamento, i codici a barre sono asportabili e sostituibili con una immensa quanto truffaldina facilità. Dato che il compito degli inquirenti di tutto il mondo è quello di indagare oltre la superficialità e diffidare della buona fede o della mancanza in generale, sarebbe già solamente questo un validissimo motivo per sostenere che gli esiti degli accertamenti culturali di questo concorso possono essere facilmente alterati e modificati a piacimento staccando il codice a barre che non aderisce, sostituendo il foglio risposte con uno compilato in modo esatto al 100%, ed apponendolo ad esso senza che nessuno noti alcuna discrepanza o non-originalità del foglio risposte. Punto 2. Nel concorso pubblico per VFP4 Esercito al quale partecipano un numero ben più alto di candidati rispetto a quello per la Polizia di Stato, e in generale ad ogni concorso pubblico che rispetti l’”anonimato fisico” e la meritocrazia dei partecipanti, il banco dove ogni candidato deve completare il quiz è a scelta dello stesso, fatta salva la consuetudine (peraltro non indicata dai bandi di concorso quindi totalmente priva di valore legale) di procedere per “riempimento” onde evitare il verificarsi di banchi vuoti. Tutto ciò nel concorso in oggetto non avveniva. Infatti veniva consegnato ad ogni candidato un tesserino da apporre nell’indumento che lo stesso indossava in modo ben visibile sul petto, volto ad indicare con esattezza il numero di banco verso cui doveva dirigersi e sedersi per effettuare il quiz (a Guidonia era un enorme Hangar aeronautico). Da ciò è quindi facilmente individuabile il sospetto che, coloro che hanno intenzione di alterare il concorso mediante aiuto altrui, possano essere facilmente individuati nel bel mezzo della folla. Punto 3. Adesso ci troviamo di fronte probabilmente alla più grossa truffa e mancanza del concorso in oggetto. In ogni concorso che si rispetti, dalla banca dati (tutte le 5.000 domande che il Ministero poteva usare per somministrare a gruppi di 80 domande a quiz) vengono (solitamente per l’alto numero di quesiti totali) pre-stampati dei moduli contenenti 80 quiz ognuno, tanti sono quelli contenuti in ogni singolo questionario per la prima prova di cultura generale, che la Polizia di Stato identifica tramite le lettere dell’alfabeto (perciò quiz A, quiz B, quiz C, quiz D, et cetera) per poi somministrarle giorno per giorno, sessione per sessione alla totalità degli aspiranti da sottoporre a questionario ogni giorno. Per esempio, giorno 4 Settembre ore 8.00 per tutti il quiz A, 4 Settembre ore 14:00 per tutti quiz C, 5 Settembre ore 8:00 per tutti quiz E, 5 Settembre ore 14:00 quiz B, 6 Settembre ore 8:00 quiz D, 6 Settembre ore 14:00 quiz F, 7 Settembre ore 8:00 quiz H, et cetera. Il tutto avviene come di consueto e come nel concorso per VFP4 Esercito, il giorno stesso mediante un’urna contenente le lettere sotto forma di sfere ad opera di un candidato qualsiasi e sotto l’attento occhio della Commissione e di tutti gli altri aspiranti che si godono la scena mediante un televisore messo in ogni aula di esame, o comunque sotto registrazione audiovisiva. Anche questo elementare sistema di anonimato dei quesiti d’esame, è venuto meno in questo concorso. Agli aspiranti veniva semplicemente comunicato mediante microfono che il quiz scelto era stato il questionario “X” senza che nessuno di loro potesse verificare nulla od partecipare alle operazioni di estrazione casuale dello stesso. Infine il punto 4, fratello del punto 3. Lo stesso candidato scelto a caso tra i partecipanti, nel concorso VFP4 Esercito e in altri, assiste fisicamente alla correzione obiettiva ed informatizzata dei fogli risposte che avviene mediante pistola ottica, vigilando che i correttori non commettano nessun tipo di errore di lettura o falsificazione o simili. Ancora una volta tutto questo non avveniva poichè nessun candidato ha mai fatto presente di essere stato presente a tale correzione, ne mai nessun candidato è stato scelto a sorte per questo compito. Questo fatto permette di fantasticare sui possibili “magheggi” che avrebbero potuto essere messi in atto durante la correzione dei quiz. Gentili destinatari di questa mail… Penso di aver descritto con sufficiente esaustività ed analiticità le lacune del Concorso per 964 Allievi Agenti della Polizia di Stato 2013. Mi permetto solo una ultima considerazione, che non vuole essere polemica o atto di accusa nei confronti di nessuno. Nel nostro amato Paese, credo che qualunque cittadino onesto o meno desideri che ci siano degli operatori di Polizia, tutori dell’Ordine Pubblico e della legalità sotto ogni forma, preparati e meritevoli. Non sto polemizzando ne accusando che qualcuno dei vincitori del concorso in oggetto o dei passati possa non esserlo con dolo, ne che la Pubblica Amministrazione sia corrotta. Bensì Vi sto solo denunciando un ventaglio di lacune che potrebbero tranquillamente essere sfruttate e usate a favore o a sfavore di taluni candidati in futuro. Mi auspico che le problematiche evidenziate in questa email possano essere messe in risalto all’opinione pubblica e ai vertici della altrettanto Pubblica Amministrazione mediante i Vostri autorevoli quotidiani e testate giornalistiche, poichè uno Stato Democratico e di Diritto non può assolutamente permettersi certe oscenità e mancanze. Distinti saluti. Anonimo.

Concorso Vice Ispettori Polizia di Stato, scoperte nuove irregolarità, scrive l'avv. Francesco Leone il 2 febbraio 2016. Proseguono in tutta Italia gli incontri/dibattiti dedicati al Concorso per Vice Ispettori della Polizia di Stato. Come vi abbiamo annunciato nelle scorse news, infatti, si riscontrano delle illegittimità all’interno del bando di concorso, durante lo svolgimento della prova, durante la fase di correzione, nella formulazione del giudizio. Analizzando a fondo la questione ci siamo accorti che proprio nella formulazione del giudizio fornito dalla Commissione emergono numerose criticità. Occorre, a ben vedere, puntare il dito contro l’utilizzo di formule di stile e sulla mancata parametrazione del giudizio ai criteri di valutazione. Inoltre, da alcuni compiti si desume una valutazione illogica e contraddittoria. Il Ministero dell’Interno, stante il caos creatosi sulla questione, è intervenuto con una circolare, attraverso la quale ha precisato che gli interessati potranno presentare istanza di riesame alla Commissione Esaminatrice. Tuttavia, è doveroso precisare come difficilmente giungeranno risposte utili entro il 15 febbraio 2016, data di scadenza per la presentazione del ricorso al Tar. La sensazione, dunque, è che l’Amministrazione voglia concretamente prendere tempo, tempo che non resterebbe, però, ai ricorrenti. Peraltro, grazie alle nostre riunioni sul territorio nazionale, abbiamo evidenziato delle nuove possibili gravi irregolarità anche durante lo svolgimento della prova. Per fare ulteriore chiarezza sono state inoltrate diverse istanze di accesso per verificare se la Commissione di concorso ha rispettato le disposizioni di cui al DPR 487/1994. In particolare abbiamo richiesto:

– se, ed in caso positivo, quali criteri e modalità di correzione della prova la Commissione ha adottato per valutare gli elaborati dei candidati (art. 12 DPR 487/94);

– con quali modalità è stata conservata la traccia elaborata dai Commissari prima dell’inizio della prova, onde tutelare il principio di segretezza della stessa (art. 11 DPR 487/94);

– se la Commissione ha fatto accertare da un candidato sorteggiato prima dell’inizio della prova l’integrità del piego contenente il tema (art. 11 DPR 487/94);

– se la Commissione ha proceduto a redigere verbale di tutte le operazioni concorsuali; verbalizzazione essenziale per il rispetto dei principi di trasparenza e imparzialità (art. 15 DPR 487/94);

– se la Commissione ha formulato un elenco contenente il nome dei candidati e il numero assegnato ai loro elaborati (art. 14 DPR 487/94);

– se la Commissione ha chiesto ad almeno 10 candidati di partecipare alle operazioni di apposizione delle linguette numerate sugli elaborati degli stessi (art. 14 DPR 487/94).

IL PAPA: «LE RACCOMANDAZIONI PER IL LAVORO SONO IMMORALI». Onesto, condiviso, per tutti. Così dovrebbe essere il lavoro secondo Papa Francesco che ha ricevuto il Movimento Cristiano Lavoratori. Bisogna combattere, ha auspicato, la “piovra” della corruzione e dell’illegalità. A cominciare da favoritismi e raccomandazioni che, ha detto, «vanno respinte perché alimentano la corruzione», scrive Antonio San Francesco il 16 gennaio 2016 su “Famiglia Cristiana”. Le chiama «scorciatoie», papa Francesco, e dice con chiarezza che vanno evitate. Sono i «favoritismi e le raccomandazioni» per trovare un lavoro. Bergoglio lo ricorda davanti alle migliaia di appartenenti al Movimento Cristiano dei Lavoratori ricevuti sabato mattina in udienza nell’aula Nervi gremitissima. Auspica un «nuovo umanesimo del lavoro», il Pontefice, che dia speranza soprattutto ai più giovani. Ma questo non è possibile se non si combattono anzitutto la disoccupazione e l’illegalità. Parole forti, chiare, e dure. Fioccano gli applausi quando il Papa invita a «percorrere la strada, luminosa e impegnativa, dell’onestà, fuggendo le scorciatoie dei favoritismi e delle raccomandazioni». E spiega: «Ci sono sempre queste tentazioni, piccole o grandi, ma si tratta sempre di “compravendite morali”, indegne dell’uomo: vanno respinte, abituando il cuore a rimanere libero. Altrimenti, ingenerano una mentalità falsa e nociva, che va combattuta: quella dell’illegalità, che porta alla corruzione della persona e della società. L’illegalità è come una piovra che non si vede: sta nascosta, sommersa, ma con i suoi tentacoli afferra e avvelena, inquinando e facendo tanto male». Ogni cristiano, ha ricordato il Papa citando la frase di San Paolo “Chi non vuol lavorare, neppure mangi”, può e deve dare testimonianza della propria fede anche attraverso il lavoro quotidiano. Come? «Vincendo la pigrizia e l’indolenza», suggerisce, in particolare in una fase storica in cui, riconosce Francesco, «ci sono persone che vorrebbero lavorare, ma non ci riescono, e faticano persino a mangiare». È «il dramma dei nuovi esclusi del nostro tempo, privati della loro dignità», che in alcuni Paesi europei, ricorda il Papa, sono il 40-50 per cento della popolazione, e in tanti, spesso giovani, finiscono risucchiati nel vortice della dipendenze, delle malattie psicologiche, dei suicidi: «La giustizia umana», ha detto, «chiede l’accesso al lavoro per tutti. Anche la misericordia divina ci interpella: di fronte alle persone in difficoltà e a situazioni faticose – penso anche ai giovani per i quali sposarsi o avere figli è un problema, perché non hanno un impiego sufficientemente stabile o la casa – non serve fare prediche; occorre invece trasmettere speranza, confortare con la presenza, sostenere con l’aiuto concreto». Il lavoro, ha concluso il Papa, è una «vocazione», se intesa secondo il progetto di Dio già espresso nella Genesi: l’uomo creato perché «coltivasse e custodisse la casa comune».

Aspiranti avvocati, esame-lotteria in locali pericolanti. 4717 i partecipanti a Napoli. Criteri di correzione poco chiari, che portano ad un 20% di promossi tra i concorrenti a Fuorigrotta, nonostante la scuola napoletana sia tra le più rinomate. Probabile la presenza di un inviato de Le Iene, scrive Giovanni Palma su “Meridiano News” il 18 Dicembre 2015. Come tutti gli anni, alle soglie delle festività natalizie, presso la Mostra d’oltremare si sono tenuti gli esami per l’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato; ben 4.717 aspiranti legali, provenienti da gran parte della Campania, per tre giorni a partire da martedì, si sono riversati presso i locali di piazzale Tecchio sin dalle prime luci dell’alba, per sostenere tre diverse prove nelle materie forensi. Dalle prime impressioni, la maggior parte dei candidati avrebbe risolto, senza particolare affanno le, seppur impegnative, tracce d’esame. Gli esaminandi, tuttavia, lamentano le pessime condizioni in cui si sono svolte le prove, rese difficoltose sotto il profilo fisico prima che mentale: difatti riferiscono di lunghe file per l’accesso ai varchi, anche agli ingressi riservati ai portatori di disabilità; inoltre i candidati descrivono code interminabili per l’utilizzo dei pochi servizi igienici presenti e del pessimo stato di funzionamento ed igiene degli stessi, nonché delle bassissime temperature dei locali, apparsi in generale non idonei a garantire un livello di accoglienza adeguato ad una prova così delicata ed importante, fra polvere di intonaco in caduta e sistemi di areazione non funzionanti, oltre che pericolanti, al punto da rendere necessario l’intervento dei vigili del fuoco per verificare lo stato di una tubazione aerea, il tutto condito dalla voce circolata nei padiglioni (non ancora confermata) della presenza di un inviato della trasmissione “Le Iene” infiltratosi fra i candidati. Tuttavia le doglianze principali riguardano la fase di correzione degli elaborati, che per i candidati napoletani viene svolta, ad anni alterni, dalle commissioni di Milano Roma. La percentuale di promossi negli ultimi anni rasenta il 20%, circostanza strana considerato che la media nazionale è nettamente più elevata e soprattutto tenendo conto che la scuola forense Napoletana è, da sempre, considerata fra le più prestigiose del mondo. I futuri avvocati riferiscono di criteri di correzione incomprensibili e poco chiari, fra bocciature assurde e valutazioni differenti per compiti dal contenuto del tutto similare accompagnate della totale assenza di motivazioni, al punto da far sorgere il dubbio che la discriminante fra chi sarà avvocato e chi dovrà affrontare nuovamente le tre prove d’esame consista in un mero colpo di fortuna. E così, ognuno dei 4717 aspiranti avvocati, dovrà attendere i mesi estivi per sapere se quest’anno “la fortuna” gli avrà sorriso oppure se dovrà nuovamente partecipare alla lotteria natalizia di Fuorigrotta, sperando in miglior sorte.

Sanità, bocciati dal «quizzone» ma i manager vengono ripescati. I rottamati dal presidente Maroni rientrano come direttori sociosanitari. Al Pirellone la riunione dei nuovi dirigenti: tornano i «generali» dell’era Formigoni, scrive di Simona Ravizza l'8 gennaio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Fuori dalla porta, dentro dalla finestra. Alle 15 nell’aula Biagi di Palazzo Lombardia saranno in molti a riconoscersi. Anche tra la vecchia guardia. La riunione è convocata per i manager ospedalieri, nominati sotto Natale al motto: «Meno politica nella Sanità». Ma all’incontro saranno presenti anche gli esclusi eccellenti. Loro, i bocciati al quizzone utilizzato per la prima volta dalla Regione per selezionare gli uomini che devono fare funzionare i nostri ospedali. Eliminati dalla prima linea, i generali dell’epoca di Roberto Formigoni ricompaiono in seconda fila. Sempre in pista. Comunque. Non tutti, ma numerosi. E l’interrogativo che si pone adesso è uno: sul ripescaggio ha prevalso la capacità di figure che per anni sono state in grado di offrire buone cure e mantenere i conti degli ospedali in ordine oppure alla fine hanno contato le solite logiche politiche? Il dubbio è legittimo visto che la lottizzazione per decenni ha governato la Sanità. E il sistema degli amici degli amici è duro a morire. Ancora negli ultimi giorni i vertici dell’assessorato hanno telefonato ai supermanager degli ospedali per ribadire il messaggio del governatore Roberto Maroni: «Se d’ora in avanti si farà vivo qualche politico non fatevi condizionare. E siate autonomi nelle scelte, a partire dalla composizione della vostra squadra (i direttori generali devono scegliere i direttori sanitari, amministrativi e sociosanitari, ndr)». Ma l’invito è stato raccolto solo in parte. Gli elenchi con i nomi dei direttori sanitari, amministrativi e sociosanitari appena scelti sono infarciti di bocciati eccellenti. Armando Gozzini, già medico sociale del Milan e assessore di Forza Italia al Comune di Segrate, ha dovuto rinunciare alla poltrona da direttore generale dell’ospedale di Busto Arsizio (dove comunque aveva dato buona prova delle sue capacità), per sedersi su quella da direttore sociosanitario dell’azienda ospedaliera di Pavia. Angelo Cordone, un pezzo da novanta nel Pavese del Faraone Giancarlo Abelli, è il nuovo direttore sociosanitario dell’ortopedico Pini-Cto. Roberto Bollina, sempre in quota Forza Italia, è stato defenestrato da direttore generale dell’Asl di Como, ma rientra come direttore sanitario di Garbagnate. Ermenegildo Maltagliati, uomo vicino alla Lega, passa dai vertici dell’ospedale di Garbagnate alla direzione sanitaria di Vimercate. Enzo Brusini, altro manager in quota Lega, ha lasciato la spinosissima guida del San Paolo per diventare direttore sociosanitario a Busto Arsizio-Gallarate. Stesso partito per Simona Bettelini, altro riciclo: dal San Gerardo di Monza passa alla direzione sanitaria dell’Asl Mantova-Cremona (trasformata dalla riforma in Agenzia per la tutela della Salute, Ats; così come gli ospedali sono diventati Aziende sociosanitarie territoriali, Asst). In base alla situazione attuale, i ripescaggi ufficiali sono tre a testa, divisi tra Forza Italia e Lega. Per ora gli esclusi eccellenti che non risultano ricollocati sono Giorgio Scivoletto, indagato nell’inchiesta che ha portato in carcere l’ex assessore Mario Mantovani; Daniela Troiano, coinvolta nella stessa indagine ma senza risultare indagata; eppoi Giovanni Michiara, Danilo Gariboldi, Marco Votta e Cesare Ercole, però tutti praticamente al termine della carriera per età. Ma le nomine sono ancora in corso e non sono da escludere colpi di scena dell’ultimo minuto. Pietro Caltagirone invece, dopo vent’anni ai vertici, a fine dicembre ha deciso di andare in pensione. Anche se il rinnovamento voluto da Maroni nelle squadre di manager che guideranno gli ospedali resta importante, la più massiccia rottamazione della Sanità lombarda è stata in qualche modo controbilanciata. E alla fine ai bocciati eccellenti non è andata malissimo. Stesso stipendio (o quasi), qualche responsabilità in meno. 

INFERMIERE PESCARESE AL TOP DI LONDRA: ''IN ITALIA LA SANITA' STA DEGENERANDO''. La lettera pubblicata da "Abruzzo Web" il 7 gennaio 2016. "Non azzarderei se affermassi che il numero degli infermieri formatisi e laureatisi in Italia e poi emigrati solo qui in Inghilterra rasenti le 10 mila unità. È un dato che sgomenta e fa riflettere. Nemmeno se venissimo assorbiti tutti in massa ed in un giorno solo nel nostro Servizio sanitario nazionale riusciremmo a colmare le disastrose lacune di personale che stanno lentamente ed inesorabilmente portando il sistema pubblico vicino al collasso, come in molti prevedono accadrà nei prossimi anni, a meno che non si adotti una decisa inversione di rotta ma non privatizzandolo, come presumo sia nella testa di molti amministratori pubblici!". Questo un passaggio di una lettera scritta da Luigi D'Onofrio, infermiere pescarese dello staff Nurse Moorfields Eye Hospital di Londra, emigrato per necessità professionali e di vita come lui stesso ammette, alla sezione di Pescara del Nursind, il sindacato delle professioni infermieristiche.  "Leggendo pubblicazioni online - scrive D’Onofrio - noto che da alcuni mesi fa tendenza parlare della pletora di infermieri italiani che stanno abbandonando le patrie corsie ospedaliere per raggiungere obiettivi di lavoro e carriera in altre nazioni, prevalentemente in Inghilterra, Germania e Svizzera. Molti giornali se ne sono già occupati, ma ho notato tuttavia che ogni articolo ha affrontato la tematica da un solo punto di vista: quello degli infermieri Italiani che lanciano un'occhiata al sistema sanitario inglese ed operano paragoni con il nostro. Io vorrei invece offrire una prospettiva completamente differente ed atipica". "Sono infatti un emigrante di nuova generazione - prosegue - uno tra i tanti professionisti laureati che ha messo in valigia competenze ed esperienze e si è stabilito da un anno e per un tempo indefinito nel Regno Unito per realizzare quelle aspettative professionali a lungo negatemi in Italia e soprattutto nella mia terra natìa, l'Abruzzo. Siamo in tanti, tantissimi. Le ultime statistiche ufficiali, prevenute dal registro UK, il Nmc, parlano di 2.500 infermieri di nazionalità italiana, ma gli iscritti alla più popolare pagina di Facebook in materia sono oltre 4.500, quindi si tratta di cifre approssimate per difetto e comunque in costante evoluzione. Non considero infatti nel conto tutti i colleghi che, frenati da una scarsa conoscenza dell'inglese, hanno comunque deciso di espatriare per cimentarsi in mestieri per i quali non è richiesta una approfondita conoscenza linguistica, come l'health care (più o meno l'equivalente del nostro Oss, se non addirittura il barista od il cameriere". Ma, lamenta D’Onofrio, "le nostre prospettive di ritorno sono complesse e travagliate. Abbiamo molte barriere da varcare e quella doganale è la più semplice di tutte. Il nostro ritorno è infatti possibile solo una volta superati gli ostacoli economici e culturali che rendono oggi drammatico anche l'inserimento di chi è rimasto in patria. La realtà, infatti, non è che in Italia manca il lavoro, o meglio le opportunità di lavoro. Mancano i datori di lavoro, le persone che sanno far lavorare altri. Abbiamo manager, ma non dirigenti in grado di far lavorare e costruire il successo di un'azienda sanitaria nel tempo, formando e valorizzando personale qualificato".

IL RESTO DELLA LETTERA

Mi perdonino il paragone gli appassionati di calcio: abbiamo un'Italia di Mourinho, di gente che costruisce una squadra in poche settimane reclutando persone dappertutto e ponendosi obiettivi a breve termine, mai nel lungo periodo. Almeno loro provano ad attrarre giocatori con elevate qualità sfruttando le cascate di soldi messe a loro disposizione ma imprenditori miliardari. Da noi si pensa solo a tappare buchi. Quanti bravi colleghi ho visto abbandonare un posto di lavoro solo perché il contratto era scaduto e non era più fiscalmente conveniente convertire il loro contratto in uno a tempo indeterminato! Per non parlare dell'ormai obsoleto sistema dei concorsi pubblici, che nella mente dei Padri Costituenti avrebbe dovuto permettere di scegliere i più preparati e meritevoli in modo trasparente, mentre succede oggi di assistere a preselezioni oceaniche in palazzetti strabordanti di giovani con lo zainetto pieno di manuali e di belle speranze. Ultimamente ci si ritrova poi a pagare tasse di selezione senza avere la certezza che il concorso effettivamente si svolgerà, o verrà organizzato in breve; a prove truccate e finite nel mirino della magistratura; ad assistere professionisti di grande esperienza che rispondono a quiz di cultura generale insieme a ragazzi neolaureati, mentre sarebbero già capaci di dirigere interi reparti), solo perché sognano di rientrare nella loro terra, ma magari la mobilità è impossibile o bloccata da anni. Io invece non ho sostenuto nessun concorso. La mia assunzione è stata decisa in tre intensissimi quarti d'ora di colloquio con tre dirigenti infermieristiche dell'ospedale pubblico in cui mi sono ritrovato ad essere dipendente di ruolo, il Moorfields Eye Hospital di Londra, il più grande e noto ospedale oculistico del mondo. È stato dal momento del mio inserimento, accuratamente guidato, che ho dovuto iniziare a dimostrare il mio valore e la mia capacità di fronte ai miei colleghi ed ai miei manager. Non credo finora di aver sfigurato: il mito della grande Florence Nightingale, la “dama con la lanterna” che proprio in Inghilterra ha ideato la moderna professione infermieristica, è in quanto tale un mito che ai giorni nostri sopravvive conservando solo un fondo di verità: l'infermiere italiano non ha affatto competenze inferiori quello inglese ed anzi il suo livello di preparazione, specialmente dal punto di vista tecnico è mediamente più elevato di quello di molti colleghi extraeuropei. Noto spesso, ad esempio, gli sguardi sorpresi di colleghi quando affermo che in Italia la figura del flebotomist, cioè dell'infermiere specialista addetto al prelievo del sangue od all'incannulamento, non esiste e che anch'io svolgevo regolarmente e quotidianamente questa prestazione: qui in Inghilterra è richiesto il superamento di un training (della durata di un giorno!) che non sempre l'ospedale (a meno che non ne abbia immediata necessità) consente di seguire gratuitamente. Paese che vai, paradossi che incontri. Non sarà un caso, quindi, se nel regno Unito si stanno reclutando principalmente italiani ma anche spagnoli, che vantano una preparazione universitaria simile alla nostra. Anche il sistema sanitario della Corona non può ancora, a mio parere, considerarsi superiore al sistema sanitario nazionale, nonostante le mutilazioni subite da quest'ultimo in anni recenti. Ma qui sta la vera differenza: l'Inghilterra sta investendo nella sanità pubblica, destinando ad essa ancora più risorse (+10% nei prossimi cinque anni), ottimizzando le spese senza tagliare servizi, incrementando e formando più accuratamente il personale sanitario, ricercato disperatamente in tutto il mondo, nonostante il fabbisogno lavorativo sia stimato in 20 mila infermieri, circa un terzo di quello italiano e nonostante si stiano cominciando a porre paletti più severi, come il superamento di test di conoscenza della lingua inglese. Tutto il contrario di quanto avviene da noi, dove si risparmia e si taglia alla cieca invece di investire, soprattutto sulla forza lavoro, non consapevoli (o forse sì?) che in un periodo di 3-5 anni una politica così miope determinerà organici drammaticamente insufficienti ed insufficientemente preparati. Purtroppo si persiste su questa scia, nonostante recenti direttive europee ci costringano ad assumere migliaia di unità per rispettare regole sull'orario di lavoro violate in anni di blocco del turnover, che hanno portato gli infermieri e tutto il personale sanitario a coprire turni massacranti. Il sistema lo fanno le persone, non le strutture o le apparecchiature diagnostiche tecnologicamente avanzate. Qui in Inghilterra, ora, anche gli Italiani stanno contribuendo alla costruzione di un sistema sanitario sempre più avanzato, mentre in Italia perfino i Collegi Ipasvi incentivano all'espatrio, pubblicando offerte di lavoro di agenzie straniere e perfino stringendo accordi di cooperazione con esse (come il Collegio Ipasvi di Chieti), invece di prodigarsi presso le nostre istituzioni per promuovere assunzioni e concorsi in loco! Trovo queste iniziative francamente vergognose ed invito in primis alcuni dirigenti e rappresentanti della categoria infermieristica a trascorrere una (lunga) esperienza di lavoro all'estero, lasciando il posto ad altri colleghi più propensi ad invertire la rotta dell'emigrazione. Mi si perdoni il lungo sfogo, ma di storie ne ho già da raccontare tante e comunque la vita dell'emigrante non è semplice, nonostante una città come Londra sappia addolcire l'amara pillola di chi non sa se e quando tornerà a casa. L'Italia resta sempre nel cuore di tutti noi ed è ad essa che guardiamo ogni giorno, con speranza dura a morire.

Concorsi, bandi, dottorati, cattedre: se all’università è tutto truccato. Rivelazioni shock di un insegnante della Statale, scrive “Leggi Oggi” il 18 marzo 2015. Concorsi truccati, sprechi, favoritismi a non finire. Il ritratto dell’università italiana, certo non al top della sua popolarità, firmato da Matteo Fini, dottore di ricerca con dieci anni in ateneo alle spalle. Lo racconta l’Espresso, in un articolo inchiesta che mette in evidenza tutte le leve che muovono l’istruzione accademica e definiscono le possibilità di carriera nelle cattedre del nostro Paese. “Non si sopravvive al sistema universitario italiano”, scriveva il giovane dottore di ricerca sulla sua pagina Facebook, dove puntualmente aggiornava, senza troppi sottintesi, sui peggiori vizi del sistema universitario italiano. Una protesta che gli ha procurato anche una diffida legale, con il suo editore, per cui aveva pubblicato un libro dal titolo “Non è un Paese per bamboccioni” di non pubblicare i post più polemici e ambigui. Docente di metodi quantitativi per l’economia e la finanza alla Statale di Milano, dottore di ricerca per il Dipartimento di scienze economiche dell’Università meneghina, Matteo si è però rifiutato di eliminare le sue riflessioni dalla pagina Facebook. E racconta, ancora oggi, un sistema che lo ha portato a fare di tutto: le lezioni, i ricevimenti, gli esami: un professore a tutti gli effetti, se non per il titolo e, ovviamente, lo stipendio. Come si diventa ricercatore? “È il professore stesso che ti precetta, quando tu magari nemmeno ci pensavi alla carriera universitaria. Ti dice: “ti va di fare il dottorato?”. E tu rispondi ok, e cominci. E pensi che sei davvero bravo. Un eletto. A quel punto però vieni risucchiato”. Cosa spinge ad andare avanti? La fiducia nella figura del docente che ha aperto la strada. “Fin dal primo giorno, mi ha detto: Tu fa’ quel che ti dico, seguimi, e alla tua carriera ci penso io”. Avanti così per anni, peccato che nel frattempo i contatti tra i due si fanno sempre più radi fino a che, un giorno, non viene indetto il concorso che proprio lui avrebbe dovuto vincere e il professore “chioccia” nemmeno si fa vivo. Matteo capisce che il suo posto non è più suo. “In Italia, prima si sceglie un vincitore e poi si bandisce un concorso su misura per farlo vincere. Anche per un semplice assegno di ricerca. All’università è tutto truccato”. I concorsi. Si arriva così al capitolo dei concorsi, dall’esito puntualmente scontato. “Tutti i concorsi a cui ho partecipato erano già decisi in partenza. Sia quando ho vinto, sia quando ho perso. Vinci solo se il tuo garante siede in commissione. Il concorso è una farsa, è manovrato fin dal momento stesso in cui si decide di bandirlo.” I fondi. C’è poi, nel suo racconto, un capitolo fondamentale sul gettito di fondi pubblici che arriva nelle casse delle università: “Quando vengono assegnati i fondi di ricerca, i professori e i dipartimenti si associano e mettono su un progetto. Dentro questi bandi vengono infilati anche dei ragazzi giovani, con la promessa che verranno messi poi a lavorare. Il bando viene vinto, arrivano i fondi, ma del progetto che ha portato ad accaparrarseli nessuno dice più niente. Viene accantonato, e i quattrini sono dilapidati nelle maniere più arbitrarie”. Un quadro deprimente, che sullo sfondo dei recenti scandali sui test di ammissione, prove sbagliate, ricorsi e qualità dell’insegnamento sempre più bassa, rende l’università italiana poco credibile anche da chi la fa.

Concorsi Pubblici: tutti i casi sospetti. Il pasticciaccio delle scuole di specializzazione in medicina, per il quale i giovani medici manifestano a Roma, è l’ultimo episodio di un lungo elenco di irregolarità, favoritismi e trucchi. Dalla Farnesina alla Polizia penitenziaria nessuno è escluso. A partire dalle selezioni per insegnanti e ricercatori, scrive Michele Sasso il 4 novembre 2014 su “L’Espresso”. Una manifestazione di specializzandi di medicina a RomaLe prove, l’errore e il dietrofront. Dopo giorni di polemiche, il ministero dell’Istruzione cerca di mettere una pezza al pasticciaccio del concorsone per l’accesso alla scuole di specializzazione in medicina. Un test fondamentale per accedere alle oltre cinquemila borse di studio diventato tristemente famoso per l'annullamento che ha colpito più di 11mila candidati. Dopo avere rilevato una “grave anomalia” il ministro Stefania Giannini ci ripensa e annuncia: «Le prove per l’accesso del 29 e 31 ottobre non dovranno essere ripetute. Abbiamo trovato una soluzione che ci consente di salvare i test». Una pezza dopo l’annuncio di una valanga di ricorsi. Le dimissioni di Emilio Ferrari, il responsabile del Consorzio universitario che ha preparato il test di ingresso, non sono servite a stoppare la manifestazione davanti al Miur. In piazza i giovani medici che la settimana scorsa hanno partecipato alle selezioni. Non è la prima volta che un concorso pubblico finisce con una figuraccia e una protesta di piazza. Il ministero degli Esteri ha bandito 35 posti per il gradino più basso della carriera da ambasciatore ignorando gli idonei dello scorso anno, che andavano riassorbiti. Una vicenda su cui ora tutti i partiti, con otto interrogazioni, chiedono di fare luce. E fra chi ha passato lo scritto anche candidati dalle parentele famose. Tra caos, ricorsi, graduatorie ritoccate e interventi della Magistratura non c’è settore della pubblica amministrazione immune all’aiutino. Il prestigioso posto di ambasciatore junior del ministero degli Esteri si è trasformato, secondo le critiche, in una corsia preferenziale per chi ha parentele famose. In ballo 35 posti per il gradino più basso della carriera alla Farnesina: la questione è finita con otto interrogazioni parlamentari e ombre pesanti sul ministero degli Esteri. Perfino alle prove per diventare poliziotti si scoprono bluff. Lo scorso maggio alla scuola di formazione della Polizia penitenziaria di Roma si aprono le porte ai concorrenti al concorso pubblico per 208 posti di agente. Test e prove attitudinali per andare a lavorare nelle carceri italiane. Durante gli scritti la commissione esaminatrice scopre tre aspiranti con in tasca le risposte esatte ai quiz di selezione. L’elenco delle valutazioni sballate, superficialità e grossolani errori per scegliere gli insegnanti della scuola italiana è lungo. Nel 2010 nel concorso per dirigente scolastico il Ministero mette online i temi delle prove e arrivano una valanga di segnalazioni. Tanti, troppi errori e un quiz su sei viene ritirato. Nonostante gli accorgimenti all‘apertura delle buste nei cento quiz c’erano ancora degli strafalcioni. Per i tirocini formativi attivi (Tfa) obbligatori per diventare insegnanti si replica con ancora quiz errati e si ottiene ammissione dei ricorrenti alle prove scritte. Per l’ultimo concorso a cattedra la Giannini è stata costretta a un decreto correttivo. «Ogni volta è la stessa storia», commenta Marcello Pacifico del sindacato Anief: «Non sono le dimissioni di un presidente ma la gestione delle prove selettive che non trova mai un responsabile. Non è possibile che proprio le domande e le risposte per accertare il merito contengano degli errori». Tra le maglie delle selezioni anche casi clamorosi di familismo amorale e concorsi truccati su misura. A Palermo la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio dell'ex preside della facoltà di Medicina Giacomo De Leo e di Salvatore Novo, professore ordinario e direttore della scuola di specializzazione in Cardiologia dell'università locale insieme ad Alberto Balbarini, docente di malattie cardiovascolari a Pisa. Complici e menti (con l’accusa di truffa, soppressione di atto pubblico e falsità ideologica) di un presunto concorso truccato per un posto da ricercatore universitario nel loro dipartimento bandito nel lontano 2004. Il concorso, secondo gli inquirenti, venne truccato per consentire alla figlia di Novo, Giuseppina, l'aggiudicazione del posto. L'inchiesta parte da Bari, e indaga su una serie di concorsi truccati in diverse facoltà della Penisola. Secondo gli investigatori, ci sarebbe stato un vero e proprio accordo tra Novo e De Leo per far vincere il concorso alla figlia del cardiologo. A garantire il posto assegnato a tavolino doveva essere Mario Mariani, altro docente universitario di Pisa, nominato membro della commissione esaminatrice. All'ultimo momento, però, Mariani scopre di essere indagato dai pm baresi e fa un passo indietro. È allora che, secondo i magistrati, i due docenti distruggono il verbale con cui Mariani era stato designato commissario d'esame e lo sostituiscono con uno identico in cui mettono il nome di Balbarini. Quest'ultimo, vicino a Mariani, sarebbe stato al corrente di tutto. Dopo dieci anni la ricercatrice ha fatto carriera e oggi può vantare il titolo di docente alla scuola di specializzazione in cardiochirurgia. L’ateneo? Quello di Palermo, naturalmente.

Farnesina, ombre sul concorso per diplomatici e tra i vincitori non mancano "I figli d'arte". Il ministero degli Esteri ha bandito 35 posti per il gradino più basso della carriera da ambasciatore ignorando gli idonei dello scorso anno, che andavano riassorbiti. Una vicenda su cui ora tutti i partiti, con otto interrogazioni, chiedono di fare luce. E fra chi ha passato lo scritto anche candidati dalle parentele famose, scrive Paolo Fantauzzi il 14 ottobre 2014 su “L’Espresso”. AAA ambasciatore cercasi. C’è un settore che sembra non conoscere crisi. Al punto che continua ad assumere mentre le pubbliche amministrazioni sono costrette a ridurre le piante organiche e a non rimpiazzare il personale andato in pensione. È il ministero degli Esteri che, grazie a una particolare deroga, dal 2010 ha diritto di prendere ogni anno fino a 35 segretari di legazione. Un incarico ambito, dato che rappresenta il gradino più basso della carriera diplomatica e che - fra stipendio tabellare, retribuzione di posizione e di risultato - l’emolumento si aggira sui 5 mila euro al mese. Forse anche per questo quasi ogni concorso è stato puntualmente accompagnato da una ridda di contestazioni e ricorsi. Col picco esponenziale raggiunto proprio quest’anno, con l’eco delle polemiche che è approdata perfino in Parlamento, dove sono state depositate ben otto fra interpellanze e interrogazioni per fare luce su presunte irregolarità nelle selezioni svolte a luglio: due del Partito democratico e del Movimento cinque stelle e una di Sel, Udc, Fratelli d’Italia e Ilic (gli ex grillini al Senato). Irregolarità che riguarderebbero innanzitutto le immancabili furbate di ogni concorso che si rispetti: non solo qualcuno sarebbe riuscito a utilizzare tablet, smartphone, libri e manoscritti perché non era stata allestita una sala deposito accanto all’aula d’esame, ma - in base a quanto denunciato da un commissario nel corso delle prove - alcuni candidati si sarebbero perfino agganciati alla rete wi-fi del suo cellulare, riuscendo così a navigare su internet. Il punto centrale riguarda tuttavia il numero di posti banditi: 35, il numero massimo consentito, nonostante lo scorso anno i vincitori siano stati 42. Per i 7 rimasti fuori - secondo la formula di “idonei non vincitori” che ben conosce chi partecipa ai concorsi pubblici - si sarebbero dovute aprire le porte quest’anno: dal 2013 la legge prevede infatti lo scorrimento delle graduatorie prima di effettuare una nuova selezione. Una questione di risparmio ma anche di buon senso che la Farnesina stessa ha adottato prima ancora che fosse obbligatorio: nel 2010 gli idonei non vincitori furono sei e l’anno seguente furono banditi 29 posti anziché 35. Quest’anno è andata diversamente. Come mai? Il ministero sostiene la regolarità della scelta in base a un parere consultivo e un paio di sentenze del Consiglio di Stato più un’altra emessa dal Tribunale amministrativo del Lazio. Atti che però sono tutti precedenti o relativi a fatti antecedenti la legge del 2013, contestano gli idonei, che hanno fatto ricorso al Tar. Quel che è certo è che quest’anno scade la deroga al blocco delle assunzioni e quindi il concorso potrebbe rappresentare l’ultima grande infornata prima di un lungo digiuno. Anche così si spiegano i numeri record: poco meno di 700 quanti hanno partecipato alle prove scritte, che prevedono un esame di storia, diritto, economia, inglese e una seconda lingua a scelta fra tedesco, francese e spagnolo. Quasi il triplo dell'anno scorso. Di questi, però, solo il 5 per cento ce l’ha fatta: gli ammessi agli orali, che si terranno a fine mese, sono appena 34. In pratica tutti quanti hanno già il posto assicurato e non ci saranno nuovi casi di idonei non vincitori. Nella graduatoria non mancano cognomi famosi, come Francesco Calderoli, nipote del leghista Roberto, che si è piazzato al 29esimo posto in classifica. Penultimo è arrivato invece Ferdinando Stagno d’Alcontres, primogenito di Francesco, ex deputato di Forza Italia e cugino dell’ex ministro degli Esteri Antonio Martino (anche lui berlusconiano della prima ora) e dell'ex ambasciatore in Russia e Usa, Ferdinando Salleo. Una circostanza ricorrente, quella di cognomi e parentele importanti, dal momento che la diplomazia è uno dei settori della pubblica amministrazione in cui il tasso di "figli d'arte" è più alto. Nel 2009, ad esempio, tramite lo scorrimento della graduatoria (quello non effettuato quest’anno) fu “ripescato” Stefano La Tella, figlio di Guido, ex ambasciatore in Argentina e presidente di commissione dell'attuale selezione: La Tella junior l’anno prima era risultato quinto degli idonei non vincitori e a essere assorbiti - come ha rilevato il sindacato Flp-Affari esteri in un volantino ironico intitolato “Il divino concorso” - furono proprio i primi cinque (su un totale di 13). Lo scorso anno però andò ancora peggio, quanto a contestazioni: delle 60 domande del test di preselezione, sei erano errate e il ministero, anziché eliminarle, decise di "abbonarle" a tutti i partecipanti, facendo in questo modo lievitare gli ammessi alle prove scritte.

Le persone perbene non riescono a fare carriera all’interno della pubblica amministrazione. Un giudizio lapidario che viene dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone, scrive “Blitz Quotidiano” il 28 ottobre 2015. Un giudizio appena mitigato dai due minuti di spiegazione dell’affermazione: Cantone spiega che, a volte, questo avviene anche per colpe dei diretti interessati. “Spesso le persone perbene all’interno della pubblica amministrazione sono quelle che hanno meno possibilità di fare – dice Cantone – Spesso fanno meno carriera. Spesso sono meno responsabilizzati perché considerati per bene”. Secondo Cantone è ora di recuperare parole che non si usano nel nostro mondo del lavoro. Una è la parola “controllo”. E il presidente dell’anticorruzione si riferisce a chi osserva i colleghi timbrare il cartellino e poi lasciare il posto di lavoro senza denunciare nulla. Quello che serve, secondo Cantone, è una “riscossa interna” e un recupero non imposto dall’alto di moralità e cultura dello Stato, il terzo settore e di conseguenza il nostro Paese si salveranno dalla mala gestione della cosa pubblica.

Commenti disabilitati su Cantone: “Non sono tutti fannulloni ma nella Pubblica amministrazione, le persone perbene hanno meno possibilità”, scrive Antonio Menna il 28 ottobre 2015 su “Italia Ora”. “Non sono tutti fannulloni nella Pubblica amministrazione. Meno che mai sono tutti corrotti. Ma è vero che le persone perbene sono quelli che vengono meno coinvolti nelle scelte, meno responsabilizzati. Sono quelli che hanno meno possibilità di fare carriera”. Lo dice chiaro e tondo, Raffaele Cantone, magistrato anticamorra, e presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione. Lo dice nel corso di una intervista pubblica al Sermig di Torino e il segmento sulla corruzione nella pubblica amministrazione (rilanciato da un video del Corriere della Sera) è quello che impressiona di più. Quante volte lo abbiamo pensato che essere onesti è una penalizzazione? Chi è onesto non va lontano. “A volte, però”, chiarisce Cantone, “anche per sue responsabilità. Dobbiamo trovare il coraggio di ripristinare alcune parole che nel nostro lessico si sono dimenticate: la parola controllo, per esempio. Se il mio amico, vicino di stanza, usa il badge per coprire i colleghi che magari sono in vacanza, devo stare zitto? Perché devo stare zitto? Queste apparenti distrazioni sono complicità. La società dei piccoli favori, magari banali, magari che non portano necessariamente alla corruzione, ci abitua all’idea che ci sia uno spazio dove tutto si può comprare.” “Il problema – conclude Cantone – non è solo la disonestà ma, a volte, anche non capire con chi parlare. Ci sono cento centri di costo solo nella città di Roma, cento uffici che fanno appalti e spesa. Come li controlli? La deresponsabilizzazione la fa da padrona, ed è essa stessa una delle ragioni che giustifica la corruzione.”

In Italia si fa carriera solo se si è ricattabili, scrive il 5 giugno 2015 Claudio Rossi su "L'Uomo qualunque". “Il nostro Paese sta sprofondando nel conformismo (…) siamo usciti da una consultazione elettorale che ha dato il risultato a tutti noto, ma la cosa che colpisce è questo saltare sul carro del vincitore. Tacito diceva che una delle abitudini degli italiani è di ruere in servitium: pensate che immagine potente, correre ad asservirsi al carro del vincitore. Noi tutti conosciamo persone appartenenti al partito che ha vinto le elezioni che hanno opinioni diverse rispetto ai vertici di questo partito. Ora non si tratta affatto di prendere posizioni che distruggono l’unità del partito, ma di manifestare liberamente le proprie opinioni senza incorrere nell’anatema dei vertici di questo partito (…) Queste persone, dopo il risultato elettorale, hanno tirato i remi in barca e le idee che avevano prima, oggi non le professano più. Danno prova di conformismo. (…) La nostra rappresentanza politica è quella che è (…) La diffusione della corruzione è diventata il vero humus della nostra vita politica, è diventata una sorta di costituzione materiale. Qualcuno, il cui nome faccio solo in privato, ha detto che nel nostro Paese si fa carriera in politica, nel mondo della finanza e dell’impresa, solo se si è ricattabili (…) Questo meccanismo della costituzione materiale, basato sulla corruzione, si fonda su uno scambio, un sistema in cui i deboli, cioè quelli che hanno bisogno di lavoro e protezione, gli umili della società, promettono fedeltà ai potenti in cambio di protezione. È un meccanismo omnipervasivo che raggiunge il culmine nei casi della criminalità organizzata mafiosa, ma che possiamo constatare nella nostra vita quotidiana (…) Questo meccanismo funziona nelle società diseguali, in cui c’è qualcuno che conta e che può, e qualcuno che non può e per avere qualcosa deve vendere la sua fedeltà, l’unica cosa che può dare in cambio (…) Quando Marco Travaglio racconta dei casi di pregiudicati o galeotti che ottengono 40 mila preferenze non è perché gli elettori sono stupidi: sanno perfettamente quello che fanno, ma devono restituire fedeltà. Facciamoci un esame di coscienza e chiediamoci se anche noi non ne siamo invischiati in qualche misura. (…) Questo meccanismo fedeltà-protezione si basa sulla violazione della legge. Se vivessimo in un Paese in cui i diritti venissero garantiti come diritti e non come favori, saremmo un paese di uomini e donne liberi. Ecco libertà e onestà. Ecco perché dobbiamo chiedere che i diritti siano garantiti dal diritto, e non serva prostituirsi per ottenere un diritto, ottenendolo come favore. Veniamo all’autocoscienza: siamo sicuri di essere immuni dalla tentazione di entrare in questo circolo? (…) Qualche tempo fa mi ha telefonato un collega di Sassari che mi ha detto: “C’è una commissione a Cagliari che deve attribuire un posto di ricercatore e i candidati sono tutti raccomandati tranne mia figlia. Sono venuto a sapere che in commissione c’è un professore di Libertà e Giustizia…”. Io ero molto in difficoltà, ma capite la capacità diffusiva di questo sistema di corruzione, perché lì si trattava di ristabilire la par condicio tra candidati. Questo per dire quanto sia difficile sgretolare questo meccanismo, che si basa sulla violazione della legge. Siamo sicuri di esserne immuni? Ad esempio, immaginate di avere un figlio con una grave malattia e che debba sottoporsi a un esame clinico, ma per ottenere una Tac deve aspettare sei mesi. Se conosceste il primario del reparto, vi asterreste dal chiedergli il favore di far passare vostro figlio davanti a un altro? Io per mia fortuna non mi sono mai trovato in questa condizione, ma se mi ci trovassi? È piccola, ma è corruzione, perché se la cartella clinica di vostro figlio viene messa in cima alla pila, qualcuno che avrebbe avuto diritto viene posposto. Questo discorso si ricollega al problema del buon funzionamento della Pubblica amministrazione: se i servizi funzionassero bene non servirebbe adottare meccanismi di questo genere. Viviamo in un Paese che non affronta il problema della disonestà e onestà in termini morali. (…) Se non ci risolleviamo da questo, avremo un Paese sempre più clientelarizzato, dove i talenti non emergeranno perché emergeranno i raccomandati, e questo disgusterà sempre di più i nostri figli e nipoti che vogliono fare ma trovano le porte sbarrate da chi ha gli appoggi migliori. È una questione di sopravvivenza e di rinascita civile del nostro Paese. Ora, continuiamo a farci questo esame di coscienza: non siamo forse noi, in qualche misura, conniventi con questo sistema? Quante volte abbiamo visto vicino a noi accadere cose che rientrano in questo meccanismo e abbiamo taciuto? Qualche tempo fa, si sono aperti un trentina di procedimenti penali a carico di colleghi universitari per manipolazione dei concorsi universitari (…) Noi non sapevamo, noi non conoscevamo i singoli episodi (…) e per di più non siamo stati parte attiva del meccanismo, ma dobbiamo riconoscere che abbiamo taciuto, dobbiamo riconoscere la nostra correità. Proposta: Libertà e Giustizia è una associazione policentrica che si basa su circoli, che sono associazioni nella associazione, radicati sul territorio e collegati alla vita politica. Non sarebbe il caso che i circoli si attrezzassero per monitorare questi episodi, avendo come alleati la stampa libera e la magistratura autonoma? Potrebbe essere questa una nuova sfida per Libertà e Giustizia, controllare la diffusione di questa piovra che ci invischia tutti, cominciando dal basso, perché dall’alto non ci verrà nulla di buono, perché in alto si procede con quel meccanismo che dobbiamo combattere.” Gustavo Zagrebelsky.

“I cittadini silenziosi possono essere dei perfetti sudditi per un governo autoritario, ma sono un disastro per una democrazia”. Robert Alan Dahl

La “mafia” dei Baroni: tante denunce, nessuna novità. Ora arriva Cantone? Scrive il 23/01/2016 Mario Basso su “L’Ultima Ribattuta”. Raccomandazioni, concorsi pilotati, scambi di favori, meriti negati, titoli ignorati. Da anni si conosce – e si denuncia – la cosiddetta “mafia dei Baroni” che affligge molti (tutti?) gli Atenei italiani. Fior fiore di inchieste – come quella di Fittipaldi per L’Espresso nel 2014 -, pagine di giornali, denunce in ogni dove. Sì, e poi? Nel 2014, i pm della procura di Bari, hanno chiuso la prima fase dell’inchiesta denominata Do ut des che vede indagati 38 tra professori e alti papaveri di diverse università italiane, accusati a vario titolo di associazione a delinquere, corruzione, truffa aggravata e falso. A questi 38 baroni indagati, si devono sommare i nomi di 5 saggi nominati da Giorgio Napolitano, denunciati dalla Guardia di Finanza, ma nel 2014 non ancora sotto inchiesta. Com’è andata a finire? Qualcuno sa qualcosa? Secondo la procura barese, gli indagati avrebbero costituito due associazioni per delinquere (una a Bari e l’altra a Milano), con l’obiettivo di spartirsi le nomine negli atenei di tutto il Paese. Nomine truccate, assegnate attraverso conoscenze e amicizie mirate. Circa 50 i concorsi in cui, scrivono gli inquirenti, “una rete criminale tra i più autorevoli docenti ordinari” ha consentito “sistematicamente il prevalere della logica del favore su quella del merito e della giustizia”. E poi il silenzio. Avete sentito parlare di arresti? Ulteriori inquisiti? No. Ma si sono moltiplicate le denunce. Eppure nulla sembra smuoversi. Ora che, però, si è individuato in Raffaele Cantone il deus ex machina che tutto risolve, la questione arriva anche sul tavolo dell’Enac. A portarcela è un professore universitario – che ha chiesto di conservare l’anonimato – che ha denunciato all’autorità anticorruzione un episodio di grave abuso per nomine fatte “del tutto fuorilegge”, come ha dichiarato in un’intervista a Repubblica. Il professore si è rivolto alle autorità competenti e dopo un anno ha saputo che la Procura adesso ha finalmente aperto un’indagine. L’ennesima. Di quante prove c’è bisogno prima che questo sistema di abusi venga finalmente smantellato?

Testi copiati all’esame da prof ordinario. Scoperto, la commissione lo conferma. Dario Tomasello, figlio del potentissimo ex rettore. Nei suoi saggi brani identici a quelli del suo maestro, scrive Gian Antonio Stella l’1 febbraio 2016 su “Il Corriere della Sera”. «Aguzzate la vista», invita la Settimana Enigmistica su vignette identiche dove occorre scoprire dettagli diversi. Qui non occorre manco aguzzarla. Per andare in cattedra un docente messinese ha portato al concorso per l’abilitazione in Letteratura italiana contemporanea testi qua e là platealmente copiati di sana pianta. Fin qui, capita. Non è la prima volta, difficile sia l’ultima. Molto più grave è risposta del ministero. Dove si spiega che la commissione, messa davanti alle prove del plagio, ha deciso di non «modificare il giudizio». Chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto…I protagonisti della storia sono due. Di qua Dario Tomasello, dal 2006 «associato» di letteratura italiana contemporanea all’Università di Messina dove il padre Francesco era allora il potentissimo rettore, destinato a rimanere in carica tra mille polemiche fino al 2013. Di là Giuseppe Fontanelli, lui pure associato nello stesso Ateneo. Punti in comune: l’essere stati entrambi allievi di Giuseppe Amoroso, storico luminare della materia. Destini diversi: al concorsone del 2013 il giovane Tomasello passa, il più anziano Fontanelli no. «Possibile?», mastica amaro il bocciato. Non si dà pace. Finché, come racconterà alla rivista «centonove», viene «colto da una folgorazione, una chiaroveggenza del caso, uno strappo nel cielo di carta». In pratica, spiega oggi, «ho riconosciuto qua e là nei lavori del Tomasello non solo i pensieri ma le parole stesse di Amoroso e sono andato a controllare: c’erano pagine e pagine non ispirate ma riprese da questo o quel libro con il “copia incolla”. Senza virgolette e citazione dei testi originali». Un esempio? Primo testo: «La vitalità di osservatore accanito del ciclo della natura spinge Pascoli a cogliere il flusso di un divenire sempre diverso, una trama di suggestioni che si allacciano alla natura umana, facendosi, nell’istante in cui sono isolate, parafrasi della vita quotidiana ed eroica, brulicante di apparizioni, di tentazioni e allegorie…». Secondo testo: «La vitalità di osservatore accanito dell’esistenza spinge Quasimodo a cogliere il flusso di un divenire sempre diverso, una trama di suggestioni che si allacciano alla natura umana, facendosi, nell’istante in cui sono isolate, parafrasi della vita quotidiana ed eroica, brulicante di apparizioni, di tentazioni e allegorie…». Uguali. Virgola per virgola, tranne due parole (di qua «ciclo della natura», di là «esistenza») ma soprattutto il poeta di cui si parla. Nel primo caso Pascoli nel libro La realtà per il suo verso e altri studi su Pascoli prosatore di Tomasello, nel secondo Quasimodo nel lavoro di Amoroso nel libro collettivo Salvatore Quasimodo, la poesia nel mito e oltre a cura di Finzi. Cocciutamente deciso a smascherare il plagio, Fontanelli dice di avere per cinque mesi «letto tutto, confrontato tutto, scoperto tutto. O almeno quasi tutto». Messe insieme delle cartelle, mostra pagine e pagine a confronto. Saggio sul futurismo (Bisogno furioso di liberare le parole) di Tomasello: «Il chiuso di un laboratorio talora finisce per avere più brio della felicità plausibile e appagante dell’avventura in pieno sole». Saggio sulla narrativa italiana (Forse un assedio) di Amoroso: «Il chiuso di un laboratorio talora finisce per avere più brio della felicità plausibile e appagante dell’avventura in pieno sole». Ancora Tomasello: «Fra segmentazioni dialogiche, mimesi del parlato, spazi di pura narrazione, l’aggancio ai nodi del reale dispone frattanto i testi nella misura di una cronaca ricca e criticamente più centrata nel cardine dei fatti, nella mostra vitale del tempo». Amoroso: «Fra segmentazioni dialogiche, mimesi del parlato, spazi di pura narrazione, l’aggancio ai nodi del reale dispone frattanto le pagine sulla regola di una cronaca ricca e criticamente più centrata nel cardine dei fatti, nella mostra vitale del tempo». Ancora Tomasello in L’isola oscena: «L’inventario di questo universo appare un catalogo di sbigottimenti grazie alla posizione inconsueta delle tessere nel quadro, allo sbandato riflesso delle tinte, all’atmosfera di incantamento suggerita dalle angolature, dai coefficienti instabili dell’impianto, dal nervoso punto di vista». Amoroso in Raccontare l’assenza: «L’inventario di questo universo appare un catalogo di sbigottimenti grazie alla posizione inconsueta delle tessere nel quadro, allo sbandato riflesso delle tinte, all’atmosfera di incantamento suggerita dalle angolature, dai coefficienti instabili dell’impianto, dal nervoso punto di vista». E potremmo andare avanti...«Ho una produzione sterminata e, confesso, non mi ero proprio accorto del presunto “saccheggio”», disse dopo la denuncia Amoroso, «Ad aprirmi gli occhi è stato Fontanelli». Di più: «Non sono Proust, non pretendo che venissero riconosciuti la mia mano, il mio tratto. Questo mai. Non mi permetterei. Ma…». «Ho sempre agito con correttezza e professionalità», rispose Tomasello, minacciando sventagliate di querele. Fatto sta che, davanti allo scandalo, la «chiamata» dell’accusato come ordinario a Messina fu sospesa e il nuovo rettore Pietro Navarra girò i documenti al Ministero e alla procura di Milano, competente perché lì si era riunita la commissione. Mesi e mesi di attesa, dubbi, polemiche e infine, giorni fa, al rettore messinese è arrivata una lettera del direttore generale del Miur Daniele Livon. La frase che conta è questa: «Visionata la documentazione» la commissione (che lodava il vincitore anche per i «contributi originali») ritiene di «non dover modificare il giudizio di abilitazione già reso nei riguardi del prof. Tomasello». Proprio educativo, per insegnare agli studenti a non copiare…

I BAMBINI PRIGIONIERI DEGLI ADULTI INDOTTRINATORI IDIOTI.

"Discrimina le bimbe" La scuola corretta cancella pure il calcio. Una media toscana cancella la tradizionale partitella di fine anno. I prof: "Discrimina le ragazze e i meno bravi ed esalta solo i fighi", scrive Daniele Abbiati, Domenica 22/05/2016, su "Il Giornale. La situazione è Greve, ma non è seria. Tutto sommato, meglio parafrasare Ennio Flaiano, meglio prenderla alla leggera, questa vicenda in cui a essere discriminati sono i presunti discriminatori. È soltanto una storiella scolastica, ma temiamo possa fare scuola, con i tempi che corrono, perché oggi lo «scolasticamente corretto» non è più, come una volta, il secchione che sciorina voti tutti altissimi, bensì il degno pargolo del «politicamente corretto», quello con cui si baloccano, con sprezzo del ridicolo, gli adulti. Allora raccontiamolo come si deve anche nella forma, questo episodio esemplare. Alla scuola media di Greve in Chianti vigeva, fino all'anno scorso, la sommamente incivile usanza di festeggiare la fine dell'anno scolastico con una partita di calcio fra gli allievi. Pare addirittura che qualcuno fra quegli energumeni in erba osasse dribblare e persino fare dei tunnel ai compagni più sfortunati e meno abili. Per non parlare della sorte che toccava alle ragazzine più esili e carine, le quali non venivano mai schierate nelle formazioni titolari. E sorvolando sul fatto che l'incontro si chiudeva non con un educativo, salomonico pareggio, ma con da una parte i vincitori a esultare lanciando grida belluine e dall'altra gli sconfitti a dolersi per il risultato avverso. Uno spettacolo, capite bene, inverecondo, indegno di un istituto e di un'istituzione che dovrebbero essere volti a plasmare i maturi cittadini di domani. Ebbene, onde por fine all'indegna gazzarra che coinvolgeva, horribile dictu, amici e parenti stretti, non esclusi i sommamente colpevoli genitori, dei piccoli gladiatori, i professori hanno finalmente preso il coraggio a due mani e, con moto sinceramente democratico, messo al bando, tramite una grida, questa sì, lodevole lo scostumato costume. «Siamo i vostri docenti e siamo chiamati a trasmettervi la forza del pensiero critico, il coraggio delle scelte difficili, il valore dell'uguaglianza e di tutte le diversità a partire da quella di genere», tuona stentoreo l'editto. «Non possiamo e non vogliamo accettare - prosegue magistralmente - di veder relegate le nostre più brillanti ragazze nel ruolo di passive cheerleaders, non vogliamo che alla fine valgano ancora una volta e soltanto la prestanza fisica, l'abilità sportiva, l'egemonia culturale del calcio. Almeno non a scuola». Parole sante, giunte, anche se con grave ritardo, a riportare sulla retta via i caproni smarritisi nella selva dei cattivi propositi, correndo appresso a un pallone. Soprattutto perché, e qui la ramanzina assume opportunamente il tono di imprescindibile lezione di vita, «quelle che dovrebbero essere esaltate alla conclusione di un percorso di vita come la scuola media sono le menti eccelse fra voi, chi ha dimostrato rispetto e solidarietà per gli altri, che hanno lottato per l'impegno e la responsabilità: sono ragazzi e ragazze, fighi e no, sportivi e imbranati». Suvvia, a che valgono quelle «maglie costose», fra l'altro eticamente stonate a fronte di chi, come il bimbo afghano che ha commosso il mondo, si vede costretto a usare un simulacro di «maglietta» di plastica, per sentirsi in qualche modo simile al suo campione preferito? Che significano quelle «selezioni umilianti» per distinguere il terzino dall'attaccante, il funambolo dal brocco? E poi, ci permettiamo di aggiungere, che senso ha festeggiare la fine dell'anno scolastico? La fine dell'anno scolastico è un evento che riempie tutti di mestizia... Capito ragazzi? Non fidatevi mai dei palloni gonfiati.

Ultima follia a scuola. Entra nel programma l'ora di autoerotismo. La battaglia di una famiglia per dispensare il figlio. Nei testi elogi alle coppie gay e scherno alle mamme "casa e lavoro", scrive Giovanni Masini, Venerdì 20/03/2015, su "Il Giornale". Non è sempre facile essere genitore, per chi nutre convinzioni in contrasto con lo spirito del tempo. Soprattutto se la scuola pubblica veicola un messaggio incompatibile con le convinzioni etiche personali. È il caso dei genitori di un tredicenne piacentino, che hanno chiesto l'esonero del figlio dal percorso di «educazione alla sessualità e all'affettività» Viva l'amore promosso dalla regione Emilia-Romagna. E si sono visti negare l'esonero dalla scuola. Incontriamo Paolo e Amalia (i nomi sono di fantasia, per tutelare la privacy del ragazzo ancora minorenne) in un bar alla periferia di Piacenza, all'ora dell'uscita dagli uffici. «A ottobre ci è stato presentato un progetto di educazione sessuale - spiegano davanti a un caffè - Con l'esplicita premessa che sarebbe stato facoltativo». Il libretto distribuito alle famiglie contiene istruzioni molto esplicite, con tanto di illustrazioni, sull'uso dei contraccettivi maschili e femminili, sezioni dedicate alla masturbazione e questionari sulle trasformazioni «gradevoli o sgradevoli» della pubertà. E Viva l'amore non si limita a spiegare come evitare malattie veneree o gravidanze indesiderate: affronta anche i temi dell'identità e delle discriminazioni di genere. Ai ragazzi di terza media si chiede senza mezzi termini se condividano o meno il «modello di uomo e di donna» proposto in famiglia. L'obiettivo esplicito è quello di combattere gli «stereotipi di genere». I pensierini proposti ai giovani lettori suonano così: «Pensavo che per crescere bene servissero un padre e una madre. Invece ho amici con genitori separati, single o addirittura omosessuali! Quel che conta è volersi bene…». Oppure: «Mia madre è tutta casa e lavoro, non esce mai con le amiche. Da grande non vorrei essere così!». Amalia e Paolo non ci stanno, chiedono che il figlio sia esentato. Per la preside, però, «l'esonero non è previsto». Citando la Cassazione, scrive che «la scuola può legittimamente impartire un'istruzione non pienamente corrispondente alle convinzioni dei genitori». La famiglia, costretta ad accettare che il ragazzo partecipi, non chiede di cancellare il corso per tutti. Per chi non frequenta l'ora di religione c'è un insegnamento alternativo: perché questa disparità? Lo chiediamo alla preside della media «Italo Calvino». Dopo molte resistenze, ci riceve: il progetto, dice, è stato approvato secondo tutte le regole e si svolge «in un clima di serenità». Aggiunge però che «la scuola non può assecondare tutte le richieste dei genitori»: «Se un padre non crede all'evoluzionismo, non posso cambiare il programma di scienze». Eppure Amalia spiega che l'anno scorso era stata la stessa preside a raccontarle dell'esonero di alcune ragazze dall'ora di musica, incompatibile con la loro etica familiare. Il figlio di una famiglia agnostica può non frequentare il corso di religione, mentre l'esonero dal corso di «educazione alla sessualità» impossibile? Interpellata, la preside abbozza: «La questione è complicata», dice. Poi ammette che «esiste un vuoto» legislativo in merito agli esoneri dalle attività extracurriculari. Alla fine Andrea, con alcuni compagni, viene esentato dal corso: nelle ore dedicate a Viva l'amore si trasferisce in altre classi. Il dirigente scolastico provinciale, Luciano Rondanini, spiega che ci vuole flessibilità, «bisogna tener conto delle contrarietà delle famiglie». Per i genitori non è una vittoria in piena regola, ma è già qualcosa. Quelle lezioni Andrea non le seguirà. Resta però un interrogativo: se l'esonero era possibile, perché tentare di imporre «l'amore» del corso citando addirittura la Cassazione?

Docenti a scuola di teorie pro-gender. Ed è bufera. In una scuola di Roma corso per "educare alle differenze". Con il patrocinio del Comune. I genitori protestano, scrive Giovanni Masini, Lunedì 21/09/2015, su "Il Giornale". Nella fucina degli insegnanti pro-gender: a Roma la due giorni per «educare alle differenze». A fianco della cartina d'Italia, sul muro, alcune locandine colorate con diverse famiglie. Un bimbo, due bimbi, due mamme, due papà. Non è la scuola del futuro, a Roma è già realtà. Sabato e domenica alla scuola Cattaneo, in pieno Testaccio, è andata in scena la due giorni di «Educare alla differenze» - appuntamento irrinunciabile per chi vuole introdurre nelle scuole italiane «un altro genere di informazione»: decisamente gay-friendly e, come va di moda ripetere, «libero da pregiudizi». È la fucina degli insegnanti «pro-gender» (o pro-studi di genere che dir si voglia). Ad organizzare tutto sono tre associazioni vicinissime alla galassia Lgbt, con tanto di patrocinio del Comune di Roma. Docenti e genitori imparano come combattere il bullismo, ma anche come insegnare ai bimbi a liberarsi dagli «stereotipi di genere»: per la fascia d'età 0-6 anni, le insegnanti ricompongono in modo non convenzionale le fiabe ritagliate su fogli di carta: la principessa libera il principe, mentre la nonna va al ballo con il rospo. Biancaneve ingenua e bellissima - ça va sans dire - è un modello nefasto e superato. Altrove si utilizzano giochi da tavolo per riscrivere il vocabolario. Sulle carte del Memory, un maschio e una femmina costruiscono una casa: per distinguere le carte i bimbi sono costretti a dire «il muratore» e «la muratrice». C'è la teoria del genderbread, per cui l'identità sessuale non è mai definita ma sempre in divenire, mentre a proporre un «laboratorio sull'identità sessuale degli adolescenti» è il centro lgbt bolognese «Cassero», noto per aver organizzato una festa in cui uomini travestiti da Gesù mimavano atti sessuali con una grossa croce. Nell'aula a fianco, il tavolo «fuori programma» ospita «De-generiamo», un laboratorio di «quasi-danza» che vuole riflettere su «identità e stereotipi» esplorando «autoerotismo, post-pornografia, dominazione e sottomissione, bondage e burlesque». Il tutto nella cornice di un evento organizzato da associazioni che si propongono come interlocutrici del Miur al tavolo che dovrà discutere le linee guida per attuare la riforma della Buona scuola laddove (comma 16 legge 107/2015) parla di «educare alla parità tra i sessi, prevenire violenza di genere e discriminazione, informare e sensibilizzare studenti, docenti e genitori». Il ministro - pardon, ministra - Giannini ha annunciato querele contro chi insinui che la riforma contenga riferimenti al gender. Come regolarsi con queste associazioni: ammetterle o no al tavolo del Miur, farle entrare o no in classe? Le associazioni dei genitori già sono sul piede di guerra e promettono battaglia.

Il gender nelle scuole viene insegnato. Ecco le prove, scrive Matteo Borghi l'8-10-2015 su “La Nuova Bussola Quotidiana”. Quando l’hanno accusata di voler diffondere la teoria gender nelle scuole, il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini ha prima negato con forza, per poi parlare di «truffa culturale» e minacciare addirittura la denuncia. Eppure, nelle scuole italiane (che lo preveda o meno la "Buona scuola”, che è appena partita), l’insegnamento di gender c’è eccome. Anche se nulla è istituzionalizzato e controllato dal governo, sono state tante le scuole che hanno dato spazio alla teoria gender (che lo ricordiamo, sostiene che l’identità sessuale non sia altro che una libera costruzione dell’individuo) camuffandola magari sotto l’egida della lotta all’omofobia e alla discriminazioni, con cui ovviamente non c’entra nulla. Un dato di fatto che, due giorni fa, ha spinto il gruppo regionale della Lega Nord a presentare una mozione, redatta dai consiglieri Jari Colla e Massimiliano Romeo, contro l’insegnamento del gender nelle scuole. «Premesso che i trattati del diritto internazionale sanciscono in modo chiaro e inequivocabile il diritto di priorità da parte dei genitori del genere di istruzione ed educazione da impartire ai loro figli», si legge nella mozione e «ritenuto che negli ultimi anni è venuta ad affermarsi una pericolosa tendenza di molti istituti scolastici all’utilizzo di progetti di educazione sessuale […]» legata alla teoria di gender e che «nella suddetta teoria l’educazione all’affettività ha la tendenza a diventare sinonimo di educazione alla genitalità e alla masturbazione precoce, priva di riferimenti etico e morali, fin dall’età infantile». Non solo. «Nel materiale informativo favorevole alla teoria gender la famiglia composta da donna e uomo è vista come stereotipo da superare». L’obiettivo della mozione è far sì che la teoria gender non venga insegnata e «si agisca sulle autorità scolastiche preposte […] perché vengano ritirati dalle scuole i libri e il materiale informativo che promuove la teoria». «Quando si fanno mozioni del genere», ha commentato Romeo, «si viene subito accusati di essere omofobi o d’inventarsi qualcosa che non esiste. Invece il gender esiste, viene insegnato, e contrastarlo non vuol certo dire odiare o discriminare gli omosessuali”». I casi di insegnamento sono tanti. Fra i libri vietati dal sindaco di Venezia Luigi Brugnaro (clicca qui) ce n’è uno, Nei Panni di Zaff (M. Salvi, F. Cavallaro, Fatatrac), che racconta come «avviene spesso che il maschietto voglia vestirsi da bambina e giochi con le bambole sognando di fare la ballerina o che la bimba voglia vestirsi da maschio e sogni di fare il calciatore» e che è tuttora in circolazione in molte scuole materne (dai tre ai sei anni) lombarde. Un racconto che ricorda da vicino il Gioco del rispetto promosso nel marzo scorso in alcune scuole del Friuli Venezia Giulia in cui – come riportano le cronache - ai bambini veniva chiesto di indicare i reciproci organi genitali travestirsi con abiti del genere opposto. E non è l’unico caso di un'iniziativa simile. Nel giugno dell’anno scorso il Comune di Monza ha promosso il “Progetto Rainbow” per insegnare ai bambini delle elementari cosa sono l’omosessualità e la transessualità. Come? Con una serie di nove dvd fra cui spiccava il film Da Lucas a Luus, che sponsorizza la transessualità a bambini fra gli 8 e i 10 anni, parlando di una “bambina”, nata bambino (clicca qui). Il promotore del progetto, Alessandro Gerosa (Sel), ha spiegato il senso del progetto così: «Perché tutte/i le/gli alunne/i nell’età della crescita scolastica possano sviluppare un’identità di genere ed un orientamento sessuale consapevole». Una modalità di illustrare il genere con l’asterisco usata anche in una serie di volantini distribuiti in alcune scuole, che titolavano: “Libera tutti/e”. Già perché dire “tutti” avrebbe discriminato le donne, mentre “tutte e tutti” i transessuali e le persone con un’identità di genere “liquida” o non ben definita (per non scontentare nessuno Facebook ha invitato a scegliere fra 56 diversi generi sessuali). Meglio, quindi, creare un vero e proprio abominio linguistico per non scontentare e non offendere nessuno. Una vera e propria mania per il politically correct di cui tutto l’occidente è ormai affetto (clicca qui). Gli insegnamenti che abbiamo sopra descritto sono, del resto, ancora nulla rispetto alla famosa tabella dell’Oms che parla della necessità di fornire informazioni su: «gioia e piacere nel toccare il proprio corpo, masturbazione infantile precoce» (per bambini da 0 a 4 anni), «relazioni con persone dello stesso sesso» (4-6 anni), «le scelte riguardanti la genitorialità, la gravidanza, l’infertilità, l’adozione l’idea base della contraccezione (è possibile pianificare e decidere sulla propria famiglia), i diversi metodi contraccettivi, gioia e piacere nel toccare il proprio corpo (masturbazione/ auto-stimolazione), rapporti sessuali» (6-9 anni), «orientamento di genere comportamenti sessuali dei giovani (variabilità nei comportamenti sessuali), piacere, masturbazione, orgasmo; sintomi, rischi e conseguenze delle esperienze sessuali non protette» (9-12). E non è una “bufala”, come hanno gridato alcuni, ma è tutto scritto in un documento ufficiale dell’Oms, da pagina 40 a pagina 50. Ovviamente sul tema ognuno può avere e tenersi l’opinione che vuole. Negare però che in alcune scuole italiane ci sia l’insegnamento del gender vuol dire però negare la realtà. 

La Giannini denunci pure, ma la "buona" scuola apre davvero al gender. Il ministro annuncia azioni legali contro chi vede nella riforma un assist al gender. Ma la riforma favorisce programmi scolastici controversi e basati sull'ideologia di genere, scrive Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 16/09/2015, su "Il Giornale". "Chi ha parlato e continua a parlare di teoria 'gender' in relazione al progetto educativo della Governo di Renzi sulla scuola compie una truffa culturale. Ci tuteleremo con gli strumenti a nostra disposizione, anche per vie legali". Il ministro Stefania Giannini vuole denunciare chi vede nella legge varata dal governo un viatico per far arrivare nelle scuole le teorie di genere. Un attacco frontale nei confronti di chi legittimamente vuole evidenziare il rischio di una deriva "gender" della riforma della scuola. Il ministro Giannini oggi ha inviato una circolare del Capo Dipartimento "a tutti i dirigenti scolastici" per provare a spiegare che a nella "Buona scuola" non si parla di "gender". E se ci si ferma alle parole, in effetti la Giannini ha ragione. Di certo nessuno potrà trovare nella legge questa parola. Ma ciò che ha spaventato molti genitori e numerose associazioni è che tra le pieghe della norma si celi un assist a chi fa di tutto per far arrivare queste teorie agli studenti italiani. Un appiglio che associazioni Lgbt e simili possono usare per portare a lezione programmi che ricalcano in pieno le teorie di genere. Tutto ruota attorno al comma 16. Che testualmente recita: "ll piano triennale dell'offerta formativa assicura l'attuazione dei principi di pari opportunità promuovendo nelle scuole di ogni ordine e grado l'educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni, al fine di informare e di sensibilizzare gli studenti, i docenti e i genitori sulle tematiche indicate dall'articolo 5, comma 2, del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 ottobre 2013, n.119, nel rispetto dei limiti di spesa di cui all'articolo 5-bis, comma 1, primo periodo, del predetto decreto-legge n. 93 del 2013". La Buona Scuola, sottolinea la Giannini, "esplicita dei criteri di sensibilizzazione all'interno delle scuole all'educazione, alla parità tra i sessi, perchè questa è una società dove la condizione della donna sul piano sociale, culturale ed economico deve fare dei passi avanti e alla sensibilizzazione dei ragazzi nella prevenzione della violenza di genere". Ed è proprio qui che casca l'asino. Secondo molti osservatori della legge, infatti, proprio grazie alla formulazione "violenza di genere" si possono creare "storture applicative" che vanno al di là della sensibilizzazione contro la violenza e scadono nella somministrazione ai ragazzi della teoria gender. Anche la Camera dei Deputati, l'8 luglio, ha approvato un ordine del giorno (n. 9/2994-B/5) che riconosce "una serie di storture applicative, che sono andate ben al di là dell’istanza, da tutti condivisa, di prevenire la violenza di genere e le discriminazioni". Secondo il ministro, invece, "la sintesi di questo comma 16 incriminato ingiustamente è l'introduzione della cultura della non discriminazione di ogni tipo, razziale, etnico e religioso, è l'introduzione della cultura della tolleranza e dell'accoglienza". Temi che, conclude Giannini, "la scuola in un Paese avanzato e moderno ha sempre introdotto in varie forme e che noi rinnoviamo in questa legge dello Stato". Ma non solo. Dopo gli appelli del Cardinale Angelo Bagnasco, infatti, l'attenzione si è rivolta all'articolo 5, comma 2 della legge 93 del 2015. Al punto 5.2 è scritto che si intende "superare gli stereotipi che riguardano il ruolo sociale, la rappresentazione e il significato dell’essere donne e uomini, ragazze e ragazzi, bambine e bambini nel rispetto dell’identità di genere (...) sia attraverso la formazione del personale della scuola e dei docenti sia mediante l’inserimento di un approccio di genere nella pratica educativa e didattica". "Approccio di genere", cos'altro può essere se non l'ideologia che alcuni legittimamente combattono? Non si parla esplicitamente di "gender" nella "Buona Scuola". Ma portare in Tribunale chi lancia l'allarme che la legge si presti ad essere utilizzata per altri scopi è sciocco. Se non contro la libertà di opinione. Quelli contro cui la Giannini non esclude "azioni legali" chiedono solo il diritto di dire che il comma16 possa aprire le porte alle associazioni varie che si occupano di educazione sessuale e di lotta all'omofobia per inserire - come a volte accade - programmi controversi. Un esempio su tutti, il programma di educazione sessuale promosso dalla Regione Emilia Romagna "W l'Amore" che al suo interno contiene frasi rivolte ai ragazzi cui si insegna che "non c'è un modo giusto per essere maschi e femmine e non ci sono caratteristiche esclusivamente maschili e femminili". Ovvero che l'essere uomo o donna non dipende dal dato biologico, ma solo da quello culturale e emotivo.

Il fulcro della teoria del gender.

"Nella Buona Scuola la teoria gender c’è". La denuncia dell’associazione ProVita: "Il ministro non ci racconta la verità". "Che il Ministro ci denunci! Non possiamo tacere la verità! La teoria gender nella Buona Scuola c'è! La Giannini, negando che nella legge sulla Buona Scuola vi siano aperture alla teoria gender, è arrivata a minacciare azioni legali contro coloro che sostengono il contrario. La circolare diramata dal MIUR, checché ne dica il ministro, non ci rassicura per niente: in essa si continua ad usare l’espressione «genere» e non «sesso», quando la nostra Costituzione all’art. 3 parla proprio di «distinzione di sesso». Finora i progetti sul gender sono stati finanziati dagli Enti locali, dal MIUR e dall'UNAR. Con la legge «Buona Scuola» si invita specificamente ad educare alla «parità di genere». Ecco il comma 16 dell'art. 1 della legge 107, «Il piano triennale dell'offerta formativa assicura l'attuazione dei princìpi di pari opportunità promuovendo nelle scuole di ogni ordine e grado l'educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni, al fine di informare e di sensibilizzare gli studenti, i docenti e i genitori sulle tematiche indicate dall'articolo 5, comma 2, del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119, nel rispetto dei limiti di spesa di cui all'articolo 5-bis, comma 1, primo periodo, del predetto decreto-legge n. 93 del 2013». Per capire che il «genere» in questi testi è altra cosa rispetto al «sesso biologico» e che segue la logica della teoria gender bisogna riferirsi al contesto normativo e soprattutto:

-Alla Convenzione di Istanbul, attuata di fatto dalla legge 119, dove è scritto che con il termine «genere» ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini e fa riferimento ad orientamento sessuale, identità di genere e prospettiva di genere.

-Al Piano d'azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere (approvato a Maggio 2015), che richiama in particolare l'obbiettivo di superare gli stereotipi che riguardano il ruolo sociale, la rappresentazione e il significato dell'essere donne e uomini (…) nel rispetto dell'identità di genere, culturale, religiosa, dell'orientamento sessuale (…) mediante l'inserimento di un approccio di genere nella pratica educativa e didattica.

Del fatto che il termine «genere» in queste normative fosse problematico in sé, era consapevole persino il Governo italiano in sede di firma della Convenzione di Istanbul: l'Italia depositò presso il Consiglio d'Europa una nota verbale con la quale dichiarava che «applicherà la Convenzione nel rispetto dei princìpi e delle previsioni costituzionali». La dichiarazione era motivata dal fatto che la definizione di «genere» contenuta nella Convenzione (l'art.3, lettera c) era ritenuta «troppo ampia e incerta e presentava profili di criticità con l'impianto costituzionale italiano». Purtroppo la dichiarazione interpretativa era troppo vaga («nel rispetto dei principi e delle previsioni costituzionali») e non ha scongiurato il pericolo, avveratosi con l'attuazione della convenzione mediante la legge 119 del 2013 e con l'adozione del «piano d'azione straordinario» nel mese di maggio 2015, dell'adozione del termine «genere» invece di «sesso», e di una interpretazione secondo la prospettiva (teoria) gender. Non possiamo poi dimenticare che da quando è ministro dell'Istruzione, Stefania Giannini non ha fatto nulla per impedire che nelle scuole venissero proposti ai nostri bambini e ragazzi progetti fondati sulla teoria gender e/o sull'omosessualità, come abbiamo riportato nel dossier "Scuola, casi gender" sul nostro sito notizieprovita.it. Perciò i genitori devono vigilare sui programmi scolastici di questo anno accademico che potrebbero includere corsi ispirati alle teorie del Gender, consigliamo a tutti i genitori di prendere visione del "Vademecum per proteggere i tuoi figli" sempre visibile sul nostro sito". Antonio Brandi, ProVita Onlus.

Per non turbare i musulmani via i crocifissi e la festa di Natale. Concerto di Natale cancellato e crocifisso rimosso. Succede all’Istituto comprensivo Garofani di Rozzano (provincia di Milano), dove i vertici della scuola hanno imposto la linea laica, scrive Luisa De Montis, Venerdì 27/11/2015, su "Il Giornale". L'ennesimo scandalo in una scuola italiana. Concerto di Natale cancellato e crocifisso rimosso. Succede, come riporta Il Giorno, all’Istituto comprensivo Garofani di Rozzano (provincia di Milano), dove i vertici della scuola hanno imposto la linea laica. Un gruppo di genitori ha puntato il dito contro il dirigente scolastico reggente Marco Parma (già candidato sindaco per una lista civica e per il M5S a Rozzano) sulla cancellazione della Festa di Natale. Fino a oggi, ogni anno si teneva la "Festa musicale di Natale": canti e cori, non solo natalizi, frutto del lavoro dei bambini con i maestri dell’Associazione 11 Note. L’anno scorso i bimbi cantarono canzoni natalizie stile "Jingle Bells". Quest’anno un paio di genitori ha chiesto al preside di inserire anche canti più propriamente religiosi come "Tu scendi dalle stelle", "Adeste fideles" e "Stille Nacht". La risposta del dirigente scolastico è stata un secco "no" in nome della laicità della scuola pubblica. E il saggio musicale verrà svolto il 21 gennaio. A feste finite. E non si chiamerà più Festa di Natale, ma festa d'Inverno. Certo, le festicciole natalizie nelle aule del Garofani ci saranno, ma la decisione finale dei vertici scolastici, in accordo con l’Associazione 11 Note, è stata quella di far slittare il saggio musicale dopo Natale, il 21 gennaio. E l’appuntamento è stato ribattezzato: da "Festa di Natale" a "Festa d’Inverno". La motivazione del rinvio? "Il rispetto delle diversità". Insomma, la paura era che qualche genitore di religione musulmana potesse lamentarsi o essere in imbarazzo.

Presepi vietati e minacce di morte: le scuole italiane sottomesse all’Islam, scrive il 6 dicembre 2015 “Riscatto Nazionale”. Succede qualcosa, tra il 24 e il 26 dicembre, ma è meglio non parlarne. Per non turbare i bambini figli degli immigrati che non sono di religione cristiana, presidi e dirigenti scolastici cancellano il Natale con furia iconoclasta. Alberi banditi, crocifissi nascosti, presepi vietati. Canti e poesie, neanche a parlarne. Capitava anche in passato, per carità, ma, dopo gli attentati di Parigi, la tensione è tale che, per ogni Re Magio che finisce nel cassetto, scoppia un caso politico. A Golfo Aranci, la dirigente scolastica Raimonda Cocco ha deciso di proibire l’allestimento del presepe e l’insegnamento dei canti natalizi. I genitori si sono offesi e il sindaco Giuseppe Fasolino (Forza Italia) ha risposto mettendo a disposizione locali alternativi per il festeggiamento del Natale. Sempre rimanendo in Sardegna, ma a Sassari, i genitori della scuola San Donato (250 bambini di cui 122 non cattolici) avevano contestato la direttrice perché aveva chiuso le porte dell’istituto alla visita prenatalizia dell’arcivescovo. Per par condicio, avrebbe dovuto ospitare anche l’imam o il messia del dio di pasta e polpette della chiesa pastafariana. Allora non se n’è fatto più nulla. Non solo Rozzano – Ad Agrigento c’è stato un caso simile a quello di Rozzano: quest’anno nell’istituto comprensivo Esseneto, di rosso c’è soltanto il numero 25 sul calendario. Niente albero, niente addobbi, niente presepe, niente canti e zero recita. Una tristezza, insomma. Celebrare la festività cristiana offende i bambini musulmani, si sono sentite dire le mamme dai dirigenti scolastici. «La preside», racconta il coordinatore di Noi con Salvini, Giuseppe Di Rosa, all’AdnKronos, «ha pure imposto di togliere i crocifissi e alcune maestre entrano in aula, prendono il crocifisso dal proprio armadietto, lo appendono e poi lo tolgono a fine lezione». Casi di fede a intermittenza anche in Versilia. A Viareggio l’insegnante ha chiesto al bambino di levarsi il rosario che aveva al collo e di riporlo in cartella. Quel simbolo religioso poteva infastidire i compagni che pregano Allah. I genitori del bimbo sono rimasti sconvolti, hanno denunciato il caso e meditano di ritirare il figlio dalla scuola. Hanno già chiesto il nullaosta per il trasferimento. L’insegnante, però, contesta la versione data dalla famiglia, come spiega Il Tirreno. Al bambino è stato solo chiesto se conoscesse il significato di quel simbolo che portava al collo. Tutto qui. Nessuno l’ha obbligato a sfilarlo e nasconderlo. Sempre in Toscana, il sindaco di Castiglion Fiorentino Mario Agnelli ha disposto il collocamento obbligatorio del crocifisso in tutte le scuole comunali, appellandosi a una sentenza del Consiglio di Stato: «Il crocifisso può svolgere una funzione simbolica altamente educativa, al di là della sua connotazione prettamente religiosa». Il primo cittadino, inoltre, ricorda che «il calendario scolastico è modellato in base alle festività religiose cristiane». Per cui, insegnanti che professano il «relativismo culturale» e bambini non cattolici il 25 possono pure presentarsi a scuola e fare lezione. Chi dissente se la vede brutta. È successo al sindaco di Romano, Rossella Olivo. Aveva protestato perché un istituto comprensivo della sua città, nel vicentino, aveva organizzato un concerto con musica “esotica”. Metà delle canzoni erano in arabo. Neanche un “Tu scenti dalle stelle”. Risultato: Olivo è stata minacciata di morte, come scrive Il Giornale di Vicenza. Eppure c’è un posto a Milano dove gli scolari islamici sono affascinati da tutto l’apparato natalizio. Vogliono scrivere il biglietto d’auguri a papà e mamma, guardano affascinati il presepe e l’albero. È l’Ics Morosini-Manara. Anche se, ammette la maestra, le poesie su Gesù bambino che andavano a memoria vent’anni fa, non si portano più. Relativismo – A Torpignattara, quartiere romano ad alta densità di stranieri, gli scolari italiani sono quasi in minoranza. Per cui all’istituto Pisacane fanno così: non festeggiano il Natale, celebrano il giorno dell’anti-razzismo. Ai canti tradizionali si sostituiscono i balli indù. A Ladispoli, sul litorale di Roma, c’è una fusione. Il crocifisso è «tollerato», ma gli scolari delle elementari, pure gli italiani, leggono il Corano in classe. Che male c’è?, domanda il preside Riccardo Agresti, in passato malmenato da un genitore che lo accusava di privilegiare i rom a discapito degli italiani.

Michele Barcaiuolo, capogruppo Fratelli d'Italia- Alleanza Nazionale che intende così denunciare pubblicamente qualcosa che non condivide (Gazzetta di Modena del 22 aprile 2014). «In questi giorni sono stato contattato da molti genitori che scandalizzati, mi hanno segnalato l'atteggiamento che ormai in molte scuole modenesi gli insegnanti hanno assunto nei confronti delle svariate festività civili o religiose. - spiega - E' ormai noto a molti che sono moltissime le scuole modenesi, che per non urtare "altre sensibilità" scelgono, in occasione di festività come il S.Natale e la S.Pasqua di non insegnare ai bambini nessun canto, nessuna poesia che abbia qualsiasi riferimento alla matrice religiosa delle festività. Trovo questo atteggiamento e queste scelte incomprensibili, soprattutto in Italia dove perfino un ultrà laico come Benedetto Croce sosteneva " non possiamo non dirci cristiani per l'enorme influenza che la cultura, l'arte e l'architettura cristiana hanno in una Nazione come l'Italia". Ma se possibile, in questi giorni si sta facendo di peggio: in diverse scuole elementari di Modena ci sono insegnati che stanno insegnando ai bambini a cantare "Bella Ciao" come canzone prodromica a giustificare tutto ciò che è stato fatto dai partigiani. Non sono certo bambini di 7, 8 o 9 anni a dover approfondire le pagine buie e le ombre della resistenza (cit. Giorgio Napolitano); ma certo indottrinare dei bambini con la vulgata storica voluta da chi in questa città da 70 anni continua a fare il bello e il cattivo tempo non è il modo migliore per consegnare il domani alle nuove generazioni, sembra invece che a Modena ci siano aspetti educativi che più che a guardare alla formazione dei bambini guardino alla Corea del Nord». Voi che ne pensate? “Vergognoso insegnare ‘Bella Ciao’ alle scuole medie”.

La denuncia di Mauro Minniti, rappresentante del Movimento per An a Merano, scrive “Il Giornale D’Italia” il 28 novembre 2013. Alcuni docenti costringono dei bambini a cantare le note più care ai partigiani italiani della seconda guerra mondiale. Inculcare una visione politica a tutti i costi. Costringere dei bambini a cantare le note più care ai partigiani italiani della seconda guerra mondiale. Succede a Merano, dove a scagliarsi contro la decisione di far intonare ‘Bella Ciao’ tra i banchi è Mauro Minniti, fra i promotori del Movimento per Alleanza Nazionale. “Trovo una partigianeria eccessiva e gratuita insegnare nelle scuole a Merano ‘Bella ciao’ – afferma Minniti – non si può inculcare ai ragazzi delle scuole medie una canzone con un forte significa politico”. Le voci che la canzone in questione viene insegnata presso le scuole “Luigi Negrelli” sono circolate in questi giorni e “se confermate – aggiunge Minniti – non si può non considerare il fatto una inopportunità didattica ma anche un modo discutibile di sfruttare l'Istituzione scolastica per fini partitici ed ideologici, vista la caratterizzazione politica che la canzone stessa ha per quanto le strofe originali fossero rivolte ad altre realtà, quale quella delle mondine che andavano al fiume a lavare i panni. Allo stesso modo - conclude l’esponente politico - si potrebbe insegnare anche ‘Giovinezza’, considerato il significato della canzone, ovvero un inno goliardico degli studenti universitari, canzone certamente molto più affine peraltro al periodo studentesco vissuto da un qualsiasi giovane”. Purtroppo quello di Merano non è un caso isolato: sono diversi infatti i professori che costringono gli alunni a intonare l’inno partigiano, non curanti di quelli che possono essere gli ideali politici degli stessi ragazzi e delle famiglie. La scuola dovrebbe insegnare altro, peccato che, con una classe dirigente che si preoccupa ancora oggi di ‘formare’ antifascisti, è difficile. 

Il capogruppo di Forza Italia di Quarrata Ennio Canigiani ci scrive (La voce di Pistoia del 22 aprile 2016): "Si resta sbalorditi difronte alla notizia diffusa ieri dalla stampa secondo cui un coro di 50 bambini della scuola elementare Casa degli Angeli Custodi di Agliana, canterà l’inno partigiano 'Bella Ciao' durante le celebrazioni del 25 aprile, in programma all’auditorium di Pistoia. Niente in contrario a cantare una canzone che evoca le gesta di eroici partigiani se questa viene intonata da un gruppo di nostalgici combattenti, ma far cantare una canzone che certamente è un simbolo politico di parte a dei bambini per di più di una scuola che si rifà alla dottrina cristiana, è veramente incredibile. La guerra di liberazione ci riporta ormai a un’epoca triste che ha visto lo stesso popolo italiano diviso e lacerato al suo interno, una pagina violenta e triste della nostra storia. Oggi, a distanza di 70 anni, c’è bisogno di un ricordo e di valori condivisi, non è accettabile che vi sia chi ancora profonde ideologie a mani piene, usando dei piccoli innocenti e riaprendo vecchie ferite. Un ultimo pensiero va alla scuola elementare degli Angeli Custodi di Agliana: possibile che una istituzione cattolica come essa è, non abbia trovato una canzone diversa per celebrare questo avvenimento? Tra le centinaia di canzoni di ispirazione cristiana, non ce n'era una che inneggiasse alla fratellanza e all’amore?".

Bella ciao, breve storia della canzone di tutti noi, scrive Donatella Coccoli il 25 aprile 2016 su “Left”. Cantata in Francia ai funerali per le vittime di Charlie Hebdo come per la vittoria di Tsipras in Grecia, ma anche in Cina, in Ucraina, Bella ciao è un canto universale. «Assorbe tutte le libertà negate e per questo non ha confini”, racconta Carlo Pestelli, cantautore torinese con studi linguistici alle spalle e una passione per la cultura popolare. Ha scorrazzato per mesi tra Emilia Romagna e Toscana, ha conosciuto vecchie contadine dai nomi che dicono tutto – Comunarda, Antizarina -, ha sentito versioni varie della canzone e ascoltato storie e testimonianze della Resistenza. E poi ha cercato in Francia e in tanti altri Paesi. Alla fine ha scritto il libro Bella ciao, la canzone della libertà (add editore), pubblicato da pochi giorni. Non un saggio paludato ma, dice Pestelli, “la sociologia, la gestione delle tante traduzioni, nelle lingue principali, ma anche in quelle etnominoritarie dal dialetto cabilo delle popolazioni berbere al sinti torinese».

Cosa ha scoperto?

«Ho scoperto che interessa tutti. Bella ciao non è una canzone datata nel tempo, non è relegabile a qualcosa di ormai passato, come la televisione in bianco e nero, o le mondine o anche l’esperienza dei partigiani nella Resistenza. E’ una canzone – passami il termine – “rifunzionalizzabile”. E’ come se avesse lasciato i contorni storici alle spalle venendo continuamente “rifunzionalizzata”: dai bambini, dagli studenti, dalle femministe, fino ai lavoratori in sciopero alla fine degli anni 60 che avevano voglia di nuove parole d’ordine e hanno riciclato la melodia di Bella ciao. Poi è stata rifunzionalizzata negli anni 90 dai Modena City Ramblers, e fu clamoroso».

Qual è l’attualità di questa canzone?

«Quando vado a presentare il libro imparo sempre qualcosa. C’è sempre qualcuno che si alza e racconta. L’altro giorno una signora nata nel 1933, mi ha detto che nel 1944 abitava ad Alba, quando là c’era quella libera repubblica di partigiani immortalata da Beppe Fenoglio. Ecco, lei racconta di una canzone per un partigiano morto, una specie di ballata epica, che finiva con queste parole: “morto per la libertà”. La canzone, quasi silenziosamente è andata per gemmazione a costituirsi tra il 1943 e il 1944 in Emilia, in Piemonte, ma anche in Veneto e qualcuno ritiene anche in Abruzzo, visti i partigiani della brigata Maiella che liberarono Bologna insieme agli alleati. La guerra finisce e tutti si misero a cantarla. Storici come Cesare Bermani, Roberto Leydi, Franco Castelli, Franco Coggiola, hanno indagato per decenni su Bella ciao, anche alla ricerca di un autore. Però si sono arresi, perché Bella ciao è la “carta assorbente” di diverse versioni di canto popolare che poi sono confluite in questa canzone».

Quali sono le sue caratteristiche?

«Ha una forte ritmicità tanto che colpisce anche i bambini piccoli, poi ha delle parole fondamentali della nostra cultura: “bella” che è l’aggettivo petrarchesco per antonomasia e “ciao”. E inoltre riesce a tracciare una storia ideale di partecipazione popolare a una causa, quella della libertà, la più amata da tutti in un modo, per così dire, circolare. Inizia come in una fiaba, “stamattina mi son svegliato”, che già ti pone all’ascolto con una certa facilità. E poi, è vero, nel finale c’è uno che muore, ma muore per la libertà, non muore per la rossa bandiera o per il sol dell’avvenire, anche in questo riesce a slegarsi dall’utopia resistenziale».

Quindi è un patrimonio comune?

«Sì, è stata la canzone un po’ di tutti. Lo è stata dell’antifascismo, che negli anni 50 era un concetto che sonnecchiava, e che poi è stato risvegliato negli anni 60 ma da una generazione diversa. Ma non dimentichiamo che negli anni 70 Benigno Zaccagnini concludeva le assisi dei lavori della Dc con Bella ciao».

La canzone ha avuto molta fortuna all’estero, quante traduzioni esistono?

«Una quarantina, ma se ne producono continuamente. Per esempio una poetessa bretone ne ha scritta una versione di recente. Io distinguo tra le traduzioni nelle lingue principali: tedesco, francese, inglese, spagnolo e quelle delle lingue minoritarie, come il galiziano, il catalano e il ladino romanzo. C’è addirittura una versione in latino. Quando si tratta delle lingue principali vi possono essere più traduzioni. Facciamo l’esempio del tedesco: c’è quella formale ma c’è anche la reinterpretazione, come è accaduto negli anni 70 con Dieter Dehm, diventato poi un parlamentare, il quale ha ritenuto che i tedeschi non si meritassero Bella ciao perché non hanno fatto nulla per sconfiggere il nazismo da dentro, non hanno avuto un’epopea della resistenza paragonabile a quella italiana o yugoslava. E quindi lui trasforma il concetto di Bella ciao, lasciando inalterata la musica, nella storia di una lei e di un lui, entrambi guerriglieri: lei deve allontanarsi da lui perché deve andare a combattere e il finale è “mai più fascismo mai più guerra”».

In Grecia l’hanno cantata anche per la vittoria di Tispras.

«Sì e non solo. In Turchia la cantano in chiave anti Erdogan, nel Sud est asiatico ci sono i russi putiniani che stanno nel Sud est ucraino che la cantano in chiave anti ucraino. Allo stesso tempo i nazionalisti ucraini la cantano in chiave anti russa. E’ buona per tutte le cause. Tra le minoranze berbere viene cantata in chiave antialgerina o antitunisina».

Bella ciao è quindi una creazione collettiva?

«Un autore non c’è. Qualcuno come Ivan Della Mea – ma non è proprio lui la fonte diretta – sosteneva che l’autore forse era un medico ligure che viveva a Montefiorino nel Modenese, ma di fatto la canzone comincia a diffondersi a Bologna, a Montefiorino. Intanto nel 1944 a Torino una donna racconta che sentiva cantare una canzone sull’aria di Bella ciao con parole leggermente diverse nelle Carceri nuove. C’è poi chi nell’immediato dopoguerra racconta che con i festival della gioventù, di Berlino di Nizza, Praga, nel 1946 la cantavano tutti. C’erano delegazioni di giovani comunisti, tra cui anche Enrico Berlinguer che la insegnavano agli altri compagni. E la cantavano davvero tutti. Ad un certo punto c’era chi diceva che l’autore fosse Enzo Biagi che è stato partigiano e che era proprio della zona dove sarebbe nata. Anch’io dopo un po’ mi sono arreso. Invece ho scoperto che il Paese che più di tutti ha contribuito alla diffusione della canzone è stato la Francia grazie a un cantante di origine italiana, Yves Montand».

E per quanto riguarda la musica, ci sono influenze e tradizioni popolari?

«Anche in questo caso si potrebbe dire che è una bella insalata russa (ride). Principalmente si ritrova qualcosa in “Bevanda sonnifera”, un canto epico lirico diffuso in pianura padana, ma anche in alcune villotte diffuse in Trentino che contenevano quell’iterazione di “ciao ciao” scandito con le mani che serviva a dare il ritmo al gioco dei bambini. Per quanto riguarda il testo, ci sono dei progenitori. Un canto in particolare intitolato “Fior di tomba”, che diceva “mi son svegliato e ho trovato il mio amor”, risale al XIX secolo, molto noto in Piemonte e in Veneto. Il finale è drammatico perché è l’amore non corrisposto. Bella ciao insomma assorbe tutte quelle libertà negate che fanno parte del canto popolare: il condannato, l’amore non ripagato, la famiglia come prigione… Il fiore lasciato sulla tomba è il simbolo del ricordo. Un po’ come l’albero della libertà. Dove c’è una minoranza che rivendica dei diritti si può essere sicuri che c’è anche Bella ciao».

I bambini prigionieri in casa. I nostri figli passano soltanto due ore al giorno all'aria aperta. Perché fare sport costa. E si paga pure per tirare due calci a un pallone, scrive Antonio Ruzzo, Lunedì 01/02/2016, su "Il Giornale". C'erano una volta i bimbi che giocavano in cortile senza avere un telefonino in tasca e che tornavano a casa quando era buio. Oggi non ci sono più, o molto meno. È cambiato il mondo ma soprattutto sono cambiate le città. Sono prigionieri in casa: restano solo due ore all'aria aperta mentre cresce il tempo passato in compagnia solo del computer. Un po' si sapeva. La tecnologia unisce il mondo ma rende virtuali molte relazioni che prima erano incontri, contatti, occasioni di gioco. E poi ci sono le nuove città, moderne ma ostili nei confronti dei bambini che spesso crescono in ambienti degradati, con strutture quasi mai pensate per favorire le opportunità di gioco e di movimento. Ma non è solo questo. Piccoli e adolescenti hanno minori possibilità di giocare e fare sport non solo per un oggettivo problema di sicurezza ma anche perché, soprattutto negli ultimi anni, le difficoltà economiche delle famiglie sono aumentate. Una volta per giocare a calcio, a basket per correre era sufficiente andare in un campetto o all'oratorio, portarsi un pallone e fare le porte con le cartelle di scuola. Oggi è tutto organizzato. Ci si deve rivolgere a scuole calcio, a società, ci sono schiere di allenatori, preparatori, psicologi, ci sono certificati medici obbligatori da compilare, quote e rette da pagare e via così. Fare attività sportiva costa e, quando bisogna far tornare i conti a fine mese, corsi e stage sono le prime voci che vengono tagliate. Bimbi in gabbia quindi? Sicuramente è più facile ed economico tenerli in casa. Per rendersene conto basta dare un'occhiata agli ultimi dati raccolti dalla ricerca «Lo stile di vita dei bambini e dei ragazzi», realizzata da Ipsos per Save the Children e Gruppo Mondelez in Italia nelle aree periferiche di dieci città italiane (Ancona, Aprilia, Bari, Catania, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Sassari e Torino). «La situazione è critica - spiega Raffaella Milano, direttore programmi Italia-Europa di Save the Children Italia. Cattive abitudini, difficoltà economiche, famiglie che non hanno più la rete di protezione di una volta con nonni, zii e parenti a dare una mano, fanno sì che spesso i ragazzi restino soli in casa. E ciò mette in pericolo la loro socialità ma anche la loro salute perché si muovono poco, passano molte delle loro ore connessi e mangiano male». Quasi un bambino su cinque (17%) in Italia non fa sport nel tempo libero e per il 27% di loro è una scelta obbligata, dettata dalle scarse possibilità economiche delle famiglie. Circa un minore su dieci, invece, non pratica attività motorie neppure a scuola (11%), per mancanza di spazi attrezzati o per l'assenza di attività nel programma scolastico. I ragazzi trascorrono dentro le quattro mura molto del loro tempo libero (62%), anche perché non ci sono spazi all'aperto dove incontrarsi o, anche quando ci sono, sono sporchi e poco sicuri (66%). Solo il 44% dei ragazzi dichiara di trascorrere con i genitori più di un'ora durante le giornate lavorative, situazione che migliora nel weekend dove però quasi un bambino su quattro (23%) passa comunque meno di un'ora al giorno in attività coi propri genitori. Quando i ragazzi sono a casa, in media trascorrono 55 minuti al giorno su internet, 47 minuti giocando con i videogame; dal lunedì al venerdì passano in media 71 minuti al giorno davanti alla tv, tempo che si allunga a 84 minuti nei fine settimana. «Le difficoltà economiche delle famiglie e la mancanza di spazi pubblici adeguati obbligano molti bambini e ragazzi a rimanere in casa per molte ore. Per questo motivo rischiano di diventare sempre più sedentari e disabituati a confrontarsi coi loro coetanei - dice ancora Raffaella Milano -. Ci sono bambini e ragazzi che, anche solo con un parco giochi, degli alberi e delle panchine, potrebbero cambiare le loro abitudini». Certo, le nuove tecnologie, oltreché essere presente e futuro della vita dei ragazzi, sono una risorsa da cui non si può prescindere. «È chiaro che non vanno demonizzate - spiega la Milano -; se non diventano il sostituto della realtà sono la giusta via, in caso contrario ci si deve cominciare a preoccupare». Il rischio è quello di una generazione sempre più connessa ma in realtà anche sempre più disconnessa, con quattro milioni di minori in condizioni di deprivazione ricreativa e culturale. L'identikit lo tracciano gli ultimi dati Istat che dicono ad esempio che i ragazzi leggono un po' di più degli adulti ma pur sempre pochino: nel 2014 tra i 6 e i 17 anni poco più di uno su due aveva aperto un libro nei dodici mesi precedenti l'intervista (il 51,6%). Inoltre, pur vivendo nella nazione che vanta un patrimonio artistico, archeologico e naturale tra i più vasti e importanti del mondo, poco meno di un minore su due ha visitato una mostra o un museo (44,8%) e appena uno su tre un'area archeologica. Ma occasioni di movimento non si esauriscono però nella pratica sportiva e la sedentarietà dei ragazzi si conferma un tratto distintivo: un intervistato su quattro dichiara infatti di camminare non più di 15 minuti al giorno, dato che aumenta a uno su tre nel Centro Italia; solo il 4% afferma di percorrere a piedi più di un'ora al giorno. Due su cinque vanno a scuola accompagnati in macchina da un familiare e gli altri si muovono utilizzando mezzi pubblici (17%), a piedi (28%) o con la bicicletta (15%). A peggiorare la situazione si aggiungono cattive abitudini alimentari. Anche in questo caso la situazione non è delle migliori. «Il problema più grave e che ormai molto spesso bimbi e genitori non mangiano quasi più insieme - spiega Elena Casiraghi, specialista di nutrizione e integrazione sportiva dell'équipe Enervit -. E ciò porta i bimbi ad autoregolamentarsi a tavola e a mangiare male». Oggi il problema del sovrappeso e dell'obesità infantile riguarderebbe oltre il 30% dei bambini e il fenomeno è ancora più grave tra i bambini in età di scuola primaria. «La cosa più preoccupante - continua la dottoressa Casiraghi - è che molti ragazzi non fanno colazione, che è invece il pasto più importante della giornata. È provato scientificamente che i ragazzi che consumano regolarmente la colazione migliorano il loro rendimento scolastico e hanno durante la giornata un migliore controllo della sazietà». A saltare la colazione in media sono il 22 per cento dei bambini, in pratica più di uno su 5, e l'abitudine peggiora col crescere dell'età (29% tra i 14 e i 17 anni, 23% tra gli 11 e i 13 anni, 15% fra i 6 e i 10 anni). Così, nonostante siamo uno dei Paesi che possono vantare il maggior numero di trasmissioni televisive sulla cucina, abbiamo una cultura alimentare poco più che sufficiente e le regole che i ragazzi seguono a tavola spesso sono improvvisate e fai-da-te.«Il rischio di mangiare male quando ci si autoregolamenta è alto - spiega ancora Elena Casiraghi -. Molto spesso i giovani che fanno da sé mangiano solo ciò che piace loro o ciò che dà loro sazietà come i carboidrati. Invece è fondamentale per chi ha esigenze di crescita che in ogni pasto ci sia un apporto proteico. Buona regola quella di invertire ad esempio le portate delle pietanze cominciando con verdure e proteine e servire dopo la pasta. Deve fra l'altro essere riconsiderato anche l'apporto del cioccolato fondente, che è ricco di polifenoli che aumentano il flusso sanguigno al cervello. Una buona idea è di offrirlo ai ragazzi all'ora della merenda». Come una volta quando gli snack non esistevano e il cioccolato nel panino la mamma ce lo metteva in cartella.

Pedofili impuniti, quei bambini senza giustizia per un vuoto legislativo. A causa di un passaggio sfuggito al nostro legislatore, se un ragazzino tra i 10 e i 14 anni subisce un abuso il responsabile non può essere perseguito. Così l’ha fatta franca l’americano che adescava gli adolescenti vicino alla stazione Termini, come raccontato dalla nostra inchiesta. Gli appelli per porre rimedio all’errore, scrive Floriana Bulfon il 20 maggio 2016 su "L'Espresso". Lui, “l’inglese”, come lo chiamavano i bambini che comprava, percorreva da giorni poche strade in cerca di minorenni stranieri. Avanti e indietro, instancabile e insaziabile, sentendosi libero di agire. Una sera d’inverno è salito al quinto piano della casa vacanze nel cuore di Roma, a due passi dalla stazione Termini. Dietro di lui un ragazzino con le scarpe rotte e una felpa di due taglie più grandi. Quella sera era solo una delle tante della sua vacanza dell’orrore e invece - come ha raccontato “l’Espresso” nell’inchiesta “Noi, i ragazzi dello zoo di Roma” - grazie alla segnalazione di Abdul, sedicenne egiziano costretto a vivere nei cunicoli sottoterra e a prostituirsi per mangiare, gli agenti del commissariato Viminale sono entrati nell’appartamento e hanno messo fine agli abusi. «Sono americano, tra pochi giorni ritorno nel mio Paese», s’è affrettato a dire. E ha improvvisato la sua difesa: «Qual è il problema? Era d’accordo. Ha diciott’anni». Il ragazzino, 13 anni appena, s’è fatto coraggio e, con il cappellino da baseball calato sugli occhi, ha rivelato l’indicibile. Le telecamere, piazzate dentro la casa vacanze, hanno documentato il resto: i soldi buttati sul letto di una camera spoglia, l’eccitazione provocata guardando filmini hard da un tablet, la violenza consumata. Clic. Le manette strette ai polsi. «Sono ancora un bambino, ho paura». Abdul è arrivato dall'Egitto su un barcone, da solo. Vive in un metro quadrato fatto di un cartone, una coperta marrone e due sacchetti di plastica blu. Come lui Fathi, Ibrahim e gli altri. Venti, trenta ragazzini che dormono per strada, rubano, si prostituiscono accanto alla stazione Termini di Roma. Invisibili nel cuore della Capitale. Grazie al racconto di Abdul, la Polizia di Stato ha potuto identificare l'"inglese", un uomo che offriva soldi ai minori stranieri non accompagnati in cambio di prestazioni sessuali. «Perché faccio così?», si chiede Abdul. «Perché ho fame. Che devo fare? Devo morire?». Lui, l’ingegnere americano della Boeing in pensione, non ha parlato più, s’è avvalso della facoltà di non rispondere ed è stato portato in carcere. La fine dell’incubo. Ma è stata solo un’illusione. L’orco di Termini non ha commesso alcun reato. Non è successo nulla di penalmente rilevante, tanto che è tornato libero, senza nemmeno la necessità di un processo e della difesa di un legale. Libero di muoversi indisturbato. Il motivo? Un vuoto normativo. Per un passaggio sfuggito al nostro legislatore potrà continuare ad abusare di altri bambini e non sarà possibile punirlo. «Purtroppo nonostante la flagranza, la testimonianza del bambino e i filmati ripresi dalle telecamere, il reato non è perseguibile perché manca la querela di parte», spiega Maria Monteleone, procuratore aggiunto di Roma. Un tragico paradosso: «Se il minore ha meno di dieci anni la legge non richiede la querela essendo il reato punito di ufficio. Se il minore ha più di quattordici anni il codice qualifica il reato come prostituzione minorile e, anche in questo caso, si procede d’ufficio, ma nella fascia d’età dai dieci ai quattordici anni, purtroppo, non possiamo procedere in mancanza di querela di parte». E così nel caso del tredicenne non basta la sua testimonianza che racconta il rapporto sessuale consumato con l’adulto, a nulla servono persino le immagini delle telecamere. I magistrati non possono procedere. «Peraltro la stessa legge non consente al minore di sporgere la querela ed allora la perseguibilità dell’autore degli atti sessuali è rimessa alla decisione degli adulti che hanno la responsabilità genitoriale, spesso neppure identificati tempestivamente», sottolinea la Monteleone. Insomma il minorenne non può direttamente sporgere la querela ma nemmeno veder protetta la sua infanzia. Serve che lo faccia un genitore che però non sempre, per paura o addirittura per interesse, denuncia e allora i giudici non possono procedere. Se poi, come nel caso dei ragazzini stranieri non accompagnati, arrivati in Italia da soli dopo essere scampati a guerre e fame, il genitore non c’è «occorre un curatore speciale che deve essere nominato dal giudice su richiesta del pubblico ministero con una procedura tutt’altro che di immediata attuazione», spiega la Monteleone, «i tempi non consentono l’arresto in flagranza dell’autore del delitto di prostituzione». Tempi biblici che non permettono la tutela dei ragazzini tra i dieci e i quattordici anni e intanto «il fenomeno dei reati che vedono come vittime privilegiate i bambini ha subito un’impennata. È un segno del degrado», nota il procuratore aggiunto di Roma che ha seguito anche l’inchiesta dell’agente immobiliare e pierre romano, arrestato lo scorso febbraio. Claudio Nucci, 56 anni e un profilo Facebook dove esibire selfie fra vip e la teca di Padre Pio, ha adescato e ricattato i ragazzini della borghesia di Roma Nord in cambio di una felpa alla moda, un biglietto per un evento sportivo e la promessa di un invito ad una festa. Un degrado che va ben oltre la ricchezza e che porta a comprare con facilità non solo i minori che vivono per strada e hanno fame. Nel caso di Nucci, da poco condannato a quindici anni e 30 mila euro di multa, le denunce dei genitori sono arrivate, ma non servivano perché le vittime avevano più di quattordici anni. All’ingegnere americano invece la legge italiana ha concesso di farla franca. «Negli anni c’è stato un susseguirsi di disposizioni normative e, paradossalmente, è meno tutelato il minorenne tra i dieci ed i quattordici anni rispetto a quello che ha superato questa età per il quale si può procedere di ufficio. È evidente che si tratta di una “svista” del legislatore alla quale è auspicabile che si ponga rimedio in tempi brevi», prosegue amareggiata la Monteleone. Una “svista” dai risvolti tragici davanti alla quale Paolo Rozera, direttore generale di Unicef Italia che ha appena avviato, grazie all’intervento di Franco Gabrielli, allora prefetto di Roma oggi nuovo capo della Polizia, un tavolo congiunto per una reale tutela dei minori stranieri non accompagnati, esprime «stupore e sgomento. Non ci fermeremo finché non verrà fatta chiarezza. Si individui il problema e si realizzino le modifiche perché non succeda mai più. Qualcosa non funziona nel sistema italiano. Il nostro impegno comune deve essere rivolto a fare in modo che tolleranza zero non sia solo uno slogan, e che chi viola dei minorenni non possa più rimanere impunito». Un reato quello della pedofilia che presenta un alto tasso di recidiva ma di difficile individuazione. Le forze dell’ordine non possono infatti fermare un adulto solo perché si accompagna con un bambino e nemmeno se lo vedono entrare in una casa. In questo caso non è servita neppure la flagranza. A nulla vale l’interesse superiore della protezione del bambino. Il reato non è perseguibile. E l’ingegnere di Chicago potrà tornare a muoversi attorno alla stazione di Roma. Non era la sua prima volta. Lo scorso ottobre aveva già alloggiato sempre nella stessa zona dedicandosi a tempo pieno al suo unico, ossessivo passatempo. Una meta conosciuta quella di Termini, tanto da attirare i pendolari della pedofilia pronti a prendere un treno anche dal Nord Italia per raggiungere le pensioni attorno allo scalo ferroviario dove spesso si chiude un occhio sul controllo dei documenti. Insospettabili commercianti e operai, finanzieri, preti e persino magistrati a caccia di facili prede. Bambini come Abdul, Fathi e gli altri. Minorenni arrivati da soli dall’Egitto a bordo di un barcone, costretti fino a poco tempo fa a dormire ammassati tra l’immondizia e i ratti nel centro di Roma. Bambini rom che tutte le mattine, accompagnati dagli stessi genitori, sono obbligati a prostituirsi per poche decine di euro. Invisibili dietro agli sbarramenti e ai cordoni per le misure di sicurezza, confusi tra viaggiatori distratti e pellegrini frettolosi. Bambini davanti al cui coraggio di denunciare le violenze e all’omertà degli adulti persino la legge rimane indifferente. Eppure loro, invisibili e indifesi, dimostrano la propria forza e si ribellano ai silenzi di chi dovrebbe tutelarli. È successo al Parco Verde di Caivano, cintura di Napoli. Cinquemila anime intossicate dalla terra dei fuochi, tra palazzoni tirati su in fretta per i terremotati del 1980 e viali scuri buoni solo per spacciare. All’isolato 3 una mattina di giugno di due anni fa Fortuna è volata giù dal terrazzo. Era salita al piano di sopra per andare a giocare ed è ricomparsa schiantata sull’asfalto del cortile. Aveva sei anni. Uccisa, secondo la ricostruzione dei magistrati, “perché si è rifiutata di subire l’ennesimo abuso”. A soli sei anni Fortuna ha detto no alla violenza ed è stata punita con la morte. Ad ammazzarla e abusare di lei sarebbe stato Raimondo Caputo, il compagno della madre della sua amichetta del cuore. Caputo che violentava anche i figli di quella donna che sapeva e copriva. La stessa donna, madre del piccolo Antonio, che un anno prima era volato giù come Fortuna dal balcone di quel palazzo. Un palazzo in cui gli adulti restavano in silenzio, nascondendo, depistando, coprendosi a vicenda. Ad alzare la testa sono stati i bambini. Sono loro che hanno aiutato gli investigatori a dare una svolta all’indagine descrivendo l’orrore su un foglio da disegno. Bambini soli che da soli hanno detto basta a chi voleva continuare a calpestare la loro dignità.  

L'Antimafia a scuola. Indottrinamento e proselitismo.

«Fatti non foste per viver come bruti ma per seguir virtute e conoscenza» Dante Alighieri.

Tutto è rito e l'antimafia è liturgia. “Non ci interessa la retorica, la liturgia ripetitiva. Perché 24 anni dopo Capaci e 24 dopo via D’Amelio, il rischio c’è. Come per certa antimafia da operetta”. Così Mimmo Milazzo, segretario della Cisl Sicilia, il 21 maggio 2016 a quasi un quarto di secolo dalle stragi mafiose. Era il 23 maggio del 1992 quando un’esplosione devastante mandò per aria, sulla A29 nei pressi di Palermo, la Fiat Croma in cui viaggiavano il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Rocco Dicillo, Vito Schifani e Antonio Montinaro. Quasi un mese dopo a perdere la vita furono, con Paolo Borsellino, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Agostino Catalano. Un’ecatombe. Ma il cui anniversario, sostiene Milazzo, “non può essere una mera occasione formale, dentro e fuori dal palazzo. L’ennesimo show”. 

Scuola ed antimafia di Franca De Mauro. Franca De Mauro è figlia di Mauro De Mauro e nipote di Tullio De Mauro, Linguista e Ministro della Pubblica Istruzione. C’è un equivoco che ricorre frequentemente sia all'interno della scuola, e questo è grave, sia all'esterno: cioè che noi insegnanti si faccia educazione alla legalità soltanto quando, per un motivo contingente, affrontiamo un tema, per così dire, monografíco: la storia della mafia, mafia e latifondismo in Sicilia, la vita di Peppino Impastato, di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino, di Placido Rizzotto, di Pio La Torre... ahimè, l'elenco potrebbe essere anche più lungo. Ma noi insegnanti, questo è il mio parere, facciamo educazione alla legalità quando facciamo nostre le dieci tesi di educazione linguistica, quando, cioè, insegniamo ai nostri alunni a muoversi da protagonista all'interno dell'universo della comunicazione. Quando insegniamo ad ascoltare e comprendere, a leggere e comprendere, a parlare e scrivere con chiarezza nelle diverse situazioni comunicative e con scopi diversi. Quando diamo a tutti i nostri alunni la possibilità di usare il linguaggio per comprendere e produrre una molteplicità di messaggi. Certo, questo è il compito della scuola. E' proprio questo, ma non sempre lavoriamo in tal senso, non sempre facciamo nostre le dieci tesi di linguistica democratica. Spesso ci accontentiamo "di un rapido apprendimento, di un soddisfacente grafísmo e del possesso delle norme di ortografìa italiana, della capacità di verbalizzare, oralmente e per iscritto, attorno testi letterari e storici"; ma dare ad ognuno dei nostri alunni il reale possesso della lingua italiana, è questa la scommessa. Solo allora saranno in grado di scegliere. Perché se ci limitiamo a proporre argomenti antimafia, e non diamo loro il possesso della lingua, noi conosceremo diecimila vocaboli e saremo liberi, loro ne conosceranno sempre mille e saranno schiavi. Saremo sempre noi a scegliere per loro. Sceglieremo, giustamente, un impegno per la legalità, ma saremo noi a scegliere, non loro. E, uscendo dalla scuola, i ragazzi, così come dimenticano immediatamente date, fatti, personaggi, letture, dimenticheranno quanto diciamo sulla legalità. E dovremo registrare di non aver neanche scalfito il consenso sociale verso la mafia, di non avere intaccato la cultura mafiosa. Ma se daremo agli alunni gli strumenti linguistici per capire un articolo di giornale, il discorso di un politico, un volantino sindacale, il telegiornale, la Costituzione, forse il loro impegno per la legalità sarà più concreto e duraturo. La cultura facilita scelte etiche, non le rende immediate, me ne rendo conto: certo 'don Rodrigo aveva più cultura di Renzo, Andreotti più di un operaio che vendeva il suo voto per un pacco di pasta... però se Renzo, se quell'operaio avessero avuto gli strumenti per difendersi da angherie, raggiri, soprusi, per lottare contro l'illegalità... per loro le cose sarebbero andate meglio. In un'epoca in cui le grandi ideologie, l'aggregazione politica non esistono quasi più, in cui la Tv spazzatura è il modello di riferimento culturale per moltissimi, dare agli alunni gli strumenti per comprendere, per smascherare promesse messianiche, ideali di ricchezza facile e veloce, questo diventa la vera scommessa della scuola per la legalità.

Istruzione o Indottrinamento? Scrive David Icke. L‘istruzione esiste allo scopo di programmare, indottrinare e inculcare un convincimento collettivo, in una realtà che ben si addica alla struttura del potere. Si tratta di subordinazione, di mentalità del…non posso, e del non puoi, perché è questo ciò che il sistema vuole che ciascuno esprima nel corso nel proprio viaggio verso la tomba. Ciò che noi chiamiamo istruzione non apre la mente: la soffoca. Così come disse Albert Einstein, “l’unica cosa che interferisce con il mio apprendimento, è la mia istruzione.” Egli disse anche che “l’istruzione è ciò che rimane dopo che si è dimenticato tutto quanto si è imparato a scuola”. Perché i genitori sono orgogliosi nel vedere che i loro figli ricevono degli attestati di profitto per aver detto al sistema esattamente quanto esso vuole sentirsi dire? Non sto dicendo che le persone non debbano perseguire la conoscenza ma – se qui stiamo parlando di libertà – noi dovremmo poterlo fare alle nostre condizioni, non a quelle del sistema. C’è anche da riflettere sul fatto che i politici, i funzionari del governo e ancora giornalisti, scienziati, dottori, avvocati, giudici, capitani di industria e altri che amministrano o servono il sistema, invariabilmente sono passati attraverso la stessa macchina creatrice di menti (per l’indottrinamento), cioè l’università. Triste a dirsi. Molto spesso si crede che l’intelligenza e il passare degli esami siano la stessa cosa.

Giuseppe Costanza ha deciso di parlare perché a suo parere troppi lo fanno a sproposito. C' è un uomo che più di altri avrebbe titolo a dire qualcosa sull'apparizione di Riina junior in Rai e sulla lotta alla mafia in generale. È Giuseppe Costanza, l'autista di Giovanni Falcone negli ultimi otto anni di vita del magistrato, dal 1984 fino al 23 maggio 1992. Costanza era a Capaci, scrive Alessandro Milan per “Libero Quotidiano” il 18 aprile 2016. Di più, Costanza era a bordo della macchina guidata da Falcone e saltata in aria sul tritolo azionato da Giovanni Brusca. Eppure in pochi lo sanno. Perché per quei paradossi tutti italiani, e siciliani in particolare, da quel giorno Costanza è stato emarginato. Non è invitato alle commemorazioni, pochi lo ricordano tra le vittime. Ho avuto la fortuna di conoscerlo, di essere suo ospite a cena in Sicilia e ho ricavato la sensazione di trovarmi di fronte a qualcuno che è stato più del semplice autista di Giovanni Falcone: forse un confidente, un custode di ricordi e, chissà, uno scrigno di segreti. Che però Costanza dispensa col contagocce: «Perché un conto è ciò che penso, un altro è ciò che posso provare». Un particolare mi colpisce del suo rapporto con Falcone: «Il dottore - Costanza lo chiama così - aveva diritto a essere accompagnato in macchina, oltre che da me, dal capo scorta. Ma pretendeva che ci fossi solo io».

Perché non si fidava di nessun altro?

«Quale altro motivo ci sarebbe?».

Cominciamo da Riina a "Porta a Porta"?

«Mi sono rifiutato di vederlo. Solo a sapere che questo soggetto era stato invitato da Bruno Vespa mi ha dato il voltastomaco. Vespa qualche anno fa ha invitato pure me, mi ha messo nel pubblico e non mi ha rivolto una sola domanda. Ora parla con il figlio di colui che ha cercato di uccidermi. I vertici della Rai dormono?».

Cosa proponi?

«Lo Stato dovrebbe requisire i beni che provengono dalla vendita del libro di Riina. Questo si arricchisce sulla mia pelle».

Lo ha proposto la presidente Rai Monica Maggioni.

«Meno male. Ma tanto non succederà nulla. D'altronde sono passati 24 anni da Capaci senza passi avanti».

Su che fronte?

«Hanno arrestato la manovalanza di quella strage. Ma i mandanti? Io un'idea ce l'ho».

Avanti.

«Presumo che l'attentato sia dovuto al nuovo incarico che Falcone stava per ottenere, quello di Procuratore nazionale antimafia».

Ne sei convinto?

«Una settimana prima di Capaci il dottore mi disse: "È fatta. Sarò il procuratore nazionale antimafia"».

Questa è una notizia.

«Ma non se ne parla».

Vai avanti.

«Se lui avesse avuto quell'incarico ci sarebbe stata una rivoluzione. Sempre Falcone mi disse che all' Antimafia avrebbe avuto il potere, in caso di conflitti tra Procure, di avocare a sé i fascicoli. Chiediti quali poteri ha avuto il Procuratore antimafia in questi anni. E pensa quali sarebbero stati se invece fosse stato Falcone».

Chi non lo voleva all'Antimafia?

«Forse politici o faccendieri. Gente collusa. Ma queste piste non le sento nominare».

Torniamo ai mandanti.

«L'attentato a Palermo è un depistaggio, per dire che è stata la mafia palermitana. Sì, la manovalanza è quella. Ma gli ordini da dove venivano? Ti racconto un altro particolare. Io personalmente, su richiesta di Falcone, gli avevo preparato una Fiat Uno da portare a Roma. E lui nella capitale si muoveva liberamente, senza scorta. Se volevano colpirlo potevano farlo lì, senza tutta la sceneggiata di Capaci. Ricorda l'Addaura».

21 giugno 1989, il fallito attentato all'Addaura. Viene trovato dell'esplosivo vicino alla villa affittata da Falcone.

«Io c'ero».

All'Addaura?

«Sì, ero lì quando è intervenuto l'artificiere, un carabiniere. Eravamo io e lui. Lui ha fatto brillare il lucchetto della cassetta contenente l'esplosivo con una destrezza eccezionale. Poi ha dichiarato in tribunale che il timer è andato distrutto. Ha mentito. Io ho testimoniato la verità a Caltanissetta e lui è stato condannato».

Invece come è andata?

«L'esplosivo era intatto. Lo avrà consegnato a qualcuno, non chiedermi a chi. Evidentemente lo ha fatto dietro chissà quali pressioni».

Falcone aveva sospetti dopo l'Addaura?

«Parlò di menti raffinatissime. Io posso avere idee, ma non mi va di fare nomi senza prove. Attenzione, io non generalizzo quando parlo dello Stato. Ma ci sono uomini che si annidano nello Stato e fanno i mafiosi, quelli bisogna individuarli».

23 maggio 1992: eri a Capaci.

«Ma questo agli italiani, incredibilmente, non viene detto. Quella mattina Falcone mi chiamò a casa, alle 7, comunicandomi l'orario di arrivo. Io allertai la scorta. Solo io e la scorta in teoria sapevamo del suo arrivo».

Cosa ricordi?

«Falcone, sceso dall'aereo, mi chiese di guidare, era davanti con la moglie mentre io ero dietro. All'altezza di Capaci gli dissi che una volta arrivati mi doveva lasciare le chiavi della macchina. Lui istintivamente le sfilò dal cruscotto, facendoci rallentare. Lo richiamai: "Dottore, che fa, così ci andiamo ad ammazzare". Lui rispose: "Scusi, scusi" e reinserì le chiavi. In quel momento, l'esplosione. Non ricordo altro».

Perché la gente non sa che eri su quella macchina?

«Mi hanno emarginato».

Chi?

«Le istituzioni. Ti sembra giusto che la Fondazione Falcone non mi abbia considerato per tanti anni?».

La Fondazione Falcone significa Maria Falcone, la sorella di Giovanni.

«Io non la conoscevo».

In che senso?

«Negli ultimi otto anni di vita di Giovanni Falcone sono stato la sua ombra. Ebbene, non ho mai accompagnato il dottore una sola volta a casa della sorella. Andavamo spesso a casa della moglie, a trovare il fratello di Francesca, Alfredo. Ma mai dalla sorella».

Poi?

«Lei è spuntata dopo Capaci. Ha creato la Fondazione Falcone e fin dal primo anno, alle commemorazioni, non mi ha invitato».

Ma come, tu che eri l'unico sopravvissuto, non eri alle celebrazioni del 23 maggio 1993?

«Non avevo l'invito, mi sono presentato lo stesso. Mi hanno allontanato».

È incredibile.

«Per anni non hanno nemmeno fatto il mio nome. Poi due anni fa ricevo una telefonata. "Buongiorno, sono Maria Falcone". Mi ha chiesto di incontrarla e mi ha detto: "Io pensavo che ognuno di noi avesse preso la propria strada". Ma vedi un po' che razza di risposta».

E le hai chiesto perché non eri mai stato invitato prima?

«Come no. E lei: "Era un periodo un po' così. È il passato". Ventitré anni e non mi ha mai cercato. Poi quando ho iniziato a denunciare il tutto pubblicamente mi invita, guarda caso. Comunque, due anni fa vado alle celebrazioni, arrivo nell'aula bunker e scopro che manca solo la sedia con il mio nome. Mi rimediano una seggiola posticcia. Mi aspettavo che Maria Falcone dicesse anche solo: "È presente con noi Giuseppe Costanza". Niente, ancora una volta: come se non esistessi».

L' emarginazione c'è sempre stata?

«Un anno dopo la strage di Capaci sono rientrato in servizio alla Procura di Palermo ma non sapevano che cavolo farsene di un sopravvissuto. Così mi hanno retrocesso a commesso, poi dopo le mie proteste mi hanno ridato il quarto livello, ma ero nullafacente».

Per l'ennesima volta: perché?

«Ho avuto la sfortuna di sopravvivere».

Come sfortuna?

«Credimi, era meglio morire. Avrei fatto parte delle vittime che vengono giustamente ricordate ma che purtroppo non possono parlare. Io invece posso farlo e sono scomodo. Diciamola tutta, questi presunti "amici di Falcone" dove cavolo erano allora? Ma chi li conosce? Io so chi erano i suoi amici».

Chi erano?

«Lo staff del pool antimafia. Per il resto attorno a lui c'era una marea di colleghi invidiosi. Attorno a lui era tutto un sibilìo».

Tu vai nelle scuole e parli ai ragazzi: cosa racconti di Falcone?

«Che era un motore trainante. Ti racconto un episodio: lui viveva in ufficio, più che altro, e quando il personale aveva finito il turno girava con il carrellino per prelevare i fascicoli e studiarli. Questo era Falcone».

È vero che amava scherzare?

«A volte raccontava barzellette, scendeva al nostro livello, come dico io. Però sapeva anche mantenere le distanze».

Tu hai servito lo Stato o Giovanni Falcone?

«Bella domanda. Io mi sentivo di servire lo Stato, che però si è dimenticato di me. E allora io mi dimentico dello Stato. L'ho fatto per quell' uomo, dico oggi. Perché lo meritava. È una persona alla quale è stato giusto dare tutto, perché lui ha dato tutto. Non a me, alla collettività».

Il presidente Mattarella non ti dà speranza?

«Io spero che il presidente della Repubblica mi conceda di incontrarlo. Quando i miei nipoti mi dicono: "Nonno, stanno parlando della strage di Capaci, ma perché non ti nominano?", per me è una mortificazione. Io chiederei al presidente della Repubblica: "Cosa devo rispondere ai miei nipoti?"».

Questo silenzio attorno a te è un atteggiamento molto siciliano?

«Ritengo di sì. Fuori dalla Sicilia la mentalità è diversa. Devo dire anche una cosa sul presidente del Senato, Piero Grasso».

Prego.

«Di recente, a Ballarò, presentando un magistrato, un certo Sabella, come colui che ha emanato il mandato di cattura per Totò Riina, mi indicava come "l'autista di Falcone".

Ma come si permette questo tizio? Io sono Giuseppe Costanza, medaglia d'oro al valor civile con un contributo di sangue versato per lo Stato e questo mi emargina così? "L'autista" mi ha chiamato. Cosa gli costava nominarmi?».

Costanza, credi nell' Antimafia?

«Non più. Inizialmente dopo le stragi c'è stata una reazione popolare sincera, vera. Poi sono subentrati troppi interessi economici, è tutto un parlare e basta. Noi sopravvissuti siamo pochi: penso a me, a Giovanni Paparcuri, autista scampato all' attentato a Rocco Chinnici, penso ad Antonino Vullo, unico superstite della scorta di Paolo Borsellino. Nessuno parla di noi».

Il 23 maggio che fai?

«Mi chiudo in casa e non voglio saperne niente. Vedo personaggi che non c'entrano nulla e parlano, mentre io che ero a Capaci non vengo nemmeno considerato. Questa è la vergogna dell'Italia».

Non li voglio vedere, scrive Salvo Vitale il 22 maggio 2016. Stanno preparando il vestito buono per la festa. Passeranno la notte a lustrarsi le piume. E domani, l’uno dopo l’altro, con una faccia che definire di bronzo è un eufemismo, correranno da una parte all’altra della penisola cercando i riflettori della tivvù, il microfono dei giornalisti, per inondarci della loro vomitevole retorica su twitter, facebook, e in ogni angolo della rete; loro, tutti loro, gli assassini di Giovanni Falcone, della moglie, e dei tre agenti della sua scorta, saranno proprio quelli che ne celebreranno la memoria. Firmandola. Sottoscrivendola. Faranno a gara per raccontarci come combattere ciò che loro proteggono. Spiegheranno come custodire l’immensa eredità di un magistrato coraggioso; loro, proprio loro che ne hanno trafugato il testamento, alterato la firma, prodotto un perdurante falso ideologico che ha consentito ai loro partiti di rinverdire i fasti di un eterno potere. Li vedremo tutti in fila, schierati come i santi. Ci sarà anche chi oserà versare qualche calda lacrima, a suggello e firma dell’ipocrisia di stato, di quel trasformismo vigliacco e indomabile che ha costruito nei decenni la mala pianta del cinismo e dell’indifferenza, l’humus naturale dal quale tutte le mafie attive traggono i profitti delle loro azioni criminali. Domani, non leggerò i giornali, non ascolterò le notizie, non seguirò i telegiornali, e men che meno salterò come una pispola allegra da un mi piace all’altro su facebook a commento di striscette melense e ipocrite che inonderanno la rete con una disgustosa ondata di piatta e ipocrita demagogia. Domani, uccideranno ancora Giovanni Falcone, sua moglie e la sua scorta. E io non voglio farne parte. Per questo ne parlo oggi, con un giorno di anticipo. Seguitano a ucciderlo, ogni giorno, nella società civile e in parlamento. Per questo vogliono museizzarlo, trasformandolo in una specie di santino da usare ad ogni buona occasione. Perché sono proprio loro gli eterni assassini, questa è la verità, altrimenti non ci ritroveremmo, venti anni dopo, nella stessa identica situazione di allora. Domani, vestiti a festa, faranno a gara a chi lo commemora e piange di più. Tutti i funzionari pubblici della repubblica, anche quelli del più piccolo e povero comune, tutti quelli che hanno preso tangenti privilegiando l’interesse personale a quello del bene pubblico, sono quelli che seguitano ogni giorno ad assassinare Giovanni Falcone, sua moglie e gli agenti della scorta. Quelli che hanno reso vana e vacua la loro morte. Gli imprenditori che partecipano alle gare sostenendo che bisogna pagare le tangenti se si vuole sopravvivere sul mercato. I direttori editoriali responsabili delle case editrici, delle società di produzione cinematografica, televisiva e radiofonica, che riconoscono e accolgono come autori solo persone presentate, suggerite, spinte, imposte dalle segreterie dei singoli partiti politici che poi provvederanno a fornire i loro buoni uffici facendo piovere su di loro sovvenzioni statali pagate con le nostre tasse. Loro, nessuno escluso, sono gli assassini di Falcone, di sua moglie e dei tre agenti della scorta. Io non li voglio vedere. Non voglio vedere le loro facce ipocrite. Sono assassini tutti quelli, nessuno escluso, che dicono “lo fanno tutti, che cosa ci vuoi fare?”. Così come lo sono tutti coloro che si trincerano dietro il “ma io ho una famiglia” e fingono di non sapere che in italiano esiste la frase “no, io queste cose non le faccio”. Gli assassini sono tutti i cittadini italiani che nel silenzio garantito dalla privacy, cautelati dal fatto di non avere testimoni, nel segreto della cabina elettorale, mettono una crocetta su un certo simbolo, su un certo nome, perché sanno che quella lista e quella persona, domani, a elezioni avvenute (e vincenti) mi risolveranno il mio problemino, o daranno il posto a mio figlio, o sistemeranno mia sorella. Sono decine di milioni. Perché la mafia non è una persona, non è una cosa astratta. La mafia è un’idea dell’esistenza. La mafia è una interpretazione della vita, e chi vi aderisce è un mafioso. Anche se non lo sa. Anche se non se lo vuole dire. Sempre mafioso è. L’intera classe politica di questo paese, intellettuale, mediatica, imprenditoriale, ha partecipato al processo di delegittimazione di Giovanni Falcone, isolandolo, diffamandolo, voltandosi dall’altra parte quando sapevano che stavano arrivando i killer. Così come fecero poi con Paolo Borsellino e con tutti coloro che ebbero l’ardire di armarsi di coraggio e combattere contro la mafia attiva. Le stesse persone che allora scelsero di non guardare, oggi sono in prima fila a commemorarne la scomparsa. Sono tutti loro i veri assassini. Io non li voglio né vedere né ascoltare. Perché i dirigenti mafiosi sono affaristi, e non corrono il rischio di mettersi nei guai uccidendo gli affari, se non sanno di avere un territorio amico che li sorregge. La mafia, di per sé, non esiste, esistono i mafiosi. La mafia è la somma dei singoli comportamenti che ne determinano l’esistenza. E noi siamo un paese con troppi mafiosi. Purtroppo, non è uno stereotipo, è la tragica realtà con la quale noi tutti dobbiamo a fare i conti. Perché questi sono i veri conti, non lo spread, che è una invenzione astratta. Potete aderire a qualunque ideologia, essere, anarchici o democratici, conservatori o progressisti, amanti di Keynes, di Marx o della teoria della Moneta Moderna. Non cambia nulla, finchè non cambieremo il nostro comportamento individuale, quotidiano, esistenziale, e non prenderemo atto di ciò che siamo, per poterci evolvere e liberarci da questo cancro. Ogniqualvolta un cittadino italiano rinuncia ad esercitare il libero arbitrio, e rinuncia all’ambizione e al tentativo, anche se estremo e disperato, di farsi valere per i propri meriti, per le proprie competenze tecniche, privilegiando la facile e sicura strada della mediazione politica e della malleveria, per prendere la scorciatoia del sistema del malaffare, il registratore di cassa della mafia segna un incasso. Perché sa che, domani, quel cittadino sarà un mafioso sicuro. Anche se non lo sa. E’ una porta alla quale andranno a bussare, sicuri che verrà subito aperta. Loro, lo sanno benissimo, che è così. Lo sappiamo tutti. Io non li voglio vedere i loro telefilm celebrativi interpretati da attori raccomandati, prodotti da aziende mafiose, e distribuiti alla nostra visione da funzionari mafiosi in doppiopetto. Proprio no. Perché sono tutti assassini di Giovanni Falcone, di sua moglie e dei tre agenti della scorta. Domani, dedicherò la giornata al tentativo di ripulirmi spiritualmente, cercando di fare ordine interiore, per eliminare ogni residuo di retro-pensiero mafioso, che alligna dentro di me, come dentro la mente di ogni singolo italiano, anche quando non lo sa. Perché il paese è così. Altrimenti, non staremmo, dopo venti lunghi anni, e una caterva di governi inutili, nella stessa identica situazione di allora.

E un altro giorno di Borsellino è andato, scrive Luca Josi per “Il Fatto Quotidiano” il 21 luglio 2015. Stormi di parole alate, visi contriti, rugiada di lacrime. Qualche minuto, una crocetta sopra, e la terra ha continuato il suo giro intorno al sole. Ci si rivede l'anno prossimo per ascoltare nuove cronache sudate di dolore, impregnate di partecipazione e narrazione per "sensibilizzare i cittadini e non dimenticare". Bene. Tra i sacerdoti laici chiamati a celebrare il rito e la liturgia della memoria, la Rai. Sostenuta dal nostro canone per onorare il contratto di servizio con lo Stato la Rai dovrebbe informare gli italiani così da contribuire al loro crescere civile; nello Stato appunto. Molto bene. Parafrasando l'audizione de "La primula rossa di Corleone" alla Commissione Antimafia - quella in cui l'interrogato in merito all'esistenza della mafia, rispose: "Se esiste l'antimafia esisterà anche la mafia" - la Rai certifica l'esistenza dello Stato. Ne è infatti la tv. Benissimo. Veniamo al punto. Ero un imprenditore del panorama televisivo italiano (un gruppo che ha avuto centinaia di dipendenti, ha prodotto migliaia di ore di programmi, ha conquistato cinque Telegatti, premi di ogni genere e tanti altri primati da snocciolare). Per una produzione in Sicilia, davvero poco fortunata, il gruppo è fallito (ma non starò a ricordare il carrozzone di schifezze, angherie e miserie che hanno prodotto questo scempio). C'è solo un punto che vorrei puntualizzare nel giorno successivo alle retoriche per Borsellino. Il 7 giugno 2007 il più stretto collaboratore di un direttore della Tv di Stato mi telefona per raccomandarmi un tizio per la nostra produzione Rai (tra l'altro Educational!): "... un personaggio locale di qui - siciliano - di dubbia provenienza, che comunque pare non faccia molte, come dire, non faccia molti problemi insomma, si accontenta di molto poco e cioè di, di, di, veramente ... insomma pare che sia, che sia tranquillizzante insomma la cosa. Non lo è per le sue tradizioni e per le sue origini, però, non lo so io comunque ti ho avvertito …". Non ho nemmeno bisogno di registrare l'assurdo. L'acuto dirigente fa tutto da sé lasciando il messaggio sulla mia segreteria telefonica (la si può ancora ascoltare su il fattoquotidiano.it: Agrodolce, i raccomandati e uomini in odor di mafia). Dal giorno successivo metto a conoscenza della telefonata i dirigenti competenti. Penso che si tratti ancora del caso di un singolo, ma gli anni successivi mi dimostreranno, ampiamente, che non era così. Incontri successivi e lettere per denunciare la situazione producono il silenzio. Di fronte a tutto questo il mio gruppo, nella mia persona di allora presidente, decide di procedere penalmente verso i protagonisti della nostra distruzione. Il 4 dicembre 2011, dopo la pubblicizzazione della telefonata incriminata il protagonista della stessa risponde così a il Fatto Quotidiano: “Si sa che quando le produzioni vanno in Sicilia, devi sottostare alle regole legate alle tradizioni dell’isola” per aggiungere “ho chiamato Josi, e lui mi fatto una scenata incredibile, dicendo che lui ‘ rapporti con mafiosi non li voleva avere, mai e poi mai”. Il 17 dicembre 2011 sarà la cronaca giudiziaria a confermarne la veridicità di questa interpretazione. Infatti, la DDA di Palermo farà eseguire ventotto arresti all’interno del Clan Porta Nuova. Nel mirino dello stesso, la produzione di Canale 5, Squadra Antimafia Palermo Oggi. Non erano attratti dal contenuto editoriale della fiction, ma dall’opportunità di controllarne i servizi di trasporto, il catering per la troupe e di assumere come comparse parenti e affiliati (oltre all'opportunità di fornire droga all'interno della produzione). Tutto questo avveniva a pochi chilometri dagli stabilimenti del nostro gruppo televisivo con l’aggravante che noi si era capaci di occupare fino a 440 comparse al mese per una prospettiva di diversi anni - le soap opera possono durare decenni - in uno dei distretti a più alta disoccupazione giovanile europea. Il 23 ottobre 2012 - sei mesi dopo dalla messa in onda della fiction Paolo Borsellino - I 57 giorni, per Rai Uno: - la vicenda incontrerà una conclusione tragicamente solare. L'imprenditore "proposto" nella telefonata dall'incaricato Rai verrà arrestato dalla Polizia di Palermo, insieme al fratello, per i reati di estorsione e associazione mafiosa (trattavasi d'imprenditori polivalenti che, oltre a una struttura dedicata alle forniture di servizi per lo spettacolo, diversificavano con un’attività di pompe funebri). La sua compagine era riuscita a infiltrarsi all’interno di un’altra produzione esterna Rai, Il segreto dell’acqua (fiction sul tema della lotta alla mafia). Purtroppo dall'azienda pubblica che impegna gli imprenditori a sottoscrivere corposi Codici Etici e Codici Antimafia non si sono mai registrate riflessioni sulle singolari vicende risultate forse troppo neorealiste. In compenso le fiction antimafia, continueranno a prolificare perché "non possiamo permetterci di abbassare la guardia". Appunto. Il 23 agosto dello scorso anno scrivevo su questo quotidiano che la Rai, dalla missione formativa e pedagogica, celebra ogni luglio e agosto, tra un telegiornale sul caldo che arriva e un arresto che latita, la diretta del Palio di Siena. Questa edificante competizione sportiva ha una narrazione popolare che la racconta come il Quark della corruzione; è la Stele di Rosetta di una nazione tutta gonfaloni e proclami la cui prassi si traduce negli encomiabili risultati del Monte dei Paschi. Ancora una volta, la Rai, impegnata in riforme profondissime dall'altissimo valore strategico e morale per l'intero Paese, né si distrae né si confonde e prosegue, indomita, nell'imprescindibile programmazione della manifestazione senese. Questa, in effetti, risulta essenziale per la crescita civica della nazione nella consapevolezza che la "trattativa", sia essa di Stato o di contrada, sia connaturata a una corretta crescita nella pedagogia nazionale del "Si fa, ma non si dice" ("Si fa, ma non si dice e chi l'ha fatto tace, lo nega e fa il mendace e non ti dice mai la verità..." Milly per Studio Uno, Rai Uno). Falcone sosteneva che la mafia, come tutti i fenomeni umani, ha un principio, una sua evoluzione e quindi anche una fine. Sarà così per il Palio, per la mafia e per la Rai. Auguri. Ps: Se ti senti disposto a essere conciliante, chiediti soprattutto che cosa ti rende in realtà così indulgente: una cattiva memoria, la comodità o la codardia. Arthur Schnitzler

Antimafia e magistratura. L’alleanza malsana che Falcone rifiutò. Indagine sui professionisti della patacca che hanno trasformato l’antimafia in una macchietta della giustizia politica, scrive Giuseppe Sottile il 12 Maggio 2016 su "Il Foglio".

Prologo. “Tutto pagato mio”. Quando l’onorevole Salvo Lima varcò la soglia del bar “Rosanero”, i picciotti di don Masino Spadaro, boss della Kalsa e re del contrabbando, formarono – così, spontaneamente – due piccole ali di folla. L’onorevole si inconigliò nel mezzo e salutò prima a destra e poi a sinistra. Raggiunse il banco e ordinò il caffè. “Lei, carissimo onorevole, merita questo ed altro”, declamò cerimonioso don Masino. Ma senza fortuna. Perché l’onorevole continuò a masticare il suo bocchino di madreperla, quello con la molletta interna e la cicca estraibile, senza pronunciare sillaba. Si limitò solo a guardarli, quei picciotti. E guardandoli gli significò che se avevano qualcosa da dire potevano anche dirla. Tanto lui era in campagna elettorale e li avrebbe certamente ascoltati. Figurarsi però se don Masino poteva mai lasciare una simile entratura a Vincenzo Mangiaracina, detto “Scintillone”, pizzicato otto anni prima per tentato omicidio, e appena uscito dall’Ucciardone; o a Filippo Paternò, detto “Cardone”, che nell’aprile del 1989 andò per sparare e fu sparato, e parlava con mezza bocca perché l’altra era praticamente affunata in un nodo cavernoso di osso, muscolo e pelle; o a Lillo Trippodo, detto “Cacauovo” perché prima di ogni tiro, scippo o rapina che fosse, aveva sempre un dubbio da manifestare ma poi puntava la pistola ch’era una meraviglia. “Tutti bravi ragazzi, onorevole”, disse don Masino presentando cumulativamente i picciotti disposti a semicerchio, come gli ami di una paranza. Ma l’onorevole Lima ostinatamente non parlava. Se ne stava appoggiato al bancone, con la tazzina di caffè appiccicata alle dita. Fino a quando, don Masino – e che boss sarebbe stato, altrimenti – non si armò di coraggio e mirò a quello che, per lui, era il cuore del problema. “Mi dica, onorevole: che dobbiamo fare con quei cornuti di Ciaculli che si sono inventati questa minchiata del rinnovamento…”. Il tema, in effetti, era molto delicato. Delicatissimo. “La sbirrame di Leoluca Orlando e padre Pintacuda ha fatto breccia. Ora fanno tutti gli antimafiosi, anche a Ciaculli, ma in realtà sono semplicemente cornuti. Così cornuti che, nei loro confronti, il fango è acqua minerale”.   Ciaculli, Orlando, Pintacuda. L’onorevole si cambiò di faccia. Posò la tazzina sul bancone e ringraziò per il caffè. Ma don Masino gli puntò al petto l’ultima domanda: “Sono o non sono cornuti, quelli di Ciaculli?”. L’onorevole si bloccò sulla soglia. Si abbottonò il cappotto, alzò il bavero del colletto, infilò un’altra sigaretta nel bocchino di madreperla e sentenziò: “Gentuzza… Gentuzza e nulla più”.

Svolgimento. Che Dio ce ne guardi. Nessuno qui si azzarderà a definire “gentuzza” gli uomini dell’antimafia, anche se dentro la compagnia di giro ci ritrovi qualche pataccaro, come Massimo Ciancimino, già processato e condannato per avere invischiato in storiacce di mafia dei galantuomini che non c’entravano nulla; o come quel Pino Maniaci, che per anni si è spacciato come giornalista coraggioso ed è finito sotto inchiesta per estorsione: secondo la procura di Palermo sparava fuoco e fiamme ma, sottobanco, prometteva benevolenza soprattutto a chi aveva la compiacenza di allungargli la mille lire. No, nessuno qui si azzarderà a definire “gentuzza” gli uomini dell’antimafia. Perché dentro quel mondo non ci sono solo degli inquisiti sui quali prima o poi dovrà essere detta una parola di verità. Ci sono anche e soprattutto figli che hanno assistito al martirio del padre, come Claudio Fava o Lucia Borsellino o Franco La Torre; o sorelle, come Maria Falcone, che portano ancora negli occhi il terrore di avere visto, su un tratto di autostrada sventrato dal tritolo, il sangue versato dal proprio fratello. No, questi nomi non possono essere trascinati in polemiche da quattro soldi. Nemmeno quando uno di loro – ed è il caso di Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, il giudice assassinato in via D’Amelio – se ne va in giro per Palermo ad abbracciare Massimuccio Ciancimino, il figlio di don Vito, prima celebrato come “icona dell’antimafia” e poi gettato negli abissi chiari dell’inattendibilità dagli stessi pupari che lo avevano offerto a giornali e talk-show come il testimone del secolo, l’unico in grado di rivelare gli intrighi delle cosche e di scardinare finalmente l’impero di Cosa nostra, con le sue ricchezze e i suoi misteri, con i suoi boss e i suoi picciotti, con le sue coperture e le sue complicità. Non chiameremo “gentuzza” neppure quelli che hanno utilizzato l’antimafia per amministrare al meglio i propri affari, per intramare nuove e più sofisticate imposture, per costruire nuove e più spregiudicate carriere; o per meglio aggrapparsi alla grande mammella dei beni sequestrati ai mafiosi – terreni, case e aziende – diventati all’improvviso una immensa terra di nessuno sulla quale hanno mangiato a quattro mani, fino a ingozzarsi, magistrati e cancellieri, avvocaticchi e commercialisti. E non chiameremo “gentuzza” nemmeno i tanti narcisi che pure popolano questo mondo. Non c’è magistrato che non abbia i suoi quattro angeli custodi, non c’è papavero dell’antimafia che non abbia diritto a una sorveglianza, non c’è pentito, vero o fasullo, che non pretenda una tutela particolare. Ah, le scorte. A volte hai il sospetto che siano diventate gli svolazzi del nuovo potere: Rosario Crocetta, il governatore della Sicilia che ha trasformato l’antimafia in una macchietta della politica, può contare su cinque blindate, pagate dalla regione a peso d’oro. Uno spreco? Guai a pensarlo, ma immaginate l’effetto che fa il suo scorrazzare in lungo e in largo per l’Isola con tutto questo fragore o il suo arrivo, a ogni fine settimana, a Gela o a Tusa Marina, dove altri militari sono impegnati a presidiare le sue case. Oppure pensate a quale timore o a quale riverenza vi spingerà, se mai capiterete all’aeroporto di Palermo, la visione di Roberto Scarpinato, procuratore generale del Palazzo di giustizia e Gran Sacerdote dell’Antimafia, scortato all’imbarco per Roma non da uno ma da cinque agenti in borghese. Tre dei quali non lo mollano nemmeno quando tutti i passeggeri sono già dentro l’aereo. Ragioni di sicurezza, si dirà. E sarà anche vero, ma una domanda andrebbe comunque posta: e se la mafia fosse ancora governata da quegli stragisti che rispondevano al nome di Totò Riina e Bernardo Provenzano quanti uomini sarebbero necessari per scortare il dottore Scarpinato? Forse sette, forse sette volte sette. La verità, tanto per andare subito al sodo, è che il Piazzale degli eroi – nel quale sono stati collocati tutti i campioni della lotta a Cosa nostra – rifiuta tenacemente di accettare quello che gli storici più coscienziosi, come Salvatore Lupo, hanno accertato con la forza dei loro studi e della loro onestà. E cioè che, dopo una guerra durata oltre trent’anni, il risultato è che la mafia ha perso e lo stato ha vinto. Una verità semplice ma capace di mandare a gambe per aria non solo il concetto mistico di antimafia ma anche tutte le impalcature – e i privilegi e i narcisismi – che attorno a un tale concetto sono state costruite. Questo spiega perché la tesi del professore Lupo sia stata tanto sbeffeggiata durante una infausta audizione alla commissione parlamentare presieduta da Rosy Bindi. E spiega anche perché una fetta ancora consistente della magistratura palermitana insiste nel portare avanti un processo senza capo né coda qual è quello sulla fantomatica trattativa tra la mafia e alcuni vertici degli apparati statali. Quel processo serve per tenere in piedi il postulato che la storia della Repubblica abbia un doppio fondo, e che dietro ogni verità, anche dietro quella processualmente accertata, ci sia sempre una verità nascosta. Un azzardo, non c’è dubbio. Ma che consente a quei magistrati particolarmente votati alla militanza politica, di chiamare in causa qualunque esponente del potere costituito. Ricordate cosa combinò Antonio Ingroia, procuratore aggiunto oltre che maestro compositore e arrangiatore della Trattativa, pochi mesi prima di presentarsi con una sua lista, Rivoluzione civile, alle elezioni politiche di tre anni fa? Intercettò il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e ci impiantò sopra un casino mediatico di proporzioni tali da fare tremare le colonne del Quirinale. Nel braccio di ferro, Ingroia ha perso e Napolitano ha vinto. Ma il partito dei magistrati che vogliono tenere sotto tiro il potere politico resta ancora forte e agguerrito. Con una aggravante: che questo partito ha saputo anche costruirsi un’antimafia di supporto. L’antimafia di Massimo Ciancimino e di Salvatore Borsellino, tanto per fare un doloroso esempio: dove il fratello del giudice assassinato diventa fraternissimo amico del figlio di don Vito per il semplice fatto che il pataccaro è stato contrabbandato dalla magistratura politicizzata come l’unico grimaldello capace di violare il sancta sanctorum dei segreti mafiosi. Ai tempi di Giovanni Falcone, questa alleanza malsana non si sarebbe stretta. E non si è stretta. Ricordate il caso del falso pentito Giuseppe Pellegriti? Eravamo alla fine degli anni Ottanta e l’antimafia di quel tempo – i leader erano Leoluca Orlando e il gesuita Ennio Pintacuda – si era aggrappata all’indiscrezione secondo la quale il pentito Pellegriti, un delinquentucolo di periferia, avrebbe accusato Salvo Lima, plenipotenziario di Giulio Andreotti in Sicilia, di essere il mandante dell’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Falcone andò al carcere di Alessandria. E, dopo avere verificato che Pellegriti sosteneva soltanto cose non vere, lo incriminò per calunnia. Non la passò liscia. L’antimafia di Orlando e Pintacuda – quella che aveva inventato la formula del “sospetto come anticamera della verità” – se la legò al dito e scatenò contro Falcone una offensiva senza precedenti. Fino ad accusarlo di tenere le prove nascoste nei cassetti; o a esporlo, nel corso di un indimenticabile Maurizio Costanzo Show, a una gogna tanto ingiusta quanto feroce. L’antimafia di oggi, quella finita nella polvere con tutti i suoi imbroglioni e i suoi pataccari, si è prestata invece a tutte le manovre giudiziarie, anche le più avventate e le più spregiudicate. E forse anche per questo, alla fine, è rotolata nel burrone profondo dell’irrilevanza. Chi è quell’uomo? – chiede a un certo punto il Signore. “E’ uno che imbratta di tenebra il pensiero di Dio. Parla senza sapere quello che dice”, risponde Giobbe.

La Carlucci e il PdL contro i libri di scuola: “Propagandano il comunismo, vanno cambiati”, scrive "Giornalettismo" il 12/04/2011.  Secondo 19 deputati del Popolo delle Libertà, scrive l’agenzia Dire, c’è bisogno di una commissione d’inchiesta per valutarne l’imparzialità. Dopo i giudici, anche i libri di testo contro Silvio Berlusconi. Secondo 19 deputati del Pdl, capitanati da Gabriella Carlucci, i testi scolastici di storia, su cui studiano migliaia di ragazzi, nasconderebbero “tentativi subdoli di indottrinamento” per “plagiare” le giovani generazioni “a fini elettorali” dando “una visione ufficiale della storia e dell’attualità asservita a una parte politica”, il centrosinistra, “contro la parte politica che ne è antagonista”, ossia il centrodestra. Di fronte a questa situazione definita “vergognosa”, secondo i parlamentari del Pdl, il parlamento “non può far finta di non vedere” e per questo chiedono, attraverso una proposta di legge, l’istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta “sull’imparzialità dei libri di testo scolastici”. Il progetto di legge è stato depositato alla Camera da Carlucci il 18 febbraio scorso e assegnato alla commissione Cultura il 14 marzo. In attesa dell’avvio dell’esame, in questi giorni la proposta è stata sottoscritta da altri colleghi di partito (ieri si sono aggiunte nuove firme e altre ancora ne stanno arrivando), tra cui il capogruppo Pdl in commissione Cultura, Emerenzio Barbieri. Nella premessa, gli esponenti di maggioranza si chiedono: “Può la scuola di Stato, quella che paghiamo con i nostri soldi, trasformarsi in una fabbrica di pensiero partigiano?” E la “battaglia partigiana”, secondo il firmatari, viene messa in atto “osannando l’attuale schieramento di sinistra” e “gettando fango sui loro avversari”. Per “capire la gravità del problema”, sostengono i 19 deputati, “basta sfogliare la maggior parte dei libri che oggi troviamo nelle scuole, sui banchi dei nostri figli”. Scopo della Commissione d’inchiesta? “Verificare quali sono i libri faziosi- spiega Barbieri interpellato dalla ‘Dire’- e dargli il tempo di adeguarsi prima di farli ritirare dal mercato, mica mandarli al macero…”. Gli altri firmatari della proposta di legge Carlucci, che mette ‘all’indice’ i libri di testo definiti “partigiani”, sono: Barani, Botta, Lisi, Scandroglio, Bergamini, Biasotti, Castiello, Di Cagno Abbrescia, Di Virgilio, Dima, Girlanda, Holzmann, Giulio Marini, Nastri, Sbai, Simeoni e Zacchera. Nella premessa, si fanno alcuni esempi dei testi ‘incriminati’, specificando che “in Italia, negli ultimi cinquant’anni, lo studio della storia è stato spesso sostituito da un puro e semplice tentativo di indottrinamento ideologico” retaggio “dell’idea gramsciana della conquista delle casematte del potere” che “si è propagato attraverso l’insegnamento della storia e della filosofia nelle scuole”. Si cita ‘La storia’ di Della Peruta-Chittolini-Capra, edito da Le Monnier, che descrive “tre personaggi storici: Palmiro Togliatti ‘un uomo politico intelligente, duttile e capace di ampie visioni generali’; Enrico Berlinguer, ‘un uomo di profonda onestà morale e intellettuale, misurato e alieno alla retorica; Alcide De Gasperi ‘uno statista formatosi nel clima della tradizione politica cattolica’”. Ma anche Elementi di storia’ di Camera-Fabietti, edito da Zanichelli, ‘reo’, ad avviso del Pdl, di sostenere che “l’ignominia dei gulag sovietici non è dipesa da questo sacrosanto ideale (il comunismo), ma dal tentativo utopico di tradurlo immediatamente in atto o peggio dalla conversione di Stalin al tradizionale imperialismo”. E ancora, la ‘Storia’, volume III, di De Bernardi-Guarracino, edito da Bruno Mondadori, per il quale dal 1948 “l’attuazione della Costituzione sarebbe diventato uno degli obiettivi dell’azione politica delle forze di sinistra e democratiche”. E si arriva ai tempi più recenti. “Con la caduta del Muro di Berlino e con la fine dell’ideologia comunista in Italia- si precisa nella premessa alla proposta- i tentativi subdoli di indottrinamento restano tali” e anzi “si rafforzano e si scagliano” contro “la parte politica che oggi è antagonista della sinistra”, quella guidata da Berlusconi. Nella proposta di legge Carlucci, sottoscritta alla Camera da altri 18 deputati Pdl per istituire una Commissione d’inchiesta per verificare “l’imparzialità dei libri di testo scolastici”, la messa all’indice viene supportata infine dai passaggi che descrivono gli ultimi 15/20 anni di storia politica italiana, ossia l’era berlusconiana. Uno degli esempi che, secondo i firmatari, “osanna” agli occhi degli studenti i partiti di centrosinistra lo si ritrova ne ‘La storia’ di Della Peruta-Chittolini-Capra, edito da Le Monnier, a proposito del Partito democratico della sinistra: “Il Pds- è scritto- intende proporsi come il polo di aggregazione delle forze democratiche e progressiste italiane” con “un programma di riforme politico sociali miranti a rendere più governabile il Paese”. Si tira poi in ballo la descrizione che L’età contemporanea di Ortoleva-Revelli, edito da Bruno Mondadori, fa di Oscar Luigi Scalfaro: “Dopo aver abbandonato l’esercizio della magistratura per passare all’attività politica nel partito democristiano” si è segnalato “per il rigore morale e la valorizzazione delle istituzioni parlamentari”. Ma il testo che più si distingue “per la quantità di notizie partigiane e propagandistiche” è, secondo i 19 deputati Pdl, quello di Camera e Fabietti. In Elementi di storia, citano, viene descritta l’attuale presidente del Pd, Rosy Bindi, come la “combattiva europarlamentare” che, ai tempi della militanza nella Democrazia cristiana, sollecitava ad “allontanare dalle cariche di partito” tutti “i propri esponenti inquisiti”. E come viene descritto l’antagonista Berlusconi? Nel 1994, citano ancora i parlamentari dalle pagine del libro di testo, “con Berlusconi presidente del Consiglio, la democrazia italiana arriva a un passo dal disastro”. Secondo gli autori, “l’uso sistematicamente aggressivo dei media, i ripetuti attacchi alla magistratura, alla Direzione generale antimafia, alla Banca d’Italia, alla Corte costituzionale e soprattutto al presidente della Repubblica condotti da Berlusconi e dai suoi portavoce esasperarono le tensioni politiche nel Paese”. L’elenco dei libri “naturalmente potrebbe continuare ancora per molto - conclude il Pdl - ma bastano questi esempi per capire la gravità della questione”.

PARLIAMO DELL’ISTRUZIONE E DEGLI IGNORANTI LAUREATI.

Milano, si laurea senza il diploma: «Ha faticato, il suo titolo è valido». L’università Statale: «Certificato falso, carriera da annullare». Ma i giudici lo promuovono, scrive Gianni Santicci il 7 settembre 2016 su “Il Corriere della Sera”. Si è laureato in Giurisprudenza alla Statale nel 2013, ma 10 mesi dopo ha ricevuto una comunicazione dell’ateneo che annullava la laurea e tutta la sua carriera universitaria. Perché lo studente aveva auto-certificato di essersi diplomato in una scuola che rilasciava titoli falsi (ma lui non lo sapeva). Il Consiglio di Stato ha però riconosciuto la validità della laurea cancellata. Prima di raccontare come si sia arrivati al «risultato», c’è da registrare il primato: il caso, con buona probabilità unico nella storia dell’istruzione in Italia, di uno studente che si è laureato in Giurisprudenza all’università Statale, nel 2013, senza aver mai ottenuto un diploma di scuola superiore. La vicenda è stata al centro di una battaglia legale durata un paio d’anni, fino a che il Consiglio di Stato ha stabilito che non fosse corretto accanirsi sul ragazzo e annullare a posteriori la sua intera carriera universitaria, considerati i sette anni di studio e fatica e «l’incidenza sulla sua situazione di vita, personale e professionale». La travagliata storia di questo dottore in giurisprudenza inizia nel 2005, lontano da Milano, in un’aula del «liceo» Giacomo Leopardi di Torre del Greco. All’epoca, il giovane si diploma con il voto di 80/100 e parte per Milano, dove si immatricola alla Statale. Inizia a studiare, fa gli esami; non è rapidissimo nel completare il percorso ma, alla fine, il 19 marzo 2013 discute la tesi e si laurea. Festeggia. Inizia a pensare al lavoro. Fino a che, una decina di mesi dopo, e siamo a fine gennaio 2014, riceve a casa una lettera dall’università. Prima di spiegare cosa contenesse quella comunicazione, bisogna ricordare che pochi giorni prima della laurea, su richiesta dell’ateneo, lo studente aveva presentato, tra gli altri documenti, un’autocertificazione in cui attestava di essersi diplomato a Torre del Greco. Ecco, nei mesi seguenti, la segreteria della Statale ha cercato di chiedere il diploma originale, e si è anche rivolta al ministero dell’Istruzione, per arrivare a scoprire, alla fine, che in realtà la scuola «Giacomo Leopardi» di Torre del Greco non esiste. E si arriva così alla lettera del 2014, che ha affondato il neolaureato in un dramma umano: senza diploma, non si può conseguire la laurea, e dunque la Statale comunicava di aver cassato, cancellato, annullato la sua intera carriera universitaria. Mancando il presupposto dell’esame di maturità, decade tutto ciò che è avvenuto dopo e che su quel documento preliminare si era fondato. Ma cosa vuol dire: «La scuola non esisteva»? La vicenda qui si intreccia con un’inchiesta giudiziaria. Perché poco dopo che il futuro dottore in giurisprudenza si diplomasse, la Procura di Torre Annunziata aprì un’inchiesta che si chiuse nel 2007 con una decina di arresti. Le cronache dei giornali locali, all’epoca, la raccontarono così: «Due pregiudicati per reati finanziari hanno costruito un sistema scolastico “parallelo” (con tre istituti per la preparazione agli esami tra Torre del Greco e Pomigliano d’Arco) che ha sfornato titoli di studio completamenti falsi, diplomi e lauree. Scuole non parificate, né in alcun modo riconosciute, che incassavano rette per seguire i corsi e poi presentavano una sorta di tariffario a conguaglio di 4 mila euro per un diploma e 10 mila per una laurea» (nel 2014 sono arrivate sei condanne in primo grado, da 6 anni a un anno e mezzo, per i responsabili delle truffe). Il dottore in legge della Statale si era diplomato proprio in quella scuola fantasma in Campania. La sua battaglia legale s’è fondata tutta su una tesi semplice: «D’accordo, il diploma è nullo. Ma all’epoca sono stato truffato». A febbraio 2015 il Tribunale amministrativo di Milano condivide la tesi dell’università: se l’autocertificazione è falsa, l’unico dato che conta è proprio la «non veridicità, rispetto alla quale il complesso delle giustificazioni è irrilevante». Da qui, la conferma: la laurea è nulla. Con una sentenza appena depositata, il Consiglio di Stato ha invece ribaltato la prospettiva (e l’esito della decisione): ritenendo che il ragazzo sia stato vittima di truffa, pur se la sua autocertificazione si fonda su una palese falsità, lui ha comunque agito in buona fede. Era «inconsapevole» e per questo, in ultima analisi, «incolpevole». Così, considerando anche gli effetti umani che la cancellazione della carriera universitaria alla Statale avrebbe provocato, i giudici gli hanno restituito la laurea: dottore, pur senza diploma.

Dopo la laurea: dottori senza nome. Di riforma in riforma, dal 2000, il sistema universitario italiano si è complicato. E' difficile chiedere ai giovani cosa faranno da grandi. Ma, prima ancora, in cosa si sono laureati, scrive il 12 agosto 2016 "La Repubblica". Un tempo, ai miei tempi, cioè tanto tempo fa, i giovani studiavano per avere un futuro professionale. Per fare carriera. Nel privato, nel pubblico, nelle professioni. Mio padre, ad esempio, mi spinse a continuare gli studi, dopo le scuole dell'obbligo. Perché io potessi raggiungere quel livello di reddito ma anche quella posizione sociale che auspicava. Per me, ma anche per se stesso. Perché attraverso i figli gli adulti promuovevano anche la propria ascesa sociale. Di generazione in generazione. Mio padre, ad esempio, sperava che io, dopo le scuole superiori, frequentassi Giurisprudenza. Cioè: Legge. Mi immaginava "Notaio". Guadagno e prestigio sociale garantiti. In alternativa, avrei potuto orientarmi alla carriera di Avvocato. D'altronde, sapeva che io con la matematica e con le discipline tecniche avevo poca confidenza. E a fare l'Ingegnere o l'Architetto proprio non ci pensavo. Così quando, concluso il Liceo classico, gli comunicai la mia scelta, mi guardò perplesso. E un po' depresso. Scienze politiche. Che cosa avrei combinato nella vita? Che avrei fatto? Il "politico"? Cioè, il professionista senza professione? Preciso che mio padre era politicamente impegnato. Consigliere comunale socialista, all'opposizione in un comune dove, nei primi anni 70, la Dc prendeva l'80% dei voti. Ma, insomma, una cosa era l'impegno, altro il lavoro. La professione. Per rassicurarlo, aggiunsi che, in effetti, avevo deciso di frequentare l'indirizzo sociologico. Con l'esito di aumentarne i suoi dubbi. Fra Scienza Politica e Sociologia: dove sarei finito? Che "mestiere" avrei fatto? Questione che si ripropose, in modo più netto, quando, finiti gli studi, divenuto "Dottore in Scienze Politiche", spiegai a mio padre che avevo deciso di intraprendere la professione del ricercatore. Avrei fatto il "Sociologo". Cioè? Che fa il Sociologo? Come si guadagna da vivere, per sé e la famiglia? Ma ormai si era rassegnato a quel figlio incapace di pensare al futuro in modo concreto. Mosso da passioni più che da interessi. Impegnato a inseguire le materie e le attività che gli piacevano più che un lavoro remunerativo e sicuro. Tuttavia, è una questione di fiducia. E lui si fidava di me. Così non fece nulla per "frenarmi". Anche se, ogni tanto, in modo discreto, interpellava mia moglie per capire se il sociologo riuscisse a mantenere la famiglia. Oppure vi fossero problemi di reddito. Preoccupazioni che, progressivamente, declinarono, fino a scomparire. Soprattutto nei primi anni Novanta, quando il figlio, a quarant'anni, divenne Ricercatore. Di ruolo. Cioè: "Professore". Statale. Garantito. Fino alla pensione. Oggi, però, per i giovani, molto è cambiato. Nessun genitore pensa che studiare garantisca un futuro professionale. La maggioranza degli italiani, d'altronde, è convinta che, a differenza del passato, i figli non raggiungeranno la posizione sociale dei genitori. Eppure tutti - o quasi - i genitori sostengono i figli negli studi. Dopo l'obbligo e le Superiori, li spingono a frequentare l'Università. Anche se molti non la concludono. Visto che, per numero di laureati, l'Italia è ultima in Europa. Studiare, d'altronde, serve. Se non nel lavoro, nella vita. Aiuta a capire, a pensare. Il problema è che, dopo la riforma Berlinguer, del 2000, di riforma in riforma, di ministro in ministro, il nostro sistema universitario si è complicato. Oggi abbiamo Lauree brevi e Specialistiche. Meglio: Magistrali. Riassunte in un numero magico: il 3+2. Poi: basta Facoltà. Ma Scuole e Dipartimenti. Come ha osservato Federico Bertoni, in un saggio acuminato (UniversItaly. La cultura in scatola, Laterza, 2016), dentro all'Università "riformata" è cresciuta "una complicatissima ingegneria burocratica fatta di tabelle e classi di laurea, ordinamenti e regolamenti, curricula e piani didattici". Sommersa da crediti e discrediti. Per identificare il laureato oggi occorre fare riferimento ai corsi di Laurea. Che, però, hanno nomi e definizioni talora complessi. Che cambiano più volte, nel corso degli anni. Dipende: dal numero di iscritti, dai fatidici - e famigerati - requisiti minimi. Cioè, dai docenti di ruolo a disposizione. Così, molto è cambiato da quando mio padre non capiva cosa sarei diventato da grande. Studiando Sociologia o Scienze Politiche. Che mestiere avrei fatto? Quale professione? E come mi sarei mantenuto? Come avrei sostenuto la famiglia? Il futuro dei miei figli? Oggi il problema è diverso. Forse, ancor più complicato. Perché se le Facoltà non esistono più, se i Dipartimenti sono multi-disciplinari. Affiancati da Scuole Interdipartimentali. Se i Corsi di Laurea cambiano definizione e nome. Spesso. Allora diventa difficile chiedere ai giovani cosa faranno da grandi. Ma, prima ancora, in cosa si sono laureati. Dopo la Laurea, saranno Dottori senza nome.

Maturità, i prof bocciano prima dell'esame: ma serve ancora? Il ministero dell'Istruzione ha reso noti i numeri dell'esame dello scorso anno, che inducono a qualche riflessione, scrive Salvo Intravaia il 29 gennaio 2016 su “La Repubblica”. L'esame di maturità appare sempre più "inutile". I numeri appena pubblicati dal ministero dell'Istruzione danno ragione a coloro, e non sono pochi, che da anni chiedono l'abolizione degli esami di Stato della secondaria di secondo grado. Innanzitutto, perché i professori interni alla scuola sono chiamati a giudicare i propri alunni ben due volte nell'arco di tre settimane: per l'ammissione agli esami e per le prove dello stesso. E in più genitori e studenti farebbero volentieri a meno del rito. L'ultimo report del Miur consegna agli annali i dati dell'anno scolastico 2014/2015, in cui i docenti interni alle classi hanno fermato 4,4 studenti su cento prima delle prove d'esame. Gli altri sono stati quasi tutti promossi tra giugno e luglio. I diplomati registrati da viale Trastevere, numeri alla mano, ammontano al 99,3 per cento. Il dato più alto da quando nel 2006/2007 venne reintrodotta l'ammissione agli esami, cancellata dalla riforma Berlinguer del 1997, entrata in vigore due anni dopo. Dal 2006/2007 la quota di diplomati è variata dal 97,3 per cento - proprio nel 2006/2007 - al 99,1 per cento degli ultimi due anni. Un crescendo di promozioni simile a quello che prima del 2007 portò l'allora ministro della Pubblica Istruzione, Giuseppe Fioroni, a ripristinare il lasciapassare rilasciato dal consiglio di classe per l'accesso agli esami. Mentre, nel 2014/2015 i non ammessi agli esami - quel 4,4 per cento pubblicato dal Miur - risulta abbastanza in linea con i dati degli anni passati. In altre parole, la selezione all'ultimo anno viene effettuata dai docenti interni e l'esame - che costa 138 milioni di euro ogni anno, tra diarie e compensi ai commissari - è quasi una formalità. I sostenitori della maturità ritengono invece che l'esame abbia ancora utilità, più che dal punto di vista didattico da quello psicologico-educativo: dopo una lunga carriera scolastica quello di maturità è il primo vero e proprio esame che affrontano gli studenti delle superiori. Ma da oltre un decennio i ragazzi affrontano le prove scritte e il colloquio pensando già ai test di accesso all'università, che in molti casi sono di gran lunga più impegnativi di quelli di maturità.

IGNORANTI E LAUREATI. COLPA DELLA SCUOLA? APPELLO DEI GENITORI: NON BOCCIATE I NOSTRI FIGLI. Appello dei genitori agli insegnanti: "Non bocciate i nostri figli". Lettera a tutti gli istituti della provincia di Modena: "Bravi alle medie, disastrosi dopo. La colpa è della scuola", scrive Davide Berti su  “L’Espresso”. Si parla di Buona Scuola, gli scrutini si fermano, sale la tensione per chi ha gli esami, qualcuno ha concluso percorsi formativi, magari particolari e interessanti, con docenti appassionati. La scuola è anche questo. Poi ci sono i genitori, che nei giorni scorsi hanno preso una iniziativa che mai a Modena si era vista, forse segno dei tempi. Il coordinamento provinciale dei presidenti dei consigli di circolo, di istituto e i comitati genitori di Modena - vale a dire i genitori eletti nelle scuole e quindi rappresentanti delle famiglie modenesi - hanno scritto una lettera aperta ai docenti, ai consigli di istituto delle scuole secondarie di secondo grado della provincia, indirizzandola in modo particolare agli insegnanti delle classi prime. Motivo? Una sorta di clemenza per gli scrutini del primo anno delle superiori, che rappresentano da sempre uno degli sbarramenti più severi del percorso scolastico. Colpa delle medie troppo larghe o delle superiori troppo severe? Per i genitori la colpa è della scuola in generale. Iniziativa quanto meno curiosa: «Nei prossimi giorni - scrivono i genitori agli insegnanti - sarete chiamati al difficile e delicato compito di valutare i nostri ragazzi e di decidere sul loro futuro. Conoscendovi ed apprezzando la vostra competenza, preparazione, capacità e serietà siamo certi che saprete farlo con grande attenzione. Ci permettiamo solamente di rivolgervi un accalorato invito a riflettere sulla situazione dei ragazzi delle prime superiori. Nella scuola italiana il momento più arduo e complesso è certamente il passaggio dalle scuole medie alle scuole superiori. I dati dimostrano come, alla fine del ciclo triennale delle scuole secondarie di primo grado, colleghi altrettanto bravi, preparati e coscienziosi come voi “licenziano” i nostri ragazzi in misura elevatissima: all’esame di terza media la percentuale dei promossi sfiora il 99 per cento, la metà di loro con punteggi superiori al sette. I dati dimostrano che dopo soli 12 mesi gli stessi ragazzi, forse per una mutazione genetica intervenuta, hanno risultati disastrosi alla fine della prima superiore, soprattutto negli indirizzi di scuola “apparentemente più facili”, tecnici e professionali». Poi una sottolineatura: «Diciamolo, c’è qualcosa che non va. Non nei ragazzi, non nelle loro famiglie, ma nel funzionamento della scuola italiana. I ragazzi e le famiglie pagano però le conseguenze, a volte anche molto pesanti in termini di dispersione scolastica, di questa situazione. Come associazione Coordinamento Provinciale Consigli di Circolo d’Istituto e Comitati Genitori, non abbiamo soluzioni pronte, formule magiche da proporre. Non chiediamo il “6 politico”, la promozione per tutti. Sarebbe un’ingiustizia ancora maggiore per i nostri ragazzi. Vi invitiamo semplicemente a riflettere su questa situazione nella convinzione che la vostra sensibilità, la vostra preparazione, la vostra professionalità vi aiuteranno a trovare la soluzione migliore per i nostri ragazzi». È una richiesta che parla da sola...

il commento su la rubrica "Non volevo fare la prof" di Mariangela Galatea Vaglio su “L’Espresso”. I genitori di Modena e la scuola media che non va. A Modena i genitori eletti nei consigli di circolo (quindi non dei genitori qualsiasi, i genitori che rappresentano la componente dei genitori nelle istituzioni scolastiche) hanno scritto a tutte le scuole della Provincia, chiedendo ai professori delle prime di "essere clementi": i loro figli, dicono, sono usciti dalle medie con punteggi buoni, ma poi in prima superiore non arrivano al sei. Di chi sarà mai la colpa? Per i genitori è chiaro: della scuola. "Ci permettiamo solamente di rivolgervi un accalorato invito a riflettere sulla situazione dei ragazzi delle prime superiori. Nella scuola italiana il momento più arduo e complesso è certamente il passaggio dalle scuole medie alle scuole superiori. I dati dimostrano come, alla fine del ciclo triennale delle scuole secondarie di primo grado, colleghi altrettanto bravi, preparati e coscienziosi come voi “licenziano” i nostri ragazzi in misura elevatissima: all’esame di terza media la percentuale dei promossi sfiora il 99 per cento, la metà di loro con punteggi superiori al sette. I dati dimostrano che dopo soli 12 mesi gli stessi ragazzi, forse per una mutazione genetica intervenuta, hanno risultati disastrosi alla fine della prima superiore, soprattutto negli indirizzi di scuola “apparentemente più facili”, tecnici e professionali. Diciamolo, c’è qualcosa che non va. Non nei ragazzi, non nelle loro famiglie, ma nel funzionamento della scuola italiana. I ragazzi e le famiglie pagano però le conseguenze, a volte anche molto pesanti in termini di dispersione scolastica, di questa situazione. Come associazione Coordinamento Provinciale Consigli di Circolo d’Istituto e Comitati Genitori, non abbiamo soluzioni pronte, formule magiche da proporre. Non chiediamo il “6 politico”, la promozione per tutti. Sarebbe un’ingiustizia ancora maggiore per i nostri ragazzi. Vi invitiamo semplicemente a riflettere su questa situazione nella convinzione che la vostra sensibilità, la vostra preparazione, la vostra professionalità vi aiuteranno a trovare la soluzione migliore per i nostri ragazzi." Ora, che si deve rispondere ad una lettera come questa? Per un insegnante, sbottare sarebbe facilissimo, e anche con fondati motivi. Perché non è chiaro poi esattamente cosa richiedano i genitori con il loro accorato appello: il sei politico no, lo dicono esplicitamente. Però non vogliono che i figlioli siano bocciati. Siamo dalle parti della botte piena e la moglie ubriaca: con tutta la buona volontà anche la mente più agile non riesce a trovare soluzione a questo paradosso. Tanto è vero che anche i genitori non suggeriscono strategie: dicono ai professori "pensateci voi", come i se poveri insegnanti fossero delle specie di geni della lampada, dotati di poteri miracolosi. Intendiamoci: la situazione descritta dalla lettera è reale, e spesso noi delle medie patiamo la difficoltà di trovare un coordinamento più stretto con i colleghi delle superiori, cosa difficile non per cattiva volontà ma perché l'ordinamento scolastico odierno non lo prevede e non esistono in pratica spazi e tempi di confronto. E' vero che ogni anno escono dalle medie quasi tutti. Agli esami di terza è rarissimo il caso di qualcuno che non sia ammesso ed ancor più raro quello di qualcuno che sia bocciato. E fra tanti alcuni ragazzi escono anche avendo avuto una sufficienza che è un vero e proprio regalo. I professori delle medie sono dunque troppo di "manica larga"? Be', non sempre: come al solito le dinamiche di certi voti andrebbero spiegate meglio perché spesso e volentieri il percorso della valutazione non è compreso appieno né dal genitore né dalla società in generale. Premettiamo una cosa: se alle medie si boccia sempre meno, anzi quasi nulla, è dovuto al fatto che la società nel suo complesso ha ormai deciso che la bocciatura alle medie e in tutta la scuola dell'obbligo è inaccettabile, e reagisce piccatissima quando qualcuno non viene promosso. Il Consiglio di Classe ed il Dirigente Scolastico che si azzardino a bocciare un alunno si ritrovano nel migliore dei casi ad affrontare genitori imbufaliti che si presentano in Presidenza minacciando azioni legali, anzi spesso le minacciano addirittura ad anno ancora in corso, come forma di pressione preventiva. Ma questo passi, è almeno comprensibile: a nessuno piace vedere il figlio bocciato. Meno comprensibile è che ormai i genitori si presentino con l'avvocato al seguito ed il ricorso già scritto anche se il ragazzo viene promosso, ma con un voto che non è quello sperato. A chi non è dentro al mondo della scuola sembrerà una follia, ma a luglio non si contano i padri e le madri che arrivano infuriati perché il figlio ha avuto solo sette o solo otto, come il compagno di banco che loro non sopportano, e giudicano questa un'onta da lavare con il sangue, o per lo meno in qualche aula di tribunale. Quindi non stupiamoci se alcuni voti in uscita sono magari "generosi" più del dovuto: alla prospettiva di ritrovarsi in grane legali per anni perché si è dato sei invece di sette molti, semplicemente, risolvono la questione alzando le medie, consapevoli che poi, appena il ragazzo arriverà alle superiori, la vita farà giustizia. Vi è poi un problema di fondo, meno noto ma decisivo. I giudizi delle medie e delle superiori sono basati su criteri differenti. Alle medie avendo a che fare con ragazzi più piccoli di età, il voto della singola materia tiene conto di tutta una serie di variabili. Noi, in pratica, non valutiamo in maniera secca e semplice solo quello che l'alunno ha imparato, ma teniamo conto anche del percorso complessivo che ha fatto in un periodo così delicato come è il passaggio tra l'infanzia e l'adolescenza. Per cui ragazzini che magari hanno qualche lacuna nella preparazione specifica vengono però licenziati con la sufficienza e anche di più perché teniamo conto della loro partecipazione, della loro capacità di impegnarsi, socializzare in classe, dimostrarsi disponibili e presenti. Non avendo per giunta la possibilità di rimandare a settembre come alle superiori l'alternativa è secca: o si boccia a giugno o si promuove. E così chi ha magari alcune materie lacunose viene mandato avanti, anche perché fermarlo e bloccarlo per un anno quando sappiamo che ha comunque fatto tutto il possibile e più di tanto non può dare sarebbe un atto di ingiustificata e soprattutto inutile crudeltà. Va anche detto che noi delle medie nei consigli orientativi per le superiori spesso segnaliamo questo fatto, cercando di indirizzare i ragazzi nel tipo di istituto e addirittura nella scuola specifica dove sappiamo che potranno riuscire meglio. La terminologia usata dai genitori nella lettera, che definisce "più facili" le scuole tecniche o professionali, fa un po' rabbrividire: in realtà non esistono "scuole più facili" e tecnici e professionali, anzi, sono scuole molto impegnative. Gran parte dei fallimenti sono imputabili, dati alla mano, al fatto che le famiglie e gli alunni spesso non seguono il consiglio orientativo dato dagli insegnanti, oppure, peggio ancora, danno per scontato, appunto, che un tecnico o un professionale siano scuole "facili" in cui non sono richiesti studio ed impegno serrato. Da qui molto spesso nasce l'esito disastroso del primo anno. Quindi, onestamente, io non so bene cosa rispondere ai genitori di Modena. Se non una cosa: dire a prescindere che la colpa non è dei ragazzi né delle famiglie, ma della scuola e basta non è solo ingeneroso, ma anche poco logico. Dall'uscita dalle medie, pure con un voto alto e non del tutto ingiustificato, alla bocciatura in prima superiore è passato un anno. Durante il quale un ragazzo, se si impegna, è in grado di recuperare da solo le lacune più gravi, anche in più materie. Se non viene rimandato settembre ma proprio bocciato sì, è vero, c'è sicuramente qualcosa che non va. Ma non solo ed esclusivamente nella scuola media che l'ha licenziato l'anno prima, ecco.

Gli universitari? Non sanno l'italiano. Troppi strafalcioni anche tra i laureandi: all'Università di Pisa nasce il corso di grammatica base, scrive Giampaolo Iacobini su "Il Giornale”. Gli italiani non conoscono l'italiano. E nelle università arrivano i corsi di grammatica. La strada l'ha aperta la facoltà di Giurisprudenza di Pisa: dal prossimo anno accademico sarà attivo, con frequenza obbligatoria, un corso in cui si studieranno apostrofi, accenti, verbi. Troppi gli studenti che, a un passo dalla laurea, ricordano a memoria i codici ma poi, quando si mettono alla tastiera, nonostante il correttore automatico ne scrivono di cotte e di crude, affogando in un mare di «qual'è», di «pò» ed «eccezzioni» varie, tra i flutti del «se tu non ci fossi la mia vita non esistesse». Già lo scorso ottobre un monitoraggio web effettuato dalla piazza digitale Liberiamo su un campione di 5mila utenti di blog, forum e community aveva fatto scattare l'allarme: il 73 per cento degli intervistati litigava quotidianamente con l'apostrofo. Il 68 per cento manifestava incomprensioni (probabilmente reciproche) con l'accento. Il 61 alzava bandiera bianca di fronte al congiuntivo. Dati del resto già anticipati dalle rilevazioni promosse dall'Ocse per valutare il livello di istruzione degli adolescenti: il 20 per cento mostrava disagio con la lingua madre. Con i ragazzi del Meridione a precedere i loro coetanei del Nord nella classifica degli orrori. Percentuali che, secondo il Centro europeo dell'educazione, addirittura peggiorano in coda agli studi universitari. Col 21per cento dei laureati incapace di andare oltre il livello minimo di decifrazione di un testo. «I nostri studenti non conoscono le lingue, compreso l'italiano», ammoniva che era il 2012 l'allora ministro Elsa Fornero. Probabilmente, l'unica analisi non sballata della sua parentesi ministeriale, che non ha però inciso più di tanto sulla definizione d'un problema che neppure il governo dei professori, ironia della sorte, è riuscito a risolvere. E oggi, mentre un altro governo propone una riforma che punta a cambiare i modelli organizzativi scolastici senza intervenire sui nodi educativi, negli atenei ci si arrangia. Spiega Eleonora Sirsi, docente che Pisa curerà il corso di grammatica per gli iscritti a Giurisprudenza: «I giovani hanno difficoltà grammaticali e sintattiche. E sempre più di frequente capita di imbattersi in errori di grammatica sorprendenti, punteggiatura a caso, frasi senza soggetto, incidentali che non si concludono». Colpa «del buonismo degli insegnanti e della qualità dell'insegnamento di base», a detta del linguista (ed ex ministro della pubblica istruzione) Tullio De Mauro, e forse pure del web e dei social forum, anche se una corrente di pensiero, cui appartiene ad esempio lo storico della lingua Luca Serianni, valuta positivamente il contributo delle tecnologie. Di certo all'ombra della torre pendente si è deciso di non indugiare oltre e di seguire le indicazioni venute da uno staff composto, tra gli altri, da Francesco Sabatini, già presidente e ora presidente onorario dell'Accademia della Crusca. Obiettivo? «Non migliorare lo stile, ma imparare a scrivere e parlare correttamente in italiano», taglia corto la Sirsi. Perché se per un punto Martin perse la cappa, per un congiuntivo sbagliato o un accento mal posto si può ancora perdere la faccia, e non solo quella.

TITOLATI SI’, TITOLATI NO!

Essere o avere: questo è il dilemma!

“Quando sento parlare Salvini mi rendo conto di quanti libri non ha letto, dei film che non ha visto, delle canzoni che non ha ascoltato. Basta sentirlo parlare per capire che è un fuoricorso che non si è laureato, nonostante gli sforzi“. Lo ha detto il leader di Ncd, Angelino Alfano, intervenendo alla convention del partito, di fatto proseguendo quello che è ormai un lungo “botta e risposta” fra lui e il segretario della Lega Nord.

Alfano a Salvini: "Io sono laureato e tu no". Quando lo scontro politico passa dai titoli. Il ministro dell'Interno usa la laurea per attaccare il segretario leghista. Ma scorda che nel suo governo in tre sono senza laurea. E riapre il calderone dei complicati rapporti tra i politici e i titoli di studio mancanti, inventati, presi in ritardo e messi in dubbio, scrive Susanna Turco su “l’Espresso”. In un’altra giornataccia delle sue, pur di trovare un argomento da lanciare contro il leader leghista Matteo Salvini, Angelino Alfano, capo dell’Ncd, l’ha buttata sul titolo di studio: “Basta ascoltare Salvini e si capisce perché è un fuori corso. Uno che non si è nemmeno laureato nonostante i notevoli sforzi”, ha detto. Con il che simpaticamente apparendo nello stesso tempo fuorimoda e d’una certa età. Non che, persino in politica, una laurea sia carta straccia s’intende. Ma, senza stare a scomodare Platone, è appena il caso di notare che in questo periodo i titoli di studio in politica non vanno per la maggiore: non tanto perché al governo ci sono tre ministri senza laurea. Ma soprattutto perché la memoria dell’era Monti, il governo non solo dei laureati, ma addirittura dei professori, sta andando a scatafascio, tra penose esperienze politiche e tragici lasciti di esodati e di pensionati da risarcire. A dimostrazione, una volta di più, di quanto non sia affatto scontato che il sapere tecnico vada a braccetto con l’arte politica, o perfino col fare le leggi. E per di più risfodera, Alfano, un argomento più vecchio persino dell’età che porta. L’idea cioè che la laurea sia un discrimine, la controprova di essere entrati in un campo di ottimati: roba che rimanda al mondo dei padri, più che a quello dei figli, per i quali la laurea può anche non darsi, ma comunque è una conquista relativa visto che non basta più, da sola, a fare la differenza. Non per caso, alle ultime politiche Beppe Grillo andava urlando ai quattro venti che il “più scemo” dei suoi candidati, mediamente giovanissimi, aveva per lo meno “una laurea e un master”: precisando, peraltro, che “Non contano solo questi titoli”, ma anche per esempio, l’esser madre di tre figli, con tutta la “esperienza ad amministrare” che ciò comporta. Né è da dimenticarsi che una delle ultime polemiche di governo sui laureati aveva il segno inverso: “Se non sei ancora laureato a 28 anni sei uno sfigato”, fu la celeberrima gaffe con la quale Michel Martone, giovane professore e sottosegretario al lavoro, oltre ad attirarsi un mare di simpatie, chiarì a suo modo cosa la laurea è diventata (per chi può permettersela): il prodromo a un master. L’orgoglio di rivendicarla capita invece per lo più a politici di una certa età. Esibire il titolo di studio che si ha, o che magari nemmeno si ha. Come fu il “grave errore dovuto a un complesso di inferiorità” di Oscar Giannino, giornalista economico, la cui esperienza politica fu appunto devastata nel 2013 dalla mancanza della sua propria asserita doppia laurea in Legge e in Economia (per non parlare del master a Chicago): il suo Fare per Fermare il declino, dopo quella vicenda, fu travolto al punto che le cronache riportano di come, dopo la tragedia, il capolista in Umbria Eugenio Guarducci girasse per la campagna elettorale portandosi appresso, tipo vessillo sacro, la sua laurea in architettura, con tanto di cornice dorata, prontamente staccata da una parete del corridoio di casa. Ecco, perché poi le più roventi polemiche del tipo “io sono laureato e tu no”, paiono appartenere in effetti ad un’altra stagione, ad altri uomini. In un Parlamento composto per due terzi da dottori in qualcosa (419 su 630 alla Camera, 210 su 315 al Senato) che Renzi sia laureato, come Angelino Alfano e Mara Carfagna, importa poco. Che non lo siano Giuliano Poletti, ministro del Lavoro, Beatrice Lorenzin, ministro della Salute, Andrea Orlando, ministro della Giustizia, o Matteo Orfini, presidente Pd, importa altrettanto. E invece, giusto a proposito di Guardasigilli, c’è traccia di un piccato botta e risposta che Piero Fassino, da ministro della Giustizia, ebbe con il leghista Roberto Castelli, che peraltro sarebbe stato il suo successore a via Arenula: “Fassino ha fatto il classico come me, ma io sono laureato e lui no”. “Non è vero, mi sono laureato in scienze politiche con 110 e lode”. “E in che anno?”. “Nel 1998, a Torino”. “Ah, dunque ha studiato mentre faceva il sottosegretario agli Esteri…”. Insomma si arrivò a un passo da quel che fece poi Pier Luigi Bersani: pubblicare su Facebook la copia del suo libretto universitario (tutti 30, 30 e lode, un 28), dopo che da ministra dell’Istruzione Mariastella Gelmini gli aveva dato dello “studente ripetente”. Andando più indietro, c’è traccia di un comprensivo Clemente Mastella (“ho grande rispetto per chi ha studiato all’università della vita”) che tuttavia a Porta a porta chiarisce “io la laurea ce l’ho”, o di uno sdegnoso Pier Ferdinando Casini, che a un comizio precisa: “Mi chiami pure dottore, sono laureato a Bologna”. C’è l’affondo del forzista Francesco Giro contro Rutelli, che a un certo punto s’era detto pronto a fare “un corso di aggiornamento a Berlusconi”: “Lezioni di storia da Francesco Rutelli che non è stato capace di portare a termine i propri studi universitari di architettura? Sarebbe ridicolo”. In effetti è stato proprio Berlusconi l’uomo più affezionato al genere: il che forse spiega perché adesso Alfano ritiri fuori quell’argomento. Nel 2001 il Cavaliere ne fece un pezzo della propria campagna elettorale: “Quelli dell’Ulivo non sono neanche laureati”, andava dicendo. Fregandosene per esempio che Bossi fosse solo diplomato perito tecnico elettronico alla scuola Radio Elettra, che Marco Follini e Maurizio Gasparri fossero fermi alla maturità classica, a quella scientifica Francesco Storace e Gianni Alemanno (che poi si è laureato, da ministro, nel 2003), a quella linguistica Stefania Prestigiacomo (laurea triennale nel 2006). Tanto, di là, c’erano tra i non laureati appunto Rutelli, candidato premier, ma anche Massimo D’Alema (fermo a prima della tesi alla Normale di Pisa), Walter Veltroni e pure Fausto Bertinotti (perito industriale). Negli anni, ritrovandoselo poi come competitor nel 2008, Berlusconi se l’è presa soprattutto con Veltroni, definito “l’innovatore che invece di laurearsi si è diplomato in fiction”, colui che “dovrebbe prendersi una laurea visto che l’unica che ha è quella delle insolenze e delle menzogne”, quello da chiamare in caso di bisogno: “Lei signora fa l’attrice?”, chiese il Cavaliere a un incontro di partito, “allora si deve fare assumere da Veltroni. E’ lui che ha il diploma in cinematografia, io sono semplicemente un laureato con 110 su 110. Non può venire da me”, gigioneggiò il Cavaliere. Quel che è emerso poi, tra serate eleganti e bunga bunga, certo chiarisce da sé il peso sgocciolato di tali prese di posizione. Ma tant’è. Contro Berlusconi, il leader Idv Antonio Di Pietro intentò addirittura un processo per diffamazione, dopo che l’allora premier aveva detto, in un comizio a Viterbo, che l’ex pm di mani pulite “si era preso la laurea coi servizi segreti”. Un’onta che di Pietro ha continuato a citare, negli anni, come dimostrazione di tutte le menzogne berlusconiane: e che si è lavata in via definitiva solo di recente, quando l’ex magistrato ha accettato un risarcimento in denaro in cambio del ritiro della querela (ignoto il peso del gruzzolo). “E comunque il suo ex sodale Bettino Craxi non era laureato” resta in ogni caso a tutt’oggi la più chiara spiegazione di quanto a Di Pietro bruciasse l’accusa. A conti fatti, mentre per esempio nel centrosinistra si ha un atteggiamento molto noblesse (salvo adontarsi parecchio se i titoli vengono messi in dubbio, si sta sul: “Le esperienze maturate sul lavoro e nel volontariato valgono per lui molto di più anche delle mie due lauree”, come disse una volta Giuliano Pisapia) è proprio nella Lega che la faccenda risulta più problematica, faticosa da digerire. In questo, prendendo in giro Salvini, Alfano coglie qualcosa di vero. E se ora il leader leghista pur masticando amaro per i suoi cinque esami mancanti a Lettere spiega che “visti i risultati della Fornero sul lavoro, sono contento di non essermi laureato”, c’è da ricordare che Bossi all’inizio della sua attività politica (e persino alla prima moglie) fece credere d’essersi laureato. Mentre poi, anche degli studi del figlio Renzo talvolta accennò, prima che il Carroccio fosse travolto dalle inchieste sull’uso familista dei fondi del partito, dalle quali emerse una fantomatica laurea di Bossi junior conseguita in Albania. “Non ne so niente”, si difese Renzo. Così come fece anche la leghista Rosy Mauro, smentendo d’aver preso una laurea all’estero a spese della Lega con una argomentazione squisita: “Io ero asina a scuola, non mi ha mai neppure sfiorato l’idea di iscrivermi ad una università”. Va tuttavia detto che, nel mare delle lauree ad honorem che le università usano conferire ai politici (laureati e non), proprio Bossi è pressoché l’unico ad averla rifiutata: “Una laurea honoris causa in Scienze delle Comunicazioni a me? Sono stupidaggini. Avrei potuto fare il medico, invece ho scelto la Lega”. Almeno l’orgoglio, bontà sua.

Laurea e concorso pubblico “taroccati”. Guai per il fratello di Angelino Alfano, scrive Giuseppe Pipitone su “Il Fatto Quotidiano”. La squadra mobile di Palermo sequestra i documenti relativi alla nomina di Alessandro Alfano a segretario generale della Camera di Commercio di Trapani. L'ipotesi è che non avesse i titoli richiesti. Il caso si aggiunge all'inchiesta aperta sull'università del capoluogo siciliano. Laurea in economia e commercio fasulla e concorso pubblico per diventare segretario generale della Camera di Commercio di Trapani taroccato. E’ la pesante ipotesi accusatoria che gli inquirenti sollevano nei confronti di Alessandro Alfano, fratello minore di Angelino, segretario del Pdl. Ieri gli agenti della sezione reati contro la pubblica amministrazione della squadra mobile di Palermo sono entrati negli uffici della Camera di Commercio trapanese per sequestrare il fascicolo del concorso vinto da Alfano junior nel 2010. E proprio stamattina il fratello dell’ex Guardasigilli si è dimesso dall’incarico al vertice della Camera di Commercio di Trapani. All’inizio di dicembre Alfano era già finito tra i trenta indagati nell’inchiesta sugli esami comprati all’università di Palermo. L’indagine, che è coordinata dal procuratore aggiunto Leonardo Agueci e dai sostituti Amelia Luise e Sergio Demontis, ha preso il via proprio nel capoluogo siciliano. Per l’esattezza negli uffici di segreteria della facoltà di Economia e Commercio. Dove conseguire la laurea era diventato semplicissimo. Bastava pagare, ovviamente in contanti, un’impiegata della segreteria che in cambio inseriva nel database informatico dell’università esami mai sostenuti. E la laurea tanto agognata arrivava senza troppa fatica. L’indagine interna all’ateneo aveva già allontanato la dipendente infedele che aveva confermato di aver inserito nel sistema informatico esami fantasma in cambio di denaro. Adesso però l’inchiesta della magistratura sta cercando di far luce sui complici della segretaria corrotta e soprattutto sui corruttori. Ovvero gli studenti che acquistavano gli esami anziché studiare e sostenerli come tutti gli altri. E nella rete della procura palermitana è finito anche Alessandro Alfano, laureato nel 2009 alla triennale d’Economia e Commercio, quando aveva già compiuto 34 anni. Dal 2006 però, quando ancora non aveva conseguito il titolo di studio, Alfano era stato nominato segretario generale di Unioncamere Sicilia. Nel 2010 poi, dopo essersi finalmente laureato, il salto di qualità al vertice della Camera di Commercio di Trapani. Ben prima che si tenesse il regolare concorso pubblico, però, un esposto anonimo aveva incredibilmente predetto la vittoria del fratello dell’ex Ministro della Giustizia nella corsa alla segreteria generale. Nell’esposto si faceva anche riferimento al curriculum di Alfano Junior, tecnicamente insufficiente dato che il fratello del segretario del Pdl non avrebbe avuto alle spalle i cinque anni richiesti di esperienza dirigenziale, requisito fondamentale per partecipare alla corsa di segretario generale della Camera di Commercio trapanese. Adesso il fascicolo del concorso è al vaglio degl’inquirenti. Che stanno anche cercando di capire quali esami Alessandro Alfano avrebbe sostenuto all’università e quali invece figurerebbero nel suo piano di studi, senza che sia presente in archivio alcuna copia del verbale o dello statino. Alfano junior ostenta serenità: “Le mie dimissioni – ha spiegato – sono un atto di rispetto nei confronti di chi indaga e della Camera di commercio di Trapani affinché questa vicenda non abbia ripercussioni sull’attività svolta dallo stesso ente. Non voglio che questa vicenda si possa prestare a strumentalizzazioni politiche e pertanto ho deciso di dimettermi. Ribadisco di aver regolarmente sostenuto gli esami all’università oggetto di verifica e a tal riguardo sono pronto a dare tutte le spiegazioni necessarie alla magistratura”. Alfano è al momento indagato soltanto per frode informatica. Alcuni tra gli altri 29 ex studenti sono invece accusati anche di concorso in falso e corruzione, dato che sarebbero state trovate le prove dei pagamenti. Dal computer di Economia era possibile accedere anche ai database delle altre facoltà, e ogni tipo di esame avrebbe avuto il suo prezzo: fino tremila euro per quelli d’Economia, meno di mille per le materie di Scienze Politiche. Pagamenti rateali invece per gli esami d’Ingegneria.

Quando la laurea non serve: 7 famosi che non l’hanno mai presa, scrive Skuolanet su “La Stampa”. Da Steve Jobs a Benigni, da Mentana a Montale e Piero Angela, ecco 7 personaggi famosi che non hanno mai preso la laurea ma che hanno avuto lo stesso enorme successo nella loro carriera. Chi ha detto che la laurea nella vita è tutto? Ci sono personaggi famosi, noti alle cronache per grandi successi, che non hanno raggiunto l’ambito obiettivo che in molti si prefiggono: la laurea. Certo laurearsi è importante, ma non è l’esclusivo strumento per il successo. Vi dice qualcosa Apple o Facebook? Conoscerete sicuramente il signor Steve Jobs, con la t-shirt nera e i jeans, colui che ha inventato il Mac e l’iPhone. Ma ci sono molti altri personaggi acclamati di casa nostra che sono diventati qualcuno senza finire gli studi. Magari avrete sentito parlare di un certo Dario Fo, il Nobel per la Letteratura, il giornalista Mentana o l’esperto di Divina Commedia Roberto Benigni. Sono esempi di persone famose che non hanno ottenuto la laurea ma raggiunto lo stesso importanti traguardi. Ecco la lista:

7. Piero Angela - Il giornalista scientifico più famoso della Tv ha svelato da poco di non aver mai ottenuto la laurea. Niente titolo di studio universitario, ma grandi riconoscimenti professionali e share televisivi, per un signore che ha formato con i suoi programmi didattici migliaia di telespettatori di ogni età.

6. Enrico Mentana - E’ noto alle cronache per essere il giornalista con la lingua più veloce, rapido e scattante come un treno, si narra che in meno di 60 secondi riesce a leggere le scalette dei sommari del suo telegiornale. Enrico Mentana non ha la laurea, ma a quanto pare è riuscito lo stesso a diventare il direttore di uno dei giornali Tv più seguiti in Italia.

5. Eugenio Montale - Premio Nobel per la letteratura. Svariate centinaia di poesie scritte e insegnate nelle scuole. Il poeta degli “Ossi di Seppia” e del “Male di vivere”, grazie alle sue metafore e al suo umorismo sottile, nell’arco di 50 anni di letteratura è riuscito a segnare una traccia profonda forse più vivida dell’inchiostro per firmare un voto sopra un foglio istituzionale.

4. Roberto Benigni - Il cantore moderno della “Divina Commedia”, protagonista di alcuni tra i film più belli del cinema italiano e premio Oscar per uno dei lungometraggi più commoventi del cinema mondiale. Sicuramente un riconoscimento che vale molto più di un 110 all’università.

3. Dario Fo - “Mistero Buffo” è il titolo della sua opera teatrale più famosa, ma anche un attributo che calza bene alla faccia comica, misteriosa e umoristica che ha portato questo saltimbanco moderno a celebrare l’Italia nel mondo grazie al premio Nobel per la Letteratura. All’università non avrà preso la laurea, certo, ma ha guadagnato un riconoscimento forse più gratificante.

2.Steve Jobs - Una delle personalità più complicate quanto affascinanti degli ultimi trent’anni. Il visionario che ha rivoluzionato la tecnologia e il modo di usarla, l’uomo che ha creato uno stile cambiando radicalmente il concetto di tecnologia: all’università non ha mai preso la laurea. Dopo aver frequentato diversi corsi ha mollato tutto per un viaggio in India e nel giro di pochi anni ha fondato una delle aziende più famose e ricche del globo.

1. Mark Zuckerberg - Era partito come un gioco, poi Facebook è diventato la piattaforma più usata sul pianeta. Milioni di persone collegate unite sulla rete social più grande mai creata. Mark Zuckerberg ha avuto un’idea geniale che gli è valsa più soddisfazione della proclamazione ufficiale del suo college ad Harvard.

Se pensate che per diventare milionari sia strettamente necessaria una laurea, probabilmente non avete accortezza di come ad oggi va il mondo. Titoli magistrali? Dottorati di ricerca? Master? Niente di tutto questo favorirebbe, secondo un recente studio di Approved Index, il successo economico nell’avvio e nello sviluppo di un proprio business. I ricercatori hanno esaminato i profili delle 100 persone più ricche del pianeta, notando che ben 32 non sono laureate. Una maggioranza schiacciante rispetto agli altri gruppi rappresentati nell’indice, con 22 ingegneri, 12 dottori in business, 9 laureati in arte, 8 in economia e 3 in finanza. Posto che l’elenco considera come criterio quello strettamente economico – non si sta qui parlando di preparazione culturale o QI – pare proprio che per essere dei Paperoni una preparazione accademica conti ben poco.

Miliardari senza laurea. Un blog americano stila una classifica di 15 super-ricchi privi del titolo universitario, scrive Alessandra Carboni su “Il Corriere della Sera”. «Devi finire le superiori, così potrai andare all'università e poi, una volta laureato, sarai sicuro di trovare un lavoro in cui far carriera». Recita più o meno così l'adagio rivolto dai genitori ai figli nell'intento di convincerli a non mollare la scuola, perchè - si sa - «studiare è importante». Ma c'è anche chi è pronto a smontare l'equazione da un altro punto di vista, per dimostrare che per diventare imprenditori di successo non è sempre obbligatorio trascorrere la gioventù sui libri. A sostenere questa teoria è il fondatore del blog College Startup, che sulle sue pagine stila una classifica di celebri ricconi diventati tali pur non avendo frequentato l'università. I nomi chiamati in causa sono 15 - tutti decisamente eccellenti - elencati in rigoroso ordine alfabetico. Scorrendo la lista ci si imbatte subito nel patron di casa Virgin, Richard Branson, che ha abbandonatogli studi a 16 anni per dedicarsi alla sua prima impresa, la rivista Student Magazine. Successivamente, la sua insaziabile fame di business lo ha portato a diventare l'imprenditore di successo che sappiamo, attualmente proprietario di ben 360 aziende. Un successo nato dal nulla anche quello della stilista Coco Chanel - orfana e senza possibilità di frequentare la scuola ma determinata a «diventare qualcuno» - come pure quello di Michael Dell, che con mille dollari in tasca ed entusiasmo da vendere ha lasciato il college all'età di 19 anni per fondare PC's Limited, ovvero quello che poi è diventato uno dei più grandi nomi nel campo della produzione di Pc: Dell Inc. E che dire di Walt Disney? Il papà di Topolino ha smesso di studiare a 16 anni, ma questo non gli ha impedito di diventare il signor Disney. Oggi la Walt Disney Company produce utili per 30 miliardi di dollari. Non male. Come la carriera di Henry Ford, che sempre a 16 anni se n'è andato di casa per lavorare come apprendista macchinista, salvo poi diventare il fondatore della Ford Motor Company e rivoluzionare l'industria automobilistica. Non ultimi, ecco altri due non-laureati illustri: Bill Gates e il suo antagonista di sempre, Steve Jobs. Il fondatore di Microsoft ha abbandonato l'università e non si è mai laureato, ma domina ugualmente la classifica degli uomini più ricchi del mondo dal 1995; Jobs si è limitato a frequentare il college per un semestre (ma lui stesso ammette che dopo l'abbandono ufficiale lo ha frequentato «clandestinamente» per un anno) prima di iniziare a lavorare per Atari e successivamente fondare la sua Apple Computers. Infine, passando dall'architettura software a quella edilizia, non si può certo ignorare che anche il genio di Frank Lloyd Wright non deve il proprio successo ad alcun titolo di studio. L'architetto di Fallingwater non si è mai iscritto alla scuola superiore, ma è stato uno degli esponenti più influenti dell'architettura del ventesimo secolo. Genio, intuito, coraggio e fortuna sono alla base della storia di tutti questi personaggi di successo, ma è assai probabile che le cose sarebbero andate così così anche se avessero avuto un titolo di studio nel cassetto. Nel dubbio, vale comunque la pena di ricordare che il tempo trascorso sui libri non è mai tempo sprecato.

15 imprenditori ricchi e famosi nel mondo senza laurea, scrive Matteo Spigolon su “Azuleia”.

Mary Kay Ash. Il fondatore di Mary Kay Inc. ha iniziato commerciando cosmetici. Senza nessun tipo di formazione, ha creato con successo un marchio conosciuto in tutto il mondo. Ad oggi, circa mezzo milione di donne hanno iniziato a vendere cosmetici per Mary Kay. Il loro apprezzamento per Mary Kay Ash è incredibile.

Richard Branson. Richard Branson è meglio conosciuto per la sua ricerca del brivido, per tattiche di business estreme e spirito emotivo. Ha abbandonato la scuola all’età di 16 ed ha iniziato la sua prima avventura d’affari di successo, Student Magazine. Egli è il proprietario del marchio Virgin e di altre 360 aziende. Le sue aziende includono Virgin Megastore e Virgin Atlantic Airway.

Coco Chanel. Orfana per molti anni, Gabrielle Coco Chanel si è “allenata” come sarta. Determinata ad inventare se stessa, lanciò l’idea coraggiosa che il mondo della moda femminile si sarebbe reinventato usando il tessuto e gli stili normalmente riservati agli uomini. Un profumo che porta il suo nome, Chanel No. 5 è famoso in tutto il mondo.

Simon Cowell. Simon Cowell ha iniziato a lavorare nell’ufficio postale di una casa editrice musicale. Da allora è diventato un artista ed un responsabile dei repertori per Sony BMG nel Regno Unito, è un produttore televisivo e giudice per le gare più importanti di talent show, tra cui American Idol.

Michael Dell. Con 1.000 dollari, la dedizione ed il desiderio, Michael Dell ha lasciato il college all’età di 19 anni per avviare PC Limited, poi chiamata Dell. Dell Inc. è diventato il più grande produttore di PC al mondo. Nel 1996, “The Michael e Susan Dell Foundation” ha offerto 50 milioni di dollari di sovvenzione alla Università del Texas a Austin da utilizzare per la salute dei bambini e l’istruzione in città.

Barry Diller. Fox Broadcasting Company è stata avviata dopo l’abbandono degli studi universitari. Diller è ora presidente di Expedia, CEO di IAC / InterActiveCorp.

Walt Disney. Dopo aver abbandonato la scuole superiori a 16 anni, la carriera di Walt Disney e le sue realizzazioni sono sbalorditive. La casa di animazione più influente, Disney detiene il record per il maggior numero di premi e nomination. Nella sua immaginazione erano previsti cartoni animati Disney e parchi a tema. The Walt Disney Company ha oggi un fatturato annuo di $ 30 miliardi.

Debbi Fields. Come giovane casalinga di 20 anni senza alcuna esperienza di business, Campi Debbi ha avviato “Mrs. Fields Chippery Chocolate”. Con una ricetta per biscotti al cioccolato, questa giovane donna è diventata la maggior titolare d’azienda di successo nel campo dei biscotti. In seguito ha cambiato nome, come franchising, poi venduto, in “Mrs.Field Cookies”.

Henry Ford. A 16 anni, Henry Ford ha lasciato casa per fare l’apprendista come macchinista. In seguito avviato la “Ford Motor Company” per la produzione di automobili. Primo grande successo di Ford, il Modello T. Ford ha poi aperto una grande fabbrica per iniziare la produzione, utilizzando la catena di montaggio, rivoluzionando il processo industriale.

Bill Gates. Classificato come uomo più ricco del mondo dal 1995 al2006, Bill Gates ha abbandonato anche lui gli studi universitari. Ha avviato la più grande società di software, Microsoft Corporation. Gates e sua moglie sono filantropi, hanno una fondazione, “The Bill & Melinda Gates Foundation”, con un focus sulla salute globale e sull’apprendimento.

Milton Hershey. Con solo la quarta elementare, Milton Hershey ha avviato la sua azienda di cioccolato. “Hershey Chocolate Milk” divenne il primo cioccolato commercializzato a livello nazionale negli Stati Uniti. Hershey è inoltre concentrato sulla costruzione di una meravigliosa comunità per i suoi operai, nota come Hershey, in Pennsylvania.

Steve Jobs. Dopo aver frequentato un semestre di college, Steve Jobs ha lavorato per Atari, prima di co-fondare Apple Computers. Ora Apple ha inventato prodotti innovativi come l’iPod, iTunes, e più recentemente l’iPhone e l’iPad. Steve Jobs è stato anche il CEO e co-fondatore di Pixar, che  è stata poi rilevata dalla Walt Disney.

Rachael Ray. Pur non avendo alcuna formazione nelle arti culinarie, Rachel Ray si è creata un nome nel settore alimentare. Con numerose mostre sul Food Network, un talk show e libri di cucina. E’ anche apparsa in riviste prima di debuttare con la propria rivista nel 2006.

Ty Warner. Unico proprietario, CEO e presidente di Ty, Inc., Ty Warner è un esperto uomo d’affari. Ty, Inc., fatto $ 700 milioni in un solo anno, con la “Beanie Babies” mania, senza spendere soldi in pubblicità! Da allora ha ampliato l’offerta per includere le bambole Ty Girlz, in diretta competizione con le bambole Bratz.

Frank Lloyd Wright. Non avendo mai frequentato il liceo, Frank Lloyd Wright ha superato ogni previsione quando è diventato il più autorevole architetto del ventesimo secolo. Wright progettò più di 1.100 progetti, di cui circa la metà effettivamente costruiti. I suoi disegni hanno ispirato numerosi architetti a guardare la bellezza intorno a loro ed a migliorarla.

Un mito da sfatare: tutti all’università. La laurea non deve né può essere la massima delle aspirazioni. Ci sono professioni redditizie e indispensabili per una società che non richiedono affatto una formazione universitaria. Una buona formazione professionale basta. Dati USA, scrive Norberto Bottani su “Oxydiane”. Per riuscire nella vita e guadagnare bene non è indispensabile avere una laurea. Di cosa c’è bisogno per riuscire in una società? Quale è la chiave del successo? La laurea? Esperti americani contestano la pertinenza di questa ipotesi. Gli esperti di politiche scolastiche, le organizzazioni internazionali come l’OCSE, i macro economisti che si occupano di scuola, da decenni concordano sul fatto che la proporzione di una fascia d’età che si laurea è un fattore determinante della crescita economica. Tutti spingono dunque per aumentare la proporzione dei giovani che si laureano. Questo è uno degli indicatori con i quali si compar la qualità delle politiche scolastiche, ovverosia le politiche che riescono a portare all’università una proporzione rilevante e crescente di una fascia di età e a far sì che la percentuale di studenti che conclude con successo gli studi universitari con una laurea oppure con un dottorato sia sempre più alta. Questa è la via della massificazione degli studi superiori. Poco importa poi se questi laureati fanno fatica a trovare un posto di lavoro. In taluni paesi è più facile che trovi un posto di lavoro un diplomato dell’istruzione e formazione professionale che non un laureato. Questa situazione, non è la regola, ma è ormai assai comune e dovrebbe indurre a riflettere sugli indirizzi espansionisti delle politiche scolastiche. Il buonsenso popolare la pensa diversamente e ritiene che una laurea in generale sia garanzia di un lavoro migliore e di guadagni maggiori nella vita. Un diploma universitario è considerato come un fattore che assicura una vita più felice. Ci si deve però chiedere se l’iscrizione a un’università e la frequenza a corsi universitari siano la sola via per ottenere questi obiettivi, per essere più felici nella vita, per stare meglio, e "dulcis in fundo" per garantire la crescita economica di un paese.

A cosa servono gli studi universitari? David Leonhardt in un articolo pubblicato sul "New York Times" Il 17 maggio scorso intitolato "Il valore degli studi universitari" contesta l’opinione di coloro che ritengono che gli studi universitari sarebbero sopravalutati. Per esempio, è vero che oggigiorno occorrono molti più nano-chirurghi che non 10 o 15 anni fa ma il loro numero resta relativamente esiguo comparato al fabbisogno di infermiere e infermieri. Per funzionare il sistema della sanità necessita di migliaia di personale infermieristico nel prossimo decennio e non di migliaia di nano-chirurghi. Orbene, non è necessario andare all’università per diventare infermieri o infermiere. Questa formazione la si può impartire anche al di fuori dell’università. Un ragionamento analogo si può applicare per molte altre professioni. Questo argomento certamente pertinente mette in evidenza un punto debole alla formazione universitaria, ovverosia l’alto tasso di mortalità universitaria esistente in molti sistemi scolastici. Molte università falliscono la missione di laureare i loro studenti. Il risultato di questo disastro sono costi elevati per l’ente pubblico nonché delusioni per molti studenti che passano anni all’università senza ottenere nessun titolo. Quale lezione si deve trarre si chiede il New York Times da questa situazione? Dobbiamo persuadere molti studenti che non vale la pena andare all’università oppure dobbiamo mettere in atto i provvedimenti necessari che permettano di elevare la percentuale di laureati e dei dottorati, generalizzando la frequenza dell’università e tentando di ottenere a livello universitario quanto il sistema scolastico non riesce ad ottenere prima, ossia la riuscita di tutti gli iscritti? Per rispondere a queste domande il giornalista del New York Times ricorre a dati molto semplice e molto eloquenti: quelli riguardanti gli stipendi di un laureato rispetto a qualsiasi altro diplomato. Immaginiamo per un minuto che il divario tra la paga di un laureato e quella di qualsiasi altro sia andato calando negli anni recenti. In questo caso coloro che contestano l’opportunità dell’espansione degli studi universitari avrebbero ragione e potrebbero dimostrare, prove alla mano, che la laurea e il dottorato hanno perso di valore. Purtroppo però coloro che contestano la pertinenza di un’espansione degli studi universitari raramente tirano in ballo questo argomento perché altrimenti si troverebbero in difficoltà. È infatti appurato che la laurea o il dottorato garantiscono salari elevati e quindi una vita in linea di massima migliore, come dimostra la tavola seguente che riguarda l’evoluzione del guadagno medio settimanale di un laureato americano dal 1979 in poi. Come si può vedere molto bene dalla tavola, fa osservare Leonhardt, la paga reale dei laureati (in modo grossolano si considera in questo articolo il lessico "guadagno" analogo a quello di "paga") nel corso di questi ultimi 25 anni è aumentata mentre la paga reale di tutti gli altri gruppi di diplomati è diminuita. Il New York Times pubblica anche un’altra tavola che rende questo confronto ancora molto più eloquente. Nei confronti di qualsiasi altro gruppo, negli Stati Uniti, i laureati non hanno mai guadagnato così bene come ora sottolinea Leonahardt. In termini assoluti, ovviamente, anche loro sono stati penalizzati dalla profonda recessione iniziata alla fine del 2007. Però i laureati hanno sofferto molto meno, in media, di tutti gli altri lavoratori con un livello di istruzione inferiore. Inoltre, hanno corso minori rischi di perdere posti di lavoro e il loro livello di rimunerazione è resistito molto meglio di quello degli altri. In modo del tutto teorico, si può supporre che queste tendenze non abbiano nulla a che fare con i livelli d’istruzione che gli studenti universitari ricevono, afferma Leonhardt. Forse, il guadagno dei laureati ha poco o nulla che fare con l’università e rispetto a quanto gli studenti sapevano conosceva prima di frequentarla, ma l’economia è cambiata e favorisce attualmente le persone che hanno frequentato l’università e che hanno conseguito una laurea. Il beneficio che gli studi universitari generano è un problema difficile da risolvere e che va studiato attentamente. In ogni modo, non ci possono essere dubbi in proposito. Gli studi universitari procurano un vantaggio innegabile dal punto di vista salariale e dell’occupazione. Per dirla in altro modo, se voi foste uno studente di 19 anni che deve decidere se andare o meno all’università, sareste disposti a scommettere il vostro futuro sull’idea che le tavole qui presentate, riguardanti gli Stati Uniti, ma che in effetti possono essere applicate anche ad altri paesi, siano una pura coincidenza? Questa la domanda che pone l’autore dell’articolo del New York Times.

Studi universitari o superiori non sono sempre necessari. Secondo l’Ufficio federale americano di statistiche del lavoro che è un poco l’equivalente dell’ISFOL italiano, soltanto sette delle 30 categorie professionali che crescono molto rapidamente esigeranno nel prossimo decennio il possesso di una laurea; tra le 10 categorie in testa solamente due pongono questa condizione. In molte professioni gli studenti farebbero meglio a investire il loro tempo e i loro soldi iscrivendosi a corsi professionali piuttosto che andare all’università. Quest’argomento è difeso da pochi economisti i quali denunciano le pressioni politiche per avere molti più studenti all’università. Questa è una soluzione tra molte altre che meriterebbero di essere studiate in maniera più accurata. Ci sono risposte molteplici che meritano di essere prese in considerazione dal punto di vista della crescita economica. In altri termini ci vuole coraggio oggigiorno per sostenere che l’università non è per tutti, come lo dimostrano per esempio le statistiche sull’esito degli studi universitari. La mortalità universitaria in Italia per esempio è del 50%. Negli Stati Uniti soltanto il 30% della popolazione ha un diploma universitario. Si può pertanto chiedere se questo sia il problema scolastico più pressante è più urgente. Negli Stati Uniti, ma anche in Francia, in Germania, in Inghilterra, per non citare che alcuni paesi, un numero crescente di studenti si orientano dopo la maturità o dopo il diploma verso una formazione tecnica superiore a livello universitario e non si indirizzano più verso studi universitari tradizionali che sono molto costosi e molto più lunghi. L’idea secondo la quale cinque anni di università per conseguire un master siano essenziali per riuscire nella vita è contestata da un numero crescente di economisti, di politologi, di universitari e di responsabili politici. Sempre più si leggono articoli nei quali si afferma che altre opzioni meritano di essere prese in considerazione come per esempio quelle offerte dalle scuole universitarie professionali, questione alla quale, in Italia, la fondazione TRELLLE ha dedicato un seminario internazionale e un quaderno.

La transizione dalla formazione alla vita attiva. La transizione dalla formazione alla vita attiva è cambiata in questi ultimi decenni anche per i laureati i quali ovunque incontrano difficoltà crescenti per trovare un posto di lavoro che corrisponda alla loro formazione, ai sacrifici effettuati per laurearsi dopo anni di studio esigenti. Il numero dei laureati e dei dottorati che sono disoccupati resta elevato nonostante le considerazioni riguardanti i benefici che la laurea o il dottorato possono procurare nel corso dell’attività professionale. Un numero crescente di laureati e diplomati è costretto a svolgere professioni che nulla hanno a che fare con una formazione e i diplomi conseguiti come per esempio barista, conducente di torpedoni, camionisti, impiegati d’ufficio con contratti di durata determinata, camerieri, pizzaioli, eccetera. Questi studenti si consolano pensando che questa sia una tappa inevitabile, un trampolino, sulla via del successo. Nel frattempo, questi laureati preparano e spediscono decine di curriculum vitae sperando di ricevere una risposta positiva. Purtroppo, per la prima volta dopo la fine della seconda guerra mondiale, ossia dopo sessant’anni circa, nessuna generazione ha conosciuto difficoltà analoghe per trovare un posto di lavoro. Gli studi universitari non rappresentano più una promozione né funzionano come un ascensore sociale perché le prospettive di carriera sulle quali sfociano sono pessime. Secondo l’articolo pubblicato dal Wall Street Journal il 15 maggio scorso a cura di Joe Queenan i laureati di oggi sono confrontati a tre ostacoli formidabili.

Il primo è rappresentato dalla recessione economica. Il numero dei posti di lavoro è drammaticamente diminuito. Non ci sono più posti di lavoro e quelli che esistono non corrispondono al tipo di formazione al quale l’Università o gli istituti universitari professionali preparano e neppure a quanto hanno in mente i laureati che hanno speso anni ed anni di studio per diplomarsi.

In secondo luogo, i figli della classe media non sono stati mai educati emozionalmente alla transizione dalla formazione alla vita attiva e ad entrare nel mondo del lavoro con tutte le sue leggi e la sua durezza.

In terzo luogo, laddove gli studi universitari sono a pagamento, i debiti che il giovane ha dovuto assumere per completare gli universitari peseranno per decenni sulle loro spalle. Indubbiamente la situazione diventa drammatica. Non ci si deve neppure illudere: anche un’economia molto flessibile come quella americana dove è relativamente facile che non è in Italia costruire un’azienda o un’impresa, ricevere fondi e aiuti da una banca o da una fondazione, essere riconosciuti per l’originalità delle idee e delle proposte, queste competenze non sono affatto diffuse, non appartengono a tutti. In ogni modo questa una soluzione è del tutto particolare. Il problema immediato è soprattutto psicologico: la sconvolgente scoperta che il lavoro disponibile all’inizio del 21º secolo sarà piuttosto un inferno che non un paradiso. I giovani laureati avranno a che fare sul posto di lavoro con capi meno competenti e meno preparati di lavoro, che non esiteranno a umiliarli, che non prenderanno affatto in considerazione le loro qualità o i loro interessi. Occorrerà ingoiare molti rospi, accettare le umiliazioni.

La Laurea? Meglio non averla, scrive Bastiancontrario F. su “Valdichiana Oggi”. Questo di stasera è il sesto caso. Li ho contati tutti, uno dopo l'altro, in questo inizio Agosto. Amici o amiche laureate, fra i 25 e i 30 anni, col conto in banca prossimo allo zero e in cerca di lavoro. Magari subito dopo la laurea hanno iniziato a tentare di aprirsi qualche via nel campo per il quale avevano studiato, ma poi sapete com'è, c'erano solo gli stage (non retribuiti), i genitori cominciavano a rumoreggiare, le raccomandazioni mancavano e dopo 6 mesi o qualcuno in più di puro e semplice sfruttamento con illusioni poi restate tali hanno iniziato a farsi qualche domanda. Del tipo: qualche soldo dovrà iniziare a entrarmi nelle tasche, altrimenti tocca continuare a farsi mantenere dai genitori e non è tanto bello. Ergo. cerco un lavoro. Un lavoro "normale". Non c'entra niente con quello che sognavo di fare, non ha nulla a che vedere con quello che ho studiato e in cui potrei mettere a frutto le mie conoscenze e competenze, ma pazienza...almeno mi entra in tasca qualche soldo per un po', poi si vedrà. Il problema è andare a cercare un lavoro "normale" con la laurea in tasca. Sono appunto 6 gli amici/amiche con cui in questi ultimi giorni parlando è emerso sempre lo stesso identico problema. I datori di lavoro "normale" (che so...cameriere, commesso...) sembrano essere allergici ai laureati. Tant'è che è meglio non presentare il curriculum, o comunque non dire che si ha la laurea. Sei indizi, probabilmente, fanno una prova. "Ah, hai due lauree e vuoi venire a lavorare qui?" è la frase che risuona con annessa faccia a metà fra lo schifato e il diffidente ad ogni tentativo di farsi assumere, anche "a chiamata", part time o per poche ore a insindacabile giudizio e bisogno di chi ti dà il lavoro. Il tono è quasi pregiudiziale. Perchè? Chissà, forse pensano che uno laureato che viene a chiedere di fare il cameriere è lì perchè ha fallito nel suo ramo, e quindi non vale granchè. Oppure hanno paura che non si impegnerà, avendo studiato per qualcos'altro, oppure che pretendendo di più in quanto reduce da molti anni di studio potrà rivelarsi un insostenibile rompicoglioni. Oppure costoro sono semplicemente il simbolo di una classe imprenditoriale italiana sempre più squallida e incapace di gestire in modo degno le risorse umane (e infatti poi i risultati si vedono). Il bilancio finale è che se hai la laurea e vuoi fare il commesso ti passano avanti gli altri, quelli senza laurea. Ecco, forse piuttosto che continuare per settimane e settimane a discutere del ministro Kyenge e delle sue litigate coi leghisti, dei processi di Berlusconi o di chissà quale altra minchiata utile solo a gettare fumo negli occhi e guadagnare tempo consci di non essere in grado di fare niente (ma di non volersene comunque andare) i nostri governanti potrebbero ipotizzare una riforma del lavoro e incentivi alle assunzioni un po' diversi rispetto a quelli esistenti. Anche perchè all'estero a fare i camerieri ti ci prendono anche con la laurea e sarebbe brutto, dopo la fuga dei cervelli, trovarsi di fronte anche alla fuga dei camerieri.

Una laurea serve eccome, scrive Luca Ronchi su “Sardegna Reporter”. Anche oggi ho lavorato parecchio. Sono giorni di lavori casalinghi, questi. Spostamenti di roba, pulizia di magazzini, conservazione di vecchie cose, eliminazione di altre, accatastamenti il più possibile razionali di oggetti e mobili. Coloro che l’hanno fatto, sanno di cosa parlo. Ci si muove in ambienti angusti, a volte malsani, pieni di polvere e umidità e poco illuminati. Si ha fretta di finire per riposarsi e farsi una doccia ma si ha anche fretta di completare il lavoro per poterlo guardare con soddisfazione e dire. “Ah, come l’ho fatto bene!”. E in questi frangenti capita di doversi misurare con piccole questioni pratiche, che sarebbero anche semplici se non fosse per l’ambiente ostile in cui si opera. Tocca risolvere problemi rognosi, arrangiarsi con quel che c’è, prendere decisioni in fretta chè le mani sono due e le braccia più di tanto non ci arrivano a fare le cose. E allora l’inventiva, la fantasia, l’esperienza e -perché no- qualche nozione di fisica rimasta a circolare per le sinapsi da quei lontani giorni del liceo, concorrono a fare la differenza tra un lavoro di schifo e un lavoro fatto bene. E succede di capire che aver studiato fino alla laurea può avere il suo porco senso anche in questi casi limite. A me è capitato ieri. Stavo sistemando le parti di un mobile smontato in precedenza. Pezzi lunghi anche due metri, larghi più di un metro e pesanti, molto pesanti. Li stavo sistemando infilandoli, sdraiati sul lato lungo, in uno spazio stretto tra uno scaffale già traboccante di scatole e un altro mobile più alto di me. Per evitare di graffiarli strisciandoli contro il pavimento ruvido, avevo sistemato per terra dei listelli di legno. L’idea era di posarveli sopra, e così ho fatto. A lavoro quasi finito, con i listelli ormai bloccati dal peso di tutto quel legname, mi accorgo che restava un po’ di spazio, una sorta di piccolo pozzo incastrato tra lo scaffale, il mobile più alto di me e i pezzi ormai mirabilmente affastellati dalle mie sapienti mani. Un piccolo spazio che, in quanto maschio raziocinante alle prese con un lavoro muscolare e intellettuale, avevo intenzione di sfruttare a pieno, sistemandovi altri pezzi di forma e dimensioni appropriate. Ma occorreva prima di tutto calare in fondo a quel pertugio un altro listello di legno, per proteggere i nuovi oggetti da graffi e urti. Esco dal magazzino, mi avvicino alla catasta del legname e individuo con fare sicuro un piccolo legno di lunghezza e spessore perfettamente adeguati all’uopo. Orgoglioso, mi avvicino all’anfratto e faccio per depositare il prezioso tacco sul pavimento. Le mie lunghe braccia (le ho veramente lunghe) non sono sufficienti a toccare il pavimento da quella posizione e dunque dovrò optare per un lancio calibrato del tacco verso la posizione utile. Il piccolo legno, per mia sfortuna, anziché depositarsi nel luogo da me individuato, con un rimbalzo inatteso va a sistemarsi di sbieco su una delle pareti del cunicolo, rappresentata da una porzione del mobile di cui sopra. Disdetta! Come fare? Il braccio non ci arriva. Non ho voglia di tornare fuori a prendere altri legni, che tra l’altro piove. Di spostare il mobilio già adagiato sui listelli non se ne parla, e in testa torna la domanda: che fare? D’improvviso, mentre il tarlo dello sconforto inizia a far merenda con i miei neuroni, alzo lo sguardo allo scaffale traboccante di oggetti e vi scorgo l’arma finale. Con serena disciplina allungo il braccio, la afferro, me la guardo compiaciuto. Me la giro un po’ tra le mani assaporando il momento in cui, grazie ad essa, assesterò il colpo ferale al recalcitrante oggetto. È perfetta, la mia arma. Cilindrica, robusta, leggera, cava. La sua lunghezza è quella giusta: quaranta centimetri. La sua larghezza è quella giusta: riempie perfettamente la mia mano, richiusa e serrata su essa. È micidiale. Sembra forgiata allo scopo da un’intelligenza antica. Armato di essa mi inchino verso il mio dovere, la dirigo sicuro verso il legno e, facendo leva con salda impugnatura, sistemo il tacco nella posizione prestabilita. È fatta. Le membra si rilassano mentre lentamente mi risollevo. Staziono così per qualche istante, indugiando con lo sguardo ora al lavoro compiuto, ora al cilindrico utensile che adesso riposa inerte nella mia mano. E l’occhio mi cade, dopo tanti anni, sulle scritte che compaiono lungo la sua superficie laterale: Università degli Studi di Pisa… Gent.mo Dr. Luca Ronchi… Il presente involucro contiene esemplare originale del Suo diploma di laurea. E poi dice che la laurea non serve. Caz.

Comunque la laurea è preferibile averla, meglio se meritata, ossia si siano capiti e memorizzati i dati e le nozioni studiati. Essere ignorante significa essere in balia degli stronzisti e cazzisti di turno, che ti propinano stronzate e cazzate per verità acclarate. Se le cose tu le sai, e non certo sapute dai media o da pseudo intellettuali partigiani, la verità gliela sbatti in faccia. Anche con le pezze al culo la tua soddisfazione arriverà! Perché ci si deve ricordare che chi ha, spesso, non sa, e costui, per disbrigare le sue necessità burocratiche o culturali, parte dei suoi averi li dovrà dare a chi sa.

LA GRANDE FUGA DALL'UNIVERSITÀ. In dieci anni perse 65mila matricole, con un calo del 20% dei diplomati che scelgono di continuare gli studi. Colpa della crisi, ma anche dalle scarse prospettive di lavoro che dà la laurea. La contrazione del sistema universitario italiano oltre ad ampliare il divario fra Nord e Sud mina però gravemente il potenziale di crescita del Paese. C'è chi dà la colpa all'aumento delle tasse, all'introduzione del numero chiuso e al taglio dei fondi statali per borse e alloggi, mentre per gli studenti il colpo di grazia è arrivato con la riforma dell'Isee, scrive "La Repubblica" il 14 gennaio 2016.

Crollo al Sud, l'ascensore sociale si è fermato, scrive Salvo Introvaia. L'università è il motore della crescita economica, sociale e politica per qualsiasi paese. Ma in Italia si è ridotta a poco più di un motorino. L'ultimo rapporto a evidenziare la contrazione complessiva del sistema universitario italiano è quello pubblicato dalla Fondazione Res, l'Istituto di ricerca su economia e società in Sicilia, presieduto da Carlo Trigilia, che nel report annuale si è occupato de "L'Università italiana al Nord e al Sud". L'istituto mette in risalto i "cambiamenti profondi nella secolare storia del sistema universitario italiano" e i non pochi "elementi di criticità che ne derivano". "Per la prima volta nella sua storia", spiegano da Palermo, il sistema universitario nazionale "è diventato significativamente più piccolo". Gli studenti immatricolati sono crollati del 20 per cento circa (65mila in meno in un decennio) mentre "i docenti passano da poco meno di 63mila a meno di 52mila unità, il personale tecnico amministrativo da 72mila a 59mila, i corsi di studio scendono da 5.634 a 4.628". E "il Fondo di finanziamento ordinario delle università (FFO) diminuisce, in termini reali, del 22,5%". Una raffica di dati che assomiglia a un bollettino di guerra e rappresenta, secondo gli esperti, un ostacolo oggettivo per una nazione che vuole continuare a frequentare il club dei paesi più industrializzati della Terra. "L'Italia - si legge nello studio - ha compiuto, nel giro di pochi anni, un disinvestimento molto forte nella sua università". Una scelta politica, nonostante la crisi, opposta a quella dei maggiori paesi avanzati e in via di sviluppo. In altre parole, sottolineano gli esperti dell'istituto siciliano, "non è certo solo effetto della crisi: in Italia, la riduzione della spesa e del personale universitario è stata molto maggiore che negli altri comparti dell'intervento pubblico".

DALLA SCUOLA ALL'UNIVERSITA' IN ITALIA

ANNO

TASSO DI PASSAGGIO

2004/2005

73,10%

2014/2015

49,10%


IMMATRICOLATI TOTALI

 

2014/2015

2004/2005

Immatricolati

270.145

335.541

Fonte: Ocse

Secondo Gianfranco Viesti, che ha curato il rapporto, "senza molti buoni laureati la competitività del paese è a rischio". Inoltre, "l'università delle regioni più deboli va rafforzata al massimo, e non progressivamente indebolita, come purtroppo si sta facendo negli ultimi anni". Perché, continua Viesti, "forma le classi dirigenti, nel senso più ampio del termine; svolge attività di ricerca, anche in collaborazione con il tessuto economico locale; trasferisce tecnologie e saperi. Inoltre, specie nelle aree più difficili, è anche un presidio di civiltà". Il Mezzogiorno e i figli di operai e impiegati hanno pagato il conto più salato: 35mila dei 65mila immatricolati in meno sono spariti dagli atenei meridionali. Ma per Fabrizio Micari, neorettore dell'Università di Palermo "non ha molto significato paragonare l'Italia del 2004 con quella del 2014 perché parliamo di due mondi completamente diversi". "Gli analisti concordano nel dire - continua Micari - che gli effetti della crisi sono stati simili a quelli di una guerra". Ma per venirne fuori l'Europa ci chiede da tempo più laureati. La Strategia di Lisbona - lanciata nel 2000 con il fine di trasformare entro un decennio quella del Vecchio continente "nell'economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo" - prevedeva già l'aumento del numero dei laureati. Perché i paesi asiatici e quelli in via di sviluppo del gruppo Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) avevano già eroso quote enormi di mercato ai paesi europei. Un obiettivo rilanciato con la strategia Ue 2020: entro il 2020, i laureati di età compresa fra 30 e 34 anni dovrebbero toccare quota 40%. Ma l'Italia arranca. Nel 2013, figuravamo all'ultimo posto tra le nazioni dell'Unione europea a 28 paesi, con il 22,4%. La Germania poteva contare su una quota del 33% e la Francia sul doppio di giovani laureati italiani: il 44%. Il crollo degli immatricolati rappresenta quindi una specie di spettro per il nostro paese. Dal sociologo all'esperto di mercato del lavoro, l'allarme è unanime. Per Domenico De Masi, sociologo e docente all'università La Sapienza di Roma, "la laurea non serve soltanto per avere più opportunità di lavoro, ma per vivere". "Questa è una società - continua De Masi - in cui occorrerà avere tutti la laurea perché serve pure per capire il telegiornale. La nostra è una società che per essere vissuta appieno necessita di cultura e quindi della laurea". E sul calo verticale degli immatricolati non ha dubbi. "È stato introdotto il numero chiuso e il numero di studenti immatricolati è diminuito, si tratta di una decisione scellerata, una follia assoluta". Per Francesco Ferrante, docente di Economia politica e di Mercato del lavoro alla Luiss e all'Università di Cassino, "la recessione ha sicuramente ridotto per diverse famiglie la possibilità di iscrivere i figli all'università. E la contrazione ha riguardato soprattutto giovani con reddito familiare basso e basso livello di istruzione dei genitori. L'ascensore sociale, in altre parole, si è fermato". Sul tema del valore della laurea è intervenuto di recente il ministro del Lavoro Giuliano Poletti con una dichiarazione che ha sollevato un vespaio di polemiche. "Prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21 anni". Parole che hanno gettato benzina sul fuoco proprio mentre tra le famiglie meno abbienti si sta diffondendo l'idea che "che laurearsi - spiega Ferrante - non conviene più". "Un'idea - sobbalza dalle sedia - assolutamente falsa". Eppure i dati diffusi pochi giorni fa da Eurostat sembrano in qualche modo dare ragione alla diffusa percezione di inutilità: solo poco più di metà dei laureati italiani (52,9%) risulta occupato entro tre anni dalla laurea, il dato peggiore nell'Unione europea dopo la Grecia e lontanissimo dalla media Ue a 28 che nel 2014 era dell'80,5%. Ma le statistiche vanno lette fino in fondo e se alla luce di questi numeri gli sforzi per laurarsi possono apparire deludenti, per i diplomati la situazione è ben peggiore con solo il 30,5% che risulta occupato a 3 anni dal titolo (40,2% nei diplomi professionali).

IMMATRICOLAZIONI NEGLI ATENEI ITALIANI

AREA SCIENTIFICA

2004/2005

2014/2015

 

Ingegneria

35.760

38.036

6,40%

Biotecnologie

4.178

3.703

-11,40%

Scienze biologiche

9.258

7.801

-15,70%

Scienze e tecnologie chimiche

2.223

3.250

46,20%

Scienze e tecnologie fisiche

2.130

2.908

36,50%

Scienze matematiche

1.739

2.210

27,10%

Statistica

1.187

1.119

-5,70%

Scienze e tecnologie agrarie e forestali

5.741

6.832

19,00%

Scienze delle attività motorie e sportive

4.299

5.992

39,40%

Scienze e tecnologie informatiche

7.024

5.516

-21,50%

 

AREA UMANISTICA

2004/2005

2014/2015

 

Filosofia

3.525

2.748

-22,00%

Lingue e culture moderne

11.290

12.654

12,10%

Lettere

7.446

6.810

-8,50%

Storia

2.223

1.400

-37,00%

Scienze del turismo

3.679

2.369

-35,60%

Geografia

672

145

-78,40%

Beni culturali

8.088

4.275

-47,10%

Scienze dell'educazione e della formazione

17.729

10.091

-43,10%

 

AREA SOCIALE

2004/2005

2014/2015

 

Magistrali in giurisprudenza

35.415

19.257

-45,60%

Sociologia

4.495

2.454

-45,40%

Scienze economiche

10.668

9.612

-9,90%

Scienze politiche

9.166

8.387

-8,50%

Scienze della comunicazione

13.056

7.151

-45,20%

Scienze e tecniche psicologiche

10.910

7.354

-32,60%

Scienze dell'economia e della gestione aziendale

32.007

27.157

-15,20%

Fonte: Ocse

Il crollo dei nuovi ingressi all'università riguarda infatti soltanto gli studenti delle superiori in possesso di un diploma tecnico o professionale, mentre i liceali sono addirittura aumentati. E ha colpito soprattutto le lauree sociali e umanistiche: Scienze della comunicazione, Giurisprudenza e Sociologia perdono il 45 per cento. Quelle scientifiche, fatto cento il numero totale degli immatricolati, sono passate dal 28 al 34 per cento, con Matematica, Fisica, Chimica e Ingegneria in aumento. "Io sono figlio di operai e mi sono laureato negli anni '70. Oggi non mi potrei più laureare. L'articolo 34 della Costituzione in Italia è ancora in cerca d'autore perché manca una politica strutturale sul diritto allo studio", chiosa Ivano Dionigi, presidente di Almalaurea. "L'aumento degli immatricolati nel settore scientifico - continua - è l'unica notizia positiva: un paese di comunicatori, umanisti e sociologi, e lo dico da latinista, non ha futuro. Il resto rappresenta una tragedia per il Paese". "E' uno scandalo - rilancia Gaetano Manfredi, presidente della Crui, la Conferenza dei rettori - che non vengano pagate tutte le borse di studio di cui gli studenti hanno diritto: non ha senso che se ti trovi in Lombardia la ottieni e se sei in Sicilia no. Su questo occorrerebbe una garanzia nazionale". "E serve - conclude il rappresentante dei rettori - un sostegno per tutti quei ragazzi che escono dagli istituti tecnici e professionali e non proseguono gli studi perché appartenenti a famiglie meno agiate o in difficoltà. Occorre un grande Piano per il Sud". Per Ivanhoe Lo Bello, vicepresidente Confindustria e delegato alle politiche sull'Istruzione, "la capacità competitiva di un paese si misura sulla capacità delle nostre università. Se continuiamo a perdere capitale umano rischiamo la desertificazione assoluta". E traccia anche una strada da percorrere. "Perdere 65mila immatricolati in dieci anni è un segnale preoccupante, soprattutto al Sud. Abbiamo ragazzi scoraggiati e che non hanno le risorse per sostenersi negli studi. Occorre un investimento serio su campus e luoghi dove i ragazzi possano risiedere e garantire in questo modo la mobilità a basso costo degli studenti. E anche più flessibilità didattica, con percorsi interdisciplinari, più autonomia e una valutazione rigorosa da parte di un agenzia terza. Occorre avviare una riflessione strategica e una discussione su tutto questo". Malgrado il quadro fosco e i tanti motivi di preoccupazione, c'è però chi riesce a intravedere la luce in fondo tunnel. "Qualche segnale si scorge", dice Micari. "Il Pil - osserva - comincia a crescere e l'occupazione pure. Anche noi a Palermo abbiamo qualche indicatore positivo: le nostre immatricolazioni sono cresciute di qualche centinaio di unità. Bisogna guardare avanti con fiducia".

Più tasse e meno spesa, numeri impietosi, scrive Salvo Introvaia. Sull'istruzione universitaria i numeri "condannano" l'Italia. Perfino la Slovenia, tra i paesi europei, investe più del Belpaese sugli studenti. Mentre Brasile e Sudafrica, con un Pil pro-capite pari ad un terzo di quello italico, fanno meglio di noi. Stando ai dati dell'Ocse - l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico - il Belpaese è uno di quelli della vecchia Europa che spende meno sul sistema di istruzione: appena il 7,4 per cento della spesa pubblica complessiva, contro il 9,8 della Germania e l'8,8 della Francia. Diversa sensibilità sull'argomento dimostrano i governi dei paesi scandinavi, dove si passa dall'11,2 per cento di spesa pubblica dedicata all'istruzione della Finlandia al 14,4 della Norvegia: il doppio dell'Italia. Anche la spesa per studente conferma questo trend: l'Italia, per i soli servizi di base, investe poco più di 6mila dollari Usa a studente. Il dato riportato dall'Osce risale al 2012, ma nello stesso anno in Francia si spendevano 9mila e 500 dollari, esattamente quanto la media dei paesi Ocse, e 9mila e 200 in Germania. Uno sforzo che si traduce in un sostegno concreto per famiglie e ragazzi che vogliono avventurarsi negli studi universitari.

LA SPESA PUBBLICA PER L'UNIVERSITA'

 

% SPESA PUBBLICA RISPETTO AL TOTALE 
(2012)

SPESA PUBBLICA RISPETTO AL PIL 
(2012)

PERCENTUALE DI GIOVANI LAUREATI 30/34ENNI 
(2014)

Finlandia

11.2

6.1

45.3

Italia

7,4

3.6

23.9

Norvegia

14.4

7.7

51,4

Media Ocse

11.6

4.8

42,1

Svezia

11.7

5.9

50

Germania

9,8

4.3

31.4

Spagna

8.0

3.7

42.3

Francia

8,8

4.8

44.2

Grecia

ND

ND

37.2

Portogallo

9.8

4.5

31.3

Fonte: Ocse

Il calo di iscritti e immatricolati registrato infatti in Italia non ha riscontri nella maggior parte dei paesi del Vecchio continente. Mentre da noi le aule universitarie si svuotavano, nel resto del mondo si popolavano di nuovi studenti. In appena quattro anni - dal 2008 al 2012 -  nei paesi dell'Ocse in media l'aumento degli studenti universitari è stato del 9 per cento. In Spagna del 12 per cento e in Francia del 6 per cento. Una famiglia finlandese farebbe fatica a concepire una tassa per frequentare l'università perché in quasi tutti i paesi della penisola scandinava questo genere di balzelli non esistono neppure. E una grossa fetta di studenti percepisce anche contributi pubblici o la più classica borsa di studio. È sempre il caso della Finlandia dove, oltre a non conoscere tasse di iscrizione, il 52 per cento degli studenti viene sovvenzionato dallo Stato per studiare. In Italia - il terzo paese europeo per pressione fiscale universitaria dopo Regno Unito e Olanda - le tasse universitarie sono invece sempre più salate: 1.602 dollari Usa nel 2013/2014 contro i 215 a carico dei giovani francesi. In un decennio, dal 2004 al 2014, la pressione fiscale a carico di famiglie e studenti è lievitata del 45 per cento. L'Italia è, tra i paesi europei più industrializzati, anche quello dove il sostegno pubblico agli studenti bisognosi è minimo: appena il 20 per cento. In Germania, Spagna, Grecia e Portogallo tutti gli studenti ricevono almeno un contributo. In Finlandia "soltanto" l'80 per cento e in Francia uno studente su tre. Un divario che salta all'occhio appena si fruga tra i numeri sui servizi offerti agli studenti. Nella Penisola non si va oltre ai 4mila dollari Usa, che Oltralpe diventano 5.779 e sfiorano addirittura gli 8mila dollari nel paese della Merkel. E, come se non bastasse, arriva la ciliegina sulla torta - o forse sarebbe meglio dire il colpo di grazia - della riforma dell'Isee, l'Indicatore della situazione economica familiare in base al quale si calcolano le tasse universitari e gli esoneri. Un'innovazione che da subito gli studenti hanno percepito come sfavorevole. I primi dati forniti dall'Unione degli universitari - ancora parziali, ma riferiti al 67 per cento delle borse di studio dello scorso anno - lo confermano: a perdere il beneficio nel 2015/2016 è stato almeno uno studente su cinque. Forse il calo verticale dal 73 al 49 per cento in un decennio del tasso di passaggio dalla scuola all'università non è dovuto al caso.

Il colpo di grazia dalla riforma dell'Isee, scrive Salvo Introvaia. Secondo gli studenti, l'Italia è uno dei peggiori paesi europei per studiare all'università. E i dati sembrano dare loro ragione. Borse di studio col contagocce, tasse altissime e pochissimi servizi descrivono un mondo dove per sopravvivere occorre mettere in pratica l'ormai proverbiale arte di arrangiarsi italiana. Altrimenti, le alternative sono due: farsi sostenere dalla famiglia oppure gettare la spugna. E, a dare il colpo di grazia allo striminzito diritto allo studio nostrano, il nuovo calcolo dell'Isee: l'indice della situazione economica equivalente familiare, utilizzato per assegnare le borse di studio e per il calcolo delle tasse universitarie da pagare.

IL SOSTEGNO ALLO STUDIO (2012)

 

SPESA ANNUA PER STUDENTE DA PARTE DELLE ISTITUZIONI EDUCATIVE PER TUTTI I SERVIZI*

SPESA ANNUA PER STUDENTE DA PARTE DI ISTITUZIONI EDUCATIVE PER I SERVIZI DI BASE

SPESE PER STUDENTI PER I SOLI SERVIZI

Finlandia

17.863

10.728

7.135

Italia

10.071

6.022

4.049

Norvegia

20.016

11.824

8.192

Media Ocse

15.028

9.514

5.514

Svezia

22.534

10.589

11.945

Germania

17.157

9.179

7.978

Spagna

15.281

8.435

6.846

Francia

15.281

9.502

5.779

Grecia

ND

ND

ND

Portogallo

9.196

4.561

4.635

Regno Unito

24.338

16.692

7.646

Fonte: Ocse

Lorenzo Guastalli, studente di ingegneria a Pisa, per cinque anni ha percepito la borsa di studio che gli dava diritto a due pasti che consumava alla mensa universitaria e a un alloggio gratuito. Inoltre percepiva un contributo monetario di 1.200 euro all'anno per i mezzi pubblici e i libri. Ma da quest'anno, per il cambio delle regole sull'Isee, ha perso tutti i benefici. "Ho dovuto affittare una camera e ricominciare a fare la spesa per mangiare - racconta Lorenzo - In tutto, ogni mese spendo da 500 a 600 euro che sono costretto a chiedere alla mia famiglia. Mia madre è disoccupata e mio padre fino a poche settimane fa era cassintegrato e da poco riassunto. Per fortuna, avevano dei risparmi da parte e mi danno un aiuto per laurearmi. Abbiamo la stessa macchina da vent'anni e non abbiamo mai fatto una vacanza per mettere da parte qualche soldo in famiglia. Io ormai sono all'ultimo anno della laurea magistrale e stringo i denti. Ma un ragazzo ai primi anni rischia di lasciare perdere tutto. Purtroppo in Italia come diritto allo studio siamo al medioevo". Ora Lorenzo spera nella borsa di studio straordinaria prevista dalla regione Toscana per tutti gli studenti estromessi dai benefici a causa del nuovo Isee. Ma se tutto andrà bene, la borsa arriverà a febbraio e non darà diritto all'alloggio perché a Pisa per 3mila aventi diritto i posti nelle residenze universitarie sono appena la metà. Qualche mese fa, il Cnsu - il Consiglio nazionale degli studenti universitari, l'organo ufficiale di rappresentanza studentesca di stanza al Miur - ha pubblicato il Rapporto annuale sulla condizione studentesca in cui gli studenti bacchettano la politica. "Crediamo - si legge nel report - che lo scarso finanziamento (del sistema universitario, ndr) sia dimostrazione di una visione politica che vuole un restringimento del mondo accademico, in cui si ragiona come 'costo sul presente' e non come 'investimento sul futuro'. Al contrario, riteniamo che sia necessario puntare sull'università elevandola a priorità per il nostro paese, affinché riceva una valorizzazione coerente con il ruolo fondamentale che la conoscenza ricopre in un sistema economico competitivo e globale come quello attuale". Una critica suffragata dai dati: nell'arco degli ultimi sei anni - dal 2006/2007 al 2012/2013 - nel nostro paese i "borsisti", coloro che hanno fruito di una borsa di studio, sono calati dell'8 per cento. Mentre in Germania si è registrato un incremento del 33 per cento e in Francia del 34 per cento. Anche la malandata Spagna ha dato fondo a tutte le proprie risorse incrementando le borse di studio addirittura del 59 per cento. In Italia, il diritto allo studio langue anche se qualche segnale arriva dall'ultima legge di stabilità approvata. "In un solo anno - spiega Jacopo Dionisio, coordinatore nazionale dell'Unione degli universitari - l'Italia ha perso 25 mila studenti universitari. I fattori che incidono su questa perdita sono molteplici. Innanzitutto il problema del sotto finanziamento strutturale del sistema universitario, che riguarda in primis il diritto allo studio, un diritto costituzionalmente garantito, ma che oggi sembra un privilegio per pochi". Per Alberto Campailla, portavoce di Link-Coordinamento universitario, "esiste un enorme problema rispetto all'accesso ai corsi universitari. Come denunciano numerose indagini, il crollo delle immatricolazioni ha colpito di più le fasce più povere della popolazione dimostrando l'inadeguatezza dei servizi del diritto allo studio ed evidenziando come l'elevata tassazione costituisca una vera barriera per l'accesso agli studi, con particolare gravità nelle regioni del Sud". Qualcosa però si muove. Con l'ultima legge di Stabilità il governo ha stanziato 55 milioni in più per le borse mentre il fondo per il diritto allo studio sarà incrementato di 5milioni. E il Fondo di finanziamento ordinario degli atenei crescerà di altri 55 milioni ma solo per finanziare gli atenei virtuosi. "A fronte della gravità della situazione - conclude Campailla - le misure adottate dal governo sono totalmente insufficienti, sia sul fronte del diritto allo studio che su quello del finanziamento generale all'università".

Segnali di ripresa dalle matricole 2015-2016, scrive Corrado Zunino. Quello in corso - il 2015-2016 - potrebbe essere l’anno (accademico) della svolta per l’università italiana. Dopo dieci anni di immatricolazioni in discesa, ovvero di due studenti in meno ogni dieci che sono passati dalla maturità all’alta educazione, i segnali indicano un cambio di direzione: il ritorno alla crescita. I dati sono parziali ma significativi, da leggere con prudenza ma anche con un principio di ottimismo. Repubblica – per confrontare i numeri ufficiali del ministero dell’Istruzione ancora in ritardo – ha chiesto a 77 singoli atenei i dati aggiornati sulle immatricolazioni in corso. Cinquantotto hanno risposto garantendo la comparazione con gli iscritti al primo anno della stagione precedente. Il risultato è che trentotto (38) atenei risultano in crescita per quanto riguarda le matricole e venti (20) sono ancora in calo. Quello degli immatricolati è il dato più sensibile per capire lo stato di salute della singola università e del sistema italiano e, a questo punto della stagione, è un dato sufficientemente assestato (lo stesso non si può dire per gli iscritti totali). Senza offrire numeri in assoluto, è interessante tuttavia notare che diverse inversioni di tendenza si registrano in università grandi, a partire dalla più grande di tutte. La Sapienza di Roma torna a crescere dopo un lungo periodo di depressione: al 29 dicembre scorso ha registrato 18.034 nuovi studenti al primo anno, 223 in più (l'1,2 per cento). Va anche detto che il ritorno in positivo del gigante Sapienza sembra avvenire a scapito degli altri due atenei romani di riferimento: Tor Vergata con 5.130 matricole registrate a inizio gennaio perde 314 studenti (-6,1 per cento) e Roma Tre con 5.289 nuovi studenti al primo anno ne perde 304 (-5,7%). Cresce, ancora, un ateneo privato come la Luiss. Il polo di Milano – su performance migliori anche nella scorsa stagione – nel 2015-2016 è tutto in positivo. La Statale sale a 13.202 immatricolati (+0,8 per cento), la Bicocca a 9.814 (+0,9 per cento), la Cattolica a 8.308 (+3 per cento). E così il Politecnico e le private Bocconi e San Raffaele. Lo Iulm di Milano prende duecento matricole in più che rappresentano, viste le dimensioni, quasi l'11 per cento. Cresce di poco Bologna, crescono meglio Genova, Bergamo, Pavia e Parma. Ha un boom Modena-Reggio Emilia: +12,3 per cento. E' in positivo una grande università come Padova: le immatricolazioni a inizio anno hanno raggiunto quota 11.365, +8,4 per cento. E così vanno meglio atenei medio-piccoli come Camerino e Macerata e atenei del Sud da tempo in grave difficoltà. A Catania, a ieri, i nuovi iscritti al primo anno erano 6.469, l'11,4 per cento in più. Buoni risultati arrivano dal Politecnico di Bari, dal Molise, dalla Federico II di Napoli, dalle università del Salento e di Salerno. E’ un quadro attendibile ma parziale: di fronte a cifre ancora mosse, le interpretazioni sono azzardate, ma - probabilmente - la lunga decade della crisi di attrazione dell’università italiana alla prossima primavera si potrà dire chiusa.

MERITOCRAZIA. IN UN ALTRO MONDO, FORSE. UNIVERSITA’. COSI’ SI ACCEDE AL NUMERO CHIUSO. L’APOTEOSI DELL’INETTITUDINE E DELL’INCAPACITA’.

Università. Così si accede al numero chiuso.

Gli oltre 84mila aspiranti medici che il 9 settembre 2013 hanno affrontato il test d'ingresso sono entrati in aula quando la prova era caratterizzata dal «bonus maturità», e ne sono usciti quando le regole erano già cambiate, scrive Gianni Trovati su “Il Sole 24ore”. Basta questo a mostrare il forte rischio che la decisione del Governo di cancellare il «bonus» anche per le prove di quest'anno possa produrre un mare di carta bollata. Secondo il ministero, però, tenere fermo il punto e rimandare la riforma avrebbe potuto aprire varchi a un'ondata di ricorsi ancora maggiore: la chiamata al Tar, del resto, è compagna abituale delle prove di ammissione alle facoltà a numero chiuso, e la zoppicante vicenda del bonus maturità ha finito per moltiplicare gli annunci di ricorsi sia nel momento della sua introduzione, sia in quello della sua cancellazione. Di passaggio in passaggio, la vicenda si è appesantita di complicazioni crescenti, che ne hanno reso impossibile una gestione ordinata e inevitabile un esito problematico. La «valorizzazione della qualità dei risultati scolastici ai fini dell'accesso ai corsi universitari», nome burocratico del bonus maturità, nasce ufficialmente nel gennaio 2008, con il decreto-Fioroni (Dlgs 21/2008) che prevede di distribuire 10 punti in base ai voti ottenuti dagli studenti negli ultimi tre anni delle superiori e nell'esame di maturità. Il decreto raccoglie in questo modo una discussione in atto da anni, alleggerisce la valutazione rispetto a progetti iniziali che pensavano di attribuire al curriculum scolastico fino a 25 punti, ma non riesce a imboccare la strada dell'attuazione: a fermarlo sono le troppe variabili che entrano in gioco all'esame di maturità, quando da un istituto all'altro e da una città all'altra preparazioni simili sfociano in voti anche molto diversi fra loro. Presenza fissa nei decreti «milleproroghe» che ad ogni fine d'anno fanno slittare una serie di scadenze sparse qua e là nelle leggi rimaste lettera morta, il bonus maturità era stato rilanciato dal Governo Monti, ma il suo ritorno in campo ha spinto i test di quest'anno in un ginepraio di modifiche in corso d'opera. Per limitare gli effetti dei diversi gradi di "generosità" nelle valutazioni dei singoli istituti, il bonus "risorto" si basava sul meccanismo dei «percentili», attribuendo 10 punti solo al 5% di studenti "migliori" di ogni istituto, riservando 8 punti al 5% attestatosi appena più in basso e così via, fino a negare il bonus agli studenti esclusi dal 20% più "brillante". Anche così, il meccanismo è stato sommerso di critiche, e proprio nei giorni di chiusura delle iscrizioni ai test secondo il vecchio calendario, che prevedeva esami a luglio e classifica nazionale a settembre, l'allora neo-ministro Maria Chiara Carrozza ha deciso il primo stop dando il via alla ristrutturazione del premio. A giugno è stata preparata quindi la seconda versione del bonus, che ancorava la distribuzione dei punti ai voti distribuiti dalle singole commissioni della maturità, ma nemmeno questo sistema di ponderazione è stato giudicato in grado di reggere alla prova dei Tar. Si arriva così al terzo cambio in corsa, annunciato ieri mentre si svolgeva il test di medicina. Anche così, però, i giudici amministrativi non rischiano certo di restare inattivi, perché potranno essere chiamati in causa da due schiere di studenti: quelli che lamenteranno l'esclusione a causa dell'addio a una regola su cui avevano fatto "affidamento", ma anche quelli che sosterranno di non aver affrontato il test perché scoraggiati dalla presenza di un sistema di valutazione poi tramontato prima di nascere.

2013 E' stato un vero assalto. Sono arrivati in oltre 84mila a affrontare i test per l'ammissione alla facoltà di medicina e odontoiatria nelle università statali. Gli iscritti ammontano a 84.165 (ma i paganti a 74.312) per 10.771 posti disponibili. Circa uno su sette. Un numero decisamente in crescita rispetto all'anno 2012, quando i partecipanti furono 68.426 per 10.714 posti. Domande bizzarre al test di medicina. Chi ha scritto «El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha»? Panico tra gli studenti. Poi, l’illuminazione, almeno per qualcuno: è il titolo - originale, in spagnolo - del Don Chisciotte. E quindi la risposta è (quasi per tutti) immediata: Cervantes. Scene dal test di Medicina, che lunedì 9 settembre 2013 ha portato 75 mila ragazzi a cimentarsi con i famigerati quesiti a risposta chiusa nella speranza di accedere a quei circa 10 mila posti nelle università italiane, scrive “Il Corriere della Sera” . Telefono nelle mutande e bigliettini accuratamente nascosti tra i fazzolettini di carta, tra gli studenti alle prese con la prova c’era anche Daniele Grassucci, di Skuola.net, che ha pubblicato pure una foto on line di alcune domande, tanto per dimostrare come alcuni quesiti di logica fossero davvero così lunghi e intricati da sembrare fatti apposta per sviare l’attenzione dei candidati: «Coltivare piante non autoctone per abbellire i propri giardini è diventata una pratica piuttosto comune. Molte di queste specie sono costose, richiedono trattamenti speciali e sono spesso soggette a parassiti e malattie. Esistono molte piante selvatiche autoctone che sono perfettamente adatte alla crescita in vaso o nei giardini delle case, non richiedono trattamenti speciali e spesso sono altrettanto belle rispetto alle piante provenienti dall’estero. Si dovrebbe quindi cercare di coltivare un numero maggiore di piante autoctone selvatiche nei propri giardini. Se considerata vera, quale delle seguenti affermazioni rende più forte l’affermazione precedente?». Quasi più intricato del «problema della massaia» che deve scegliere quante confezioni di prosciutto comprare, solo dopo aver valutato attentamente quanti grammi ne mangiano i figli al giorno e dopo quanti giorni il prosciutto sarà scaduto. Dall’organizzazione al cui vertice Christine Lagarde ha sostituito Dominique Strauss Khan (il Fondo monetario internazionale) alla corrente filosofica del dato sensibile (l’empirismo), anche quest’anno gli ideatori dei quiz hanno mostrato fantasia sbizzarrita e un pizzico di ironia. Qual è il percorso più veloce per andare in ufficio, quello breve con molti semafori o quello lungo con pochi semafori? E se c’è da accoppiare una città con un museo, l’Ermitage si attribuisce a Parigi, come il test suggeriva ingannevolmente, o a S. Pietroburgo, com’è nella realtà? Se crescendo il benessere si è più infelici, allora il denaro rende felici oppure no? E, dopo la logica, spazio all’immunologia («il tetano resiste agli antibiotici?»), alla neurologia («Quali sono le funzionalità dei nodi di Ranvier»), alla chimica («Quali sono le componenti del glicogeno?») passando per la fisica, con la «forza di Lorentz», che non è quella di un ragazzo muscoloso, ma la forza che si sviluppa tra un campo elettromagnetico e un oggetto elettricamente carico. Tra l’applicazione di un teorema di Pitagora e le probabilità di vincere giocando a dadi, passando per una funzione da ricavare in delta, i candidati si sono trovati persino di fronte ad una domanda che sosteneva che, secondo uno studio americano, «le domande a scelta multipla non danno agli studenti la possibilità né di pensare in maniera logica indipendente né di presentare le loro argomentazioni coerentemente in maniera scritta». Forse un sottile, sadico tentativo – dopo aver provato invano con la meccanica orbitale, le ossidoriduzioni e il bilancio stechiometrico – di scoraggiare i meno motivati.

I RISULTATI, POI, SONO QUESTI.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

PARLIAMO DEI CRITERI DI VALUTAZIONE DELLE PROVE E DI CHI LI METTE IN PRATICA PER STABILIRE CHI MERITA E CHI NON MERITA DI DIVENTARE MAGISTRATO, AVVOCATO, NOTAIO, ECC.

I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.

Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.

a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;

b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;

c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;

d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;

e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.

Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.

Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?

PARLIAMO DELL'OSTRACISMO DEI MEDIOCRI CONTRO I GENI.

Uno dei tanti libri che parla dell’ostracismo degli scienziati mediocri rispetto ai geni è “Geni incompresi. Eccentrici, perseguitati, plagiati, sfortunati, derisi, vilipesi...” di Ermanno Gallo.

Il medico Gaspare Tagliacozzo fu il geniale precursore della chirurgia ricostruttiva. Nel 1597 realizzò il primo impianto di pelle su un paziente dal naso sfregiato, utilizzando una striscia di epidermide dall’avambraccio. La Chiesa, però, gridò all’eresia, e solo tre secoli dopo la "tecnica maledetta" venne riscoperta. Si racconta che nel Seicento Cartesio abbia costruito uno dei primi androidi, una figlia artificiale in grado di pronunciare poche parole. Ma l’invenzione "puzzava di zolfo", e fu distrutta. E l’indispensabile penna a sfera? Venne brevettata dall’ungherese Laszlo Biro nel 1943, ma fu il barone francese Bich a produrla con il proprio nome divenendo ricchissimo. Biro, invece, morì in miseria. La storia delle invenzioni è un testo misterioso in cui figurano personaggi eccentrici e brevetti rubati, studiosi sfortunati e scienziati perseguitati. Non tutti hanno lasciato nella storia l’impronta di un gigante, ma come ignorare la preveggenza di Joseph Gavetey, che, nel 1857, perfezionò il rotolo di carta igienica? La gente comune, però, ritenne uno spreco utilizzare la preziosa carta per funzioni innominabili, e il suo genio anticipatore non venne compreso. Chissà se si consolò pensando a Galileo, che per aver capito come andava il mondo aveva rischiato addirittura il rogo.

Quella di Giampaolo Giuliani, il tecnico che, avendo previsto il terremoto in Abruzzo del 6 aprile 2009, non è stato creduto, è la solita storia dell'incapacità della scienza ufficiale di dare credito a progetti o intuizioni, che non provengono esclusivamente dalle ricerche effettuate nel baronale mondo accademico. Lo strumento da lui creato aveva rilevato la presenza massiccia di precursori dei terremoti nella zona, attraverso i livelli di radon liberati dalla terra.

La storia del mondo è stata segnata da innumerevoli Geni Incompresi, le cui scoperte non sempre sono state accettate dalla comunità scientifica. Personaggi ritenuti "eretici" molto spesso hanno dato contributi significativi al progresso dell'umanità.

Keplero ad esempio era ritenuto dalla maggior parte degli scienziati del suo tempo un mistico pazzo, eppure con le sue tre leggi, permise a Newton di descrivere la legge di gravitazione universale.

Sulla tipologia di tali personaggi vi è anche il famoso libro di Federico Di Trocchio intitolato "IL GENIO INCOMPRESO" dove viene svelato con estremo rigore come "la scienza ufficiale, spesso ottusamente conformista, non riesca a pensare in maniera diversa, disapprovando e condannando chi lo fa e, non di rado, sbagliando nei suoi giudizi". Nel libro si mette inoltre in chiara evidenza che "molte scoperte richiedono soprattutto spregiudicatezza, creatività e apertura mentale, qualità che non appartengono solo agli scienziati più originali e anticonformisti, ma anche ai dilettanti e agli outsider "semicompetenti", che hanno il coraggio di andare contro corrente e pensare quello che altri ritengono impossibile".

Un altro genio incompreso è Raffaele Bendandi. Nato nel 1893 a Faenza e ivi morto nel 1979, sismologo autodidatta, nel 1920 fu accolto fra le fila della “Società sismologica italiana”. Probabilmente una voce fuori dal coro dell’Accademia, Bendandi iniziò a propugnare teorie molto originali sui terremoti e a formulare previsioni. Di questa storia è facile leggere il punto di vista dei sostenitori di Bendandi: i più influenti sismologi lo tacciarono di dilettantismo e iniziarono ad attaccarlo duramente. Convinto che i terremoti fossero causati dalle azioni di marea degli altri corpi celesti sulla Terra, ipotizzò negli anni ‘30 la presenza di 4 pianeti trans-nettuniani. In base a calcoli laboriosi (il cui schema non fu mai svelato) Bendandi calcolava gli influssi gravitazionali di tutti i corpi del sistema solare sulla Terra e calcolava le date dei terremoti a venire. Si racconta di terremoti previsti, di previsioni ignorate, di come all’estero Bendandi fosse apprezzato e di come invece fosse misconosciuto in patria. Non del tutto, visto che la stampa riporta la notizia che nel 1976, dopo il tragico terremoto del Friuli, l’allora Ministro dell’Interno Francesco Cossiga lo contattò perché rendesse note con anticipo le sue previsioni – richiesta alla quale Bendandi non ottemperò. L’effetto mareale fu anche invocato per spiegare il ciclo di 11 anni dell’attività solare.

Ma perchè in Italia tutti si sono dimenticati di lui e del suo lavoro?

Nel 1927 il regime fascista vietò a Bendandi di divulgare le sue previsioni, come si può leggere ad esempio sul quotidiano "LA NAZIONE" del 30 maggio di quell'anno, probabilmente sotto la pressione di molti accademici del tempo, desiderosi di togliere di mezzo lo scomodo personaggio, che li metteva nella grande difficoltà di spiegare perchè loro non riuscivano a prevedere i terremoti. Bendandi non si diede per vinto e scrisse un primo libro che pubblicò completamente a sue spese nel luglio 1931. Tale libro intitolato "UN PRINCIPIO FONDAMENTALE DELL'UNIVERSO" era dedicato all'attività solare e conteneva il primo caposaldo, su cui egli basava le sue ricerche. Il ciclo undecennale venne interpretato come un battimento delle sollecitazioni mareali prodotte dai pianeti che ruotavano attorno al Sole. La variabilità delle altre stelle venne spiegata attraverso lo stesso principio e descritta in un secondo volume ancora inedito. Essendo anche il fenomeno sismico inquadrabile sotto lo stesso ragionamento, nella situazione di non poter divulgare le previsioni dei terremoti, Raffaele Bendandi volle probabilmente fissare un primo principio, che, se apprezzato, gli avrebbe permesso di far riconsiderare le sue previsioni.

Bendandi, il 22 novembre 1923, davanti al notaio Savini di Faenza dichiarò che il 2 gennaio successivo si sarebbe verificato un fenomeno sismico nelle Marche. Fu così che il 4 gennaio in terza pagina del Corriere della Sera uscì l'articolo: «L' uomo che prevede i terremoti». Tal Agamennone capo dell'osservatorio sismico di Roma aveva già ammesso il nostro nella società sismologica italiana. Ma dopo quell' articolo la scienza accademica non poté che detestarlo, ferita nella vanità da un autodidatta.  Nemmeno i preti gliela rimediarono. Il cardinal Maffi dell'osservatorio di Pisa non lo ricevette. «Ma domani sarete voi a chiamarmi» ... puntuale arrivò una scossa di terremoto, il giorno dopo nel Pisano. Più pratici gli americani e il libero mercato: nel 1925 Thomas Morgan della United Press stipulò regolare contratto in cambio della sua collaborazione. E Bendandi poté smettere il mestiere d'artigiano, con cui aveva campato fino ad allora. Nel 1927 Mussolini lo fece nominare cavaliere dell'Ordine della Corona d' Italia, ma era innervosito dalle previsioni e gli intimò di non darne notizia. Con Gronchi arrivò pure il titolo di Cavaliere della Repubblica e lettere grate di governanti da quasi ogni nazione della terra. Il suo sindaco comunista, giudicatolo scienziato proletario, gli fece intestare un milione e mezzo di lire per le ricerche.

Lo scandalo dei pullman per le gite: fari guasti e autisti senza patente. I controlli della polizia: un bus su cinque è fuorilegge, la metà è senza scatola nera. Falle nella sicurezza, turni di guida non rispettati e gare al ribasso tra le cause degli incidenti, scrive Corrado Zunino il 9 giugno 2016 su "La Repubblica". L'ultimo autista controllato, lo scorso primo giugno, aveva appena assunto anfetamine. Due pasticche, poi si era messo alla guida del bus pieno di ragazzini, sessanta ragazzini delle scuole elementari. Gita scolastica alla Villa Reale di Monza. La polizia ha sottoposto al drug test il conducente, 44 anni, nervoso, sovreccitato: "Ho preso due tachipirine ieri sera, sa, il mal di testa". Era in attesa dei ragazzi nel parcheggio della villa. Controllo di routine su mezzo fermo, in questo caso di una società di noleggio di Pavia. Autista positivo, patente ritirata, avvio al prelievo del sangue in ospedale per conferma: un altro guidatore viene convocato per riportare a casa gli studenti in sicurezza. L'accordo tra polizia stradale e ministero dell'Istruzione, attivato con la celebre circolare 674 del 3 febbraio (rientrata laddove dava responsabilità troppo dirette agli insegnanti), sta producendo risultati. A quattro mesi dall'avvio dei controlli su strada gli agenti hanno scoperto che un pullman su cinque è fuorilegge. Quasi diecimila autobus per le gite controllati, il dieci per cento del parco circolante: di questi, 6.982 dopo una telefonata fatta alla polizia dal dirigente scolastico. Bene, millesettecentotrentacinque - il 17,5 per cento - non avrebbero potuto proseguire. E non hanno proseguito. Uno su cinque aveva gli pneumatici lisci, le cinture di sicurezza fuori uso, i fari guasti, gli specchi retrovisori danneggiati: problemi strutturali, ecco. In 295 casi la scatola nera (cronotachigrafo per i bus più vecchi) aveva rivelato che l'autista non aveva riposato abbastanza. Centosettanta volte aveva violato ripetutamente il limite di velocità: 100 chilometri l'ora. Otto autisti non avevano la patente in tasca, venticinque veicoli non erano passati dall'obbligatoria revisione, venti non avevano copertura assicurativa. Un rischio quotidiano, certificato dal fatto che il 27 marzo scorso, neppure una settimana trascorsa dalla tragedia dell'Erasmus (13 ragazze morte sull'autostrada Valencia-Barcellona, tra le quali sette italiane), un autista ha coperto l'andata Fermo-Napoli correndo come un pazzo con due classi di liceali a bordo, incurante delle richieste di rallentare avanzate dai quattro docenti: ha persino spaccato un retrovisore contro un cartello. Gli insegnanti hanno fatto scendere i ragazzini sulla superstrada, pur di non proseguire con quel guidatore. Rara saggezza, visto che l'autista scartato ha imboccato il ritorno, carico solo delle valigie della scolaresca, e si è schiantato contro uno spartitraffico. A Verona, l'8 aprile scorso, la stradale ha trovato un autista ubriaco alle 6.30 di mattina - verifica fatta con l'etilometro - prima della partenza per Monaco di Baviera. Due pullman sono stati fermati nel giro di pochi giorni in provincia di Grosseto, erano della stessa società: cinture difettose (8 in un caso), 300 euro di multa e cambio bus per la visita del Parco dell'Uccellina. Un autista di Nola, altro caso, era stato condannato per detenzione di droga e lavorava in nero. La patente di guida - categoria D - l'aveva manomessa. Gli incartamenti erano falsi. Come raccontato in un'inchiesta di Repubblica, molti dei guai che toccano il trasporto per le gite di scuola nascono dalle gare al ribasso fatte dai singoli istituti scolastici. In Italia viaggiano 6mila autobus a nolo Euro 0, fabbricati, cioè, prima del 1992. Ventiquattro anni fa. L'impresa che vince un appalto per il trasporto scolastico occasionale propone, in media, un prezzo di un euro a chilometro. L'Anav, che è l'associazione autotrasporto viaggiatori, sostiene che sotto 1,6 euro a chilometro non si possano offrire autobus in sicurezza. Una recente direttiva europea consente a un'azienda del ramo di aprire con soli 9mila euro di capitale, la cifra necessaria per garantire la manutenzione. La metà degli autobus circolanti non è dotata di scatola nera: il cronotachigrafo digitale che registra percorso, soste, durata del viaggio negli ultimi ventotto giorni. Oltre 13mila mezzi montano solo un disco con un pennino che segna i dati su carta, il cosiddetto cronotachigrafo analogico: si può manomettere con una certa facilità, può essere distrutto alla fine del viaggio. La Motorizzazione civile, nei suoi controlli periodici, ha scoperto la frequente alterazione del limitatore di velocità. La "fine corsa" di un mezzo, poi, si stima intorno al milione di chilometri macinati: molti pullman ci arrivano in buone condizioni, altri toccano il tetto degni dello sfasciacarrozze. Ancora: ogni autista dovrebbe guidare non più di nove ore il giorno e non più di quattro ore e mezzo di fila. "Il salto dei turni di riposo è tra le prime cause di incidenti", spiega l'Associazione amici sostenitori della Polstrada.

PARLIAMO DELL'ITALIA "MODAIOLA".

I pantaloni bassi? Un segnale "sessuale" (o forse no). Si dice che l'uso dei pantaloni bassi derivi dalle carceri americane. Vero, ma per un motivo diverso, scrive Federico Baglioni, Redattore Today, il 18 dicembre del 2015. Da dove nasce la moda dei pantaloni bassi? Dalle carceri americane. Molti siti riportano questa frase: "questa tendenza è nata nelle carceri americane, i prigionieri disposti a fare sesso con altri prigionieri si inventarono questo segnale. Chi girava con i pantaloni sotto il sedere era disposto a farsi penetrare da altri detenuti." Come spiega Bufale Un Tanto Al Chilo, la sua origine sono effettivamente le carceri, ma il motivo non ha nulla a che vedere con la disponibilità sessuale. Il motivo di questa "moda" è essenzialmente che in molti stati è vietato l'uso della cintura per evitare che possa venire usata come arma, sia per far male agli altri, sia per tentare il suicidio. Dunque una "leggenda a fin di bene", nel senso che sono in molti a non condividere affatto questo modo di portare i pantaloni. Uno di questi è lo stesso Presidente degli Stati Uniti Barack Obama, che ha peraltro aggiunto che vietare, tramite leggi, la pratica di indossare i pantaloni ribassati sarebbero una perdita di tempo.

Jeans a culo scoperto: trovarci un perché… ma senza bufale! Scrive Gaia Conventi il 10 dicembre 2011. E finché è un bimbominkia con movenze da orango e mutanda 012 di fuori, puoi anche farci una risata  piccolo sfigato, magari inciampi e ho la fortuna d’avere pronta la macchina fotografica , ma è quando il tale a culo scoperto ha passato i trenta che ti chiedi se sta mostrando il culo perché non può mostrare le palle. Sveglia, signori, passata la trentina  mia e vostra  è meglio parlarci chiaro: le donne a culo di fuori sembrano otarie volgarotte in cerca di una fuggevole palpata, gli uomini… o signore benedetto, gli uomini fanno proprio ridere. Finché siete ragazzini, si può ancora sperare che i vostri genitori vi mettano di fronte a uno specchio a figura intera, ma se siete abbondantemente maggiorenni… dai, su, mollate la pezza! Ma non era questo che volevo raccontarvi, ché di mode orrende ne sono passate sotto i ponti, ma almeno le spalline imbottite non ci facevano mostrare niente  ma niente, eh? nemmeno il collo, sembravamo tartarughe ninja  e per fortuna sono morte e sepolte, come immagino finirà anche la moda della mutanda al vento. Volevo invece farvi notare che, a volte, per smontare una cazzata  il jeans trucido  si pensa bene di biasimarla con una cazzata maggiore, detta anche bufala, ma cazzata rende meglio. Questa arriva direttamente da facebook, e recita (copia-incolla fedele): Per tutti coloro che pensano sia bello passeggiare con i pantaloni sotto al culo, LEGGETE la seguente spiegazione: questa tendenza è nata nelle carceri, negli Stati Uniti ‘dove i prigionieri che erano disposti a fare sesso con altri prigionieri avevano bisogno di creare un segnale che sarebbe passato inosservato da parte delle guardie così da non subire conseguenze, quindi mostrando parzialmente il loro sedere, dimostravano che erano disponibili ad essere penetrati da altri detenuti. Ora, a me ‘sto fatto del detenuto a pronta fregola fa un po’ sorridere, immagino che le carceri americane non abbondino di gentlemen che richiedono appuntamenti galanti esclusivamente agli interessati. Tocca quindi farsi un giro nei meandri di internet per sconfessare questa cacchiata, lo faccio volentieri, state tranquilli La moda della braga abbondante e del culo scoperto, secondo la rete e il buonsenso, ha avuto origine in diverse maniere: dai rapper e dal loro bisogno d’abiti comodi, dal ghetto e dall’impossibilità familiare di acquistare “capi su misura” per i diversi figli della nidiata (il jeans va bene a te e poi passa a tuo fratello, e poche storie!), ma anche dal non poter portare  e qui sì siamo arrivati alle prigioni  una cintura per tenere su i pantaloni. Le cinture in carcere non sono ammesse, ma voi già lo sapete visto che, come me, vi siete pappati centinaia di telefilm made in USA. Qualcuno si azzarda anche a dire che non è possibile avere taglie diversificate e quindi ai detenuti tocca fare con quel che passa il governo. Non mi intendo di moda carceraria, ma visto che il governo americano si occupa pure delle mimetiche militari  posso farmi testimone del fatto che quelle le trovate dalla XS in poi, lo dico perché ho comprato surplus militare per anni , non vedo perché non debba metterci lo stesso impegno anche nei pigiamini a strisce. Quindi, mi sento di dire a tutti i bimbiminkia in ascolto che il jeans a culo panoramico non li rende preda del primo galeotto che passa, li rende soltanto ridicoli.

La vera storia dei "pantaloni calati", scrive Postato, scrive Ileana Corte l'8 maggio 2013. Quante volte vi è capitato di vedere ragazzi anche molto giovani, con questi jeans calati (baggy) a volte così tanto che non solo si vedono totalmente le mutande sotto ma a volte perfino il fondo schiena??!!!! Vogliamo parlare di come camminano? che sembra che dopo un lauto pranzo, abbiamo cercato disperati un bagno senza aver avuto fortuna e quello sia il macabro risultato del problema intestinale? Vogliamo parlare del fatto che vadano fieri di girare in questo modo e che addirittura a volte mentre camminano se li abbassano di più (metti caso che non si vede la marca dei boxer)?!!!! Ottenendo questo effetto di culo inesistente, visto che la piega naturale dei pantaloni rimane ad altezza coscia e sembrano dei mezzi nani deficienti? Che se si fermassero un attimo a riflettere con l'ultimo neurone rimasto, e poi chiudo qui e passo alla vera storia dei pantaloni calati, è NOTO le donne tra le prime cose che guardano statisticamente è il fondo schiena. Quindi........secondo loro, fanno colpo con questo triste jeans pronto per defecare? Se non lo avete capito ve lo dico io: NO. ALLE DONNE QUESTO JEANS NON PIACE!!!! Diciamo che l'effetto è lo stesso che a voi fanno le famose scarpe ballerine che usano certe donne: Antisesso, anti tutto direi! Ma approfondiremo in altra occasione questa cosa. Passiamo alla vera storia di questo uso (non posso chiamarla moda, sarebbe come bestemmiare): La verità pare che arrivi dall'America, in particolare sembra che il tutto nasca nelle carceri e non certamente come moda. In prigione non si possono usare le cinture e quindi può capitare che la tuta arancione che devono indossare i carcerati, possa allentarsi sui fianchi. Pare anche tutto questo abbia portato alcuni detenuti ad abbassare volutamente i calzoni per indicare la disponibilità a fare sesso, creandone quindi un chiaro segnale per gli altri, ma senza che questo fosse notato dalle guardie carcerarie per evitare qualsiasi ritorsione. Ora: se questa ultima parte sia una leggenda metropolitana non lo so, ma tutto può essere al giorno d'oggi. In un secondo momento i rapper americani, per stringere solidarietà con i detenuti, hanno cominciato ad usare i pantaloni calati e da li ne è nata una moda nel mondo hip pop, tra gli skater etc. Stile chiamato Sagging (anche se io ci vedo poco di saggio, ehehe). Dopo aver letto questa cosa non sono più riuscita a guardare la gente con indosso questi baggy o pantaloni calati, senza ridere. Ogni volta penso a questa storia e mi domando se la gente prima di fare qualcosa legga, si informi o se faccia come le "pecore" con la regola del: basta seguire la prima e viaaaaaa! hahaahahah si ho la certezza che sia così.....è tipico della mentalità italiana, abituata a seguire la prima persona davanti e fare quello che fa lei. Lo noti nelle interminabili code al casello, quando ci sono 5 porte automatiche e tutti fanno la fila nella prima che tu sia in posta, ad un evento etc, lo vedi nella politica potrei citarne altre mille.

TESTIMONE DI GEOVA? NO GRAZIE!!!

Testimone di Geova? No, grazie: sono nato in Italia, non in Pennsylvania...scrive Massimo Prati sul suo blog. Qualche anno fa, mentre stavo scrivendo un articolo su Sarah Scazzi sentii suonare alla porta. Alzai la cornetta del videocitofono e sullo schermo apparvero due donne con in mano un pacco di opuscoli. Erano testimoni di Geova che mi chiedevano cosa ne pensassi dei mali del mondo. A metà degli anni '90 abitavo accanto a una sala del regno e non furono poche le discussioni che mi vedevano contrapporre le mie idee a quelle dei testimoni che la frequentavano. Stavo per chiudere la conversazione, certo che un eventuale dialogo non sarebbe sfociato in nulla, quando mi ricordai dei tanti testimoni di Geova di Avetrana che si mostravano sugli schermi per divulgare le chiacchiere di paese e che anche la madre di Sarah era una sorella. Subito pensai che le due signore mi avrebbero potuto aiutare a capire almeno il rapporto conflittuale che Concetta Serrano doveva vivere in famiglia. Così aprii il cancello esterno e le varie porte che le dividevano da me facendole accomodare in salotto e iniziando a dialogare con loro che immediatamente si misero all'opera chiedendomi se conoscevo la verità. "Ma amiche mie - dissi - chi mai può conoscere la verità? Non credo esista al mondo nessuno in grado di poter affermare di conoscere la verità. Voi la conoscete?". La risposta lapidaria non mi lasciò di stucco perché già centinaia di volte l'avevo ascoltata: "E' scritta qui: in questi opuscoli c'è tutto ciò che deve sapere". E mi misero in mano un numero della "Torre di Guardia" e uno di "Svegliatevi". Ed ecco che come d'incanto il tempo parve essersi fermato a vent'anni prima e mi ritrovai a disquisire sullo stesso tema con le stesse argomentazioni. - No cara la mia signora - parlai a quella che aveva all'incirca la mia età - non c'è opuscolo al mondo che sia edito da un dio. Tutti nascono dalla mente degli uomini. Non risalgono all'avvento del Salvatore, non hanno più di duemila anni e sono recenti. Lei sa in che anno fu pubblicato il primo numero degli opuscoli che mi dato? - - Così su due piedi... - mi rispose. - Ed allora glielo dico io: La torre di Guardia nacque nel 1879 e non era edita dai testimoni di Geova, che si chiamano così dal 1931, ma dai loro antesignani, gli "Studenti Biblici" capeggiati da un tale, che lei dovrebbe conoscere, di nome Russel, mentre la rivista "Svegliatevi" esordì nel 1919 come "L'Età dell'oro", poi si chiamò "Consolazione" e solo nel 1946 prese l'attuale nome. - Vedo che si è informato sulla nostra storia e sul nostro fondatore - stavolta era la più giovane a parlare. - Mi hanno informato i vostri anziani tempo fa, quando credevo che nessun italiano si facesse convincere dai predicatori americani. E mi sono informato su internet quando a scuola ho saputo che un vostro fratello non ha voluto che suo figlio di otto anni accettasse uno stupido regalo di compleanno dal suo compagno di banco. Ma chiamarla storia è un forzare il significato delle parole - le dissi girandomi verso di lei -. Chi chiamate "fondatore" era un brav'uomo confrontatosi con varie dottrine prima di predicarne una tutta sua. Ma chi lo sostituì dopo la sua morte, un giudice di nome Rutherford, era di certo un pazzo scatenato: e non lo dico io, lo dichiaravano gli innumerevoli gruppi di studenti biblici che un secolo fa si dissociarono dalla sua figura (e furono davvero tanti). Lo sapete che è stato questo signore a mandarvi porta a porta a predicare, a proibirvi di festeggiare il Natale e i compleanni? Certo è che il suo successore fece anche di peggio. Infatti fu mister Knorr (non quello del brodo), a far nascere la scuola a cui attingono i testimoni di Geova per imparare a rapportarsi agli altri e a predicare meglio, così da attirare più proseliti, come fu lui a mettere in chiaro e a decidere che Geova non ammetteva e non accettava trasfusioni di sangue. Inoltre non c'è storia che tenga, in quanto anche la parola Geova nasce da un errore di traduzione e non c'è nessun dio con quel nome. Quindi voi vi chiamate Testimoni di Geova a causa dei vostri predicatori e non seguite la Bibbia, ma quanto altri hanno creduto e credono di leggere sulla Bibbia. - Geova è citato nella Bibbia migliaia di volte - la più grande si stava infervorando. - Di quale Bibbia parla signora? Lei si riferisce alla Bibbia in uso a Russell e agli studenti biblici, quella tradotta e adattata all'inglese e poi riadattata all'italiano: non il massimo delle scritture, quindi. Mi accorsi in quel momento di essere uscito dal seminato. Quelle due creature use alla predicazione porta a porta erano parte della base dei testimoni di Geova. Quindi non avvezze a sentir criticare la loro "storia" e a porsi domande complicate. Conoscevano la loro Bibbia e quanto gli indottrinatori americani avevano insegnato. Per cui dovevano parlare a memoria e non potevano permettersi di avere dubbi, dovevano accettare il verbo e predicarlo per accogliere altre sorelle o fratelli nella grande casa di un dio forse inesistente. Ed allora mi fermai e per una buona mezzora parlammo d'altro, di quanto le due donne conoscevano bene, del mali del mondo e dei peccati dell'uomo che stavano trascinando il pianeta a una brutta fine. Non accennai alle diverse date pubblicate su "La Torre di Guardia", non parlai né del 1914 né di quante volte i loro capi avessero previsto una fine del mondo e il discorso filò quasi liscio: in fondo su tanti aspetti eravamo in simbiosi. Poi mi ricordai del perché le avessi fatte entrare, ed allora chiesi il motivo per cui un figlio smette di essere tale se abbandona la loro religione. La signora della mia età mi disse che lei non avrebbe abbandonato i suoi figli, ma ammise che una simile eventualità ancora non le era capitata e che sperava non le capitasse mai perché voleva averli con sé quando il mondo terreno sarebbe tornato nelle mani di Geova. Al ché le ricordai che solo 144.000 testimoni sarebbero stati gli eletti eterni sulla Terra e che milioni di predicatori come lei non potevano sapere come sarebbe stata una vita Celeste comandata da un Dio che pretende cieca lealtà dalle sue pecore, come la pretendeva Hitler che deportò i testimoni di Geova perché li credeva diversi e non degli eletti. Inoltre le dissi che io conoscevo ex testimoni che dopo aver smesso di predicare e credere in Geova si erano visti emarginare dagli amici e dai parenti come se avessero contratto la lebbra. "Cara signora - tornai a dirle - se lei non è come altri suoi fratelli che abbandonano i figli ne sono felice, ma non è un comportamento né umano né religioso il rinnegare chi si è frequentato per decenni solo perché cambia idea su una religione. Pare quasi che in voi aleggi lo spirito nazista che rinnegava le razze diverse. Non è che per caso siete tutti razzisti?". Certo che no, mi rispose la giovane, stavolta è lei a non essere informato. Noi predichiamo la fratellanza senza alcuna discriminazione razziale. "Come no - la incalzai - voi moderni testimoni avete l'ordine di non discriminare, è vero, ma torniamo sempre allo stesso punto: la vostra è una religione che cambia in base al vento e agli opuscoli editi dagli uomini. Lei mi ha messo in mano la rivista "Svegliatevi", che inizialmente si chiamava "Età dell'oro", e a me risulta che proprio sull'età dell'oro il giudice Rutherford scrisse che il popolo asiatico era una razza ignorante e degenerata. Sono contento quindi di vedere che i moderni testimoni rinneghino parte di quanto scritto da chi li ha obbligati a passare di porta in porta, a non festeggiare compleanni e Natale, ma allo stesso tempo mi spiace costatare che la vostra linea religiosa ha una base dirigente razzista che pretende obbedienza quando intima ai fratelli e alle sorelle di non incontrare chi si dissocia da Geova per paura che il dubbio assalga chi non si è dissociato". Fu in quel momento che, come mi accadeva negli anni '90 quando discutevo con altri loro fratelli, le due donne mi invitarono, per informarmi meglio, a leggere qualche libro dei testimoni di Geova. Poi, dopo aver guardato l'orologio ed essersi scusate, andarono verso la porta dicendomi che sarebbero tornate perché volevano ancora confrontarsi con me sui mali del mondo. Le salutai cordialmente, senza approfondire il discorso su Concetta Serrano e sui testimoni di Geova di Avetrana che si presentavano quotidianamente in televisione per predicare le chiacchiere di paese, ma prima di farle uscire dissi loro che mi rifiutavo di leggere i libri dei predicatori americani e di incontrarle nuovamente. "Sono nato in Italia - fu l'ultimo mio sermone - nella patria della cultura che rifiutate senza motivo. Voi, invece, vi siete praticamente americanizzate perché predicate una dottrina nata in Pennsylvania (bosco di Penn, nome scelto dal "Quacchero" - altra religione - William Penn), terra di tanti predicatori inglesi già dal '600. A me degli americani piacciono alcuni trhiller e qualche serie investigativa trasmessa in tivù. Da giovane guardavo i film di Robert Redford e non disdegnavo, quando ero in compagnia, quelli con Richard Gere. Ma ad essere sincero non c'è stato presidente americano che alla fine del suo mandato mi abbia convinto e mi sono scandalizzato quando ho saputo che gli americani acquistavano schiavi (manodopera a costo zero) e che non esistevano più veri pellerossa. Non mi vanno giù i predicatori, di qualsiasi stato essi siano, perché ho una mente mia e con quella osservo e ragiono su quanto accade al mondo. Quanto dicono tutti i vari predicatori per me è muffa. Muffa che si attacca solo su quelle pareti costruite con imperizia in luoghi umidi, sulla pelle di chi ha problemi. Voi continuate a predicare, è un vostro diritto e nessuno vuole togliervelo, ma non in casa mia. Se volete parlare dei mali del mondo, iniziate a pensare a quanto male fate voi per primi: ad esempio ai vostri figli quando negate loro la gioia di ricevere un regalo, di festeggiare un compleanno o il Natale. E se per voi è pagano festeggiare e far felici i figli... beh, allora io sono di religione pagana ed è meglio che mi stiate lontani, potrei contagiarvi".

“No. Più che altro avrei voluto che avesse seguito la mia religione. Io appartengo ai Testimoni di Geova e avrei voluto che restasse tra noi fratelli, come noi Testimoni di Geova ci chiamiamo l’un l’altro: tra noi sarebbe stata più al sicuro. Noi Testimoni di Geova nemmeno nella fantasia possiamo pensare di uccidere una persona, figuriamoci realmente. Lo dicevo sempre a mia figlia che chi non ama Dio non può amare te. Non l’ho mai obbligata a seguirmi, forse in questo ho sbagliato?” Così Concetta Serrano, la mamma di Sarah Scazzi, in un’intervista. Fervente Testimone di Geova che spingeva la figlia ad abbracciare la sua stessa fede, ma Sarah non voleva saperne, scrive “Articolo 3”. Inquietanti le coincidenze che ricorrono nella vita di due giovani scomparse o massacrate ed i Testimoni di Geova. Un’atra Sara al centro di un giallo ancora irrisolto, la scomparsa di Roberta Ragusa.  Si tratta di Sara Calzolaio, la giovane amante di Antonio Logli, il marito della giovane donna. Sara è stata allontanata dai Testimoni di Geova, dopo la scoperta della relazione con Logli. Dissociazione, la definiscono, una specie di morte civile, morti agli occhi della comunità e dannati in eterno per una delle colpe, a loro dire, più gravi: l’adulterio, aggravato dal fatto che sia stato commesso con un partner al di fuori della comunità, chissà poi perché. Sembra che anche Roberta, da ragazzina, avesse bazzicato nella comunità, della quale probabilmente la madre era un’adepta, e si racconta che ultimamente si fosse riavvicinata alla comunità. Un universo sessuofobo, quello dei Testimoni di Geova, e di sesso dietro ai misteri di Sarah e Roberta ce n’è tanto. Un mondo chiuso, greve, che non conosce vie di mezzo, fatto di minacce e maledizioni, in cui il perdono è vocabolo ed esercizio sconosciuto.

«Vorrei incontrare Sabrina: mi piacerebbe aiutarla ad iniziare un cammino giusto agli occhi di Dio. Farle capire che la scena di questo mondo sta per cambiare e resta poco tempo per farsi perdonare. Geova Dio, nella sua misericordia, è pronto a perdonarla nel momento in cui lei compie i passi richiesti». È quanto scrive Concetta Serrano, madre di Sarah Scazzi, nella mail inviata al proprio avvocato Antonio Cozza e letta a «Quarto Grado», su Retequattro. «Sarah al momento non c’è, ma è viva agli occhi di Dio. Sabrina c’è, ma vive una vita priva di tranquillità - prosegue la lettera - . vorrei incontrarla, non per chiederle se ha ucciso Sarah, anzi... sarà un discorso che non farò mai, se lei non lo vorrà. Tra breve Sarah sarà riportata in vita, qui sulla Terra. Per me sarebbe davvero bello rivedere le due cugine nel "Nuovo Mondo", governato da Cristo Gesù, che si abbracciano, dimenticando il male che ha portato a questa tragica situazione, così che tutte e due possano vivere una vera vita. Sabrina potrà ottenere questo e tante altre benedizioni, se ubbidirà alla parola di Geova Dio».

«Incontrerei Concetta, ma senza telecamere, privatamente. La vedo passare qualche volta vicino casa e mi dispiace. Faccio finta di non guardarla, perchè ci rimango male. Non è giusto quello che è stato fatto. Quello che ho fatto. Le ridirei che sono colpevole, che non copro nessuno». Lo ha detto Michele Misseri in un’intervista rilasciata il 25 ottobre 3013 a "Quarto Grado", su Retequattro. L'uomo – che si proclama autore dell’omicidio della nipote Sarah Scazzi, condannato a otto anni di carcere per occultamento di cadavere – spiega il motivo per il quale richiede di essere ripreso di spalle dalle telecamere: «Non voglio più essere ripreso dalla televisione, mi hanno sempre bastonato perchè vado in tv, dicendomi che sono un pupazzo, un burattino. Per far emergere la verità, ho subìto tutte queste cose che fanno male. Per prima cosa chiederei perdono a Concetta. – prosegue Misseri – Mi scuserei per quello che è successo: non l’ho fatto apposta. Questa è la verità. Se lei mi guardasse negli occhi, si convincerebbe che sto dicendo veramente la verità. Non volevo uccidere Sarah. Non so nemmeno perchè l’ho fatto. Non mi hanno mai creduto, perchè non mi ricordo come ho fatto con la corda. Piango sempre quando ci penso. – aggiunge – Dovevo stare benone adesso e, invece, ho distrutto la mia famiglia e quella degli altri. Ero un uomo conosciuto da tutti e ora sono tra i più miserabili che esistano. Anche che se Concetta mi perdonasse, quel che ho fatto mi rimarrà sempre sulla coscienza». Alla domanda se si recasse a casa di Concetta, Michele Misseri replica: «Se Concetta me lo chiede, io ci vado, ma non spontaneamente perchè mi vergogno» Sulle accuse di Concetta, Misseri dice: «Non sono un furbacchione. Non è detto che Concetta mi debba credere per forza, ma io dico la mia verità». Riguardo all’eventuale perdono della madre di Sarah nei confronti della figlia, Misseri afferma: «Cosa deve perdonare Concetta a Sabrina, se mia figlia non ha commesso niente? Ha fatto tre anni da innocente». Non ha dubbi, invece, Concetta Serrano, che sarebbe disposta a perdonare, ma solo a certe condizioni, la nipote Sabrina, accusata di aver ucciso Sarah e condannata in primo grado all'ergastolo. «Perdonerei Sabrina solo se si mettesse nella condizione di essere perdonata: se si pentisse. Non basta piangere o disperarsi. E' una condizione di cuore e di mente. Se Michele venisse a casa mia da solo, non gli aprirei la porta. Ho ascoltato la sua intervista e dice: io dico la mia verità. E, infatti, sta dicendo la "sua" verità».

E quindi in tema di giustizia ed informazione. Lettera aperta a “Quarto Grado”. Egregio Direttore di “Quarto Grado”, dr Gianluigi Nuzzi, ed illustre Comitato di Redazione e stimati autori. Sono il Dr Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica. In tema di Giustizia per conoscere gli effetti della sua disfunzione ho scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it: “Giustiziopoli. Ingiustizia contro i singoli”; “Malagiustiziopoli”. Malagiustizia contro la Comunità”. Per conoscere bene coloro che la disfunzione la provocano ho scritto “Impunitopoli. Magistrati ed Avvocati, quello che non si osa dire”. Per giunta per conoscere come questi rivestono la loro funzione ho scritto “Concorsopoli. Magistrati ed avvocati col trucco”. Naturalmente per ogni città ho rendicontato le conseguenze di tutti gli errori giudiziari.  Errore giudiziario non è quello conclamato, ritenuto che si considera scleroticamente solo quello provocato da dolo o colpa grave. E questo con l’addebito di infrazione da parte dell’Europa. Né può essere considerato errore quello scaturito solo da ingiusta detenzione. E’ errore giudiziario ogni qualvolta vi è una novazione di giudizio in sede di reclamo, a prescindere se vi è stata detenzione o meno, o conclamato l’errore da parte dei colleghi magistrati. Quindi vi è errore quasi sempre. Inoltre, cari emeriti signori, sono di Avetrana. In tal senso ho scritto un libro: “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire” giusto per far sapere come si lavora presso gli uffici giudiziari locali. Taranto definito il Foro dell’Ingiustizia. Cosa più importante, però, è che ho scritto: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire”. Tutti hanno scribacchiato qualcosa su Sarah, magari in palese conflitto d’interesse, o come megafono dei magistrati tarantini, ma solo io conosco i protagonisti, il territorio e tutto quello che è successo sin dal primo giorno. Molto prima di coloro che come orde di barbari sono scesi in paese pensando di trovare in loco gente con l’anello al naso e così li hanno da sempre dipinti. Certo che magistrati e giornalisti cercano di tacitarmi in tutti i modi, specialmente a Taranto, dove certa stampa e certa tv è lo zerbino della magistratura. Come in tutta Italia, d’altronde. E per questo non sono conosciuto alla grande massa, ma sul web sono io a spopolare. Detto questo, dal mio punto di vista di luminare dell’argomento Giustizia, generale e particolare, degli appunti ve li voglio sollevare sia dal punto giuridico (della legge) sia da punto della Prassi. Questo vale per voi, ma vale anche per tutti quei programmi salottieri che di giustizia ne sparlano e non ne parlano, influenzando i telespettatori o da questi sono condizionati per colpa degli ascolti. La domanda quindi è: manettari e forcaioli si è o si diventa guardando certi programmi approssimativi? Perché nessuno sdegno noto nella gente quando si parla di gente rinchiusa per anni in canili umani da innocente. E se capitasse agli ignavi? Certo, direttore Nuzzi, lei si vanta degli ascolti alti. Non è la quantità che fa un buon programma, ma la qualità degli utenti. Fare un programma di buon livello professionale, si pagherà sullo share, ma si guadagna in spessore culturale e di levatura giuridica. Al contrario è come se si parlasse di calcio con i tifosi al bar: tutti allenatori. Il suo programma, come tutti del resto, lo trovo: sbilanciatissimo sull’accusa, approssimativo, superficiale, giustizialista ed ora anche confessionale. Idolatria di Geova da parte di Concetta e pubblicità gratuita per i suoi avvocati. Visibilità garantita anche come avvocati di Parolisi. Nulla di nuovo, insomma, rispetto alla conduzione di Salvo Sottile. Nella puntata del 27 settembre 2013, in studio non è stato detto nulla di nuovo, né di utile, se non quello di rimarcare la colpevolezza delle donne di Michele Misseri. La confessione di Michele: sottigliezze. Fino al punto che Carmelo Abbate si è spinto a dire: «chi delle due donne mente?». Dando per scontato la loro colpevolezza. Dal punto di vista scandalistico e gossipparo, va bene, ma solo dalla bocca di un autentico esperto è uscita una cosa sensata, senza essere per forza un garantista. Alessandro Meluzzi: «non si conosce ora, luogo, dinamica, arma, movente ed autori dell’omicidio!!!». Ergo: da dove nasce la certezza di colpevolezza, anche se avallata da una sentenza, il cui giudizio era già stato prematuramente espresso dai giudici nel corso del dibattimento, sicuri di una mancata applicazione della loro ricusazione e della rimessione del processo? E quello del dubbio scriminante, ma sottaciuto, vale per tutti i casi trattati in tv, appiattiti invece sull’idolatria dei magistrati. Anzi di più, anche di Geova.

Le Iene e i testimoni di Geova che non denunciano l’abuso sessuale su un bambino, scrive il 27/01/2016 Giornalettismo. Il caso raccontato da Luigi Pelazza. Un presunto abuso sessuale subito da un bambino all’interno di una congregazione di testimoni di Geova viene tenuto nascosto e non denunciato alle autorità giudiziarie (nemmeno dai genitori del minore). È il caso raccontato ieri dalla trasmissione di Italiauno Le Iene in un servizio firmato dall’inviato Luigi Pelazza, che riporta il racconto di uno degli associati, espulso per aver provato a rivelare l’accaduto. Il servizio si apre con l’intervista ad una psicologa del Cesap, associazione di medici e psicologi che da dieci anni studia il comportamento, le regole e il plagio che subiscono i testimoni di Geova. La dottoressa Lorita Tinelli racconta: «Hanno un gruppo di circa dieci uomini al comando che hanno il potere di determinare le scelte di vita di oltre 5 milioni di persone in tutte il mondo. Possiamo parlare di manipolazione mentale: è possibile indurre delle persone attraverso un periodo di indottrinamento d concetti, pensieri ed ideologie, a pensarla diversamente da come la pensava prima. Ci sono dei modi di fare che determinano il modo di fare dell’intero gruppo». Le Iene mostrano le immagini registrate da una telecamera nascosta in una saletta di una congregazione di un comitato giudiziario, una sorte di tribunale interno dove gli anziani della setta giudicano i comportamenti degli adepti nella loro vita quotidiana. Nel filmato vengono mostrate le confessioni di una ragazza e un ragazzo: i due giovani (poi espulsi dalla congregazione) raccontano nei dettagli a due giudici che non conoscono, e alla presenza di un loro genitore, il rapporto intimo avuto con un partner. I giudici – dimostra il video – devono sapere tutto ciò che accade di una famiglia, anche le cose più intime. «Nell’ambito di questi gruppi con regole rigide, viene meno il rapporto tra genitori e figli, quello autentico, perché viene mediato dalle direttive del gruppo. Si comanda, si gestisce e si dirige la vita del singolo individuo», è la spiegazione della dottoressa Tinelli. «La persona allontanata non può avere più contatti con le persone che sono dentro». Poi la storia di presunti abusi. Alle telecamere delle Iene Riccardo, uno degli ‘anziani’ di una congregazione, racconta di essere stato allontanato dopo aver provato a denunciare un caso di abusi sessuali su minori. «Non volevano che li denunciassi all’autorità giudiziaria», dice. «Durante una serata goliardica con gli associati – continua – un soggetto riesce ad isolarsi con il bambino e ad avere un rapporto orale in macchina. Si avvicina la madre e lo scopre con le braghe tirate giù, genitali fuori e il bambino che piangeva». Il racconto viene anche confermato da una registrazione telefonica tra la moglie di Riccardo e un altro associato, in cui i due parlano dell’accaduto e in cui l’interlocutore ricorda l’impossibilità di denunciarsi tra associati, anche in presenza di un reato grave come l’abuso sessuale. Ma è possibile che un genitore sia plagiato al punto di non fare denuncia? «Sì, perché le regole interne sono forti», dice Riccardo. «Dico soltanto che mio fratello non ha abusato di nessuno», è la riposta della sorella del ragazzo che avrebbe compiuto l’abuso. «Eravamo soliti stare in villa da noi… è capitato che mio fratello stava facendo pipì nel bosco. Il bambino ha visto mio fratello fare pipì e ha pensato a male. [...] Mio fratello poi è entrato in macchina e si è sistemato i pantaloni. [...] Il bambino ha fatto: ‘Lo sai che ho visto quello del mio papà’. Fatto sta che mio fratello si è spaventato e ha detto: ‘Non dire niente a mamma’». E i genitori del bambino? «Questa cosa è falsa», risponde il papà. L’uomo poi si allontana dalle telecamere, allunga il passo, scortato da altri associati alla congregazione. Nessun commento sul caso nemmeno dagli altri adepti.

Le Iene e i ragazzi ex testimoni di Geova cacciati dai genitori, scrive il 27/03/2014 Giornalettismo. Un servizio di Italiauno racconta ancora una volta il calvario di chi si allontana dalla congregazione. Dopo il servizio della settimana scorsa, un nuovo filmato realizzato de Le Iene firmato da Luigi Pelazza raccoglie ancora testimonianze di persone dissociate dai Testimoni di Geova. La trasmissione di Italiauno ha raccolto, in particolare, la testimonianza di due ragazze stufe di essere condizionate dalla congregazione in ogni aspetto della loro vita. «Tantissime persone si sono svegliate, sono stufe di essere condizionate in ogni minimo aspetto della loro vita, solamente che si trovano nella nostra stessa situazione», hanno affermato alle telecamere di Mediaset nel corso di un’intervista rilasciata senza rendere il proprio volto riconoscibile. «Vorrebbero uscire, ma sanno – hanno continuato – che nel momento in cui abbandonano questo culto perderanno tutti i loro affetti, per via di questa regola interna inflessibile». «Sarebbe la fine per noi…», hanno poi affermato relativamente al rischio di essere scoperte. Si parla, dunque, di regole rigidissime da rispettare, fin da giovanissimi. Nella scuola teocratica s’insegna «come dobbiamo accattivare la persona, quindi capendo i punti deboli e automaticamente lavorare su quelli», spiegano le ragazze. I bambini di pochi anni, affermano nell’intervista, «devono giocare con i bambini della congregazione, perché gli altri sono sempre una minaccia, anche se si tratta di persone perbene». I fanciulli, secondo le ragazze intervistate, sarebbero vittima di un vero e proprio «plagio mentale». Lo dimostrerebbe anche un cartone animato distribuito all’interno della comunità dei Testimoni di Geova per spiegare ai figli che non tutti i giocattoli sono adatti al divertimento, ma solo quelli che «rendono felici» Geova. Ma a preoccupare diversi fratelli della congregazione sarebbe anche e soprattutto l’allontanamento forzato dai propri cari nel caso di abbandono del loro credo. «Io penso – racconta ancora una delle ragazze alle Iene – che se tutti quanti prendiamo coraggio, alziamo la testa e acquistiamo la nostra libertà magari un domani potrà cadere l’ostracismo. Io me lo auguro con tutto il cuore per tutti quelli che in questo momento stanno soffrendo come noi». Alle telecamere di Italiauno, è stata ascoltata anche una ex testimone di Geova, Marcella, che ha raccontato di essere stata costretta ad allontanarsi dai genitori. «Sono stata dissociata – ricorda la ragazza – quando avevo 22 anni, perché nel luogo di lavoro avevo conosciuto un ragazzo. Dopo che c’eravamo frequentati… lui voleva avere dei rapporti sessuali ed io comunque mi ero rifiutata, perché comunque sapevo che stavo andando contro le regole rigide che c’erano nella mia religione». Ad ordinare la dissociazione di Marcella sarebbero stati gli anziani della congregazione, alla quale la ragazza si era rivolta per la sua situazione. «Erano in sei, volevano sapere se era eccitato, se aveva avuto un’eiaculazione. Poi comunque erano venuti anche a casa il giorno dopo, cercando una scusa, per controllare comunque le mie lenzuola. Sì! Perché per loro un ragazzo comunque eccitato non poteva rimanere così… In bianco! Qualcosa doveva essere successa per forza!». Dunque, dopo l’allontanamento dai Testimoni di Geova, Marcella dice di essere rimasta sola, lontana da genitori, fratello e zii. Respinta. Rifiutata. «Questo calvario dura da 12 anni», afferma a Le Iene. Un calvario, quello vissuto in famiglia dagli ex testimoni, che la stessa Marcella ha deciso di raccontare in prima persona registrando con una telecamera nascosta una conversazione con i propri genitori del disperato e inutile tentativo di riallacciare un dialogo. In un video diffuso da Le Iene la ragazza incontra madre e padre per spiegare che la loro vita di litigi non può continuare e che sarebbe meglio avere un rapporto normale. Ma la risposta dei genitori, quasi straniti per la visita della figlia, è lapidaria: «Tu non hai capito niente allora? Tu hai fatto la tua scelta, ti sei allontanata da Geova. Lo sai che Geova mette un muro». Il papà afferma: «Lo sapevi che con i dissociati non dobbiamo avere niente a che fare, compresi i figli». Poi, la mamma aggiunge: «Tu hai lasciato Geova, a me non appartieni più! Quando tornerai da Geova allora le cose ritorneranno come prima, lo sai. Tu sei andata contro Geova. Io non voglio la maledizione di Geova! Io amo Geova, punto e basta!». Ma cosa pensa la congregazione di tutto ciò? Stefano Papanzian, uno dei responsabili dell’informazione pubblica dei testimoni di Geova davanti alle telecamere di Italiauno si rifiuta di commentare le testimonianze di dissociati e ripete di rispettare a pieno le regole della Bibbia. Chiede di ricevere domande via mail per un’intervista alla quale fornire risposte scritte. E degli ex fratelli dice: «Non ho interesse ad incontrarli, frequentarli o ascoltare le loro accuse».

Le Iene: i testimoni di Geova e le trasfusioni di sangue, scrive il 20/03/2014 Giornalettismo. Le testimonianze dei disassociati nel servizio di Luigi Pelazza. Nel servizio di Luigi Pelazza de Le Iene andato in onda ieri sera è stato trattato il caso in un ex vescovo dei Testimoni di Geova che racconta di essere stato cacciato dalla setta per aver permesso che venisse fatta una trasfusione di sangue alla nipotina. La madre della bambina racconta che la figlia aveva un tumore e quindi aveva bisogno di una trasfusione di sangue. Ovviamente i familiari della piccola hanno permesso che ciò avvenisse e da quel momento padre madre figlia e nipote sono stati espulsi dai Testimoni di Geova. Rocco Politi, così si chiama il capofamiglia, racconta che il suo nucleo famigliare è stato completamente isolato dal resto della famiglia e della comunità «perché sono dei disassociati». In passato Rocco era un vescovo dei Testimoni di Geova ed uno dei suoi compiti vi era quello di convincere le persone a non sottoporsi alle trasfusioni di sangue e racconta che per questo motivo sono morte delle persone. Rocco sostiene che la chiesa dei Testimoni di Geova plagi i figli fin da piccoli «i bambini vengono mandati a una scuola di ministero», dove viene insegnato loro come convertire le persone a Geova. La moglie di Rocco racconta che quando tentava di convertire le persone porta a porta alcune le rispondevano in modo sgarbato, mentre in altri casi purtroppo ha avuto l’occasione di dividere molte famiglie. L’ex vescovo invece non permetteva a sua figlia di vedere altri bambini che non fossero altri Testimoni di Geova. Anna è un’altra disassociata e racconta che a 12 anni è stata violentata da un parente con la scusa di un passaggio. Si è rivolta a sua madre che invece di andare a sporgere denuncia l’ha portata dagli anziani per essere punita del suo peccato perché non avrebbe dovuto trovarsi in quella situazione, anche se la madre aveva dato il consenso per il passaggio. Racconta che ad oggi nessuno ha denunciato questa violenza. Dopo aver conosciuto il suo attuale ragazzo ha deciso di uscire dalla setta e quando ha comunicato la sua decisione alla madre, questa ha reagito prendendo un coltello da cucina e dirigendosi verso la ragazza, ma per fortuna è stata fermata dal padre: «Mi avrebbe fatto del male», racconta Anna. La donna vive ancora con i suoi genitori, ma non si parlano: è convinta che suo padre voglia lasciare la congregazione e gli lancia un appello chiedendogli di fare questa scelta. Un uomo racconta la sua esperienza con una donna dei testimoni di Geova. Racconta che gli associati hanno provato a convincerlo più volte a convertirsi alla religione, cosa che a lui non interessava minimamente. Allora è stato avvertito del fatto che se non avesse abbracciato il credo, il suo matrimonio sarebbe saltato e così infatti è stato. La moglie è tornata in puglia dai genitori portando con sè la figlia. L’uomo allora ha deciso di andare dai suoceri, anche perchè non vedeva la figlia da mesi: «Sono stato buttato fuori di casa da mio suocero, che mi ha detto addirittura questa frase che non dimenticherò mai “tu tua figlia te la devi dimenticare”». Quando finalmente riesce a vederla si accorge che è già stata plagiata. Pelazza va quindi a parlare con una psicologa di un gruppo di ricerca che si occupa di sette. La dottoressa Lorita Tinelli sostiene che i Testimoni non siano liberi di scegliere perché «attraverso una serie di tecniche è possibile bloccare il pensieri di una persona e impedirle di scegliere liberamente». Dopo aver raccolto queste informazioni, una complice delle Iene viene mandata ad un’adunanza dei Testimoni di Geova alla quale viene accolta con calore e le fissano una appuntamento la sera stessa per convertirla a Geova. La complice racconta che i genitori sono stati disassociati per una trasfusione di sangue, le due testimoni di Geova le fanno notare che non dovrebbe più parlare con loro e le suggeriscono di fare come se fossero. Pelazza va quindi a parlare della questione trasfusioni con un anziano della congregazione, il quale gli chiede di rimandare l’intervista al giorno seguente, ma poi si tira indietro dicendo che non ha «nessuna dichiarazione da fare».

IL WATERGATE GRILLINO, OSSIA IL M5SGATE.

L'ultimo saluto a Casaleggio il 14 aprile 2016. La folla grida “Onestà, onestà, onestà”, frase di sinistroide e giustizialistoide natali. "Onestà, onestà". Questo lo slogano urlato a più riprese dai militanti del M5S alla fine dei funerali del cofondatore Roberto Casaleggio a Milano. Applausi scroscianti non solo al feretro, ma anche ai parlamentari presenti a Santa Maria delle Grazie, tra cui Alessandro Di Battista e Luigi Di Maio. Abbracci, lacrime e commozione fra i parlamentari all'uscita.

L’ultimo leninista, scrive Fabrizio Rondolino il 13 aprile 2016 su “L’Unità”. “Ad un certo punto pensai di fare a meno di lui, e me ne sono pentito”: Antonio Di Pietro, che di Gianroberto Casaleggio era anche uno degli avvocati, ricorda l’amico scomparso con una punta di rammarico che conferma e rafforza la fama del santone della Rete capace, con la sue sole capacità di web marketing, di creare dal nulla un partito e portarlo al trionfo elettorale. È tuttavia improbabile che l’Italia dei valori avrebbe avuto lo stesso successo del M5s se avesse continuato a giovarsi della collaborazione di Casaleggio; più ragionevole credere che sia stato invece Casaleggio, dopo un primo tentativo con Di Pietro, a cercarsi un altro avatar attraverso il quale conquistare il potere: Beppe Grillo. Entrambi tuttavia – il magistrato che ha messo a nudo i delitti della Casta e il comico che l’ha sbeffeggiata per trent’anni – hanno in comune un tratto essenziale dell’ideologia casaleggiana: nel partito moderno, che obbedisce scrupolosamente alle regole della pubblicità e del marketing, il leader è sostituito dal testimonial, il quale è chiamato a recitare un copione scritto da altri ed è in grado di inverare, esclusivamente grazie alla propria biografia, il programma di cui è portatore passivo. Non c’è alcun contenuto nel M5s: e la grandezza di Casaleggio sta nell’aver capito per primo che per la politica contemporanea il contenuto è soltanto un peso e un intralcio agli acquisti, e l’unica cosa che interessa al consumatore-elettore è il brand, l’identità, l’appartenenza ad un gruppo coeso e omogeneo. Steve Jobs ha costruito le fortune della Apple su un modello di marketing analogo, che spinge i consumatori a ricomprare sempre gli stessi oggetti, lievemente rinnovati, per riconfermare la propria appartenenza ad una comunità esclusiva. Dal punto di vista organizzativo, il M5s somiglia molto ad un classico partito leninista novecentesco: c’è una base ristretta di seguaci pronti a tutto (quelli che un tempo si chiamavano rivoluzionari di professione), c’è un potente sistema di comunicazione (i comunisti lo chiamavano agit-prop) e c’è una leadership carismatica e inamovibile (il segretario generale conclude contemporaneamente l’incarico e la vita): su questo modello, Casaleggio ha innestato da un lato l’aggressività del marketing digitale, capace di unificare il pulviscolo di storie, interessi, rancori e speranze che agita una parte di società, e dall’altro la potenza semplificatoria dell’insulto, il mantra identitario che consolida la comunità e la distingue dalle altre. Più che interrogarsi sulla grandezza di Casaleggio, bisognerebbe forse riflettere sulla permeabilità assoluta della nostra società politica e sulla deriva dell’opinione pubblica. Il tratto antimoderno, per non dire reazionario, dell’ideologia casaleggiana sta proprio qui, in questo ostinato rifiutare la complessità del Moderno, che porta con sé la tolleranza come strumento di sopravvivenza e la continua revisione delle idee come motore dello sviluppo, per rifluire invece in una visione settaria, integralista, medievale, dove il Bene e il Male si confrontano nella loro immutabile fissità. Intollerante e ottuso il M5s lo è per natura, e non c’è bisogno di ricordare le centinaia di espulsioni a tutti i livelli (sempre imposte da Casaleggio) per averne conferma. Resta da capire che cosa succederà adesso che l’unica testa pensante non c’è più. Il brand resta molto forte, ma il testimonial appare stanco e i venditori porta a porta sono pronti a dilaniarsi per il controllo del partito, mentre l’utopia internettiana della trasparenza e della partecipazione non interessa più nessuno.

Antonio Di Pietro: "Con Casaleggio al mio fianco io sarei ancora in politica", scrive “Libero Quotidiano” il 14 aprile 2016. In pochi, pochissimi lo sanno. Ma prima di diventare il guru del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, Gianroberto Casaleggio aveva avuto rapporti con la politica attraverso le sue società di comunicazione. In particolare con un politico anni fa molto in voga e oggi completamente in disgrazia: Antonio Di Pietro. Il quale oggi, in una intervista al Fatto Quotidiano si dispera per l'interruzione di quel rapporto di collaborazione in presenza del quale, spiega, "l'Italia dei valori oggi sarebbe ancora viva". E i 5 Stelle chissà... "Roberto Casaleggio per me, oltre che un amico, è stato anche un rimpianto. Gli avevo affidato la comunicazione sul web dell'Idv mentre ancora muovevo i primi passi in politica, nello stesso periodo in cui lui si avvicinava anche a Grillo. Poi, quando l'Idv si è strutturata, ognuno di noi è andato per la sua strada. Ma se Casaleggio me lo fossi invece tenuto accanto, probabilmente non avrei commesso certi errori". Il motivo è presto detto: "Lui era uno intransigente, gli ha permesso di controllare in modo capillare chi entrava nel Movimento e di mandare via chi tradiva. Nell'Idv, invece, sono mancati i filtri". Alla domanda su chi raccoglierà l'eredità di Gianroberto, Di Pietro non ha alcun dubbio: "Sarà il figlio Davide a raccoglierla, già l'ha fatto lavorando a pieno ritmo accanto al Movimento da un paio d'anni. E' un ragazzo competente, tutto tranne un figlio di...".

Ecco perché Di Pietro ruppe con Casaleggio, scrive Claudia Fusani il 19 giugno 2013 su “L’Unità”. Settembre 2009, cortile del castello di Vasto, festa nazionale dell’Italia dei Valori. È pomeriggio inoltrato quando irrompe in sala stampa un ancora ai più ignoto Gianroberto Casaleggio che con un gesto tra il frettoloso e il nervoso richiama un paio di collaboratori. E li avvisa: «Occhio ragazzi che stanno per farci fuori». Il divorzio tra il guru del web, inventore di Grillo e dei Cinque Stelle, e il partito del gabbiano che alle Europee aveva superato l’8 per cento, avverrà l’anno dopo. Perché Casaleggio aveva il vizio di mettere mano e parole e contenuti nei post di Antonio Di Pietro andando sempre più spesso oltre le intenzioni dell’ex pm. Era durata circa tre anni quella strana coabitazione. Poi a Di Pietro cominciarono a non tornare più i conti: né di quello che veniva scritto a suo nome sul suo sito e del partito; né della linea politica generale che da quei post e da quei messaggi discendeva, sempre più contro il Pd, sempre più ostili con la stampa, sempre più vicina, invece, ai toni da vaffa del Movimento 5 Stelle. Comincia nel 2007 la strana alleanza tra l’ex pm e il guru di Gaja. Nel 2004 ha già allestito il sito Beppegrillo.it, teorizzato la rete dei Meet up, soprattutto convertito Grillo dal più convinto luddismo alla teorizzazione suprema della net democracy. Di Pietro, scarpe grosse e cervello fino, intuisce prima di altri l’importanza del web e dei social network nella comunicazione politica. E s’affida al Gianroberto perché, disse una volta, «è un professionista che sa come vendere un prodotto, che siano noccioline o un partito». Solo che il partito si chiamava Italia dei Valori e la linea la voleva dare Di Pietro, certo non disponibile ad essere neppure vagamente eterodiretto dal puparo Gianroberto. Oggi nessuno in casa Idv ha voglia di ricostruire i motivi specifici di quel divorzio: troppe cose sono successe in così breve tempo, ci sono stati vincitori e vinti senza fare prigionieri. Nel breve periodo possiamo dire che hanno vinto Grillo e Casaleggio. E che Di Pietro, che pure a un certo punto ha quasi imitato quei toni, ha perso. Quello che interessa oggi è capire come funziona la comunicazione secondo il team Casaleggio. Perché una cosa è certa: la crisi dei Cinque stelle è figlia soprattutto dei post e del blog di Grillo. E sarebbe sorprendente scoprire che i post dello scandalo, da Rodotà «ottuagenario scongelato» a Parlamento «tomba maleodorante» non siano stati né scritti, né vistati da Grillo. Ma da qualche vulcanico ghost writer. Premessa: la Casaleggio e associati guadagna ogni volta che qualcuno clicca sui loro prodotti, cioè i siti di cui gestiscono la comunicazione. Primo cliente e prima fonte di guadagno è ovviamente beppegrillo.it al cui dominio è collegato anche il sito del Movimento Cinque stelle. Negli ultimi trenta giorni dello Tsunami tour, quelli del boom elettorale, gli accessi sono cresciuti del 107% rispetto al mese precedente e le pagine viste del 124%. Poiché il sito vive di pubblicità, raddoppiare utenti e pagine viste significa raddoppiare gli introiti pubblicitari. Semplificando, possiamo dire che più i post urlano e fanno parlare di sé, più Casaleggio e soci guadagnano. Di certo fece molti clic il sito di Di Pietro quando sul post, con sotto la firma dell’ex pm, comparve uno dei tanti attacchi alla Rai (battaglia tipica dell’Idv) condito però con un paragone violento: «Minzolini e Vespa stanno all’informazione come la sedia elettrica alla vita». Possiamo essere certi che mai Di Pietro abbia autorizzato una simile espressione. Era il settembre 2009. Di Pietro si è sicuramente scusato visto che è stato spesso ospite del salotto di Porta a Porta. Merita rileggerlo quel post: parla di «stato vegetativo», «voltastomaco». Straordinaria coincidenza di termini e temi con i post di Grillo. Ancora più clic nel giugno 2008, quando era già chiara la volontà del leader Idv di fare gruppo a parte rispetto al Pd con cui era entrato in Parlamento in coalizione. In quei giorni comparve sul sito di Di Pietro una pagina siffatta: le foto di D’Alema, Ricucci e Berlusconi una accanto all’altra e sopra il titolo: «I furbetti del quartierino». Altro che clic, lì ci fu proprio uno tsunami di contatti. Quella pagina creò imbarazzi forse mai superati con gli alleati. Ancora una volta, di sicuro Di Pietro voleva tenere il punto sulle intercettazioni (che Berlusconi appena arrivato al governo voleva invece togliere di mezzo) e voleva smarcarsi dal Pd, mai però avrebbe osato accostare D’Alema a Ricucci all’insegna dei furbetti. Tante volte, troppe, i post di Di Pietro sono andati al di là delle intenzioni del firmatario e secondo, invece, i progetti politici del gestore. Finché si giunse al fatale divorzio. «Portiamo la gestione della parte web in house» fu la motivazione ufficiale. Al netto di un budget pesante: dai 500 mila euro fino al milione. E di una linea politica che veniva spinta, quasi schiacciata, sempre un più in là. Verso Grillo e i Cinque stelle. Ma forse era già troppo tardi.

Sui presunti legami americani di Di Pietro destò scalpore l’intervista in cui l’ex console Usa Semler disse che l’allora toga gli anticipò l’inchiesta Mani Pulite - Un endorsement’simile arrivò dall’ambasciatore Spogli e poi da Thorne nei confronti del M5S - Ora un documento inedito rivela anche un link più istituzionale, scrive Martino Cervo per "Libero" il 23 maggio 2014. «Ho avuto un rapporto di stima e di collaborazione con Di Pietro», ha detto Gianroberto Casaleggio a Marco Travaglio nella lunga e discussa intervista rilasciata al Fatto Quotidiano due giorni fa: la stessa in cui non ha escluso, salvo poi smentirlo, di fare il ministro assieme a Beppe Grillo, con lui fondatore del Movimento 5 Stelle. Libero è in grado di documentare in maniera meno vaga la natura di questa collaborazione tra Tonino e il «padre» del movimento politico che rischia di scombinare i piani di Matteo Renzi alle Europee. I documenti in pagina recano la data dell'8 febbraio 2007: al ministero delle Infrastrutture del governo Prodi siede l'ex pm di Montenero di Bisaccia. Beppe Grillo è un comico di successo che da un paio d'anni ha patrocinato, sulla scorta di un modello in voga negli Usa, i meet-up: raduni su Internet per sollecitare una sorta di democrazia dal basso. Conosce Casaleggio nel 2004. Tre anni più tardi nasce l'idea che darà la svolta al movimento: il Vaffa-day dell'8 settembre 2007. Esattamente sette mesi prima, Gianroberto Casaleggio diventa consigliere del ministro Di Pietro, come sancisce il documento controfirmato dal Tesoro, allora occupato da Tommaso Padoa-Schioppa. Il link Di Pietro-Casaleggio non è nuovo: la società del padre ideologico dei 5 Stelle gestiva la piattaforma dei siti di Grillo e di Tonino. «Quando ho cominciato io a fare politica, per schiacciare i bottoncini di Twitter e di Facebook sono andato a scuola da lui. E lui è quello che per primo mi ha costruito la macchina informatica ed è stato pagato per questo, ha fatto un servizio», spiegò il fondatore dell'Italia dei Valori parlando del «guru». E proprio la gestione del sito, e i suoi costi, sarebbero stati all'origine della rottura tra i due, come ha raccontato un retroscena dell'Unità nel giugno 2013. Perché Antonio Di Pietro ha voluto con sé Casaleggio? L'incarico affidatogli non è di secondo piano: non prevede compensi ma un rimborso di missione secondo il trattamento per i dirigenti di prima fascia. La «missione» affidatagli in qualità di esperto è relativa allo «studio [...]delle attività relative alla comunicazione istituzionale nei diversi settori dell'informazione: stampa, radiotelevisione e Internet». Casaleggio viene affiancato, con le stesse mansioni e «per l'esperienza e la comprovata competenza» posseduta «nelle strategie della comunicazione», dal dottor Mario Bucchich e dall'ingegner Luca Eleuteri. Entrambi risultano soci fondatori della Casaleggio&associati, nata tre anni prima dei fatti, nel 2004.I tre diventano così «Consiglieri del Ministro delle Infrastrutture per lo studio delle attività inerenti la comunicazione istituzionale» in uno dei dicasteri con la maggior disponibilità di spesa del governo, alle dirette dipendenze di Antonio Di Pietro. Ben dentro i palazzi della «casta». Ma più che la polemica, è utile qualche domanda. Il 2007 è l'anno in cui matura la svolta «politica» del movimento: come detto a settembre il V-day crea più di un problema al governo Prodi. In un certo senso, anzi, la progressiva evaporazione dell'Idv viene sostituita dalla forza anti-sistema di Grillo. Tanto che l'ex pm nel 2012 si schermisce alla inevitabile domanda su una possibile fusione col Movimento 5 Stelle: «Io alleato con Beppe? È come se mi chiedessero se voglio sposare la Schiffer. Prima bisogna sapere se lei vuole sposare me...». È successo che la Schiffer (Grillo) si è mangiata l'aspirante Tonino. E il M5S si è guadagnato l'attenzione delle cancellerie, come mostra l'incontro con l'ambasciatore inglese nell'aprile 2013, rivelato da Casaleggio a Travaglio. C'è qualcosa che è sopravvissuto tra i due partiti, oltre all'aura di movimento dal basso, di «nuova politica», di «è tutto un magna-magna» che li rende - in anni diversi - catalizzatori di un voto di protesta? Sui presunti legami americani di Di Pietro si è detto e scritto molto: destò scalpore l'intervista alla Stampa (2012) in cui l'ex console Usa a Milano Peter Semler disse che l'allora toga gli anticipò l'inchiesta Mani Pulite addirittura alla fine del 1991: «Mi preannunciò l'arresto di Mario Chiesa e mi disse che le indagini avrebbero raggiunto Craxi e la Dc. Poi fece il viaggio negli Stati Uniti organizzato dal Dipartimento di Stato». E aggiunse: «Di Pietro mi piacque molto», definendolo «un personaggio straordinario». Un «endorsement» simile arrivò nel 2008 (fu rivelato più tardi, ancora dalla Stampa) col telegramma che l'ambasciatore Ronald Spogli spedì a Condi Rice spiegando che Grillo, con cui aveva pranzato, era «bene informato, competente sulla tecnologia, provocatorio e grande intrattenitore, [...] unico, una voce solitaria nel panorama politico italiano. [...] ha un grande potere di attrazione». Nuovo ambasciatore, altro endorsement: David Thorne, agli studenti del liceo Ennio Quirino Visconti disse (2013): «Voi giovani potete prendere in mano il vostro Paese e agire, come il Movimento 5 Stelle, per le riforme e il cambiamento», con annesso Pd a denunciare la «gravissima ingerenza nelle vicende italiane». Ora tra i due «americani» c'è anche un link più istituzionale.

Gli intrecci Casaleggio-Di Pietro. Quello che Santoro non fa vedere, scrive Antonio Amorosi, Giovedì, 20 dicembre 2012, su “Affari Italiani”. L'onorevole Antonio Di Pietro in merito ai suoi rapporti con Gianroberto Casaleggio dichiara al conduttore di Domenica-in Massimo Giletti nella puntata dell'11 novembre 2012: “Ma quali affari!? Con Casaleggio!?… Quando ho cominciato io a fare politica per schiacciare i bottoncini di Twitter e di Facebook sono andato a scuola da lui. E lui è quello che per primo mi ha costruito la macchina informatica ed è stato pagato per questo, ha fatto un servizio... Casaleggio è un imprenditore che... se lei ci va e gli dice 'mi costruisci un sistema di informazione attraverso la rete!?', lo fa pure a lei basta che paga!” Un “doposcuola dalle cifre importanti” è quello che emerge dai documenti e dalle parole riportate dal penalista Domenico Morace che, dopo aver fatto esplodere con un'intervista ad Affaritaliani le inchieste sull'Idv in Emilia Romagna, segue un contenzioso legale tra Antonio Di Pietro e un piccolo editore, Maurizio Bardi, responsabile internet del sito di Di Pietro e dell'IdV per un certo periodo. Il costo del sito durante la sua gestione ammontava a circa 1500 euro annuali. Con l'avvento nel 2006 di Gianroberto Casaleggio, che già gestiva il sito di Beppe Grillo, il costo della voce internet dell'Idv Di Pietro cresce in modo esponenziale. Il bilancio dell'Italia dei Valori del 2006 riporta la spesa Internet aggregata ad altre voci per un ammontare totale di 1milione 305mila euro. Nel 2007 la voce siti Internet è unica e ammonta a 469.173 euro. Lievita ancora nel 2008 ed arriva 539.138 euro. I costi vengono coperti come è ovvio che sia dal denaro incassato dall'Italia dei valori col finanziamento pubblico. Per un sito che per quel periodo è la precisa copia di quello di Beppe Grillo che la società Casaleggio gestiva. Alla gestione Casaleggio si arriva mentre è in corso il contenzioso legale col piccolo editore. A questi, condannato in primo grado, dopo la testimonianza della tesoriera Silvana Mura e di due impiegate dell'IdV, viene chiesto dal giudice un risarcimento nei confronti di Antonio Di Pietro. L'editore ha proceduto però in secondo grado avvalendosi del legale Domenico Morace denunciando Silvana Mura per falsa testimonianza. La tesoriera dell'Italia dei valori è attualmente accusata dalla Procura di Massa di falsa testimonianza e secondo l''accusa le sue affermazione sono state un “favore” ad Antonio Di Pietro. La deputata ha ricevuto un avviso di fine indagine anche se continua a negare di aver dichiarato il falso. “Casaleggio faceva quello che fa la Casaleggio Associati: marketing politico, una gestione dei contenuti destinata a creare consenso per una determinata forza politica”, commenta Morace. In parole povere il marketing pubblicitario invece di applicarsi all'acquisto di un prodotto di consumo, come una lavatrice o un'automobile, viene utilizzato per la costruzione del consenso politico. Ma quando osserviamo che ci sembra poco credibile che Gianroberto Casaleggio sia una sorta di “Grande Fratello” della nuova politica italiana Morace annuisce. “Casaleggio sta facendo business. Il suo controllo del marketing della forza politica in oggetto è così forte da arrivare, come nel caso del Movimento 5 Stelle di Grillo, amanifestarsi come mancanza di democrazia interna”. Questi temi sono stati trattati dallo stesso Morace in una conferenza stampa tenutasi a Bologna. Per questo motivo è stato contattato da redattori del programma televisivo di Michele Santoro “Servizio Pubblico”. Ma se prima il programma si era dimostrato molto interessato a intervistarlo in un secondo tempo l'ipotesi è tramontata. “Forse si sarà contrariato Marco Travaglio. Avrà sculacciato qualcuno. Gli toccano Di Pietro, Casaleggio...Travaglio soffre!”, commenta Morace. Alla domanda se anche lui pensa come altri che Travaglio e Santoro siano giustamente inflessibili rispetto alla vecchia politica ma molto accomodanti con personaggi come Di Pietro prima e Grillo oggi, Morace risponde: “Per chi come me ha partecipato al lancio di Servizio Pubblico e del Il Fatto quotidiano con i sui 10 euro non è certamente una cosa bella né piacevole”. E intanto il consigliere regionale del Movimento 5 Stelle Giovanni Favia, appena espulso da Grillo, annuncia che o vincerà la battaglia sul logo del Movimento per tenersi il simbolo a livello regionale o si dimetterà dalla Regione Emilia Romagna. Paventa anche la possibilità di continuare la sua carriera politica entrando in una nuova forza politica.

L’affaire Casaleggio. Quali segreti nasconde il sancta sanctorum della “Associati”. Con quali uomini e quali mezzi governa il movimento di Grillo. Il super potere di una nomenklatura, scrive Salvatore Merlo il 20 Febbraio 2016 su “Il Foglio”. Il suo sguardo, se non fosse per una diffusa malinconia che giunge all’astrattezza, potrebbe apparire buono, o forse statico, proiettato altrove, assorto non tanto in riflessioni, quanto in una specie di muta concentrazione. In generale non redarguisce troppo i suoi ragazzi, fa solo domande. In questo modo, con una serie di interrogativi anche bruschi a cui la persona interpellata è costretta a rispondere, Casaleggio costringe il dipendente a rendersi conto, con le sue proprie risposte e contraddizioni, che il lavoro doveva essere svolto in un modo anziché in un altro. Alla Casaleggio vivono tutti un’estasi nevrotica e imitativa. “Durante il mio primo colloquio di lavoro, Casaleggio parlava poco, parole pesate”, ha raccontato una volta Luca Eleuteri, l’allievo prediletto, il socio più anziano. “Notai che dai suoi discorsi mancavano gli avverbi, mi spiegò poi che sono interlocuzioni inutili. Mi ricordo la prima email che scrissi dalla mia scrivania. Mi vien da sorridere, ma fu una delle più belle lezioni di vita ricevute dopo tanti anni di studi… Gianroberto uscì dal suo ufficio, entrò nel mio e disse ‘nella tua email c’è un errore, è importante che tu non ne faccia. Sono i dettagli che contano’. Voltò le spalle e rientrò nella sua stanza. Non ho più inviato una email, e nemmeno un semplice sms, senza aver prima riletto almeno tre volte il testo”. Sulle sue abitudini, su una sua certa mania del controllo, circolano i racconti più inverosimili e leggendari, frutto di rielaborazioni, fantasie, semi verità di un mondo composto di mattoidi attratti dal Movimento 5 stelle e poi in gran parte respinti, dunque pronti, per delusione e rivalsa, per mitomania e congenito complottismo, ad attribuirgli un’intelligenza acutissima e fredda, capace di qualsiasi turpitudine luciferina. Lo disse, esagerando un po’, anche Giovanni Favia, il primo eletto del M5s in Italia, il più famoso degli espulsi: “Una mente freddissima, molto acculturata e molto intelligente, che di organizzazione, di dinamiche umane, di politica se ne intende”. Una narrazione per la verità impalpabile nella quale Casaleggio ama accucciarsi, lasciando che si dica, e che tutto si confonda nell’indistinto, come una polvere che copre ogni cosa. Un pissi pissi malizioso che a lui forse fa comodo, per la politica, ma pure per gli affari, dove attraverso queste leggende senza fondamento (persino l’indimostrato e risibile legame con le massonerie, i fantasiosi collegamenti con i servizi segreti americani e addirittura con non meglio precisati e grotteschi centri di potere finanziario anglo-olandese) gli si riconoscono straordinarie conoscenze e pure profetiche qualità professionali che tuttavia non trovano riscontro né nei medi bilanci della sua piccola azienda né nella scarsa proiezione internazionale di questa sua agenzia di web marketing il cui unico prodotto di vero successo, per ora, è il M5s. E forse, a questo proposito, vale la pena di raccontare un episodio significativo. Nel 2009 il Fatto quotidiano, il giornale di Marco Travaglio, l’aveva coinvolto nella costruzione e gestione del suo sito internet. E insomma mentre Grillo appoggiava esplicitamente la campagna di abbonamenti al Fatto attraverso i palchi, i comizi, gli spettacoli e il blog (da un analisi di mercato, circa il 60 per cento dei primi abbonati risultava essere un simpatizzante grillino), Casaleggio aveva un accordo commerciale con il giornale. Ma a un certo punto l’accordo salta, con la conseguenza che tutti i contenuti del Fatto sponsorizzati da Grillo attraverso il suo blog spariscono. La rottura era avvenuta perché Casaleggio, il visionario, il genio, oltre a chiedere forse troppi soldi, pretendeva anche di avere il controllo sui contenuti del sito, e poneva pure una condizione assurda: sicuro com’era che i giornali di carta fossero destinati a repentina scomparsa, pretendeva che il Fatto non uscisse cartaceo nelle edicole ma solo sul web. L’avessero ascoltato, Antonio Padellaro, Peter Gomez e Travaglio sarebbero falliti in meno di un anno. Oggi la dimensione di quello scampato pericolo è chiara a tutti loro. Con sollievo. Dunque i racconti e le fantasie sulla sua diabolica genialità rendono Casaleggio più misterioso, abile, persino oscuramente capace di quanto forse quest’uomo, ex dirigente allontanato dalla Telecom per non aver brillato alla guida di una controllata (la Webegg), in realtà non sia. Ed ecco dunque la cortina fumogena, la fuffa luciferina. Le voci incontrollate su misteriose e mai verificate sedi all’estero della Casaleggio Associati. Le leggende sui server con i dati degli iscritti al Movimento che sarebbero installati in America. E poi, ancora, come racconta Sergio Di Cori Modigliani, ex militante, autore per Chiarelettere di un libro – “Vinciamo Noi” – con prefazione di Grillo e Casaleggio: “Ma lo sai che va in giro con una chiavetta usb appesa al collo? Lì dentro ci sono i ‘big data’ del Movimento. E poi c’è ‘l’algoritmo’ con il quale controlla gli umori della rete. Lui vede tutto, lui sa tutto”. Ed è insomma un mondo dove ogni cosa è intrecciata e confusa. Seguendo il flusso di questo chiacchiericcio sussurrato non si capisce mai quanto ci sia di vero, di falso e di verosimile. Mentre cosa certa è che i più riconoscibili tra i parlamentari di Grillo hanno praticamente ceduto i loro diritti d’immagine a Casaleggio, ha raccontato Jacopo Iacoboni sulla Stampa: si sono cioè impegnati a caricare tutti i video che li riguardano sul famoso blog. E per ogni video visto, ogni centomila visualizzazioni, per ogni clic, la Casaleggio Associati guadagna. Un pasticcio d’interessi in cui i parlamentari della Repubblica usano i social network per indirizzare le migliaia dei loro elettori su video che poi fanno lievitare i compensi pubblicitari di un’azienda privata. La fonte principale dei ricavi è il blog di Beppe Grillo, ma la società gestisce anche il portale del Movimento, i due siti di informazione (Tze Tze e La Fucina), la tivù streaming (LaCosa). Tutti siti collegati tra loro, e collegati ai parlamentari, al movimento d’opinione e di umori che questi riescono a orientare. Un intreccio d’interessi pubblici e privati non nuovo alla democrazia italiana, per qualcuno forse nemmeno scandaloso e forse (per adesso) anche di modesta entità, ma pure inquietante per l’opacità contrabbandata da trasparenza. La legge 96 del 2012 prevede l’obbligo di presentare un bilancio certificato per tutti i partiti o movimenti che si siano presentati alle elezioni, indipendentemente dal fatto che chiedano o meno l’accesso al finanziamento pubblico. Per ragioni oscure, il Movimento cinque stelle non ha mai depositato il bilancio. Così, dunque, l’azienda di marketing diffonde e ingrossa l’immagine di Di Battista, di Di Maio, di Fico, di Ruocco… e loro, con impeccabile circolarità, accompagnano questo flusso di nuovo verso l’azienda di marketing. “I siti della galassia (TzeTze, LaFucina, LaCosa), nati per cercare di inventare un nuovo sistema di informazione, sono diventati una macchina per creare consenso facile con sistemi di dubbia moralità. Non trovo nessuna differenza tra il Canale 5 del 1994, dove Sgarbi vomitava insulti per creare il brodo necessario a Forza Italia, e LaFucina che usa le tette della Boschi per attirare qualche clic con titoli scandalistici, o propaganda rimedi al limone contro il cancro, o fa terrorismo contro i vaccini che provocherebbero l’autismo”, ha scritto su Facebook Marco Canestreri, collaboratore di Casaleggio dal 2007 al 2010, uno dei ragazzi che lavorò, tra le altre cose, dall’interno della Casaleggio Associati, anche alla costruzione e alla gestione del sito del Fatto quotidiano. L’intuizione di Casaleggio, tra il 2005 e il 2006, fu che la tecnologia di internet rendeva possibile una nuova forma di marketing politico, che ben si adattava a un crescente malumore popolare. All’inizio ci provò con Antonio Di Pietro, di cui era diventato consulente, formalmente incaricato di occuparsi solo del blog, ma in realtà così dentro le meccaniche dell’Idv, e così vicino all’orecchio dell’ex magistrato, da prevaricare l’ufficio stampa del partito, determinando addirittura gli slogan elettorali, e la natura della cartellonistica. “Casaleggio si occupava del blog di Di Pietro ma proiettava la sua influenza sempre un po’ più in là. Per l’amicizia che aveva con Di Pietro arrivava al punto di suggerire battaglie”, ricorda Massimo Donadi, che dell’Idv fu capogruppo alla Camera e membro dell’ufficio di presidenza. Nel 2008 l’Idv spese 539.138,06 euro per lo “sviluppo dell’immagine in rete”. Nel 2009 la spesa lievitò alla bellezza di 893.554,82 euro. E’ l’anno in cui Beppe Grillo, di cui Casaleggio è già da anni il braccio destro, appoggia attraverso il blog, e nei comizi, le candidature di Luigi De Magistris e Sonia Alfano nelle liste dell’Idv per le europee: “Sono dei nostri”. De Magistris viene eletto. E Grillo scrive: “In Europa sarà una voce forte e pulita. Il blog lo sostiene”. Ma poi succede qualcosa, e il rapporto tra Casaleggio e Di Pietro s’interrompe. Così, appena De Magistris si candida sindaco di Napoli, Grillo lo scarica, e pubblica la foto di quello che un anno prima era “uno dei nostri”, con sotto questo interrogativo retorico: “Comprereste un voto usato da quest’uomo?”. Ricorda Donadi: “A me risulta che il rapporto con Di Pietro si interrompe quando Casaleggio suggerì in modo perentorio, perché secondo lui altra via non c’era, che l’Idv rompesse con il centrosinistra e diventasse una forza anti sistema. Lui pensava che in Italia ci fosse spazio per una cosa del genere. Noi ne parlammo in una riunione e decidemmo diversamente. Decidemmo cioè di restare nel centrosinistra, col Pd. E decidemmo anche, di conseguenza, che non c’era nemmeno più spazio per proseguire una collaborazione anche soltanto tecnica con Casaleggio”. Ed è a questo punto che il M5s, esperimento di liste civiche locali, comunali e regionali, diventa, nelle mani della Casaleggio Associati (privata dell’Idv, suo principale cliente: tra il 2006 e il 2009 circa un terzo dei ricavi della Casaleggio Associati arrivava da Di Pietro) un partito con ambizioni nazionali. Sostiene Giovanni Favia, grande espulso: “Non c’era un disegno sicuro che portava alla costituzione del M5s partito nazionale. Tutto è sempre stato condizionato dalla situazione privata e societaria di Casaleggio”. Chissà. Di sicuro, con i suoi collaboratori e soci, Casaleggio ha cambiato le regole del gioco, è andato oltre Berlusconi, oltre il partito liquido o di plastica, immaginando e realizzando un movimento, un partito, che è puro flusso di marketing, con ideologia, valori, istanze e programmi mutevoli, intercambiabili, legati all’analisi dei trend internettiani, agli umori raccolti in presa diretta. Già da prima i partiti si rivolgevano alle agenzie di comunicazione, ai persuasori più o meno occulti, ai guru, ai maghi, agli stregoni, agli oracoli… Ma Casaleggio è andato al di là dell’immaginabile: ha eliminato il partito, e sublimato il marketing. Dunque attraverso la sua agenzia fornisce tutto al Movimento, che è in realtà, nella città e nelle province d’Italia, una tribù eterogenea che senza di lui non avrebbe voce, collegamenti, né capacità organizzativa nazionale: consulenti ed esperti di mercato politico, compulsatori di forum e di ‘social trend’, grafici e teleoperatori, maestri di recitazione e persino supporto psicologico, all’occorrenza. Dunque Pietro Dettori, il vero autore dei post firmati Beppe Grillo. Biagio Simonetta, giornalista che compila contenuti (come quelli del giornale online del movimento, Tze Tze) e poi li gonfia di commenti e ‘like’. Marcello Accanto, altro social media manager. E poi Filippo Pittarello, quadrato, scaltro, serioso, il miglior dipendente di Casaleggio, il suo tuttofare, adesso a capo dell’ufficio stampa M5s a Bruxelles. Fu lui a combinare l’incontro tra Grillo e il leader estremista inglese Nigel Farrage. A maggio del 2013, appena dopo le elezioni, fu sempre lui a tenere il “discorso motivazionale” ai nuovi parlamentari grillini (“ci trattava come dei deficienti da catechizzare”, ricorda Mara Mucci). In un incontro con i militanti, Pittarello spiegò quale fosse l’idea di parlamentare della Repubblica che avevano loro, alla Casaleggio: “Il candidato ideale dovrebbe avere più soft skills che hard skills, cioè più attitudini che competenze”. Una squadra, questa, cui si aggiungono l’informatico (Maiocchi) e lo studioso di marketing e vendite (Benzi). E adesso anche Silvia Virgulti, che insegna ai parlamentari come si fa a parlare in pubblico e che nel 2013 fece ad alcuni di loro le prime lezioni di presenza televisiva nella sede della Casaleggio Associati. Formalmente dipendente del gruppo della Camera, Virgulti, ora si sa, è la fidanzata di Luigi Di Maio che l’ha inserita nell’ambiente, malgrado Casaleggio all’inizio storcesse il naso. E chi oggi può fare politica meglio di un’agenzia di comunicazione, aiutata da un propagandista vociante, eppure malleabile, come Grillo, un vecchio attore egocentrico e sgarbato che però Casaleggio sa prendere per il verso giusto, scomparendo durante le frequenti crisi depressivo-aggressive del tribuno, e ricomparendo invece, con suggerimenti e parole, nei repentini picchi d’entusiasmo e super eccitazione che come un’altalena scandiscono l’esistenza del famoso comico? Lo spartito suonato alla Casaleggio Associati è persino banale: una divisione manichea del basso contro l’alto, del cittadino contro il potere, in un contesto liquido, anzi gassoso, dove ogni posizione politica è ritrattabile, riconvertibile, ribaltabile. Una strategia pubblicitaria portata all’estremo. Così dietro le quinte della grande rappresentazione e della trasparenza, il guru mette al servizio di una tribù eterogenea e un po’ raccogliticcia la potenza arcana di numeri, simboli, icone e rituali. Ma la superiorità morale, la purezza, il mito della trasparenza, malgrado la Casaleggio Associati guadagni com’è s’è visto quattrini, non sono purtroppo un’astuzia, una mossa tattica, un espediente per confondere quei gonzi degli elettori e rintuzzare alla meglio la casta degli avversari, né un trucco per acquistare ricchezza. Loro ci credono davvero, ne sono persuasi. Casaleggio vede se stesso come uno scienziato (infallibile, all’inizio; oggi un po’ meno) impegnato in un grandioso, nobile esperimento di felicità generale, di rigenerazione universale. Ma sembra che per lui il fine giustifichi i mezzi, e chiunque abbia mete più corte, speranze più immediate, sia un infame che dovrebbe avere almeno il pudore di stare zitto quando l’esperimento sfugge qua e là di mano, tra purghe, dissidenze, psicosi, espulsioni e crisi amministrative.

Vi svelo le manovre della lobby di Casaleggio. Grillo, Di Pietro, Travaglio e De Magistris: ecco tutti i volti della cerchia. L'sms di Giggino a Travaglio: "Vulpio contro Santoro, io mi dissocio", scrive Carlo Vulpio, Lunedì 05/11/2012, su “Il Giornale”. "Caro direttore, era il 5 maggio 2009 e io - candidato indipendente con l'IdV al Parlamento europeo - rilasciai al Giornale un'intervista in cui affermavo letteralmente che l'Idv era un partito pieno di banditi, che andavano cacciati a pedate. Nota bene: lo dicevo il 5 maggio, cioè «prima» del voto (6 e 7 giugno), consapevole di farmi molti nemici non soltanto all'interno del partito con cui mi ero candidato, ma anche in tutta l'area (stampa, magistratura, associazioni) a esso «collaterale», in alcuni casi in buona fede, in molti altri no. Il giorno della pubblicazione di quella intervista, ecco, puntuale, la telefonata. Non di Di Pietro, ma di Grillo. Di Pietro mi chiamò, lamentandosi della «inopportunità» delle mie parole, ma lo fece subito dopo il comico genovese. Grillo mi disse che non avrei dovuto parlare di quegli argomenti, men che meno con il Giornale. Ovviamente, come sa chi mi conosce un po', né Grillo né Di Pietro mi impressionarono più di tanto. Anzi, diciamo che non mi fu difficile zittirli, portando esempi concreti di «banditismo dei Valori» che i due conoscevano benissimo e che dimostravano quanto fosse fondata la mia denuncia del doppiopesismo e dell'ipocrisia sui quali essi lucravano moralmente, politicamente ed elettoralmente. Non ce n'era bisogno - poiché la mia stroncatura elettorale era stata decisa fin dall'inizio dalla premiata ditta Casaleggio (che gestiva contemporaneamente forma e contenuti del blog di Grillo, di Di Pietro e dell'Idv) - ma così facendo firmai la mia condanna. Non solo non fui eletto per un paio di centinaia di voti, ma al momento delle «opzioni» il duo Alfano Sonia-De Magistris Luigi, obbedendo al diktat del padrone, scelse in maniera tale da tenermi fuori, così da far scattare il candidato sardo Uggias (sì, uno dei Batman dell'Idv, oggi indagato per peculato), noto anche per essere il difensore del fotografo Zappadu (quello delle foto rubate degli ospiti di Berlusconi a Villa Certosa). Questo non è un racconto «vendicativo» di una persona «tradita». Avrebbe potuto esserlo, se avessi detto queste cose solo oggi. Invece le ho dette «prima», addirittura durante la campagna elettorale (nessun «matto» ha fatto una cosa del genere dalle elezioni del 1948 a oggi) e non una volta soltanto. Il 7 maggio 2009, per esempio, a Ferrara mi capitò una cosa simile e ancor più singolare. Parlavo di libertà di stampa e con me c'erano De Magistris e Nanni (sì, l'altro Batman dell'Idv dell'Emilia Romagna, anch'egli indagato per peculato). Mi permisi di criticare Santoro e le finte battaglie dei «paladini» della libera informazione. Nanni si agitava sulla seggiola, De Magistris addirittura insorse. Io lo mandai al diavolo. Lui si giustificò così: «È che poi Di Pietro, Grillo e Travaglio chiamano me e rompono le palle a me per le cose che dici tu!». Incredibile, De Magistris mi stava dicendo che lo avevano messo a fare il mio cane da guardia. Due giorni dopo, a Pescara, incontrai Travaglio e gliene chiesi conto. Messo alle strette, Travaglio mi mostrò un sms sul suo cellulare: era De Magistris che lo avvertiva: «Vulpio sta attaccando Santoro, ma io mi sono dissociato». Potrei continuare. Su Vendola, per esempio, del quale Grillo, Di Pietro e De Magistris sono diventati alleati nonostante ne conoscessero le imprese di malgoverno. Ma credo che possa bastare, per ora. Altrimenti il Giano bifronte Grillo/Casaleggio potrebbe rilanciare: Di Pietro non più al Quirinale, ma direttamente al vertice dell'Onu.

Già dal gennaio 2003 il Presidente dell'Associazione Contro Tutte le Mafie, dr Antonio Giangrande, in una semideserta ed indifferente assemblea dell'IDV a Bari, in presenza di Antonio Di Pietro e di Carlo Madaro (il giudice del caso Di Bella) criticò il modo di fare nell'IDV. L'allora vice presidente provinciale di Taranto contestò alcuni punti, che furono causa del suo abbandono: Diritto di parola in pubblico e strategie politiche esclusiva di Di Pietro; dirigenti "Yes-man" scelti dal padre-padrone senza cultura politica, o transfughi da altri partiti, o addirittura con troppa scaltrezza politica, spesso allocati in territori non di competenza (in Puglia nominato commissario il lucano Felice Bellisario); IDV presentato come partito della legalità-moralità in realtà era ed è il partito dei magistrati, anche di quelli che delinquono impunemente; finanziamenti pubblici mai arrivati alla base.

Grillo e Di Pietro, raccontati da Sonia Alfano, «l'epurata da Casaleggio». In vista delle Politiche del 2013, abbiamo ricostruito i rapporti dei 5 Stelle con Pd, Pdl, Lega, Idv e Sel. In questa quinta puntata, la relazione con l'Italia dei Valori attraverso la storia di Sonia Alfano, scrive Francesco Oggiano il 22 giugno 2012 su “Vanity Faire”. (Fondato appena tre anni fa, il Movimento 5 Stelle, secondo un recente sondaggio Swg, potrebbe entrare per la prima volta nel Parlamento italiano già come seconda forza politica, dopo il Pd. In vista delle elezioni del 2013 il suo fondatore Beppe Grillo deve affrontare tre nodi fondamentali: il nome del candidato premier, la lista dei parlamentari e soprattutto il rapporto con i partiti che troverà a Roma. Abbiamo provato a ricostruire i rapporti del Movimento con Pd, Pdl, Lega, Idv e Sel. Dopo quella sul Pd, sulla Lega, su Sel e Pdl, ecco la storia delle «relazioni pericolose» tra Grillo e Di Pietro, raccontata attraverso l'esperienza dell'europarlamentare Sonia Alfano). «E' così, quando vedono una figura che potrebbe offuscare o affiancare la popolarità di Grillo, i vertici del Movimento si affrettano a epurarla». I «vertici» sarebbero quelli della Casaleggio Associati, società fondata dal guru Gianroberto che cura la comunicazione del Movimento 5 Stelle. La «figura» in ascesa era lei, Sonia Alfano. 40 anni, l'esplosiva eurodeputata eletta con l'Idv è da poco diventata Presidente della Commissione Antimafia europea, arrivando al culmine di una carriera accidentata (prima la rottura con Grillo, adesso con l'Idv) iniziata nel 2008. La sua storia, dall'appoggio incondizionato ricevuto all'allontanamento improvviso, è il simbolo del rapporto tra l'Italia dei Valori e Beppe Grillo. Il partito dell'ex pm è da sempre quello più vicino per contenuti al Movimento. Il sodalizio è iniziato con la nascita del blog ed è continuato almeno fino agli scorsi mesi. Grillo ha sempre sostenuto l'ex pm, definito una «persona perbene» e soprannominato «Kryptonite», per essere rimasto «l'unico a fare veramente opposizione al Governo Berlusconi». Negli ultimi mesi però i rapporti tra i due si sono raffreddati. Alla vigilia delle Amministrative 2012, il leader dell'Idv ha accusato il comico di «voler sfasciare tutto e basta», senza voler costruire un'alternativa. Una ricerca dell'Istituto Cattaneo ha mostrato che gran parte dei voti ai 5 Stelle arrivano proprio da ex elettori della Lega e dell'Idv. «Ma i due leader si sentono ancora», assicura Sonia Alfano. Figlia del giornalista Beppe assassinato dalla mafia, l'eurodeputata è stata la prima ad aver creato una lista civica regionale certificata da Grillo, nel 2008. Già attiva da tempo nel Meetup di Palermo, si presentò in Sicilia ignorata dai media tradizionali e aiutata dal comico prese il 3% e 70 mila preferenze. «Alla vigilia delle elezioni europee del 2009, Grillo e Di Pietro vennero da me e mi chiesero di candidarmi a Strasburgo. Io non sapevo neanche di che si occupava l'Europarlamento», racconta oggi.

Come la convinsero?

«Grillo mi disse che dovevamo dimostrare agli attivisti dei Meetup che potevamo farcela. Che era arrivata l'ora di dar vita a un progetto propositivo, quello che poi sarebbe diventato il Movimento 5 Stelle».

Con il sostegno pubblico di Grillo, che vi lanciò come «due persone oneste in Europa», lei e Luigi De Magistris, l'ex pm ora sindaco di Napoli, veniste eletti con l'Idv con preferenze da record. Che cosa ha fatto una volta arrivata a Strasburgo?

«Ho portato all'attenzione dell'Europa i problemi dell'Italia. Con interrogazioni sul lodo Alfano, sulla libertà di stampa italiana, sul caso dei respingimenti degli immigrati e sull'inquinamento».

Si lamentò con Grillo perché non pubblicizzava il suo lavoro.

«Gli chiesi al telefono perché non informava i lettori del blog, quindi i nostri elettori, su quello che stavamo facendo».

Che cosa le rispose?

«Mi diede ragione. Disse: "Devo dire a Casaleggio di creare sul blog una finestra con gli aggiornamenti sulle attività europee"».

E invece?

«Niente. A gennaio 2010 sono tornata a lamentarmi. Grillo disse di nuovo che avevo ragione e che presto mi avrebbe telefonato Gianroberto Casaleggio».

L'ha mai chiamata?

«Sì, ma vidi che la tirava per le lunghe. Diceva: "Dobbiamo organizzarci, così vieni a Milano, giriamo alcuni filmati e li mettiamo sul blog. Poi vediamo anche di spingere il tuo blog". Mi sembrò strano, visto che il mio blog non è paragonabile a quello di Grillo».

Nella primavera 2010 i rapporti tra Grillo, o chi per lui, e i due eurodeputati si sfaldano. Dal blog partono attacchi a De Magistris e Sonia Alfano. In un post dedicato alla Casta dei politici viene pubblicato il link di un servizio de L'Espresso che prendeva di mira Alfano e De Magistris, colpevoli di usare un «charter» per fare la spola tra Strasburgo e Roma. E' una scomunica in piena regola. Ad aprile l'ex pm viene diffidato dal parlare a nome del Movimento 5 Stelle. A giugno la Alfano venne attaccata in seguito a una votazione su alcune norme che riguardavano la Nutella.

«Pensi che il giorno prima che il post di scomunica con l'articolo de L'Espresso venisse pubblicato, mi sentii telefonicamente con Grillo. Mi chiese come andava, come stava la mia famiglia. E non citò neanche quell'articolo. Secondo me non ne sapeva nulla». 

Che cosa ha fatto quando ha letto i post?

«Gliene ho chiesto conto tramite sms, non mi ha mai risposto. Gli ho inviato una lettera aperta, l'ho invitato a un incontro pubblico, niente. Da allora non ho più parlato con Grillo. Si vede che ha dovuto cedere a una strategia che neanche condivideva...». 

Si riferisce a Casaleggio?

«Lui sovrintende a tutta la struttura di comunicazione. Ha una strategia, la condivide con Beppe, ma il grosso lo fa lui. Sono sicura che le nostre scomuniche non siano arrivate da Beppe, ma da lui». 

Perché Casaleggio avrebbe dovuto allontanare due europarlamentari popolari come voi?

«La mia sensazione è che quando i vertici del Movimento annusano una figura "carismatica" che può offuscare, o quantomeno affiancare, la leadership mediatica di Grillo, diano inizio all'epurazione».

"Casaleggio spia le mail degli onorevoli M5S". Di Battista e Di Maio: "Dietro c'è il Pd", scrive “Libero Quotidiano” il 6 marzo 2016. Una "storia montata ad arte da stampa e Partito democratico". Reagisce così il direttorio del Movimento 5 Stelle alla notizia, rilanciata da diversi quotidiani, secondo cui il server del gruppo parlamentare dei 5 Stelle sarebbe stato violato dalla Casaleggio associati. "Pura fantasia", scrivono Luigi Di Maio, Alessandro Di Battista, Carla Ruocco, Roberto Fico e Carlo Sibilia su un post pubblicato dal blog di Beppe Grillo. "Evidentemente dopo il decreto mutui, durante il brindisi con le banche, devono aver alzato tutti un po' il gomito. La paura dei partiti e di qualche editore di perdere Roma si fa sentire. Noi rispondiamo con il sorriso e andando avanti sui nostri temi. Solidarietà a Gianroberto Casaleggio per il vile attacco subito. Lo invitiamo - concludono i 5 Stelle a chiedere i danni fino all'ultimo centesimo. Una risata li seppellirà".

Il "Watergate" del M5S: "Casaleggio Associati controlla le email dei parlamentari". Grillo: "Non ha accesso al server". Boldrini: "Un fatto grave. Valuteremo se attivare competenze della Camera". Pd all'attacco chiede di fare luce sull'accaduto. La notizia svelata da un articolo de il Foglio, scrive il 5 marzo 2016 “La Repubblica”. La posta elettronica dei parlamentari del M5S spiata 24 ore su 24 dalla Casaleggio Associati, la società che fa la società che fa capo a Gianroberto Casaleggio. Una storia che svelerebbe una specie di Watergate per i pentastellati nata da un'email trovata dal quotidiano Il Foglio e sulla quale ora il Pd chiede chiarezza. Ma che M5S smentisce tramite il suo leader Beppe Grillo che sul suo blog dice: "Da Casaleggio nessun accesso a server del gruppo". E lancia un j'accuse ai dem: "Per quanto riguarda il grave attacco dal sedicente gruppo 'hacker del Pd' che ha divulgato email dei parlamentari appena insediati si sta ancora aspettando che vengano identificati e incriminati i colpevoli da due anni. Viene il sospetto che essendo forza di opposizione il governo e la presidenza della Camera non stia dedicando sufficienti risorse per identificare i colpevoli di atti così gravi all'interno del Parlamento stesso". Un episodio grave se fosse confermato sul quale interviene la presidente della Camera Laura Boldrini. "Se confermate, le notizie di stampa uscite stamattina sul controllo della posta elettronica messo in atto ai danni di deputati del m5s da società vicine al movimento costituirebbero un fatto rilevante e grave, lesivo dei loro diritti. Valuteremo in breve tempo se vi siano i presupposti per attivare le competenze di organi della Camera", ha detto Boldrini. Interrogazione parlamentare. Il senatore dem Stefano Esposito depositerà nei prossimi giorni un'interrogazione al premier, Matteo Renzi, e al ministro dell'Interno, Angelino Alfano, per fare luce sull'accaduto. Nel raccontare questa "spy story grillina", il quotidiano diretto da Claudio Cerasa cita il racconto di Tancredi Turco, ex deputato M5S, uscito a gennaio 2015, secondo il quale la società del guru del movimento ha "accesso al nostro sistema di archiviazione e comunicazione interno, dove si depositano documenti". La spy-story. Gli episodi sarebbero numerosi e alcuni già conosciuti. A settembre 2014, il gruppo M5S aveva incaricato un'azienda fornitrice di servizi della Casaleggio Associati, di controllare la sicurezza del sistema parlamentari5selle.it, e creare un network parallelo e libero dai controlli di Casaleggio e Grillo. Secondo Il Foglio, poco dopo con la password del sistema, il tecnico che gestiva la piattaforma, la rese non funzionante. Nell'ottobre 2014 ci furono sospetti di hackeraggio di e-mail con la cancellazione di mail di circa 30 parlamentari pentastellati. La Casaleggio Associati spiegò di non essere coinvolta e annunciò una "denuncia contro ignoti". Nel 2013 qualcuno aveva violato la posta elettronica di Giulia Sarti, giovane deputata emiliana, fidanzata fino al 2012 con il più noto degli espulsi e accusatore di Casaleggio, Giuseppe Favia. Ma c'è un altro episodio significativo. I dem all'attacco. Per il vicesegretario dem Lorenzo Guerini, "che Casaleggio fosse il vero, oscuro e nascosto capo del M5S era già chiaro, ma è davvero inquietante leggere che spia i suoi parlamentari. La "spectre" al confronto sembra un'associazione di dilettanti". In blocco i senatori del Pd attaccano su Twitter la Casaleggio Associati e chiedono infatti di conoscere se corrisponda al vero quanto anticipato stamattina sulle pagine de "Il Foglio".  "Parlamentari M5s controllati e spiati dalla Casaleggio associati? Organi parlamentari e magistratura indaghino #M5SSpy", scrive Esposito. Mentre Camilla Fabbri attacca: "Spiano i parlamentari e poi danno lezioni di democrazia e partecipazione #coerenzaacinquestelle #M5Spy". #M5spy, Pd attacca Casaleggio sui social: ''Watergate grillina''. Secondo Mauro Del Barba "ancora una volta abbiamo le prove della grande dittatura interna ai 5 stelle".  "Casaleggio si è fatto il suo Kgb. Spiare i parlamentari e usare la corrispondenza per spaventare il dissenso sarebbero attività gravissime da fermare. Aspettiamo urgentemente chiarimenti dal M5S", ha detto ancora il senatore del Pd Andrea Marcucci. Forza Italia e Lega. Anche Forza Italia, con l'europarlamentare Lara Comi, prende posizione. "Dell'ossessione di Casaleggio di tele-comandare ogni singolo passo dei parlamentari del Movimento 5 Stelle eravamo già a conoscenza, ma mai - spiega - ci saremmo aspettati che arrivasse al punto di spiare le loro mail e i loro documenti intrufolandosi nel server del gruppo. L'amara verità che emerge da alcune notizie di stampa, se confermata, delinea un quadro davvero desolante". Mente Gianluca Pini di Lega Nord dice: "La notizia dello spionaggio compiuto dalla Casaleggio associati a danno dei parlamentari 5 Stelle dovrebbe portare Grillo a cambiare il nome del Movimento in "5 pirla", che è più o meno il numero di idioti che ancora credono alla democraticità di questa accozzaglia di scappati di casa in cerca di fortuna". Nei mesi scorsi il MoVimento 5 Stelle era finito nel mirino anche per la vicenda dei «contratti» fatti firmare ai vari candidati alle amministrative, compresi quelli in corsa per il Campidoglio, scrive “Leonardo Ventura su “I Tempo” il 6 marzo 2016. Accordi nei quali si prevedeva il pagamento di una penale in caso di «tradimento» dei valori del MoVimento. Ed è anche su questo versante che si sono concentrate le accuse indirizzate ieri ai Cinquestelle, in particolar modo dal Pd. «Il grande fratello Casaleggio&associati spiava i parlamentari M5s? Una cosa mai vista, di cui si dovrà occupare la magistratura - attacca il senatore Dem Stefano Esposito -. E in tutto questo arriva la Raggi, collaboratrice dello studio Previti, messa sotto contratto capestro da Casaleggio per le amministrative, che dice di non prendere ordini da lui. Ieri da Casaleggio ci ha passato sei ore, e al ritorno ha parlato dello stadio della Roma aprendo linee di credito a poteri veramente forti. Un intreccio pesantissimo di interessi molto poco chiari, che tra Milano e Roma hanno il loro epicentro nella Casaleggio & associati».

L’affaire Casaleggio. Quali segreti nasconde il sancta sanctorum della “Associati”. Con quali uomini e quali mezzi governa il movimento di Grillo. Il super potere di una nomenklatura, scrive Salvatore Merlo il 20 Febbraio 2016 su "Il Foglio".  Via Gerolamo Morone è quella strada linda ed elegante del quadrilatero della moda milanese che porta a Casa Manzoni, un po’ Brera e un po’ via Montenapoleone, in tre minuti si arriva a piedi in Via filodrammatici, quindi alla Scala, poi un altro passo ed ecco la Madonnina. E’ una Milano che abita, nascosta, in palazzi antichi con atrio spazioso e bel cortile insospettabile. L’affitto medio di un ufficio di rappresentanza, o di un appartamento, tra la boutique di antichità e il grande negozio del design di lusso, è di circa 30 euro al metro quadro. Ed è qui al numero 6 la Casaleggio Associati, disposta in un luminoso appartamento di circa duecento metri quadrati, cinque stanze di cui una molto grande, la sala riunioni, uno spazio cucina, e il piccolo ufficio di Gianroberto Casaleggio: parquet chiaro, muri di un bianco stinto, quasi nulla appeso alle pareti. Stanze, pavimento, sedie, computer e i quindici tra soci e collaboratori di età compresa tra i trenta e i quarant’anni, si confondono in piena e silenziosa armonia come pezzi di una composizione di elementi tutti uguali, fatti della stessa materia. Malgrado siano quasi tutti giovani, e anche molto giovani, si scherza pochissimo. E chini sulle scrivanie, s’avverte soprattutto un battere di tastiere, uno scrollare di mouse, talvolta un sospiro. E’ un luogo razionale, con una sua rituale eleganza, scandita dal contrappunto di varie piante, verdi e a tronco, alte e basse, semi rampicanti, e dalla serie delle bellissime e costose lampade da tavolo, le Artemide Tolomeo. Casaleggio è per i suoi collaboratori, e persino per gli ex collaboratori che di lui parlano quasi tutti benissimo, l’oggetto meccanico, e allo stesso tempo umano, della proprietà assoluta, totalitaria e demiurgica. La Casaleggio Associati. Diecimila euro di capitale originariamente versato e diviso tra Casaleggio e suo figlio Davide (2950 euro ciascuno), Mario Bucchich e Luca Eleuteri (con 1900 euro di quote), e, prima che lasciasse in fortissima polemica (“Grillo è un megafono che ripropone delle elaborazioni che non necessariamente gli appartengono”) Enrico Sassoon. Più di recente si sono aggiunti due ex dipendenti, Maurizio Benzi e Marco Maiocchi. E tanto Casaleggio appare ieratico, quanto il suo braccio destro Eleuteri – lavora a Milano, ma vive a Genova “per via dello smog” – è invece estroverso, spiritoso, per quanto sia pure lui intimamente persuaso, come del resto anche tutti gli altri, delle stranezze apocalittiche del suo mentore (tipo: la profezia della terza guerra mondiale che scoppierà nel 2020). Anche Davide Casaleggio, il numero due dell’azienda, non sembra figlio di suo padre, nessuno sguardo remoto da bonzo tibetano e niente capelloni. Ma alto e slanciato, con un bel sorriso sui denti bianchissimi, Davide ha piuttosto l’aria del bravo ragazzo uscito da una università americana, malgrado sia proprio lui l’addetto alla procedura delle “disattivazioni” sul blog: il meccanismo con il quale – raccontano i militanti – viene soppresso il dissenso nel corso delle frequenti votazioni web alle quali sono chiamati gli attivisti dell’M5s. E questa pratica della disattivazione merita una parentesi.  “Guardi, io sono stato cancellato, da un giorno all’altro, disattivato dal blog, silenziato da qualcuno che a Milano ha premuto un pulsante”, dice Alessandro Cuppone, un fondatore del Movimento a Bologna, più di dieci anni di attivismo. Non l’unico sbianchettato, per la verità una cosa simile è successa a Bologna anche a Lorenzo Andraghetti, altro militante storico. Cuppone lo racconta, ancora, dopo tre anni, con un misto di stupore, divertimento e amarezza: “Ero candidato alle parlamentarie, per le elezioni del 2013. Avevo completato tutta la procedura, ma quando stavo per caricare il video di presentazione, come tutti gli altri, ho improvvisamente notato che era sparita la mia candidatura”. E non una candidatura qualsiasi. Cuppone era uno dei più conosciuti, attivi e apprezzati militanti di Bologna. “Sparita. Non ero più candidabile. Non esistevo. Allora chiamai Marco Piazza e Massimo Bugani, attivisti come me a Bologna, e cercai a telefono anche Filippo Pittarello, uno dei collaboratori di Casaleggio, l’unico con il quale era possibile avere un rapporto diretto. Ma niente. Poi mi chiamò Beppe”. Beppe Grillo? “Sì. Mi disse che ad aprile, molti mesi prima, avevo scritto “una cosa su Facebook’…. Io non mi ricordavo niente. Allora gli chiedo: ‘Scusa Beppe, ma cosa ho scritto di male?”. E lui, allusivo: ‘Vai a vedere e poi mi richiami’”. Trattato come un bambino monello. “Insomma cercavo di capire cosa li avesse urtati. Mi sembrava assurdo. Poi a un certo punto ho scoperto: avevo condiviso su Facebook la foto della lettera con la quale Valentino Tavolazzi, uno dei primi epurati dal Movimento, era stato espulso. Io quella foto l’avevo condivisa per solidarietà umana, perché conoscevo Tavolazzi, sapevo che era uno per bene. Ma quel post non era di aprile, come diceva Beppe. Secondo me Grillo nemmeno sapeva le ragioni per le quali io ero stato disattivato dal blog. La verità è che ero stato disattivato perché, lì a Milano, mi consideravano inaffidabile. Era bastato pubblicare quella foto per farli spaventare. E io guardi che stavo nel Movimento dal 2005. Ci credevo, e ancora ci credo. A Bologna il movimento era una meraviglia. Avevamo davvero realizzato la democrazia diretta, assembleare, con una capacità notevole anche di selezionare persone in gamba. Ora la spinta è più alla fedeltà. Alla fine, nel 2013, dal portale di Grillo, per quanto ne so io, furono cancellati almeno trenta militanti. E consideri che io non sono mai stato espulso formalmente”. Anzi. Cuppone è il compagno storico della senatrice Michela Montevecchi, tutt’ora nel gruppo parlamentare grillino. Ma quando raccontava in giro questa storia della disattivazione, i suoi amici nel Movimento, a Bologna, che le dicevano? “Erano increduli. Ma dopo un po’ mi chiedevano: ma cos’è che hai combinato? E insomma, in buona fede o in mala fede, tutti pensavano che avessi qualcosa da nascondere. Che me l’ero meritato, per qualche oscuro motivo. Pazzesco”. Pazzesco, ma neanche troppo. La Casaleggio Associati sembra coltivare l’idea di un antropico livellamento del gruppo parlamentare a Cinque stelle, non di diversità. La diversità, anche solo sospettata, è un pericolo. “Appena entrati in Parlamento ci ordinarono di consegnare user e password delle nostre poste elettroniche”, raccontano Walter Rizzetto e Sebastiano Barbanti, due degli oltre cinquanta parlamentari espulsi o fuggiti dal M5s. Dice Serenella Fucksia, senatrice di fresca espulsione (è stata cacciata il 28 dicembre 2015): “A me il primo dubbio è venuto quando arrivammo a Roma. Quando mi accorsi che c’erano questi viaggi della speranza verso Milano. C’erano gruppi consolidati, che avevano rapporti diretti con questi misteriosi signori della Casaleggio. I milanesi, Bruno Martòn, Manlio Di Stefano, Vito Crimi. E poi i napoletani Ruocco, Sibilia, Fico, Di Maio. E i romani come Lombardi, Taverna e Di Battista. Andavano a Milano a fare strani corsi di comunicazione e chissà che altro”. Poi la signora Fucksia abbassa il tono della voce, e descrive una specie di clima psicotico: “Verso il 10 giugno mi hanno rubato il cellulare in Aula. Sul banco. Sono praticamente sicura che me lo hanno preso per controllare gli sms. All’inizio pensavo che mi avessero fatto uno scherzo”. Dice allora Tommaso Currò, che il gruppo della Camera lo ha lasciato 16 dicembre 2014: “L’ordine implicito è sempre stato di non fare politica, di non fare accordi, di non parlare con nessuno, di obbedire allo staff. Chi sorrideva di sufficienza, prima o poi finiva male”. E insomma in Parlamento gli impedivano di muoversi, di mescolarsi, di fare qualsiasi cosa. Chiusi in un acquario portatile, i parlamentari si sarebbero dovuti muovere come branchi di pesci in Transatlantico: una parete di vetro li avrebbe dovuti dividere dal mondo esterno, che loro vedevano transitare deformato e fioco davanti ai loro occhi. Se pure lo vedevano. “Mi ricordo che quando discutemmo le espulsioni dei primi quattro senatori, in assemblea, lo streaming era parecchio strano. Ogni volta che parlava qualcuno in difesa di quei poveracci, succedeva una cosa incredibile: o andava via l’immagine o s’interrompeva il suono. Guardi, può darsi che fosse un caso, ma era davvero così”, ricorda il senatore Maurizio Romani, oggi iscritto al gruppo misto. E aggiunge: “E le telecamere c’erano sempre. In tutte le assemblee. Anche senza streaming. Molti di noi erano intimiditi, c’era questa idea qui: ma non è che mi buttano fuori, e poi mi espongono alla gogna su Facebook se Casaleggio s’incazza per quello che dico? Io me ne fregavo. Non mi autocensuravo solo perché c’erano delle telecamere. Molti altri no. Per un periodo ci hanno fatto firmare una liberatoria, dicevano che si trattava di girare un documentario sui Cinque stelle. Ma poi le telecamere sono rimaste sempre. C’era Nick il Nero che registrava tutto, e Claudio Messora alla regia”. Messora è stato uno degli uomini della comunicazione del gruppo parlamentare (scelto a Milano dalla Casaleggio): cercato per questo articolo non ha mai risposto agli sms, alle mail, né ovviamente al telefono. Nick il nero, così chiamato perché veste sempre di nero e ha la pelle olivastra, è invece un ex camionista emiliano, anche lui addetto stampa del gruppo parlamentare M5s, molto noto in passato per alcuni video virali rilanciati dal blog di Grillo, e poi considerato fedelissimo dalle parti della Casaleggio Associati per aver contribuito alla cacciata di Giovanni Favia, di cui era amico. “Tutto il gruppo della comunicazione è stato selezionato fuori dal Parlamento e imposto al gruppo parlamentare”, racconta Mara Mucci, giovane deputata, ovviamente fuoriuscita anche lei, e poi fatta oggetto di uno spaventoso linciaggio sui social media. “Com’è arrivato Rocco Casalino, capo della comunicazione al Senato? Mi ricordo una sera in pizzeria, c’erano i milanesi, che hanno maggiore familiarità con la Casaleggio, e certamente Manlio Di Stefano. E loro dicevano: ‘Adesso vi portiamo Casalino’”. Ricorda Serenella Fucksia: “Ci hanno sempre dato ordini. Verbalmente, la mattina via mail…”. Insomma se c’era tra i parlamentari, come statisticamente ci deve pur essere, qualche tipetto cui gli dèi avevano concesso curiosità e voglia di fare, questo modo di “prendere contatto” con il Parlamento non poteva mancare di levargli dalla testa, sul nascere, ogni scintilla politica. Trascinato davanti ai corsi di “programmazione neuro linguistica”, una specie di delirio new age basato sull’idea che certe parole e movimenti possono “condizionare” le emozioni di chi ascolta e guarda, circondato dalle assemblee con telecamere a circuito chiuso, spiato dagli addetti stampa e persino dai colleghi, l’infelice parlamentare a cinque stelle non doveva sentire altro che l’obbligo di seguire il suo branco di pesci nell’aquario chiassoso. E s’avverte nell’aria l’ambiguo e pervasivo sapore della nomenklatura, una strana e invisibile nomenklatura che a quanto pare l’Italia è riuscita a mettere insieme (miracolo nazionale dopo la caduta del Muro) senza nemmeno passare dalla rivoluzione sovietica. Racconta, per esempio, Massimo Artini, eletto deputato del Movimento cinque stelle nel 2013 ed espulso a seguito di consultazione online il 27 novembre 2014, uno dei pochi parlamentari che ha un po’ frequentato la Casaleggio a Milano: “Su tutto il territorio nazionale, in ogni regione, ci sono tre o quatto attivisti ‘sentinelle’. Forse erano ‘sentinelle’, anche Lombardi, Crimi, Fico… Le sentinelle ascoltano, controllano, leggono le chat degli attivisti, e riferiscono i loro sospetti sui militanti che secondo loro ‘deviano’”. Quando a febbraio del 2014 venne ordinata l’espulsione dei primi quattro senatori (Lorenzo Battista, Luis Orellana, Francesco Campanella e Fabrizio Bocchino), Grillo spiegò che l’idea di buttarli fuori derivava da “svariate segnalazioni dal territorio di ragazzi, di attivisti, che ci dicevano che i 4 senatori Battista, Bocchino, Campanella e Orellana si vedevano poco e male”. Dunque prima arrivano le segnalazioni, poi a quanto pare alla Casaleggio decidono disattivazioni, cancellazioni e procedimenti di espulsione, “che chissà come mai vengono sempre accettate dal voto online”, dice Artini. E come mai vengono sempre accettate? “E chi controlla che il voto online sia regolare? Quis cutodiet custodes, chi sorveglia i sorveglianti della Casaleggio?”. Nessuno. Ai tempi delle quirinarie, pare che Gianroberto Casaleggio si fosse rivolto a una azienda di certificazioni. Loro fecero un controllo e dissero che non potevano certificare nulla perché il sistema di voto elettronico era pieno di bug, di difetti di programmazione. E’ tuttavia improbabile che Casaleggio alteri i risultati delle consultazioni aggiungendo o sottraendo voti. Non è necessario. E’ più verosimile quello che racconta un suo ex dipendente, e cioè che negli uffici di via Gerolamo Morone 6 tutti i militanti iscritti al Movimento sarebbero schedati. Esisterebbe infatti un sistema, di banale realizzazione informatica, che registra e ricorda esattamente come ognuno degli iscritti si è espresso in ciascuna delle votazioni. E insomma Casaleggio sa più o meno come la pensa ciascuno dei militanti: chi è più di destra o più di sinistra, chi ha sempre votato contro le espulsioni, chi è a favore o contrario al reddito di cittadinanza, e così via. Ogni voto rimane registrato. Di conseguenza lui può all’incirca prevedere i risultati di qualsiasi futura consultazione. Sa, per esempio, cosa sarebbe successo se il Movimento avesse messo in votazione (cosa che non ha fatto, pour cause) il tema delle unioni civili. Dunque, se Casaleggio volesse orientare un voto, l’operazione sarebbe persino banale, come dimostra il racconto di Alessandro Cuppone sulle parlamentarie del 2013: ti disattiva. Ti fa scomparire. E nello statuto del M5s c’è scritto che può farlo. Articolo 5: “La partecipazione al Movimento è individuale e personale e dura fino alla cancellazione dell’utente che potrà intervenire per volontà dello stesso o per mancanza o perdita dei requisiti di ammissione”. L’uso di questa schedatura trasforma l’abitante della Casaleggio Associati in un’entità onnipotente nel marasma indistinto del Movimento. Solido, vanitoso, assertivo, un po’ permaloso, gentile eppure incapace di vera empatia, Casaleggio “parla poco, non ti guarda mai negli occhi e poi, improvvisamente, interrompe il discorso, ti volta le spalle e se ne va”, ricorda Mauro Cioni, ex project manager alla Webegg, azienda di cui Casaleggio fu amministratore delegato fino al 2003. Non esce quasi mai dalla sua stanzetta di via Gerolamo Morone. E mentre gli altri, soci e dipendenti della sua azienda, vanno al bar dietro l’angolo o mordono un panino in ufficio, lui misura con lo sguardo una delle mele che tiene raccolte in un cestino, la afferra e la mangia in silenzio. Da solo.  Il suo sguardo, se non fosse per una diffusa malinconia che giunge all’astrattezza, potrebbe apparire buono, o forse statico, proiettato altrove, assorto non tanto in riflessioni, quanto in una specie di muta concentrazione. In generale non redarguisce troppo i suoi ragazzi, fa solo domande. In questo modo, con una serie di interrogativi anche bruschi a cui la persona interpellata è costretta a rispondere, Casaleggio costringe il dipendente a rendersi conto, con le sue proprie risposte e contraddizioni, che il lavoro doveva essere svolto in un modo anziché in un altro. Alla Casaleggio vivono tutti un’estasi nevrotica e imitativa. “Durante il mio primo colloquio di lavoro, Casaleggio parlava poco, parole pesate”, ha raccontato una volta Luca Eleuteri, l’allievo prediletto, il socio più anziano. “Notai che dai suoi discorsi mancavano gli avverbi, mi spiegò poi che sono interlocuzioni inutili. Mi ricordo la prima email che scrissi dalla mia scrivania. Mi vien da sorridere, ma fu una delle più belle lezioni di vita ricevute dopo tanti anni di studi… Gianroberto uscì dal suo ufficio, entrò nel mio e disse ‘nella tua email c’è un errore, è importante che tu non ne faccia. Sono i dettagli che contano’. Voltò le spalle e rientrò nella sua stanza. Non ho più inviato una email, e nemmeno un semplice sms, senza aver prima riletto almeno tre volte il testo”. Sulle sue abitudini, su una sua certa mania del controllo, circolano i racconti più inverosimili e leggendari, frutto di rielaborazioni, fantasie, semi verità di un mondo composto di mattoidi attratti dal Movimento 5 stelle e poi in gran parte respinti, dunque pronti, per delusione e rivalsa, per mitomania e congenito complottismo, ad attribuirgli un’intelligenza acutissima e fredda, capace di qualsiasi turpitudine luciferina. Lo disse, esagerando un po’, anche Giovanni Favia, il primo eletto del M5s in Italia, il più famoso degli espulsi: “Una mente freddissima, molto acculturata e molto intelligente, che di organizzazione, di dinamiche umane, di politica se ne intende”. Una narrazione per la verità impalpabile nella quale Casaleggio ama accucciarsi, lasciando che si dica, e che tutto si confonda nell’indistinto, come una polvere che copre ogni cosa. Un pissi pissi malizioso che a lui forse fa comodo, per la politica, ma pure per gli affari, dove attraverso queste leggende senza fondamento (persino l’indimostrato e risibile legame con le massonerie, i fantasiosi collegamenti con i servizi segreti americani e addirittura con non meglio precisati e grotteschi centri di potere finanziario anglo-olandese) gli si riconoscono straordinarie conoscenze e pure profetiche qualità professionali che tuttavia non trovano riscontro né nei medi bilanci della sua piccola azienda né nella scarsa proiezione internazionale di questa sua agenzia di web marketing il cui unico prodotto di vero successo, per ora, è il M5s. E forse, a questo proposito, vale la pena di raccontare un episodio significativo. Nel 2009 il Fatto quotidiano, il giornale di Marco Travaglio, l’aveva coinvolto nella costruzione e gestione del suo sito internet. E insomma mentre Grillo appoggiava esplicitamente la campagna di abbonamenti al Fatto attraverso i palchi, i comizi, gli spettacoli e il blog (da un analisi di mercato, circa il 60 per cento dei primi abbonati risultava essere un simpatizzante grillino), Casaleggio aveva un accordo commerciale con il giornale. Ma a un certo punto l’accordo salta, con la conseguenza che tutti i contenuti del Fatto sponsorizzati da Grillo attraverso il suo blog spariscono. La rottura era avvenuta perché Casaleggio, il visionario, il genio, oltre a chiedere forse troppi soldi, pretendeva anche di avere il controllo sui contenuti del sito, e poneva pure una condizione assurda: sicuro com’era che i giornali di carta fossero destinati a repentina scomparsa, pretendeva che il Fatto non uscisse cartaceo nelle edicole ma solo sul web. L’avessero ascoltato, Antonio Padellaro, Peter Gomez e Travaglio sarebbero falliti in meno di un anno. Oggi la dimensione di quello scampato pericolo è chiara a tutti loro. Con sollievo. Dunque i racconti e le fantasie sulla sua diabolica genialità rendono Casaleggio più misterioso, abile, persino oscuramente capace di quanto forse quest’uomo, ex dirigente allontanato dalla Telecom per non aver brillato alla guida di una controllata (la Webegg), in realtà non sia. Ed ecco dunque la cortina fumogena, la fuffa luciferina. Le voci incontrollate su misteriose e mai verificate sedi all’estero della Casaleggio Associati. Le leggende sui server con i dati degli iscritti al Movimento che sarebbero installati in America. E poi, ancora, come racconta Sergio Di Cori Modigliani, ex militante, autore per Chiarelettere di un libro – “Vinciamo Noi” – con prefazione di Grillo e Casaleggio: “Ma lo sai che va in giro con una chiavetta usb appesa al collo? Lì dentro ci sono i ‘big data’ del Movimento. E poi c’è ‘l’algoritmo’ con il quale controlla gli umori della rete. Lui vede tutto, lui sa tutto”. Ed è insomma un mondo dove ogni cosa è intrecciata e confusa. Seguendo il flusso di questo chiacchiericcio sussurrato non si capisce mai quanto ci sia di vero, di falso e di verosimile. Mentre cosa certa è che i più riconoscibili tra i parlamentari di Grillo hanno praticamente ceduto i loro diritti d’immagine a Casaleggio, ha raccontato Jacopo Iacoboni sulla Stampa: si sono cioè impegnati a caricare tutti i video che li riguardano sul famoso blog. E per ogni video visto, ogni centomila visualizzazioni, per ogni clic, la Casaleggio Associati guadagna. Un pasticcio d’interessi in cui i parlamentari della Repubblica usano i social network per indirizzare le migliaia dei loro elettori su video che poi fanno lievitare i compensi pubblicitari di un’azienda privata. La fonte principale dei ricavi è il blog di Beppe Grillo, ma la società gestisce anche il portale del Movimento, i due siti di informazione (Tze Tze e La Fucina), la tivù streaming (LaCosa). Tutti siti collegati tra loro, e collegati ai parlamentari, al movimento d’opinione e di umori che questi riescono a orientare. Un intreccio d’interessi pubblici e privati non nuovo alla democrazia italiana, per qualcuno forse nemmeno scandaloso e forse (per adesso) anche di modesta entità, ma pure inquietante per l’opacità contrabbandata da trasparenza. La legge 96 del 2012 prevede l’obbligo di presentare un bilancio certificato per tutti i partiti o movimenti che si siano presentati alle elezioni, indipendentemente dal fatto che chiedano o meno l’accesso al finanziamento pubblico. Per ragioni oscure, il Movimento cinque stelle non ha mai depositato il bilancio. Così, dunque, l’azienda di marketing diffonde e ingrossa l’immagine di Di Battista, di Di Maio, di Fico, di Ruocco… e loro, con impeccabile circolarità, accompagnano questo flusso di nuovo verso l’azienda di marketing. “I siti della galassia (TzeTze, LaFucina, LaCosa), nati per cercare di inventare un nuovo sistema di informazione, sono diventati una macchina per creare consenso facile con sistemi di dubbia moralità. Non trovo nessuna differenza tra il Canale 5 del 1994, dove Sgarbi vomitava insulti per creare il brodo necessario a Forza Italia, e LaFucina che usa le tette della Boschi per attirare qualche clic con titoli scandalistici, o propaganda rimedi al limone contro il cancro, o fa terrorismo contro i vaccini che provocherebbero l’autismo”, ha scritto su Facebook Marco Canestreri, collaboratore di Casaleggio dal 2007 al 2010, uno dei ragazzi che lavorò, tra le altre cose, dall’interno della Casaleggio Associati, anche alla costruzione e alla gestione del sito del Fatto quotidiano. L’intuizione di Casaleggio, tra il 2005 e il 2006, fu che la tecnologia di internet rendeva possibile una nuova forma di marketing politico, che ben si adattava a un crescente malumore popolare. All’inizio ci provò con Antonio Di Pietro, di cui era diventato consulente, formalmente incaricato di occuparsi solo del blog, ma in realtà così dentro le meccaniche dell’Idv, e così vicino all’orecchio dell’ex magistrato, da prevaricare l’ufficio stampa del partito, determinando addirittura gli slogan elettorali, e la natura della cartellonistica. “Casaleggio si occupava del blog di Di Pietro ma proiettava la sua influenza sempre un po’ più in là. Per l’amicizia che aveva con Di Pietro arrivava al punto di suggerire battaglie”, ricorda Massimo Donadi, che dell’Idv fu capogruppo alla Camera e membro dell’ufficio di presidenza. Nel 2008 l’Idv spese 539.138,06 euro per lo “sviluppo dell’immagine in rete”. Nel 2009 la spesa lievitò alla bellezza di 893.554,82 euro. E’ l’anno in cui Beppe Grillo, di cui Casaleggio è già da anni il braccio destro, appoggia attraverso il blog, e nei comizi, le candidature di Luigi De Magistris e Sonia Alfano nelle liste dell’Idv per le europee: “Sono dei nostri”. De Magistris viene eletto. E Grillo scrive: “In Europa sarà una voce forte e pulita. Il blog lo sostiene”. Ma poi succede qualcosa, e il rapporto tra Casaleggio e Di Pietro s’interrompe. Così, appena De Magistris si candida sindaco di Napoli, Grillo lo scarica, e pubblica la foto di quello che un anno prima era “uno dei nostri”, con sotto questo interrogativo retorico: “Comprereste un voto usato da quest’uomo?”. Ricorda Donadi: “A me risulta che il rapporto con Di Pietro si interrompe quando Casaleggio suggerì in modo perentorio, perché secondo lui altra via non c’era, che l’Idv rompesse con il centrosinistra e diventasse una forza anti sistema. Lui pensava che in Italia ci fosse spazio per una cosa del genere. Noi ne parlammo in una riunione e decidemmo diversamente. Decidemmo cioè di restare nel centrosinistra, col Pd. E decidemmo anche, di conseguenza, che non c’era nemmeno più spazio per proseguire una collaborazione anche soltanto tecnica con Casaleggio”. Ed è a questo punto che il M5s, esperimento di liste civiche locali, comunali e regionali, diventa, nelle mani della Casaleggio Associati (privata dell’Idv, suo principale cliente: tra il 2006 e il 2009 circa un terzo dei ricavi della Casaleggio Associati arrivava da Di Pietro) un partito con ambizioni nazionali. Sostiene Giovanni Favia, grande espulso: “Non c’era un disegno sicuro che portava alla costituzione del M5s partito nazionale. Tutto è sempre stato condizionato dalla situazione privata e societaria di Casaleggio”. Chissà. Di sicuro, con i suoi collaboratori e soci, Casaleggio ha cambiato le regole del gioco, è andato oltre Berlusconi, oltre il partito liquido o di plastica, immaginando e realizzando un movimento, un partito, che è puro flusso di marketing, con ideologia, valori, istanze e programmi mutevoli, intercambiabili, legati all’analisi dei trend internettiani, agli umori raccolti in presa diretta. Già da prima i partiti si rivolgevano alle agenzie di comunicazione, ai persuasori più o meno occulti, ai guru, ai maghi, agli stregoni, agli oracoli… Ma Casaleggio è andato al di là dell’immaginabile: ha eliminato il partito, e sublimato il marketing. Dunque attraverso la sua agenzia fornisce tutto al Movimento, che è in realtà, nella città e nelle province d’Italia, una tribù eterogenea che senza di lui non avrebbe voce, collegamenti, né capacità organizzativa nazionale: consulenti ed esperti di mercato politico, compulsatori di forum e di ‘social trend’, grafici e teleoperatori, maestri di recitazione e persino supporto psicologico, all’occorrenza. Dunque Pietro Dettori, il vero autore dei post firmati Beppe Grillo. Biagio Simonetta, giornalista che compila contenuti (come quelli del giornale online del movimento, Tze Tze) e poi li gonfia di commenti e ‘like’. Marcello Accanto, altro social media manager. E poi Filippo Pittarello, quadrato, scaltro, serioso, il miglior dipendente di Casaleggio, il suo tuttofare, adesso a capo dell’ufficio stampa M5s a Bruxelles. Fu lui a combinare l’incontro tra Grillo e il leader estremista inglese Nigel Farrage. A maggio del 2013, appena dopo le elezioni, fu sempre lui a tenere il “discorso motivazionale” ai nuovi parlamentari grillini (“ci trattava come dei deficienti da catechizzare”, ricorda Mara Mucci). In un incontro con i militanti, Pittarello spiegò quale fosse l’idea di parlamentare della Repubblica che avevano loro, alla Casaleggio: “Il candidato ideale dovrebbe avere più soft skills che hard skills, cioè più attitudini che competenze”. Una squadra, questa, cui si aggiungono l’informatico (Maiocchi) e lo studioso di marketing e vendite (Benzi). E adesso anche Silvia Virgulti, che insegna ai parlamentari come si fa a parlare in pubblico e che nel 2013 fece ad alcuni di loro le prime lezioni di presenza televisiva nella sede della Casaleggio Associati. Formalmente dipendente del gruppo della Camera, Virgulti, ora si sa, è la fidanzata di Luigi Di Maio che l’ha inserita nell’ambiente, malgrado Casaleggio all’inizio storcesse il naso. E chi oggi può fare politica meglio di un’agenzia di comunicazione, aiutata da un propagandista vociante, eppure malleabile, come Grillo, un vecchio attore egocentrico e sgarbato che però Casaleggio sa prendere per il verso giusto, scomparendo durante le frequenti crisi depressivo-aggressive del tribuno, e ricomparendo invece, con suggerimenti e parole, nei repentini picchi d’entusiasmo e super eccitazione che come un’altalena scandiscono l’esistenza del famoso comico? Lo spartito suonato alla Casaleggio Associati è persino banale: una divisione manichea del basso contro l’alto, del cittadino contro il potere, in un contesto liquido, anzi gassoso, dove ogni posizione politica è ritrattabile, riconvertibile, ribaltabile. Una strategia pubblicitaria portata all’estremo. Così dietro le quinte della grande rappresentazione e della trasparenza, il guru mette al servizio di una tribù eterogenea e un po’ raccogliticcia la potenza arcana di numeri, simboli, icone e rituali. Ma la superiorità morale, la purezza, il mito della trasparenza, malgrado la Casaleggio Associati guadagni com’è s’è visto quattrini, non sono purtroppo un’astuzia, una mossa tattica, un espediente per confondere quei gonzi degli elettori e rintuzzare alla meglio la casta degli avversari, né un trucco per acquistare ricchezza. Loro ci credono davvero, ne sono persuasi. Casaleggio vede se stesso come uno scienziato (infallibile, all’inizio; oggi un po’ meno) impegnato in un grandioso, nobile esperimento di felicità generale, di rigenerazione universale. Ma sembra che per lui il fine giustifichi i mezzi, e chiunque abbia mete più corte, speranze più immediate, sia un infame che dovrebbe avere almeno il pudore di stare zitto quando l’esperimento sfugge qua e là di mano, tra purghe, dissidenze, psicosi, espulsioni e crisi amministrative.

Ora Casaleggio spiegherà ai parlamentari come funziona il modello Blog & Associati. Parla la parlamentare fuoriuscita dal M5s Mara Mucci, che ha invitato il guru dei grillini per un contributo alla discussione sulla nuova legge su come dovrebbe funzionare un partito democratico, scrive Luciano Capone il 2 Marzo 2016 su "Il Foglio". Sarà Gianroberto Casaleggio a spiegare al Parlamento come dovrebbe funzionare un partito democratico, se deve essere modello Gaia o modello Rousseau. Alla Camera, in commissione Affari Costituzionali, è iniziato il confronto sulle proposte di legge per attuare l’art.49 della Costituzione, quello appunto sul “diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”, e la parlamentare fuoriuscita dal M5s Mara Mucci ha invitato in audizione il “guru” del partito fondato da Grillo: “In audizione si ascoltano gli esperti per capire come si può attuare la democrazia interna ai partiti e io ho chiesto l’audizione di Gianroberto Casaleggio – dice al Foglio la parlamentare – adesso vedremo se viene in commissione a dire la sua”. Lo si saprà presto, perché la proposta è già incardinata e dalla prossima settimana dovrebbero cominciare le audizioni. “I princìpi sono quelli alla base del Movimento, si chiede a tutti i partiti maggiore trasparenza, democrazia e di rendicontare i bilanci, non capisco perché dovrebbero essere contro”. Il tema è caldo, il vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini, che è autore di una delle proposte di legge, aveva dichiarato che era il momento di approvarne una nuova dopo la vicenda delle multe imposte dal Movimento ai dissidenti o ai voltagabbana (a seconda dei punti di vista). Ma il tentativo di regolare la vita democratica dei partiti è stato definito “liberticida” dai grillini, che contestano qualsiasi norma che imponga un minimo di struttura democratica, visto che secondo l’impostazione di Casaleggio il Movimento è fondato sulla democrazia diretta. A questo punto il numero due (o uno secondo molti) del M5s, avrebbe il palcoscenico della Camera per proporre a tutti i partiti di organizzarsi secondo il suo modello, a patto che spieghi come funziona: “Teoricamente doveva essere una democrazia dal basso, ma adesso è chiaro a tutti che è un sistema verticistico in cui Casaleggio è il regista e forse ciò spiega perché sono contrari a una legge sulla democrazia nei partiti – dice la Mucci – Nel Movimento bisognava decidere tutto con le consultazioni online, ma ne sono state fatte due o tre, senza un ente terzo che certifica il voto. Dov’è la democrazia senza la garanzia che il voto sia libero e certificato? Dov’è la democrazia se i quesiti che tu poni indirizzano già i votanti?”. L’audizione di Casaleggio, in diretta streaming come piace ai grillini (anche se da un po’ di tempo ne fanno poche), sarebbe un’ottima occasione per convincere i partiti a convertirsi al modello Blog & Associati, ma soprattutto per far sapere a tutti come diavolo funziona questa democrazia diretta nel M5s. Ma il guru si presenterà?

Cos’è, per i grillini, l’inevitabile controllo dei Casaleggios. Un'email scovata dal Foglio dimostra come funziona il controllo della Casaleggio Associati sulle vite (e i server) degli altri, scrive Salvatore Merlo il 05 Marzo 2016 su “Il Foglio”. Questa storia la conoscono tutti i parlamentari, e tutti gli ex parlamentari, del Movimento cinque stelle. Eppure non è stata mai raccontata da nessun giornale. “A un certo punto, a settembre del 2014, venimmo a sapere che la Casaleggio Associati non solo aveva avuto informazioni sui nostri server di posta elettronica”, racconta Tancredi Turco, deputato veneto, avvocato penalista uscito dal M5s il 26 gennaio 2015. “Ma capimmo pure che qualcuno da lì aveva potenzialmente accesso al nostro sistema di archiviazione e comunicazione interno, parlamentari5stelle.it, quello che usano i deputati, dove si depositano documenti. Ne discutemmo anche in assemblea di questo fatto. Io, come altri, non feci una denuncia solo per il bene del Movimento. Ma la cosa diede fastidio, si fa per dire, a tanti”. Appena un anno prima, fine aprile 2013, qualcuno aveva violato la posta elettronica di Giulia Sarti, giovane deputata emiliana – fidanzata fino al 2012 con il più noto degli espulsi e grande accusatore di Gianroberto Casaleggio, Giovanni Favia. Quel qualcuno, il ladro di email, aveva diffuso attraverso internet le foto private della deputata, stralci di sue conversazioni, sfoghi, giudizi, umori… “Giulia Sarti si era messa contro lo staff della comunicazione”, dice Lorenzo Andraghetti, che era il suo addetto stampa, storico e noto militante emiliano, lui che quando tornò a Bologna dicendo che avrebbe voluto rifondare il 5 stelle venne rapidamente espulso. “Alla fine, chissà come, mentre Giulia si lamentava dello staff, sono state diffuse le sue email, accompagnate dalla minaccia anonima di rivelarne altre, e di altri parlamentari… A quel punto stavano tutti zitti. C’è sempre stata una tensione che si tagliava con il coltello. Una paura incredibile di essere abbandonati ai cani, di essere in qualche modo esposti alla gogna del web, di essere sputtanati, e di essere anche spiati”. E in questo clima quasi psicotico, non stupisce affatto che un anno dopo, “quando capimmo che a Milano potevano avere avuto accesso alle nostre mail, ci preoccupammo”, come ha raccontato sul Foglio dello scorso 20 febbraio Sebastiano Barbanti, deputato oggi iscritto al gruppo Misto. Ma ecco come andò e come fu che si scoprì, ma pure si coprì, l’affaire delle email. Alla fine di settembre 2014, il gruppo M5s aveva incaricato la ditta Wr Network srl, azienda Itc torinese fornitrice di servizi per la Casaleggio Associati (ma questo ancora non si sapeva), di controllare la sicurezza del sistema “parlamentari5stelle.it”, una piattaforma di proprietà del gruppo parlamentare, creata in realtà allo scopo (non esplicito) di sfuggire un po’ all’occhio troppo attento della Casaleggio, un sistema che oltre alle mail personali dei deputati conteneva, ovviamente, anche altri dati riservati. E infatti per questa ragione, all’ingegnere della Wr Network chiamato a lavorarci, era stato impedito il pieno accesso alla piattaforma. Tuttavia, il 30 settembre 2014, il capogruppo Paola Carinelli e il capo della comunicazione Ilaria Loquenzi, su indicazione della Casaleggio, e senza informare il responsabile legale del gruppo, Alessio Villarosa, consegnarono al tecnico informatico torinese la password del sistema. Ma la sorpresa massima doveva arrivare dopo qualche giorno. Ottenuta infatti la password di questo sistema libero e parallelo che i deputati si erano creati al di fuori del network controllato da Grillo e Casaleggio, il tecnico dell’azienda (attenzione: ingaggiata dal gruppo parlamentare), a un certo punto, per ragioni poco chiare, modifica tutti gli accessi al sistema informatico. In pratica lo smantella, lo rende inaccessibile e non funzionante. E qui arriva il bello. Perché i deputati cominciano a mugugnare, qualcuno a preoccuparsi della sua posta elettronica (visto il precedente di Giulia Sarti), qualche altro a sospettare che quella piattaforma fuori controllo non piacesse troppo “a Milano”. Così, nel corso di un’assemblea agitata, la lamentela e il mugugno diventano ufficiali: Tancredi Turco ipotizza una denuncia cautelativa, Tatiana Basilio chiede spiegazioni, Mara Mucci si mette a ridere perché forse già sospetta la rivelazione, la prevedibile epifania che di lì a poco ci sarebbe stata. E infatti chi mai risponde ai deputati dando delucidazioni sull’accaduto? Forse il tecnico dell’azienda pagato dal gruppo parlamentare (550 euro al giorno, più viaggio e rimborso spese)? Forse il capogruppo? Ma no. Risponde, il 3 ottobre, via email, la Casaleggio Associati in persona, ovviamente. Ed è una fantastica lettera firmata “lo staff di Beppe Grillo” nella quale si dice espressamente che il sistema non è ripristinabile e che se ne sarebbe dovuto installare un altro (installato da loro, si suppone). Ma non solo. L’email conteneva pure una ammissione involontaria. Tra le righe, rivelava infatti che il misterioso “staff” di Milano aveva avuto alcuni dati relativi alla posta elettronica dei deputati. Scriveva infatti l’evanescente “staff”: “Ad ora risultano meno di 30 persone che stanno utilizzando in modo continuo o la posta o il calendario”. “Meno di 30”. Dunque sapevano chi, come e quanti deputati utilizzavano quella posta elettronica? E sapevano solo quello o avevano ricevuto anche altre informazioni provenienti dal server? E a che titolo, in definitiva, la Casaleggio era informata di quel controllo, se una ditta terza aveva il contratto con il gruppo della Camera? E a che titolo prendevano decisioni? (“abbiamo riscontrato una situazione non sanabile nella gestione attuale della posta e dei calendari … ti invitiamo a svuotare la posta e non utilizzare questo account … suggeriamo venga dismesso nell’immediato”). Dice Andraghetti, che ci sta scrivendo persino un libro: “E’ il clima Casaleggio. Io l’ho respirato per due anni a Montecitorio, prima di tornarmene a casa dopo sette anni di militanza”. E insomma sempre, sull’intero microcosmo parlamentare grillino, in ogni angolo, dal più riposto al più illuminato, aleggia remoto, inaccessibile e inevitabile il controllo della Casaleggio Associati. E questo contribuisce non poco ad alimentare anche un elevato tasso di paranoia complottista, talvolta ingiustificata, tra i poveri parlamentari a cinque stelle, che non sono soltanto controllati ma si controllano pure l’un l’altro, in modo ossessivo, in un continuo gorgoglio di malizie, insinuazioni, che ha forse toccato il suo vertice massimo con la storia di Giulia Sarti nel 2013 ma che in queste ore si sta replicando – in tono minore – anche a Roma, dove la candidata sindaco Virginia Raggi è vittima di chiacchiere, fantasie contundenti, spiate, pseudo informazioni e dossieraggi da parte dei suoi stessi compagni. Sbracciamenti selvaggi, soprusi, abiette suppliche e delazioni sono all’ordine del giorno, nel M5s.

Lo scoop del Foglio sul metodo Casaleggio arriva in Parlamento. Come funziona il controllo di Casaleggio sui parlamentari a cinque stelle? Il Pd presenterà lunedì un'interrogazione parlamentare per far luce sui metodi non trasparenti dei Casaleggios, scrive "Il Foglio" il 05 Marzo 2016. Lo scoop del Foglio sul metodo Casaleggio arriva lunedì in Parlamento. Il senatore Stefano Esposito, del Pd, al termine di una mattinata in cui diversi esponenti di centrodestra e di centrosinistra hanno rilanciato l'inchiesta di Salvatore Merlo sui metodi non trasparenti con cui la Casaleggio Associati ha avuto acceso ai server di diversi parlamentari del movimento 5 stelle (hashtag su Twitter #m5spy), ha annunciato in una intervista all'Huffington Post che presenterà lunedì al Senato una interrogazione parlamentare indirizzata al Presidente del Consiglio e al ministro dell'Interno "per fare luce sull'accaduto". Dice Stefano Esposito: "Noi sappiamo che la vicenda ha riguardato parlamentari a 5 stelle, ma chi ci dice che la Casaleggio Associati non abbia violato la privacy anche di altri parlamentari non del Movimento? Il dubbio è lecito, stando a quanto raccontato dal Foglio. Bisogna capire se dobbiamo fare i conti con una nuova Costituzione, quella della Casaleggio Associati. C'è un gruppo politico manovrato, ricattato, minacciato e diretto dall'ufficio di una società privata a Milano di cui non si sa nulla. Abbiamo fatto una battaglia contro Berlusconi ma almeno Berlusconi si è candidato. Casaleggio invece vuole dirigere il Paese standosene chiuso nel suo ufficio".

Enrico Sassoon: “Ecco perché Casaleggio scelse Grillo”. L'ex socio dell'imprenditore informatico racconta la genesi della collaborazione con il comico genovese: "Credo che il blog fosse un'idea di Casaleggio, Grillo non ha speso un euro". E parla della polemica dei troll: "La denuncia di Grillo è curiosa: ha fatto esattamente quello che lamenta ora", scrive Carlo Tecce il 28 marzo 2013 su "Il Fatto Quotidiano". Dodici anni in società con Gianroberto Casaleggio, un profilo internazionale, un’araldica complessa, scrittura e relazioni, economia e Internet, poi Enrico Sassoon ha scritto una lettera, lo scorso settembre, per sigillare proprio quei dodici anni. E in poche righe, pubblicate in evidenza sul Corriere della Sera, si è liberato di quelle ricostruzioni su complotti, massoneria, servizi segreti che – dice – l’hanno perseguitato. Non adora parlare ai giornalisti. Ci riceve in una sala riunioni costellata di oggetti elettronici antichi e moderni, che un neofita vedrebbe bene in un museo. Riflette su ogni sillaba e la registra anche. 

Quando ha incontrato Casaleggio?

«Ci siamo conosciuti nel 2000, quando sono entrato a far parte del Cda di Webegg come consigliere indipendente. Quando nel 2004 Casaleggio fonda la sua società di consulenza e strategie di rete (che cura il sito di Grillo), mi propone di acquisire una quota e io entro come socio di minoranza con il 10%. In quell’epoca ero l’ad di American chamber of commerce. Ho lasciato la Casaleggio Associati perché c’erano fazioni in rete, esterne e interne al Movimento, che mi diffamavano. Né Grillo né Casaleggio mi hanno difeso. Sono stato costretto a lasciare pur non avendo mai scelto di fare politica con il M5S. Non mi ha colpito la rete, ma persone che hanno trovato la mia figura professionale poca consona al Movimento».

Come può un sito attirare milioni di visite che diventano milioni di voti?

«Perché Grillo ha toccato corde di carattere sociale e politico che hanno persuaso un numero crescente di persone. Credo che il blog sia un’idea di Casaleggio, penso che Grillo non sapesse proprio nulla di Internet quando gli fu proposto. Casaleggio ha notato il successo di Grillo che faceva spettacoli con una componente di critica sociale e politica molto aggressiva. Ha pensato che potesse essere utile sfruttarlo e inserire Internet, le connessioni immediate, negli spettacoli in maniera tale che potesse far vedere le cose di cui parlava, ricordo ad esempio la vicenda Telecom. Hanno usato molto la famosa mappa del potere, elaborata da Casaleggio e Associati, che dimostrava come poche persone controllano molti Cda».

È stato anche un affare economico?

«È convenuto per un breve periodo di tempo. Che io sappia, Grillo non ha mai pagato niente, non ha speso un euro, ma ha dato in concessione la vendita di dvd e libri. Pubblicità? Non ho idea. La Casaleggio ha un passivo non drammatico per una società che non supera 1,5 milioni di fatturato. Pura fantasia che la Casaleggio Associati abbia costruito un impero con quel fatturato. Otto anni governando la rete, ora Grillo segnala “gruppi pagati per gettare fango”, i troll. Mi sembra strano che si lamenti di interventi in rete di cui lui è stato il primo esempio. Come leggo nei commenti al blog, quelli più seguiti e votati, la maggior parte sono molto critici con la sua denuncia. La presa di posizione di Grillo è oggettivamente molto curiosa: lui ha fatto esattamente quello che lamenta in questo momento, e solo perché è rivolto contro di lui…»

Ma Internet è davvero sinonimo di trasparenza?

«La rete è uno strumento come il telefono o come la televisione, ma ha barriere di accesso più basse. La rete non significa democrazia, se usata male può anche significare attentato alla democrazia. Chi vuole identificare la rete come democrazia, e si immagina un popolo della rete, dice cose sostanzialmente sbagliate. La rete è lo strumento più potente per fare politica, nessuno, però, la usa in maniera sistematica come loro. L’hanno usata per le Parlamentarie: poca partecipazione, tante polemiche. Quando si selezionano persone per creare dei candidati queste persone dovrebbero essere selezionate per capacità, competenze, onestà, storie personali, quanto tutto questo sia stato possibile verificarlo attraverso le Parlamentarie, non ne ho idea e non ce l’ha nessuno se non chi le ha organizzate mettendo i filtri».

Quanto durerà il M5S in Parlamento?

«La proposta politica di Grillo dipenderà dalla capacità di trasformare in programmi quelle che sono finora essenzialmente parole d’ordine peraltro abbastanza elementari e in parte solo di protesta. Per fare questo mi sembra che venga utilizzata una tecnica che ricorda molto quella economica del crowdsourcing (chiedere supporto alle folle, ndr), cioè quando un’azienda o una persona si rivolge a una comunità online, più o meno specialistica, per risolvere un problema e ricevere proposte che poi dovrà scegliere, premiare e infine utilizzare. Questo richiede due condizioni: la prima che esista un pensiero strutturato, la seconda che ci sia un’organizzazione capace di filtrare quello che arriva. Ascoltando Grillo che utilizza questi termini in maniera piuttosto confusa, che sono certamente patrimonio culturale di Casaleggio, ho la netta sensazione che si illudano di fare crowdsourcing politico non avendo per ora né una struttura organizzata né un pensiero realmente definito».

Chi è imprescindibile per il Movimento: Casaleggio o Grillo?

«Mi pare che l’uno non viva senza l’altro. La parte ideologicamente più preparata mi sembra sia quella di Casaleggio, Grillo è un megafono che ripropone delle elaborazioni che non necessariamente gli appartengono».

LE PRIMARIE A COMPENSO DEL PD.

Il vizio di truccare della sinistra. Altro che primarie a Napoli e a Roma: i trucchi della sinistra risalgono agli anni '70. E ora la storia si ripete, scrive Paolo Bracalini, Venerdì 11/03/2016, su "Il Giornale".  Botteghe molto oscure, anche troppo. Molto prima dei magheggi alle primarie con gli stranieri in fila e i napoletani pagati per votare, nelle radici storiche del Pd, cioè nel vecchio Pci, c’è parecchia oscurità, specie sui soldi. Analizzando i documenti si scopre che la «diversità morale» del Pci, rivendicata da Berlinguer, di diverso aveva ben poco, se non la straordinaria reticenza a raccontare pubblicamente come stavano le cose. Una storia ricostruita in un libro da poco pubblicato, Botteghe oscure. Il PCI di Berlinguer & Napolitano (edizioni Ares), scritto da Ugo Finetti, storico giornalista Rai ma anche ex vicepresidente Psi della Regione Lombardia. Tra i documenti che Finetti pubblica per raccontare lo scontro interno al Pci sulla questione morale, ci sono quelli sui fondi occulti del partito comunista, finanziato da Mosca e non solo (la cosiddetta «amministrazione straordinaria» del partito). Dalla relazione di Guido Cappelloni, braccio destro di Armando Cossutta allora responsabile amministrativo del Pci, emergono le preoccupazione di una componente del partito per «gli introiti in nero» cioè le fonti di finanziamento che venivano inserite nel bilancio «senza specificare la provenienza». «Una percentuale altissima», certificò Cappelloni con un numero preciso del «nero» del Pci: ben il 67,7% delle risorse del partito. E la presunta «diversità morale», allora? Enrico Berlinguer risolve i dubbi in un modo emblematico, quando si scoprono nel ’75 le prime tangenti anche al Pci. Mazzette, soldi in nero, nessun problema per il segretario del Pci, che in una direzione del partito spiega la linea: «Occorre ammettere che ci distinguiamo dagli altri non perché non siamo ricorsi a finanziamenti deprecabili, ma perché nel ricorrervi il disinteresse personale dei nostri compagni è stato assoluto». La stessa doppia morale (una per i compagni del Pci, l’altra per i non comunisti) che esibirà nel ’79 davanti alle preoccupazioni per la situazione disastrosa delle finanze del partito, zavorrate da un buco di 17 miliardi di lire: «Dire la verità? Non possiamo mettere tutte le cifre in piazza». Nel libro di Finetti si parla anche dei debiti dell’Unità, il quotidiano organo del Pci e poi del Pd, una vecchia storia che va avanti, tra fallimenti e condoni con i soldi pubblici, da decenni. Quando nel 1984 le perdite arrivano a 75 miliardi di euro, l’allora direttore (fedelissimo di Napolitano) Emanuele Macaluso, dà una nuova versione della diversità morale a sinistra: «La situazione debitoria vera non si è mai detta pubblicamente, perché ciò avrebbe portato a richieste di fallimento». Meglio mentire.

Pd, tra veleni e signori delle tessere. Un partito scalabile con 21 mila euro. Nel capoluogo campano 2.800 tesserati, ogni iscrizione costa 15 euro. Il nodo trasparenza: il potere di veto in mano a pochi e il senso delle primarie, scrive Marco De Marco il 9 marzo 2016 su "Il Corriere della Sera". Le primarie annullate cinque anni fa a Napoli e quelle, su cui infuria la polemica, di domenica scorsa, più o meno compromesse, nonostante l’app anti-brogli, dal cliccatissimo video accusatorio di Fanpage. Il caso Salerno, dove in provincia e città sono molti gli episodi di opacità elettorale di cui si sta occupando la magistratura: dalle urne «insaccate» di schede prevotate, agli elettori pagati con le monete del «Bingo». I fatti di Casavatore, che vedono come protagonista il capogruppo Pd (poi dimessosi) indagato per voto di scambio con l’aggravante del metodo mafioso. Sono tutti segnali di una falla apertasi nel sistema di raccolta del consenso. E tutti suggeriscono un’unica domanda: che fine ha fatto il voto d’opinione? Un partito come il Pd, che sul tema della trasparenza elettorale si è sempre proposto come modello e ha appena impartito una lezione ai grillini a proposito di Quarto, difficilmente potrà ora limitarsi alle solite formule di rito, ai vedremo, faremo e via minimizzando. E tantomeno alle sdrammatizzanti battute di Vincenzo De Luca. I fatti di Napoli? «Babbarìe», da babbà. Sciocchezze, dice il governatore campano ricorrendo al dialetto in uso nell’Agro Nocerino-sanese. Cosa è dunque accaduto in casa Pd? Quale anello della catena, e perché, si è spezzato? Era opinione assai diffusa, tra i politologi e non solo, che la caduta del muro di Berlino avrebbe favorito flussi elettorali dal voto ideologico o di appartenenza a quello di opinione. Ed era ancor più forte la convinzione che un altolà alle pratiche del voto di scambio, specialmente nei territori di camorra, avrebbe ancor di più liberato il voto. La primavera dei sindaci, sul finire degli anni Novanta del secolo scorso, apparì come una conferma di queste ottimistiche previsioni. La realtà è invece andata da un’altra parte, come confermano i recentissimi fatti di Napoli, per quanto marginali e ancora tutti da accertare. A Napoli, e forse non è un caso, è da dieci anni, dalla riconferma di Rosa Russo Iervolino, che il centrosinistra, di cui il Pd è massima parte, non vince. Il Pd si sta ora arricchendo con forze nuove, naturalmente, ma intanto ha progressivamente allentato i rapporti con molti non professionisti della politica. Tra gli attuali parlamentari non c’è un solo professore universitario; molte personalità di un tempo (l’ex presidente del Cnr Gino Nicolais, il filosofo Eugenio Mazzarella, l’italianista Emma Giammattei) sono impietosamente scivolate ai margini della scena pubblica, mentre hanno conquistato le prime file i figli d’arte, a cui i padri hanno trasferito ingenti pacchetti di tessere. E gli iscritti si sono ridotti al minimo storico. A duemilaottocento, per la precisione, e senza che mai si sia riflettuto sufficientemente su cosa questo comporti. Su cosa può produrre, cioè, il combinato disposto di un partito non più di massa e non ancora di opinione, viste le note difficoltà del renzismo di estendersi in periferia. La prima conseguenza, come si è visto proprio in occasione delle primarie di domenica, è che tutto il potere di veto è tornato nelle mani di pochi signori delle tessere. L’ex sottosegretario Umberto Ranieri, tante per dirne una, non è riuscito a presentarsi alle primarie di Napoli proprio perché ormai fuori da questo giro: servivano 400 firme di tesserati, ma non ce n’erano più di disponibili, avendo già tutti sostenuto altre candidature. Il partito è diventato così un meccanismo perfetto, ma nel senso di perfettamente manovrabile, come può esserlo, insomma, quello di un orologio a cui puoi caricare la sveglia, rinviarla o, se ormai inutile, annullarla. Del resto, come è stato possibile indicare in anticipo quanti sarebbero stati quest’anno i votati alle primarie? Si è detto che trentamila (cioè suppergiù il numero delle tessere moltiplicato, come prassi, per dieci) sarebbe stato un buon risultato. E guarda caso tanti sono stati. E come ha fatto Valeria Valente a stappare lo spumante e a dare l’annuncio della vittoria, con assoluta certezza, a scrutinio ancora in corso, e nonostante si sapesse del risicatissimo margine di vantaggio (452 voti, alla fine)? Mistero. Un partito dove tutto è già scontato non esclude il voto d’opinione, ma certo è difficile che lo incoraggi. Ma per paradosso, un partito così perfettamente controllabile è anche un partito facilmente scalabile. Vuol dire questo. I tesserati, si è detto, oggi a Napoli sono 2.800, ogni tessera costa in media 15 euro. In linea teorica potrebbe bastare un investimento di 21 mila euro per garantire a chicchessia il controllo del 51% del partito. E cioè per rivendicare una adeguata rappresentanza negli organismi dirigenti, indicare le candidature nelle istituzioni, orientare le scelte politiche locali e condizionare quelle nazionali. Un film di fantapolitica? Certo. Eppure ne stiamo già vedendo i primi trailer.

Primarie truccate a Napoli, aperta un'indagine, scrive “Libero Quotidiano” l’8 marzo 2016. Non si placano, come è naturale che sia, le polemiche derivanti dal video pubblicato da Fanpage riguardo lo scandalo che ha visto protagoniste le primarie del Pd a Napoli. Nel filmato si vede come consiglieri comunali e municipali Pd erano piazzati fuori dai seggi a distribuire monete da un euro per poter votare, come previsto dal regolamento. I casi individuati dai giornalisti napoletani prevedevano che il voto fosse indirizzato verso la Valente, candidato vincente di misura contro Antonio Bassolino. In merito alla vicenda l'entourage di Bassolino sta pensando ad un ricorso mentre la procura di Napoli aprirà un'indagine conoscitiva: il procuratore aggiunto Alfonso d'Avino acquisirà il video incriminato e aprire un'inchiesta. Convocata anche la direzione del Pd dal presidente Matteo Orfini per il prossimo 21 marzo per discutere di quanto successo all'interno del partito negli ultimi giorni. 

Suore, boss, caffè pagati Consultazione viziata da trucchi e mancette, scrive Simone Di Meo, Martedì 08/03/2016 su “Il Giornale”. Napoli Perde il pelo ma non il vizio, il Pd. Nel 2011 furono cinesi e camorristi a inquinare le primarie per la scelta del candidato sindaco di Napoli, oggi - cinque anni dopo - le ombre tornano ad allungarsi in particolare sui quartieri controllati dai clan: Scampia, Secondigliano e San Giovanni a Teduccio. I rioni dove la deputata renziana Valeria Valente ha probabilmente conquistato la vittoria grazie a una rete di «galoppini» e di sostenitori dai modi assai disinvolti. Giovani che non hanno avuto remore a distribuire monete da 1 euro ai votanti davanti ai seggi, come testimoniato da un filmato del giornale online Fanpage.it. In un'immagine è addirittura il consigliere comunale Antonio Borriello, ex bassoliniano di ferro tra gli artefici del successo della candidata di apparato, a consegnare i soldi a un uomo. Il mercato delle preferenze dem stavolta è stato meno sfacciato ma non meno movimentato rispetto al passato. Per portare gli elettori a depositare la scheda nelle urne - confida al Giornale un testimone oculare - c'è chi ha distribuito addirittura biglietti per il trasporto pubblico, dal bus al tram alla funicolare. Un piccolo regalo per chi non voleva spendere nemmeno i soldi per titolo di viaggio. Per strappare un voto anche snack da offrire dopo pranzo o di buon mattino. Nei quartieri del centro storico, alcuni fan hanno corteggiato i passanti con la classica tazzulella di caffè. L'aggancio, una chiacchierata veloce al bar di fronte per convincere l'improvvisato elettore con un caffè, e poi di corsa al gazebo a esprimere la preferenza a costo zero. In fila, nella zona del Pendino, dove risiede la Valente, si sono messe pure due suore - immediatamente ribattezzate «le sorelle dem» - che hanno versato l'obolo da 1 euro. Sempre a Secondigliano sono stati visti leader delle cooperative di detenuti, immigrati e disoccupati storici. Erano state presentate come primarie ad alta tecnologia (la segreteria provinciale aveva speso 8mila euro per acquistare 80 tablet su cui installare una app per evitare doppi o tripli voti, mettendo in rete tutti i seggi della città) ma la speranza è durata appena 600 secondi. Dieci minuti dopo l'apertura dei seggi la app è andata in tilt e sono ritornati i vecchi sistemi di conteggio con carta e penna.

Primarie Milano, polemiche su voto cinesi. Pd: “Accuse discriminatorie”. Salvini: “Che pena”. Il voto degli stranieri il primo giorno ha rappresentato il 4 per cento (su un totale di 7mila e 750 persone). Il Partito democratico, dal deputato Fiano al segretario milanese Bussolati, cerca di respingere le accuse in merito a gruppi di cinesi alle urne per Giuseppe Sala. Il leader del Carroccio: "Povera città", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 7 febbraio 2016. “Il voto dei cinesi per Sala alle primarie di Milano? Polemiche irricevibili e disgustose”. “Gli stranieri al voto? E’ un successo della democrazia”. Mentre la metropoli inizia il secondo giorno di votazioni per la scelta del candidato sindaco di centrosinistra, il Partito democratico cerca di rispondere alle accuse di “operazioni sospette” ai seggi con gruppi di cinesi che vanno alle urne per votare Giuseppe Sala. Dal deputato dem Emanuele Fiano al segretario Pd di Milano Pietro Bussolati, dall’establishment si difende l’iniziativa. Il fantasma per tutti è quello di Genova esattamente un anno fa e Napoli nel 2011 quando proprio il voto degli stranieri creò casi controversi alle primarie e polemiche senza fine. All’attacco il leader del Carroccio Matteo Salvini: “Che pena, povera Milano e povera sinistra”. A raccontare a ilfattoquotidiano.it quello che è successo nelle scorse ore è stato il presidente di seggio della sezione Lama Carlo Bonaconsa: “Non sembra un voto consapevole. Non sanno leggere l’italiano e aprono le schede per chiedere dove votare”. Nel primo giorno di votazioni, in cui erano aperti solo 9 dei 150 seggi previsti per oggi, si sono presenti 7mila e 750 elettori. Il voto straniero ha rappresentato il 4 per cento. Poco prima del silenzio elettorale la comunità cinese aveva espresso il proprio endorsement per il candidato Sala con un annuncio in lingua mandarina, come raccontato dal Fatto Quotidiano. Nel quartiere cinese di Milano (zona Paolo Sarpi) è stato allestito un gazebo dove i rappresentanti della comunità spiegano come andare a votare e si offrono per accompagnare gli elettori alle urne”. Il primo a replicare alle accuse è stato il deputato Pd Emanuele Fiano, ex candidato alla primarie che si è poi ritirato per sostenere Sala: “È inaccettabile”, ha detto, “che chi manifesta contro il razzismo si scagli oggi contro nostri concittadini e connazionali di origine straniera che hanno deciso di partecipare direttamente e coscientemente alla scelta di chi sarà il candidato sindaco”. Fiano, che è anche responsabile sicurezza del Partito democratico, ha aggiunto: “Trovo irricevibili e disgustose le polemiche di alcuni noti e notissimi ‘compagni’ della piazza milanese, alcune che insinuano brogli, altre con chiare venature diciamo discriminatorie, per non dir di peggio. Ancor più a fronte dei dati di affluenza rivelati oggi che parlano di clima di regolarità e correttezza e che indicano nel 4% la partecipazione di cittadini stranieri. Chi oggi alimenta queste polemiche, e magari ieri come noi insorgeva contro la destra dei caterpillar e dei respingimenti in mare, non si vergogna di non gioire oggi che il centrosinistra di Milano nelle sue primarie dimostra che il futuro è già qui, che noi siamo già una città aperta, che l’unico modo di avere integrazione vera è che tutti siano protagonisti della loro vita scegliendo direttamente chi li governa o rappresenta?”. Tutto regolare anche per il segretario metropolitano del Pd di Milano Pietro Bussolati: “L’affluenza ai seggi delle primarie anche di residenti di origine straniera va considerata un successo della democrazia, non un problema. Significa che questi concittadini (che a Milano rappresentano quasi il 15% della popolazione, ed oggi alle primarie hanno votato per il 4% del totale) si sentono parte integrante della vita milanese e vedono in queste consultazioni una grande occasione di partecipazione”.

Boom di cinesi ai seggi per votare Sala, è polemica. Troppi stranieri per Mr. Expo, protesta Sel. Alle urne oltre 7mila persone, il 4% sono immigrati, scrive Chiara Campo, Domenica 7/02/2016, su "Il Giornale".  La Cina non è mai stata così vicina (alle primarie del Pd). Per tutto il week end gli elettori del centrosinistra scelgono il candidato sindaco per Milano, ma già ieri si sono già accese polemiche per i troppi cinesi in fila ai seggi. Sembra una fotocopia del caso Liguria: il candidato alle regionali Sergio Cofferati un anno fa denunciò brogli («un voto inquinato da marocchini e cinesi») e rifiutò l'esito a favore della renziana Raffaella Paita. La storia sembra ripetersi, per tutta la giornata c'è stato un clima di sospetti e accuse dirette ai sostenitori di Giuseppe Sala. I quattro in corsa a Milano - la vicesindaco Francesca Balzani supportata da Pisapia e Sel, il commissario Expo dai renziani, l'assessore Pierfrancesco Majorino e l'outsider Antonio Iannetta - hanno votato tutti ieri mattina. Sala, residente in centro, ha dovuto attendere 40 minuti in coda. Anche lì, elettori con gli occhi a mandorla. «Sono anche loro milanesi, se vincerò spero che entro la fine del mio mandato non verranno più chiamati immigrati ma italiani, sono parte della popolazione». Dovrebbe avere il dente avvelenato: giorni fa ha ammesso che dei crediti milionari che la società Expo deve ancora riscuotere all'estero, la quota maggiore (e ad alto rischio) riguarda proprio la Cina. Ma qui sembra avere molti fan. In qualche negozio della Chinatown milanese ieri venivano mostrati facsimile della scheda elettorale con la croce sul nome Sala («ci hanno detto che è buono per noi cinesi»). Nel quartiere è stato allestito anche un gazebo per dare informazioni sul voto, all'inizio con i manifesti dei candidati (con una sproporzione pro Sala), poi dopo le prime proteste al comitato dei garanti sono spariti. In zona Isola, stesso tifo per Mr. Expo: alcuni cinesi a domanda negano di essere elettori Pd «siamo qui per votare Sala, tutti i cinesi votano Sala». In viale Monza viene allontanato un orientale che distribuisce ai connazionali in fila il «santino» con il nome di Mr. Expo. Si creano momenti di tensione nel pomeriggio quando arrivano a gruppi e vogliono compilare collettivamente i moduli. Un rappresentante di lista riferisce che «c'erano persone che indirizzavano i votanti cinesi, gente portata qui in maniera evidentemente organizzata. Abbiamo visto una donna con una busta che conteneva passaporti e permessi di soggiorno. Movimenti che non si capivano». Viene convocato il segretario milanese del Pd, il renziano Pietro Bussolati, che difende la correttezza delle operazioni: «La comunità cinese ha espresso la volontà di partecipare alle primarie, proprio Sel aveva chiesto di aprire il voto agli immigrati e ora non comprendo le proteste». Matteo Salvini della Lega ha commentato: «Che pena, povera Milano e povera sinistra!». In serata Sel ha provato a gettare acqua sul fuoco ma le comunità straniere di Milano sono intervenute parlando di pregiudizi. L'affluenza ieri è stata di 7.750 elettori (il Pd ne attende almeno 67mila), il 4% stranieri. I seggi rimarranno aperti oggi dalle 8 alle 20.

Salvini: "Cinesi alle primarie del Pd. Povera Milano, povera sinistra". "File di cinesi, molti dei quali intervistati dalle tivù non parlano neanche italiano, votano il renziano Sala alle primarie Pd per Milano. Che pena, povera Milano e povera sinistra!". Così il segretario federale della Lega Nord Matteo Salvini sulle primarie democratiche, scrive Luca Romano, Sabato 6/02/2016, su "Il Giornale". Milanesi in coda per la prima giornata di primarie del centrosinistra, che decideranno chi sarà il candidato sindaco della coalizione tra Francesca Balzani, Antonio Iannetta, Pierfrancesco Majorino e Giuseppe Sala. Ad attendere l'esito è anche il centrodestra che poi scoprirà le sue carte e, soprattutto, il nome del suo candidato sindaco. Ma la prima giornata della consultazione popolare per scegliere il candidato sindaco è stata segnata dalle polemiche sul voto degli immigrati. Ad attaccare è il segretario della lega Matteo Salvini, che se la prende con l'afflusso di cinesi nei gazebo: "File di cinesi, molti dei quali intervistati dalle tivù non parlano neanche italiano, votano il renziano Sala alle primarie Pd per Milano. Che pena, povera Milano e povera sinistra!". Il Pd respinge le critiche: il responsabile sicurezza Emanuele Fiano le bolla come "irricevibili e disgustose". I cittadini stranieri che hanno votato, sottolinea, sono stati il 4 per cento, e tutti regolarmente residenti a Milano. Intervengono anche le associazioni delle varie comunità straniere: somali, cinesi e sudamericani hanno diffuso una nota congiunta in cui smentiscono che ci sia stato "voto di scambio". Oggi i seggi allestiti erano 9, uno per ogni zona della città, aperti dalle 8 alle 18. I votanti sono stati 7.750. Le code ai seggi sono iniziate poco dopo l'apertura e, sempre in modo ordinato, sono proseguite per raggiungere il picco in tarda mattinata. Come hanno sottolineato gli organizzatori delle primarie le file di oggi sono dovute al fatto che i cittadini di ogni zona avevano a disposizione solo un seggio per il voto, mentre domani saranno 150 quelli aperti in tutta la città, dalle 8 alle 20. In coda per votare si sono messi questa mattina anche i quattro candidati. Il primo è stato Iannetta che ha votato ad un circolo Pd di Porta Genova verso le 10. Stesso orario, le 11, per i due candidati e colleghi nella giunta Pisapia, Francesca Balzani e Pierfrancesco Majorino. La prima ha votato al circolo Pd Molise-Calvairate in Zona 4, accompagnata da marito e figli. "Speriamo che tanti milanesi vadano alle urne - ha commentato la vice sindaco - per arrivare così al cuore delle primarie, che è il protagonismo dei cittadini". Stessa impressione positiva per l'assessore alle Politiche sociali del Comune, Majorino, che ha votato in Zona 5: "Mi pare una grande festa democratica e popolare - ha detto - e a quanto ho visto tutto sta procedendo bene". Alle 12 si è presentato al seggio della zona 1, quella del centro città, anche il commissario unico di Expo, Giuseppe Sala, accompagnato dalla moglie. Per lui la coda è durata circa 40 minuti. "In coda forse mi toglierò un po' di ansia - ha spiegato ai cronisti - del resto per me è la prima volta come candidato. Se le code ci sono c'è da aspettarsi una bella affluenza". Mentre il centrosinistra sceglie il suo candidato il centrodestra attende ma ancora "per pochi giorni". "Se non è questione di ore è questione di giorni - ha spiegato il consigliere politico di Forza Italia, Giovanni Toti, parlando della scelta del candidato a margine di un incontro del partito a Milano -. Subito dopo le primarie arriverà la nostra scelta". Se il candidato sarà l'ex city manager del Comune di Milano, Stefano Parisi, "immagino dovrà essere lui ad accettare definitivamente l'investitura", ha concluso.

La sinistra e le primarie, da Ceppaloni a Savona dieci anni di brogli (o presunti tali). Numeri che non tornano, sospetti di voti acquistati e di preferenze che transitano da un candidato all’altro, denunce alla procura, «truppe cammellate» eterodirette verso questo o quel nome. Da quando, nel 2005, le primarie sono state introdotte anche in Italia, divenendo per il Pd il principale strumento di selezione della propria classe dirigente, lo spettro delle irregolarità è sempre stato dietro l’angolo. E in alcuni casi, quell’angolo, è stato pure superato, scrive Massimiliano Del Barba il 9 marzo 2016 su "Il Corriere della Sera".

1.Ceppaloni, 2005. Pronti, via. Neanche il tempo di lanciare le primarie — salutate dal centrosinistra come strumento trasparente e democratico — ed è già polemica. È l’ottobre di sedici anni fa e l’Unione chiede al popolo del centrosinistra di scegliere il proprio leader. Alla corsa, poi vinta da Romano Prodi, partecipa anche il segretario dell’Udeur, Clemente Mastella. Il quale subito lancia un’accusa di boicottaggio: «Oggi è una bruttissima giornata, hanno negato a me, al mio paese e alla mia gente di andare a votare. Sono le 11 di mattina e già mancano le schede. Se non ci vogliono lo dicano». (Ps: fu lo stesso Mastella, 21 mesi dopo, a far crollare il governo Prodi).

2. Napoli, 2011. Diceva Giambattista Vico che la storia è circolare. E a Napoli, almeno per quanto riguarda le irregolarità durante le primarie, l’eterno ritorno è legge. Se dopo il voto di domenica 6 marzo 2016 è scoppiata al polemica per la distribuzione di monete da un euro fuori dai seggi e l’indicazione di che candidato votare, forse è il caso di tornare al 2011. Anno in cui il Pd campano organizzò le primarie per scegliere il candidato sindaco tra Andrea Cozzolino e Umberto Ranieri (vinse Cozzolino). Consultazioni che indignarono addirittura Roberto Saviano: oltre a presunti brogli e pagamenti, infatti, si parlò anche di possibili infiltrazioni della camorra.

3. Palermo, 2012. Un anno di distanza, qualche centinaio di chilometri più a sud e di nuovo l’ombra dei brogli torna a stagliarsi sulle primarie del Pd. Molti osservatori politici considerano quello di Palermo nel 2012 un caso — negativo ovviamente — da manuale. Anche lì indagini della Procura con una donna beccata in un gazebo del quartiere Zen mentre acquistava voti per un euro durante le consultazioni per individuare, fra Fabrizio Ferrandelli e Rita Borsellino, i “candidati alla candidatura” di sindaco del capoluogo siculo (consultazione poi vinta da Ferrandelli).

4. Brindisi, 2012. Regione che vai, (accuse di) brogli che trovi. Brindisi, dicembre 2012. Nella città pugliese vanno in scena le parlamentarie di Sel e del Pd. Due anni dopo trenta scrutatori vengono accusati di aver inserito negli elenchi dei votanti persone che non si erano mai recate al seggio. Il procedimento è ancora in corso.

5. 2013, la sfida per la segreteria pd. Nel gennaio 2015 alla Procura di Firenze si presenta il quarantatreenne Maurizio Martigli, ex rosticcere (senza lavoro da sei mesi) e tesserato Pd. L’uomo, originario di Firenze, presenta una querela per una presunta compravendita di voti alle primarie per la segreteria del partito del 2013, quelle vinte dall’attuale premier. Scrive Martigli ai pm: «Nel dicembre 2013 fui contattato da un cliente che abitualmente frequentava la rosticceria in cui lavoravo e mi venne proposto un accordo: votare Renzi alle primarie per far sì che le potesse vincere. Tutto questo era pagato con un compenso di 50 euro più 15 per la tessera del Pd».

6. Roma, 2013. Truppe cammellate, in questo caso di rom, ai seggi. Sono le primarie che hanno scelto Ignazio Marino come candidato sindaco di Roma (elezioni poi vinte, e sappiamo come è andata). Qui l’accusa — lanciata dal Movimento 5 Stelle — era di aver pagato (10 euro a testa) 10 mila rom per recarsi a votare. Questa la risposta di Marino: «I rom a Roma sono 7.000, compresi i bambini, e a votare sono state 100.078 persone e poi chi ritiene un flop l’affluenza alle urne avrebbe dovuto farlo anche per i 533 voti del candidato del M5S». Un tema, per altro, ripreso in questi giorni dal commissario straordinario del partito nella Capitale, Matteo Orfini, il quale parlando dell’affluenza nella tornata 2016 ha detto: «La volta scorsa c’era il Pd delle Truppe cammellate di quelli che sono stati arrestati, delle file di rom e quant’altro questi sono dati veri di un partito vero che per fortuna ha ancora tanto lavoro da fare e sta rinascendo».

7. Calabria, 2014. Mille e cinquecento voti in dodici ore. Praticamente una scheda ogni 27 secondi. È quanto accaduto nel 2014 a Diamante, piccolo centro in provincia di Cosenza. Almeno così hanno denunciato alcuni esponenti dem, mostrando i numeri delle consultazioni per scegliere il candidato alla segreteria regionale del Pd.

8. Liguria, 2015. Accusa simile (truppe cammellate) quella lanciata un anno dopo da Sergio Cofferati, candidato sconfitto alle primarie del centrosinistra per decidere il candidato governatore della Liguria. Vinse Raffaella Paita, che poi perse contro Giovanni Toti. «Gravi violazioni delle regole, inimmaginabili — è stata l’accusa di Cofferati —. Mi sono stati segnalati numerosissimi casi di violazioni esplicite, di inquinamento in corso molto pesante, non soltanto col voto della destra ma anche con quello di intere etnie organizzate, come nel caso dei cinesi alla Spezia e dei marocchini a Ponente».

9. Napoli, 2016. Cinque anni dopo, ancora Napoli nel centro del mirino. Napoli, Scampia, lotto T, le immagini di Fanpage mostrano un tizio che invita un elettore a votare Valeria Valente. In un frame successivo consegna una moneta di un euro «per la donazione al partito». Seggio 46, San Giovanni a Teduccio, zona orientale. Gennaro Cierro, capogruppo pd della municipalità, intercetta alcuni conoscenti. Stando a quanto riportato dal sito c’è uno scambio di denaro. Seggio 58, Piscinola, area nord: alcune persone distribuiscono monete ai votanti. Seggio 61, Scampia (seggio in cui ha vinto Bassolino, mentre negli altri tre Valente), sarebbe ripreso ancora uno scambio di denaro. Seggio 45, San Giovanni a Teduccio, il consigliere comunale Tonino Borriello parrebbe elargire un euro a suoi conoscenti. In poche ore il video diventa virale.

LA DEMOCRAZIA A MODO MIO.

DEMOCRATICI SOLO A PAROLE. Mercoledì 9 novembre 2016. Elezione Presidente degli Stati Uniti d’America.

Come si elegge il presidente degli Stati Uniti, scrive il 7 novembre 2016 "Il Dubbio". Regole e procedure per la vittoria: elezione indiretta, collegi elettorali e insediamento. Queste le procedure di voto negli Stati Uniti per l'elezione del presidente. 

COLLEGIO ELETTORALE. L'elezione del presidente degli Stati Uniti è indiretta. Formalmente l'inquilino della casa Bianca è nominato il 19 dicembre (il primo lunedì dopo il secondo mercoledì del mese di dicembre) da 538 grandi elettori (i delegati, pari ai 435 deputati, ai 100 senatori e a 3 espressione della capitale) espressi dai 50 Stati in proporzione alla popolazione: la California che a 38,8 milioni di abitanti è il più politicamente pesante perchè ne assegna 55, mentre lo sterminato Alaska, dove vivono però solo 736.000 persone, ne attribuisce solo 3. Vince chi ottiene almeno 270 voti elettorali. Tranne che in Nebraska e in Maine, dove vige un sistema proporzionale, negli altri Stati chi vince anche di un solo voto popolare conquista l'intero pacchetto di grandi elettori. Caso emblematico resta quello delle elezioni del 2000. Sedici anni fa il democratico Al Gore, che aveva conquistato la maggioranza del voto popolare (50.999.897 voti contro i 50.456.002 del rivale repubblicano George W. Bush), perse per soli 537 voti gli allora 27 grandi elettori della Florida (oggi sono 29). Il tutto al termine di una lunga battaglia legale durata 6 settimane che vide a Bush assegnati 271 grandi elettori, uno in più della soglia di 270, e 266 a Gore.

IMPASSE. In caso di parità di grandi elettori tra i due candidati la scelta, prevede il XII emendamento approvato nel 1804, è affidata al Congresso: la Camera sceglie il presidente e ogni Stato esprime un voto; il Senato sceglie il vicepresidente. Lo stallo si verificò due volte nella storia americana (quando il numero di gradi elettori non era ancora di 538): nel 1800, quando Thomas Jefferson (il terzo presidente) e Aaron Burr ottennero ciascuno 73 voti e Jefferson vinse solo al 36esimo ballottaggio. E nel 1824 Andrew Jackson ottenne 99 voti elettorali, John Quincy Admas (che aveva in effetti avuto più voti popolari) 84, William Crawford 41 e Henry Clay 37, dal momento che nessuno aveva raggiunto la maggioranza di 131, decise la Camera e vinse Jackson al primo ballottaggio. 

ELECTION DAY. La data delle elezioni è fissata dalla Costituzione Usa nel martedì successivo al primo lunedì del mese di novembre quattro anni dopo l'ultima elezione del presidente. Per candidarsi sono necessari tre requisiti imprescindibili: avere almeno 35 anni, essere nati negli Stati Uniti e risiedervi da almeno 14 anni. 

INSEDIAMENTO. Chi vincerà la sfida dell'8 novembre si insedierà alla Casa Bianca a mezzogiorno del 20 gennaio 2017. Il presidente giura nelle mani del presidente della Corte Suprema con la stessa formula usata da George Washington nel 1789: "Io solennemente giuro che svolgerò fedelmente l'incarico di presidente degli Stati Uniti e, al meglio delle mie capacità, preserverò, proteggerò e difenderò la Costituzione degli Stati Uniti".

Baba Vanga, la profezia nerissima: Obama ultimo presidente. Cosa vuol dire, scrive il 9 novembre 2016 “Libero Quotidiano”. Secondo Baba Vanga, la mistica bulgara morta nel 1996 dopo 50 anni dedicati alla chiaroveggenza, Barack Obama sarebbe stato l'ultimo presidente degli Stati Uniti d'America: "Il 44° presidente degli Stati Uniti sarà afroamericano e sarà l'ultimo della loro storia". Cosa voleva dire la veggente? Che Donald Trump sarà un dittatore? Che sarà un fantoccio di Putin? O forse che durerà troppo poco? Difficile interpretare in questo momento le sue previsioni. Di certo Baba Vanga ha previsto molti eventi che poi si sono avverati come lo tsunami del 2004, l'attentato dell'11 settembre in America, il conflitto in Siria, il disastro di Chernobyl. Per il 2016 ha previsto poi la fine dell'Europa (Brexit?) e un'invasione dell'Europa da parte degli estremisti musulmani (la serie di attentati terroristici islamici in Francia e Germania). Per gli anni a venire, Baba Vanga ha previsto: 2018 la Cina diventerà una potenza mondiale, scioglimenti ghiacciai nel 2045, tra il 2170 e il 2256 una colonia su Marte vorrà rendersi indipendente dalla Terra; avremo una capsula del tempo entro il 2340, dal 4674 l'umanità e gli alieni saranno un unico popolo. L'Universo finirà nel 5079.

Nostradamus aveva previsto tutto: "Donald Trump presidente, poi la fine", scrive il 9 novembre 2016 “Libero Quotidiano”. Nostradamus, il veggente che ha anticipato nelle sue quartine la rivoluzione francese, Hitler, la bomba atomica e gli attentati dell'11 settembre, aveva previsto anche le vittoria di Donald Trump. Secondo i sostenitori dell'attendibilità delle visioni di Nostradamus, nella Prima centuria (Quartina 40) c'è scritto che il "false trumpet" (Trump, appunto) da presidente degli Stati Uniti "farà sì che Bisanzio (per molti la Grecia, Paese-chiave nella rotta dei migranti, ndr) cambi le sue leggi". Nella Quartina 57 si legge: sempre il false trumpet "provocherà grande discordia. Un accordo si spezzerà" e, con riferimento al "volto ricoperto di latte e miele giace a terra", molti hanno pensato a Israele che, secondo la Bibbia (Numeri 13, 27-29) e la Torah ebraica, è il "Paese dove scorre il latte e il miele". E ancora, la Quartina 50: "la Repubblica della grande città", intesa come Stati Uniti d'America, sarà portata "by trumpet" a impegnarsi in" costose operazioni militari. E se ne pentirà (the city will repent).

La profezia dei Simpson nel 2000: "Donald Trump sarà presidente degli Stati Uniti d'America". Donald Trump presidente degli Stati Uniti? Nel 2000 i Simpson lo avevano predetto. Nell'episodio intitolato "Bart to the Future", il maggiore dei fratelli Simpson ha l'opportunità di dare un'occhiata alla sua vita da adulto. Scopre di essere un perdente, come il padre, mentre la sorella Lisa è diventata la prima presidente Usa donna. "Come sapete, abbiamo ereditato una bella crisi di bilancio dal presidente Trump", si sente nella scena successiva.

Dilaga la protesta anti Trump dei "democratici" solo a parole. In America scende in piazza l'odio. I finti democratici non riconoscono il voto popolare. E marciano contro il nuovo presidente (eletto democraticamente), scrive Andrea Indini, Giovedì 10/11/2016, su "Il Giornale". Sono democratici solo a parole. Perché non rispettano il voto popolare, perché schifano che Donald Trump possa essere stato votato legittimamente da tutti gli americani, perché non accettano che il loro candidato (Hillary Clinton) non possa essere stato eletto. Così, questi finti democratici sono scesi in piazza in tutta l'America al grido "Not my president". Non lo riconoscono, insomma. E sputano su ogni singolo voto che è stato depositato nell'urna e, quindi, su ogni singolo americano che ha voluto dare fiducia al tycoon. È bastato realizzare che Trump avesse vinto davvero le elezioni e che quindi fosse il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti perché i finti democratici iniziassero caroselli, proteste e sit in. Fosse successo il contrario, avesse cioè vinto la Clinton, i repubblicani non avrebbero certo sfilato lungo le strade d'America gridando "Not my president". Ma questi sono, appunto, democratici. E così hanno inscenato decine di manifestazioni anti Trump in diverse città degli Stati Uniti. Da New York a Philadelphia, da Boston a Chicago. E così via: Portland, San Francisco e Washington. A Manhattan sono state arrestate una trentina di persone. A Seattle, in una sparatoria nello stesso quartiere in cui si svolgeva la protesta, sono rimaste ferite cinque persone, una delle quali in modo critico. La polizia della città ha, tuttavia, precisato che la protesta e la sparatoria, "una qualche forma di lite personale", non sembrano essere episodi collegati. L'autore della sparatoria è, però, riuscito a fuggire. Le parole di Trump, appena incassato il risultato pieno della vittoria, sono state distensive. "Sarò il presidente di tutti gli americani", ha detto invitando anche chi non lo ha votato a lasciarsi indietro i rancori e le divergenze. Ma i democratici sono per natura rancorosi se le cose non vanno come piace a loro. È così in tutto il mondo. Fa parte del loro dna. "Not my president" è il nuovo slogan scandito dai manifestanti scesi in piazza, ma anche l'hashtag sui social dedicato alla protesta contro l'elezione del candidato repubblicano. A New York la protesta si è svolta lungo la sesta avenue, fino alla Trump Tower. "No Trump! No KKK! - hannop urlato i manifestanti per le strade di Chicago - no agli Usa fascisti!". "He Made America Hate Again", il banner di uno dei manifestanti a Boston giocando sullo slogan usato da Trump in campagna elettorale. Eppure la Clinton è stata sportiva dopo la sconfitta: "Dobbiamo accettare questo risultato... Donald Trump sarà il nostro presidente. Gli dobbiamo una mentalità aperta ad una chance". Gli elettori del Partito democratico, invece, non lo sono. A Washington sono scesi in piazza, diretti alla Casa Bianca, persino un centinaio di liceali.

Trump rovina la festa agli ultras di Hillary, Bruno Vespa mattatore triste, scrive il 10 novembre 2016 Fabio Camillacci su "L'Altro Quotidiano". L’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, arrivata contro tutti i pronostici della vigilia, ci ha insegnato molte cose. Che i media planetari di oggi (giornali, radio, tv e web) sono sempre più schierati, che i sondaggisti non ne azzeccano più una (Brexit docet) e ciò che è più grave, ahimè, che i giornalisti si sono trasformati in autentici ultras: fideisti, fondamentalisti, mai obiettivi tranne rare e preziose eccezioni. Piccola riflessione sui sondaggi: comincio seriamente a pensar male. Siamo proprio sicuri che siano sbagliati? O sono semplicemente truccati per influenzare e quindi pilotare un’elezione o un referendum? Forse si diceva che avrebbe vinto il “Remain” per invitare i cittadini britannici a non votare “Brexit” e forse Hillary Clinton veniva data in vantaggio per invitare il popolo americano a votare per lei, la presunta favorita delle masse. Ritengo assurdo ad esempio averla sempre considerata vincitrice dei duelli televisivi che hanno preceduto l’Election Day: duelli di basso profilo finiti al massimo con semplici “pareggiotti”, a volte con reti, altre volte a reti bianche. Errori clamorosi o premeditazione? In entrambi i casi, c’è da preoccuparsi. Nessuno riesce più a capire veramente le intenzioni di un popolo, a intercettarne le istanze, le necessità, le intenzioni di voto. Trump alla fine ha vinto contro tutti i pronostici, contro tutti i media (CNN e Fox News in primis) e contro i “radical chic” italiani e mondiali. Ma soffermiamoci sui guasti di casa nostra. Porta a Porta: un triste teatrino pro Hillary. Bruno Vespa colpisce ancora. Da Forlani a Renzi, passando per Berlusconi e il famoso contratto con gli italiani, Vespa invecchia, perde il pelo, ma, non il vizio: schierarsi sempre dalla parte del Potere, quello con la “p” maiuscola. Pregustando la vittoria, grazie ai sondaggi e all’immenso schieramento dei media in favore della Clinton, ha ovviamente scelto di parteggiare per l’ex first lady, l’ex Segretario di Stato americano, la donna forte dell’establishment a stelle e strisce. Ci viene un sospetto: forse stavolta il buon Vespa si è schierato con Hillary, anche per piaggeria nei confronti del presidente del Consiglio Matteo Renzi, reduce dall’indottrinamento ricevuto alla Casa Bianca dalla coppia Barack-Michelle: tifa per la Clinton. Una coppia che ha pure consigliato al premier di dare più spazio a sua moglie Agnese. C’è una piccola differenza però tra Obama e Renzi: Barack è stato eletto per due volte Presidente degli Stati Uniti raccogliendo in due tornate quasi 140 milioni di voti, Renzi no. Renzi non è stato eletto dal popolo, è stato “nominato” dall’ex Presidente della Repubblica Napolitano. Quindi, caro ex sindaco di Firenze, non prenda in parola Obama; anche perchè il redde rationem potrebbe essere dietro l’angolo. Nel frattempo, Renzi, la Boschi e tutto il cerchio magico della maggioranza dem, si sono trasformati in fan sfegatati di Hillary Clinton, salvo poi correre ai ripari a elezione di Trump avvenuta. Vespa e i suoi “pupi siciliani”. Porta a Porta di martedi 8 novembre sembrava più il “Grande Fratello Vip” dove non esistono vip, che una trasmissione di approfondimento e servizio. A proposito, il servizio pubblico Rai che fine ha fatto? Sono anni che latita, però, continuano a farci pagare il canone. Paghiamo il canone per trasmissioni da “tv spazzatura”. Uno studio televisivo abilmente trasformato in una sorta di Curva Sud scatenata nel tifo per Hillary Clinton, la vincitrice erroneamente annunciata. Uno studio trasformato in pollaio, in cui dalla tarda serata all’alba e oltre, sfila chiunque: renziani, politici, dinosauri della politica come Casini, diplomatici, professori universitari, giornalisti più o meno competenti e tante, tante donne. Tutti ovviamente tifosi sfegatati di Hillary, tranne qualche eccezione tipo La Russa, la Santanchè e pochi altri. Mosche bianche in studio. Vespa fa il direttore d’orchestra: stimola, istiga, riprende i suoi ospiti, li sgrida perchè stanno esagerando nel tifo per la Clinton (!?), cita aneddoti da “Guerra Fredda”, da “Compromesso Storico”. Incredibile. Ma perchè? E per chi poi? Per una come Hillary Clinton che sta nella “stanza dei bottoni” da anni, che fa parte di un’altra “Dynasty” come quella dei Kennedy o dei Bush. Per la donna paladina del femminismo (!?), per la Giovanna d’Arco del terzo millennio dell’universo femminile (!?), chiamata a battere lo spauracchio Donald Trump. Uno che peraltro secondo loro partiva battuto, che non sarebbe mai potuto diventare Presidente degli Stati Uniti perchè “sessista” (altro neologismo usato con troppa disinvoltura), evasore fiscale, cialtrone, incapace, buzzurro e chi più ne ha più ne metta. Dall’entusiasmo per i primi numeri elettorali, al de profundis. All’arrivo dei risultati è Vespa show. La Clinton è data al 70% in uno stato con appena 3 seggi scrutinati? E Bruno gongola cominciando a ipotizzare una valanga di voti per la candidata democratica. Arriva un dato analogo favorevole a Trump? In questo caso Vespa sottolinea che si tratta di pochissime sezioni. A un certo punto poi, quando lo “tsunami” Trump diventa concreto, il nostro va completamente in tilt, cominciando a dare i numeri: è proprio il caso di dirlo. Moltiplica i “Trump rischia di vincere” e i “peccato” in riferimento ai deludenti risultati di Hillary. Buca i momenti salienti della serata, cioè l’assegnazione di Stati decisivi, mandando in onda servizi patinati in cui viene letteralmente esaltata la figura della Clinton, proprio mentre la stessa riceve bastonate repubblicane dalle urne. Ribadiamo: ma perchè tutto questo ridicolo spettacolo? Sulle altre reti televisive non è andata meglio. Mentana su La 7 e Rainews 24 hanno offerto un ottimo servizio dal punto di vista giornalistico senza però rinunciare a fare il tifo per la Clinton, inviati e redattori compresi. Il direttore Di Bella e Friedmann in lutto per la sconfitta di Hillary. Addirittura in studio su La 7 c’è stato pure chi ha paragonato la vittoria di Trump al crollo del Muro di Berlino (avvenuto sempre il 9 novembre ma del 1989) e Mentana gli ha dato ragione. Follìa totale insomma, chiacchiere in libertà. La chicca dell’Election Day vissuto in salsa de ‘noantri, spetta però a Piero Sansonetti che in un talk-show pomeridiano ha avuto una crisi mistica e alzando gli occhi al cielo ha esclamato: “Signore ti prego non far vincere Trump!”. Senza parole.

Trump: la sconfitta dei giornalisti-tifosi, degli inviati nei grattacieli e degli analisti da salotto, scrive il 09/11/2016 Guido Paglia su “L’Ultima Ribattuta”. Che goduria guardare in tv le facce delle vedove dei vedovi di Bill e Hillary Clinton dopo le legnate rimediate nelle elezioni USA. E che sghignazzate a rileggere oggi le previsioni degli “esperti”: giornalisti, analisti, diplomatici e naturalmente sondaggisti. Da rotolarsi su tutti i pavimenti dei presuntuosi media americani ed europei. Ancora una volta, l’Italia si è particolarmente distinta, non c’è che dire. Da mesi i nostri giornalisti-tifosi ci martellavano sull’ineluttabilità della vittoria della Clinton, riciclando come analisi autonome le loro discutibilissime opinioni su Donald Trump. Nessuno che abbia avuto l’umiltà di girare davvero per gli Stati Uniti per tastare il polso degli elettori. Al massimo, ci hanno concesso di ammettere che neppure la moglie di Bill era la candidata democratica migliore. E finché hanno potuto, hanno tifato per il candidato più di sinistra, cioè Bernie Sanders. Facendo finta di ignorare che con lui la zuppa sarebbe stata ancora peggiore. Faziosi e incompetenti, oltre ogni limite deontologico. Ce ne fosse stato uno con il coraggio di sottolineare come l’aspirante prima Presidenta (così anche la Boldrini sarà contenta) Usa si sia sempre tenuta ben stretta il cognome del popolare marito, un po’ adultero, ma utilissimo per fare carriera. Qualcuno si ricorda che lei si chiama Rodham? Macché, Clinton nella buona e nella cattiva sorte. Appunto. E avete per caso sentito qualcun altro criticare il Presidente (in carica) Barack Obama e la sua dolce metà per aver fatto da agit-prop per quella signora che fino a pochi mesi fa odiavano e disprezzavano. Per carità, intoccabili. Peccato che proprio i disastri di Obama abbiano spinto gli americani ad accettare e votare perfino un personaggio come Trump, che certo non si è presentato nel migliore dei modi. Almeno per quanto riguarda gli standard europei. Pensate che adesso i giornaloni e i media tv richiameranno in patria i loro espertissimi corrispondenti, per spedirli al desk o in qualche lontana provincia dell’impero? Illusi. Al massimo li trasferiranno a Londra (Brexit docet), o ancora meglio a Parigi, dove potranno illuminarci sulle presidenziali francesi del 2017 e sull’ulteriore crescita del Front National di Marine Le Pen. E poi piangono perché la gente non compra più i giornali e i giovani si informano solo sulla rete. Ben gli sta. Perché di faziosità e di incompetenza si può benissimo morire.

La prima pagina senza pudore: Pd vergognoso, lo sfregio contro Hillary, scrive il 9 novembre 2016 “Libero Quotidiano”. Il quotidiano l'Unità ha preso una grande cantonata durante l'ultima notte. Mentre dagli Stati Uniti lo spoglio dell'Election day procedeva a rilento, i redattori del quotidiano un tempo gramsciano dovevano chiudere l'edizione del giorno e tornare a casa. I dati a disposizione nel cuore della notte non potevano indicare un vincitore, ma che importa: queste elezioni per i compagni dell'Unità erano già state vinte da Hillary Clinton. E allora perché non piazzare l'ex segretario di Stato in prima con un bel titolazzo-gufata "la notte di Hillary". E che nottataccia.

Accuse deliranti, sfottò violenti e poi silenzio: Zucconi l'ha presa bene, scrive il 9 novembre 2016 “Libero Quotidiano”. Vittorio Zucconi, emblema dell'intellighenzia sinistra e firma di Repubblica, nonché esperto di Stati Uniti e dintorni, ha smesso di Twittare intorno alle 5 del mattino, quando ormai era chiaro che le elezioni le avrebbe vinte Donald Trump. Già, troppo dura la botta, per lui. Lo si capisce anche dal rosicamento-maximo che trapelava dal suo account Twitter. Nella foto, uno screenshot degli ultimi cinguettii: accuse deliranti a Vladimir Putin, sfottò altezzosi a chi scordava un apostrofo e la resa ("il sogno di vedere la bandiera rosa finalmente issata sulla Casa Bianca torna nel cassetto per almeno 4 anni).

Il delirio degli irriducibili che ora schiumano rabbia. L'ascesa del «gorilla» Trump scatena lo psicodramma della sinistra chic: una catastrofe peggio del terremoto, scrive Paolo Bracalini, Giovedì 10/11/2016, su "Il Giornale". È in corso un vero dramma tra i democratici italiani dopo la tranvata clamorosa arrivata dagli Usa. Giornalisti liberal filo Pd, tifosi della Clinton, «esperti» di politica americana (col cuore a sinistra) che dopo aver twittato pronostici trionfali di vittoria e insulti al «gorilla» Trump sono spariti dai radar, generando profonda ansia tra i loro follower. «Qualcuno ha notizie di Vittorio Zucconi?» si chiedono su Twitter, in attesa che il corrispondente di Repubblica dia segni di vita, dopo aver descritto per giorni il tycoon come un troglodita sessuomane («Hillary sa cosa sono i codici nucleari. L'altro pensa che siano numeri di telefono di modelle e starlet disponibili»). Compatibilmente col fuso orario, Zucconi poi riappare, afflitto per la discesa nel baratro degli Usa come tutti gli altri vedovi inconsolabili della stagione Obama. Tipo Beppe Severgnini, americanista (ma anche anglista) del Corriere traumatizzato dopo la valanga Trump. Consegnare a lui l'America, assicurava Severgnini, «è come affidare lo Space Shuttle a un gorilla», a nessuno verrebbe in mente. Tranne agli elettori americani. A questo punto, l'unica è pregare: «God bless America - twitta la penna brizzolata - Dio benedica l'America. E, già che c'è, butti un'occhiata a tutti noi...». Lapidario Carlo De Benedetti, l'imprenditore tessera numero uno del Pd: «Trump è un imbroglione, dice di valere due miliardi di dollari ma ne vale 200 milioni». Dopo le magre figure fatte con la Brexit, ripetersi con le presidenziali Usa non è il massimo. Fortuna che almeno Gad Lerner ha un capro espiatorio cui attribuire la cantonata pubblicata sul suo sito alla vigilia del voto: «Dieci motivi per dormire ragionevolmente tranquilli e svegliarsi senza Trump». La profezia diventa virale sui social, che sbeffeggiano Lerner (nuovo acquisto della RaiTre a guida Bignardi), finché il giornalista è costretto a intervenire, scaricando la colpa sul giovane collaboratore («Di previsioni sbagliate ne ho collezionate parecchie - scrive a Dagospia - ma questa va invece attribuita al suo legittimo autore, bravo e in questo caso sfortunato: il mio amico Andrea Mollica»). In pieno shock, con sintomi evidenti, la deputata Pd Ileana Argentin che la spara grossa: «Questa elezione è una tragedia, non potevamo avere una notizia più brutta, dev'essere che il 2016 è un anno bisestile. Incredibile, una disgrazia dopo l'altra. Per me l'elezione di Trump è peggio del terremoto francamente» azzarda la parlamentare Pd, prima di affrettarsi a precisare - dopo le polemiche sul paragone col sisma - che «i terremotati sono nel mio cuore, non si può strumentalizzare quel che ho detto». Effetti collaterali della vittoria di Trump sui nervi sensibili della sinistra italiana. Tradita ancora una volta dai sondaggi, pompati dai media amici. «Tiè, beccate sta sventagliata blu» (il blu è il colore dei Democratici Usa) ha twittato improvvidamente Filippo Sensi, portavoce del premier Renzi, davanti ai primi exit poll che sembravano confermare la mappa del voto favorevole alla Clinton. Tutto sbagliato. Mancava l'esperienza di Walter Veltroni, un altro democratico listato a lutto per Trump alla Casa Bianca. L'ex leader del Pd, sull'Unità, aveva consigliato prudenza: «I sondaggi ormai sono cinquine al lotto». Quel che è certo, spiegava Veltroni, è che la sua vittoria sarebbe una catastrofe planetaria: è «il candidato più estremista che sia mai apparso sulla scena delle elezioni americane», con lui si apre «una grave crisi delle sue istituzioni democratiche», tanto che Veltroni sente ormai chiaramente «scricchiolare la democrazia», nientemeno. La soluzione? Il renziano Fabrizio Rondolino, nell'attesa, individua il problema: «Il suffragio universale comincia a rappresentare un serio pericolo per la civiltà occidentale». Luciana Littizzetto, comica politicamente schierata e profumatamente retribuita dalla Rai, sente invece altri tipi di rumori, visto che pubblica - con la consueta eleganza - la foto di un gabinetto con il volto di Trump sul muro e un water al posto della bocca del tycoon: «Questo è quello che ci riserva il futuro, buongiorno un corno». Messaggio quantomeno più incisivo di quello di Laura Boldrini, che si dice «sorpresa per l'esito del voto negli Stati Uniti», ma da femminista ci tiene ad assicurare che «Hillary non è stata sconfitta perché donna ma perché percepita come espressione dell'establishment». Si consola invece, con una lettura originale, l'ex piddino Stefano Fassina, convinto che la vittoria di Trump è «la vittoria degli operai contro il neoliberismo». Convinto lui. Meglio così che inconsolabili.

Sorpresa, Severgnini torna in vita dopo la batosta e sputa sopra a Berlusconi, scrive il 9 novembre 2016 “Libero Quotidiano”. Tranquilli, Beppe Severgnini è vivo e lotta insieme a noi. L'espertone di questioni americane per il Corriere della sera era praticamente scomparso da oltre 12 ore, ben prima che Donald Trump trionfasse alle presidenziali Usa. Qualcuno potrebbe essersi preoccupato del silenzio che ne è seguito sul profilo Twitter del giornalista. I più fedeli hanno tenuto il fiato sospeso fino alle 7.20 (ora italiana) perché il nostro beniamino tornasse a cinguettare con una preghiera straziante rivolta a Dio, affinché potesse proteggere l'America da un minaccioso Trump seduto alla scrivania della Sala ovale "e già che c'è, butti un'occhiata a tutti noi...". La delusione sembra essere stata forte, ma la stanchezza per la nottata passata a seguire lo spoglio si è fatta sentire anche nelle dita del nostro zazzeruto scrittore. Troppe ore in piedi per scrivere un commento su quanto gli stesse accadendo davanti agli occhi, così ha pensato bene di riciclare un suo pregiatissimo pezzo pubblicato nientemeno che sul sito del New York Times del settembre 2015. Non un articolo a caso, ma un bel confronto tra il "demagogo" Silvio Berlusconi e Donald Trump. Severgnini ci aveva provato a mettere in guardia gli americani dalla pericolosissima minaccia che gli italiani avevano già conosciuto e dalla quale erano miracolosamente sopravvissuti. E invece niente, testardi questi americani che non lo hanno voluto ascoltare.

Giovanna Botteri, la più ostinata delle giornaliste contro Donald Trump, scrive “Libero Quotidiano" il 10 novembre 2016. Non solo Hillary Clinton: dal voto americano escono distrutti anche giornalisti e sondaggisti. E non solo quelli a stelle e strisce. Sui nostri quotidiani, infatti, autorevoli commentatori hanno speso lunghe giornate e fiumi d'inchiostro per spiegarci che Donald Trump aveva già perso. E l'Oscar per la peggiore informazione possibile, come nota con un pizzico di ferocia Italia Oggi, forse lo conquista Giovanna Botteri, la storica inviata della Rai3, la quale ha cannoneggiato per mesi contro il "magnate sfrontato e offensivo" Trump, l'uomo che si sarebbe piegato al trionfo inevitabile di Hillary, per la quale al contrario sprecava encomi e toni enfatici. Per la Botteri, infatti, la Clinton non era tanto simbolo di banche e alta finanza, ma nume tutelare delle minoranze. Una lunga campagna elettorale, quella di Giovanna, dall'esito disastroso. Una campagna elettorale dopo la quale dovrebbe meditare in una sorta di buen retiro...

Il ciclone Trump. Il naufragio dei giornalisti ignoranti e una certezza: Renzi porta sfiga, scrive Augusto Grandi il 9 novembre 2016 su "Destra.it". Le conseguenze del trionfo di Trump alle presidenziali americane si inizieranno a comprendere quando verrà scelta la squadra che contornerà il presidente. Si vedrà, allora, quali promesse verranno mantenute e quali accantonate. Ma le conseguenze che non vedremo mai, purtroppo, sono quelle che dovrebbero trarre i troppi inviati, corrispondenti, analisti, esperti, conduttori che riempiono spazi sui giornali italiani e blaterano in tv. Ancora una volta non hanno capito nulla e ancora una volta non si sono vergognati e stanno continuando ad occupare spazi ed a blaterare in tv. Che fossero tutti schierati con la Clinton è un problema loro: solo gli ignoranti credono ad un giornalismo italiano super partes. Ma se il tifo è ormai legittimo, l’incapacità di comprendere non è altrettanto legittima. A maggior ragione se sei una giornalista strapagata dalla Rai con i nostri soldi del nostro canone. Sei pagata per capire, non per tifare. E adesso, con il canone, dovremo pagare le damigiane di Maalox necessarie per metter fine ai dolori della signora delle cattive notizie (incapace di sorridere anche quando annuncia una vincita al superenalotto)? Gli altri, almeno, sono strapagati con i soldi di chi si ostina ad acquistare giornali sempre meno credibili, sempre meno documentati. I Severgnini, i Riotta, i Lerner avranno il buon gusto di tacere? I Gramellini, i Fazio la smetteranno di blaterare? Pia illusione. Non è colpa loro se Clinton ha perso. La colpa è di questo stramaledetto popolo che crede ancora nella democrazia, che utilizza il suffragio universale per scegliere un candidato invece di farselo imporre da una fondazione, da una loggia, dal gruppo di giornalisti politicamente corretti. Un popolo bue che vota male, che non si lascia guidare dalle star di Hollywood. Ma come si permettono? Madonna sostiene la Clinton, promettendo performances sessuali, e loro la snobbano e votano Trump? Inaccettabile. Bisogna tornare al voto per censo. E poi la divisione territoriale diventa fondamentale. Le città politicamente corrette, dove vivono gli oligarchi, scelgono Clinton. Le campagne dove lavorano i bruti, dove vivono i rozzi che zappano invece di dedicarsi a visitare mostre di arte d’avanguardia, scelgono Trump. Già da queste divisioni appare chiaro che è necessario intervenire subito. Togliendo il diritto di voto ai campagnoli, riservandolo agli urbanizzati con reddito particolarmente elevato. E togliendolo anche agli afroamericani, che non sono andati a votare, così imparano. Oddio, togliere il diritto di voto a chi non vota non è particolarmente geniale, ma è meglio non dirlo a Rondolino. Ed i maledetti latinos? I grandi inviati italiani dei giornali e delle tv avevano annunciato la sicura vittoria di Clinton perché si stava registrando un boom di votanti latinos. E invece questi ingrati tendenzialmente fascisti hanno votato in massa, ma per Trump. Ne avessero azzeccata una, i servi dell’informazione di palazzo. Ed hanno pure sorvolato sull’effetto sfiga del bugiardissimo, volato negli Usa a portare il suo sostegno a Clinton, con gli stessi risultati ottenuti con il suo sostegno a Nibali o alla Pellegrini.

Trump: e le stelle di Hollywood stanno a guardare, scrive Maurizio Acerbi il 9 novembre 2016 su “Il Giornale”. E adesso come la mettiamo con tutti gli endorsement dei divi di Hollywood? Con la lista delle 167 star che hanno appoggiato pubblicamente la Clinton, la candidata alla Casa Bianca con il maggior numero di testimonial della storia? Le stelle, per quattro anni, staranno a guardare, interrogandosi sul loro reale appeal sulla gente, pari a zero. Da DiCaprio a Clooney, da De Niro a Hoffman, da Damon a Penn (e mi fermo qua), tutti hanno fatto a gara per salire sul carro del presunto vincitore, ritrovandosi a piedi. A questi, aggiungeteci i “grandi elettori” del mondo musicale, sorpresi, sconvolti, increduli (come, ad esempio Madonna, che la vittoria di Trump ha lasciato a bocca aperta) e vedrete che lo scorsa notte si è materializzata una verità ai più invisa: lo star system conta in politica come il due di coppe quando la briscola è bastoni. A cosa è servito mandare messaggi sempre più espliciti e meno subliminali nei film? Mostrare thriller con (casualmente, of course) protagoniste candidate alla presidenza donne, ovviamente positive (mi riferisco a La notte del giudizio: Election Year), che avevano la meglio sul becero candidato maschio guerrafondaio e violento? E che dire del film strappalacrime che racconta la storia del primo appuntamento tra Obama e la sua Michelle (da noi esce la prossima settimana)? Insomma, loro ci hanno provato, fino alla fine, ma gli americani hanno scelto diversamente. Andranno a vedere i loro film, li apprezzeranno come attori, ma finisce qua. Quando si tratta di decidere del proprio destino politico, non c’è divo che tenga. Che Hollywood se ne faccia una ragione.

Madonna resta a bocca asciutta e Hollywood ora non ride più. Dalle minacce alle proposte di sesso orale, le star le hanno provate tutte per frenare la corsa del tycoon, scrive Paolo Giordano, Giovedì 10/11/2016, su "Il Giornale". In fondo la più coerente è stata Lady Gaga che ieri, dopo aver appoggiato Hillary Clinton, è malinconicamente andata a protestare davanti alla Trump Tower di New York. Ma tutti gli altri nisba. Nessuno, compresa la generosa Madonna che aveva promesso più sesso orale per tutti gli elettori di Clinton, fino a ieri sera ora italiana ha fiatato dopo lo sberlone elettorale della loro protegèe. E dire che in questi ultimi dodici mesi erano scesi in campagna elettorale manco fossero candidati. Molti in modo garbato, come negli ultimi giorni Beyoncé o Rihanna o Meryl Streep o Katy Perry. Altri in maniera molto meno civile come un insolitamente arrabbiato Robert De Niro che non ha usato giri di parole: «Trump è un maiale, lo prenderei a pugni, mi fa arrabbiare che questo paese sia al punto di consentire a quest'idiota di arrivare sin qui». Noblesse oblige. Nel complesso, la lista dei clintoniani è lunghissima: da Leonardo Di Caprio, Richard Gere, Jessica Alba, Ben Affleck fino a Jennifer Aniston, Justin Timberlake, Bruce Springsteen, Jon Bon Jovi e via dicendo. Uno spiegamento di grandi nomi che, secondo gli analisti, non ha spostato gli equilibri di voto. Né stavolta né nelle altre campagne elettorali. L'unica eccezione (e sono sempre gli analisti a confermarlo) è stato l'endorsement di Oprah Winfrey nel 2007 a Barack Obama. E lo conferma anche la schiera di vip che nel corso di questi ultimi mesi si è espressa a favore di Donald Trump. La stampa americana, sempre assai snob quando gli conviene, l'ha definita una «C-List», ossia una lista di serie C, nonostante il nome più grande tra i sostenitori Vip di The Donald fosse in realtà il più famoso oltre che il più blasonato di tutti: Clint Eastwood, che oltretutto ha incontrato più volte Trump nel corso del 2016. Tra gli altri supporter si contano Puff Diddy (vero nome Sean Combs), ex di Jennifer Lopez che invece ha tifato per Hillary, poi Mike Tyson, Chuck Norris, il leader dei Kiss Gene Simmons, il giocatore di football Tom Brady, l'eroe della chitarra rock Ted Nugent, la Tila Tequila famosa per il suo decollète, e uno dei personaggi cult della tv anni Settanta e Ottanta: Lou Ferrigno, celebre per L'incredibile Hulk nonché due volte Mister Universo. Due metri e 137 chilogrammi di peso che sono arrivati a dire: «Donald è il migliore». Naturalmente una frase accolta tra i sorrisi di sufficienza della grande stampa. Dopotutto, la «C-List» non spostava voti. Ma solo ieri si è confermato che non ne ha spostato neanche la roboante «A-List». E ora che Clinton ha perso e Clint ha vinto, si fanno i conti. Ovviamente è iniziato il cosiddetto «band wagoning», ossia quel fenomeno tipicamente italiano di salire sul carro del vincitore. Negli Stati Uniti, Lady Gaga a parte, si mette in pratica per lo più con il silenzio, a meno di non essere come Susan Sarandon che, odiando pubblicamente Hillary Clinton, ha subito espresso il suo favore per l'altro candidato democratico Bernie Sanders e poi ha evitato altre dichiarazioni. Una situazione più o meno simile a quella verificatisi dopo l'elezione di George W. Bush, quando alcune rockstar (tra le altre anche Pearl Jam, Neil Young e REM) avevano addirittura organizzato un tour musicale negli Stati Uniti contro il candidato repubblicano. Centinaia di migliaia di biglietti venduti ma zero influenza alle urne. Idem adesso. Con una differenza. Si è creata una «Zero-List», ossia la lista delle celebrità come Madonna o Bruce Springsteen o Robert De Niro che risultano ininfluenti ai fini elettorali. Per loro probabilmente è stato l'ultimo endorsement presidenziale e, senza dubbio, l'ultimo apertamente invocato dai candidati. A conferma che, per restare credibile, il pop deve essere popular e trasversale. Se smette di esserlo e si schiera apertamente, dimostra di non avere più alcun peso specifico.

Usa 2016, elettore di Hillary si presenta da Madonna per il sesso orale. Soltanto qualche settimana fa Madonna aveva promesso del sesso orale a tutti quelli che avrebbero votato per Hillary Clinton, ma ora la pop star si rimangia tutto, scrive Anna Rossi, Mercoledì 09/11/2016, su "Il Giornale". Madonna non mantiene le promesse e respinge tutti gli elettori di Hillary Clinton. Soltanto qualche settimana fa, la pop star aveva annunciato durante un suo concerto che avrebbe praticato del sesso orale a tutti coloro i quali avrebbero votato per la Clinton. Ma al termine dell'elezioni tutti i nodi vengono al pettine e si scopre che la proposta indecente di Madonna era soltanto propaganda politica. Come riporta il DailyNews, infatti, un fan della cantante, ieri, si è presentato con tanto di foto della scheda elettorale all'ingresso della townhouse della cantante, nell'Upper East Side di Manhattan, rivendicando il tanto millantato sesso orale. Ma quando si è recato dai responsabili della sicurezza per spiegare che era venuto a ritirare il suo "premio", la guardia si è messa a ridere e ha precisato: "Non ho informazioni a questo proposito, mi dispiace". Il fan della pop star ha subito raccontato il fatto sui social e si dice deluso per il comportamento e per la promessa non mantenuta.

Usa 2016: Fiorello, gli endorsement dei vip portano sfiga.  Gabriele Muccino ospite Edicola Fiore da LA, "Trump devastante", scrive l'Ansa il 09 novembre 2016. "Gli endorsement dei personaggi di spettacolo portano sfiga": è la conclusione di Fiorello che commenta con ironia l'esito del voto americano che ha dato ragione a Donald Trump nonostante l'appoggio a Hillary Clinton delle star, da Madonna a Lady Gaga a Bruce Springsteen. Gabriele Muccino, visibile su un iPad in collegamento con Edicola Fiore da Los Angeles, non nasconde la sua preoccupazione per il trionfo di Trump. "Sono devastato, triste e preoccupato", ha detto il regista, che vive e lavora da tempo negli States, ma non vota lì, come ha spiegato. "C'è un clima bruttissimo. L'America è divisa - ha aggiunto Muccino - e anche le famiglie sono divise" perché Trump trasmette "messaggi forti, che riguardano i valori". Divertente l'audio in cui la Clinton, doppiata, ringrazia tutti, inclusi gli amici di Edicola Fiore. E mentre Fiorello legge una ultim'ora sul futuro di Hillary, "assessore al Bilancio del comune di Roma", Giorgia Meloni, imitata da Gabriella Germani, ci ricorda che da Casa Bianca a Casapound il passo è breve. 

Elezioni Usa, il coro stonato di sondaggi e analisti-tifosi. Le fonti di tanti scenari farlocchi? Sempre gli stessi ambienti, lontani dagli elettori, incapaci di captare il linguaggio di chi sta fuori, di chi sta lontano e che dunque vota in modo bizzarro e imprevedibile, scrive Pierluigi Battista il 9 novembre 2016 su "Il Corriere della Sera". Risultato straordinario nelle elezioni presidenziali americane. Sicuro, anche perché non era prevedibile una tale concentrazione di sondaggi farlocchi, di previsioni fallaci, di analisi sballate, di certezze finite in frantumi, di ironie controproducenti, di teoremi infondati, di desideri scambiati per realtà. Risultato straordinario di strafalcioni e deduzioni semplicistiche. Si era detto. Meglio: avevano detto. Meglio ancora: avevamo detto, tutti noi dei giornali e dei media. C’era sempre l’inviato di punta che cominciava le sue riflessione: «gli analisti dicono», i più prudenti ammorbidivano, «tra gli analisti circola la sensazione». Gli «analisti». E cioè, chi sarebbero, che titoli hanno, dove si è formata la loro sicumera: nelle aule universitarie, o nelle cattedre del sentito dire, o in qualche bistrot con un bicchierino come ausilio per la dissertazione chic? E le fonti degli «analisti» dove si trovano? Difficile da dire. Però facile da immaginare che siano persone che frequentano gli stessi ambienti, hanno gli stessi tic, parlano lo stesso linguaggio. E che perciò sono incapaci di captare il linguaggio di chi sta fuori, di chi sta lontano e che dunque vota in modo bizzarro e imprevedibile. Per dire, sostenevano come se stessero rivelando una verità incontrovertibile che l’establishment repubblicano riottoso con Trump, spodestato da elezioni primarie che ne hanno messo in crisi la stessa identità, avrebbe fatto mancare il suo appoggio condannando Trump alla sconfitta sicura. Per dire, vedendo Obama ma anche Michelle (lei con magnifici discorsi, peraltro) mobilitati nel sostegno incondizionato a Hillary, dicevano che gli elettori afro-americani si sarebbero presentati in massa nei pressi dei seggi elettorali seppellendo con i loro voti l’odiato Trump. Non è vero, questa mobilitazione non è stata poi così massiccia, la previsione spacciata come una certezza si è rivelata molto fragile, Trump non è stato seppellito dal voto nero: un desiderio, non una conclusione da freddi «analisti». I quali, in Italia anche, fino a stanotte hanno continuato con lo stesso mantra, un po’ esagerato. Freddi «analisti», poi. Hanno calcolato che su un totale di 59 giornali americani grandi e piccoli, solo uno è stato filo-Trump, contro i 16 filo-Romney di quattro anni fa contro Obama. In Italia non è stato molto diverso, e le fonti sono rimbalzate da un continente all’altro, ma sempre all’interno di uno stesso mondo. Sempre gli stessi sondaggi, accolti come oracoli, anche sbagliando date, con la diffusione di dati per esempio che hanno preceduto l’affaire delle mail di Hillary e scambiati per dati successivi alla notizia dell’indagine Fbi. Dicevano: dopo le brutte, anzi orrende frasi sessiste di Trump, le donne avrebbero votato in massa per Hillary Clinton. Dicevano, anzi dicevamo, perché nessun giornale, nessuna tv, nessuna radio può dirsi immune da questa falsa coscienza spacciata per scientificità: certamente i latinos della Florida faranno pagare a Trump le sue frasi sul muro da alzare contro gli immigrati. E invece Trump ha vinto in Florida, e anche con un distacco che ha escluso l’incubo degli riconteggi. Dicevano, anzi dicevamo che gli stati del Michigan, del Wisconsin, della Pennsylvania erano sociologicamente e culturalmente una cassaforte elettorale nelle mani di Hillary, totalmente invulnerabili ai richiami trumpisti: si è proprio visto. E anche quando i risultati sorprendenti hanno cominciato a incrinare le certezze degli «analisti» e dei sondaggisti, tra i numerosi e non vinti rappresentanti delle due categorie ci si è detti certi che nel suo discorso di trionfo Donald Trump avrebbe spinto sull’acceleratore dello scontro, e invece Trump è stato molto «presidenziale», «inclusivo» come usa dire. Non ne hanno, non ne abbiamo azzeccata uno, sulle donne, sui neri, sui latinos, sui repubblicani dissidenti, eppure ci si stupisce, come se la realtà avesse fatto un dispetto agli «analisti» — non adeguandosi alle loro ingiunzioni e alle loro previsioni. Analisi. O meglio: tifo. Tifo accecante, almeno stavolta.

Nelle elezioni italiane, nel valutare correttamente i risultati effettivi della singola lista, bisogna tener conto:

del numero degli aventi diritto al voto,

meno il numero di chi non ha votato,

meno il numero delle schede bianche,

meno il numero delle schede nulle, che spesso contengono imprecazioni,

meno il voto di protesta dato al Movimento Cinque Stelle o altri movimenti di protesta.

Il numero così ottenuto è la base su cui calcolare la percentuale di voti ottenuta, che è molto diversa da quella che ci propinano i media e certo, tale cifra, non è indicativa di rappresentanza democratica.

Nelle elezioni, nel valutare correttamente i risultati effettivi del singolo/a candidato/a, bisogna tener conto del voto di preferenza:

ad ogni candidato/a, in virtù della doppia preferenza di genere e del voto disgiunto, gli verranno assegnati voti effettivamente non ricevuti personalmente, ma frutto di accordi tra candidati di sesso diverso (spesso con più candidati, tradendone la reciprocità). In questo caso un candidato inetto e malvisto, in virtù dell’italica furbizia, può essere plebiscitariamente votato, ma con voti non suoi. Questo in sfregio alla democrazia.   

Amministrative di Avetrana: 5 giugno 2016. Un bravo a tutti i candidati da parte di un incompetente ed inesperto.

Un bravo ai candidati della lista Minò (centrodestra), che pur apprezzati e votati, per quello che sono e per quello che fanno, da soli 1601 avetranesi su 8279, sono riusciti a vincere ed a festeggiare, a dispetto dei loro 2656 elettori del 2011. Essi continueranno imperterriti a dimostrare la loro competenza e la loro esperienza a vantaggio del loro paese che non li stima.

Un bravo ai candidati della lista Micelli e della lista Petracca (centrosinistra), che pur con il favore di 2810 avetranesi su 8279 (1418+1392), in più rispetto ai 2438 del 2011, sono riusciti a perdere divisi…ma da “liberi”. Senza alcun rimorso. Giustificati con la solita tracotanza, essi continueranno, imperterriti, a non riconoscere i loro errori ed a non dimostrare la loro capacità a vantaggio del loro paese che li ha voluti più dell’altra lista. Bravi per aver fatto continuare ad amministrare Avetrana con la competenza e l’esperienza della precedente amministrazione.

Un bravo al 32,6 % dell’elettorato avetranese che non è andato a votare, incrementato rispetto al 25,42 del 2011. Primi della provincia di Taranto. Questi, in aggiunta a chi si reca per consegnare scheda bianca o scarabocchiata da imprecazioni, sono la maggioranza degli avetranesi, di cui a nessuno gliene frega niente. Maggioranza che disprezza questa classe politica basata sull’odio e l’ideologia e che si fa eleggere non sui programmi reali, ma sugli attacchi personali agli avversari.  Penso che questi avetranesi che non votano, darebbero prova di saggezza e coraggio, se venissero fuori con una loro lista per formattare la politica avetranese. Solo allora, per loro, sarebbe un bravo sincero.

Una considerazione sociologica a margine di quanto già rendicontato dal punto di vista politico in riferimento alle amministrative del 5 giugno 2016. La maggioranza della gente di Avetrana, (così come del resto dell'Italia) se da una parte è disposta a vendere il suo voto, più che in cambio di denaro, in termini di favori, al contrario si dimostra essere alquanto irriconoscente, una volta che è stata soddisfatta. Prendiamo per esempio dei casi limite ad Avetrana dove, sicuramente, da parte dei candidati si è ottenuto molto meno di quanto elettoralmente si valesse, senza nulla togliere agli altri candidati di pari valore intellettuale e politico.

Antonio Minò. La sua lista ha preso 1601 voti di lista rispetto ai 2656 voti di lista del suo predecessore, Mario De Marco. Rispetto al De Marco, però, il Minò esercita nel sociale (presidente di Avetrana Soccorso) ed a rendere un favore chiesto, anche al di là della sua sfera professionale, non si tira mai indietro. Probabilmente ha ricevuto molta irriconoscenza.

Daniele Fedele Saracino. 143 voti, il penultimo dei votati della lista Minò. Il fatto che sia un imprenditore, non è indicativo di consenso, ma essere il presidente della locale squadra di calcio che ha appena ottenuto con i suoi sacrifici un risultato insperato per un piccolo paese, quale l’approdo in Eccellenza, e non essere ricambiato in termini di consenso, almeno da parte dei tifosi che numerosi calcavano gli spalti, ciò è significativo di estrema irriconoscenza.

Anna Maria Katia Maggiore. 165 voti con la lista Petracca. Il fatto che sia imprenditrice non é indicativo di consenso. Essere la figlia di Giovanni, il più facoltoso imprenditore di Avetrana, non si tramuta in termini di voti. Però, il fatto che ad ogni manifestazione pubblica che si tiene ad Avetrana od ad ogni altro evento sociale in cui la comunità è coinvolta, si chieda il suo appoggio e Giovanni non faccia mai mancare il suo sostegno economico in termini di contributi o di sponsor, questo dovrebbe significare un po' di consenso. E quando questo manca, come è mancato per sua figlia Anna Maria, questo denota somma irriconoscenza.

Come si dice "a fani beni...". E con questo ho detto tutto.

Elezioni comunali, Carapelle Calvisio: il paese in Abruzzo con 67 elettori e 62 candidati. Elezioni Amministrative 2016. Sette le liste in corsa, quattro delle quali composte in larga maggioranza da poliziotti, carabinieri, membri della polizia penitenziaria che risiedono fuori Regione. “Gli appartenenti alle forze di polizia hanno diritto a 30 giorni di aspettativa retribuita perché la legge vieta loro di prestare servizio durante la campagna elettorale - denuncia il sindaco uscente Domenico Di Cesare - è una vergogna, in lista c’è chi è di Barletta e lavora a Milano. E intanto si fanno un mese di ferie", scrive Maurizio Di Fazio, il 14 maggio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Carapelle Calvisio è un minuscolo centro abruzzese a trenta chilometri dall’Aquila, con 85 abitanti effettivi e 67 elettori. Un paese da record: alle elezioni amministrative di giugno corrono, infatti, ben 7 liste, per un totale di 62 candidati. In pratica un candidato per elettore. Ma le stranezze non finiscono qui: quattro di queste sette liste sono composte in larga maggioranza da poliziotti, carabinieri, membri della polizia penitenziaria che risiedono fuori Abruzzo. I candidati consiglieri vengono da Napoli, Barletta, Catania, persino dalla Sardegna profonda. Un fatto singolare denunciato dal sindaco uscente (ricandidatosi all’ultimo momento), Domenico Di Cesare: “Gli appartenenti alle forze di polizia hanno diritto a trenta giorni di aspettativa retribuita perché la legge vieta loro di prestare servizio durante la campagna elettorale. Nulla da ridire, se le candidature fossero state presentate nei rispettivi Comuni di nascita o di residenza. Molti di loro, però, a Carapelle non ci sono mai stati, e forse ne ignoravano addirittura l’esistenza. È una vergogna, perché tra i candidati c’è chi è di Barletta e lavora a Milano. E intanto si fanno un mese di ferie. Scriverò al prefetto, al ministro Alfano, a tutti i comandi delle forze dell’ordine perché si ponga fine a questa storia”. Gli fa eco uno dei candidati sindaci locali (anche se pure lui lavora fuori), Fabrizio Iannessa, leader della lista “Carapelle Vola”: “Il sindaco ha ragione. Purtroppo è la legge che prevede questa possibilità – racconta a IlFattoQuotidiano.it – ma la mia lista è formata per lo più da giovani residenti a Carapelle”. Intanto la vicenda approda in Parlamento con un’interrogazione di Gianni Melilla, deputato di Sel: “Anche in occasione di queste elezioni comunali sono tanti i rappresentanti delle forze di polizia che candidandosi usufruiscono di un periodo di trenta giorni di aspettativa retribuita. Si tratta di un evidente privilegio anacronistico e utilizzato strumentalmente. Giace alla Camera una mia proposta di legge di modifica dell’articolo 81 della legge 121 del 1981, che prevede la cancellazione di questo indegno e intollerabile privilegio”. Alla base del pasticciaccio c’è infatti il nuovo Ordinamento dell’amministrazione della Pubblica sicurezza del 1981, che recita: “Gli appartenenti alle forze di polizia candidati a elezioni politiche o amministrative sono posti in aspettativa speciale con assegni dal momento dell’accettazione della candidatura per la durata della campagna elettorale”. Tra i candidati sindaci a Carapelle Calvisio c’è Roberto Di Pietrantonio. Lui è uno degli appartenenti alla Polizia di Stato additati dal primo cittadino Di Cesare. “La mia “Lista Civica” è composta da nove candidati, di cui soltanto due delle Forze dell’ordine: io e un aspirante consigliere” spiega Di Pietrantonio al IlFattoQuotidiano.it. Ma risiedete a Carapelle? “Nessuno dei miei candidati risiede a Carapelle Calvisio, ma non trovo la questione rilevante perché non prevista dalla legge. E il movimento civico che guido è composto da giovani”, ci dice ancora. Perché candidarsi in questo paesino sconosciuto? “Abbiamo voluto rispondere all’appello lanciato dal sindaco uscente, che a febbraio invitò i giovani a candidarsi. Inoltre ci interessava fare un’esperienza politica partendo da un Comune di piccole dimensioni”. E a proposito dei trenta giorni di aspettativa retribuita? “Avremmo tranquillamente rinunciato all’aspettativa, ma questa avviene d’ufficio. Proprio al fine di garantire la più onesta e trasparente attività di campagna elettorale senza eventuali ripercussioni o tentativi di distrarre il voto dei cittadini”. Un anno fa lo stesso Di Pietrantonio si presentò come aspirante sindaco anche a Castelvecchio Calvisio, borgo attaccato e gemello di Carapelle. Corse a capo dell’unica lista candidatasi (la “Tricolore”). Votarono solo in cinque. Lui prese un voto: due schede furono nulle e due bianche, e le elezioni vennero annullate.

Melilla (SI). I furbetti poliziotti, 11 Maggio 2016, Interrogazione a risposta scritta: Al ministro Affari Interni.

Per sapere-premesso che: Anche in occasione di queste elezioni comunali sono tanti i rappresentanti delle forze di polizia che candidandosi alle suddette elezioni usufruiscono di un periodo di 30 giorni di aspettativa retribuita; Ciò provoca abusi intollerabili con un danno per lo Stato e l'efficacia dei servizi di sicurezza con ricorso a straordinari a carico di chi deve sostituire chi si mette in aspettativa; Al proposito vorrei citare il caso limite di Castelvecchio Calvisio in provincia dell'Aquila, un piccolo comune di soli 67 elettori ed elettrici in cui sono state presentate 7 liste con 65 candidati di cui ben 17 appartenenti a forze di polizia che non vivono in quel paese; Si tratta di un evidente privilegio anacronistico e utilizzato strumentalmente per prendersi un mese di aspettativa retribuita, con una spregiudicatezza che non dovrebbe appartenere a chi tutela l'ordine pubblico; Giace alla Camera una mia proposta di legge di modifica dell'articolo 81 della legge 121 del 1981 che prevede la cancellazione di questo indegni e intollerabile privilegio

-: Se non intenda assumere una urgente iniziativa per stroncare questo malcostume e cambiare, anche con un decreto legge, la normativa che lo consente. Roma maggio 2016. Gianni Melilla.

Cani da guardia o servitori della "legalità"? Scrive “Info Out”. Sempre pronti a versare lacrime di coccodrillo, le F.O. rimangono una categoria delle più difese e protette a livello contrattuale. Così come magistrati e prefetti, anche poliziotti, carabinieri, finanzieri, polizia penitenziaria, ecc. godono delle più incredibili agevolazioni e tutele invidiabili alla maggioranza dei contratti di lavoro. Molto spesso vengono rappresentati dalla stampa nazionale e da alcuni politici interessati ai loro voti e favori, come gli ultimi degli ultimi, mal pagati e senza mezzi, addirittura c’è chi crede che le F.O. siano senza tutele. Senza tenere conto del lamentario dei vari sindacati sempre pronti a richiedere maggiori poteri d’ingaggio e forme di accondiscendenza da parte della politica e dell’opinione pubblica. Se si osserva con attenzione, si può intendere con facilità che la scelta di entrare nelle F.O. è vista, nella stragrande maggioranza dei casi, come un’importante occasione piena di possibilità, una sorta di scorciatoia per non affrontare quello che sarebbe altrimenti il resto del mondo del lavoro e delle sue opportunità di ieri, oggi e domani. Chi sostiene di essere entrato in polizia, c.c., polizia penitenziaria, finanza, esercito, ecc. perché crede nella legalità e vuole difendere lo Stato, mente sapendo di mentire. Le elezioni amministrative sono l’esempio dell’ennesimo caso di privilegi cui godono questi signori e signore, di cui i diritti contrattuali sono sconosciuti alla maggioranza del mondo del lavoro. Nella fattispecie l’articolo 81 della legge 121 del 1981, che recita: "Gli appartenenti alle forze di polizia candidati a elezioni politiche o amministrative sono posti in aspettativa speciale con assegni dal momento dell’accettazione della candidatura per la durata della campagna elettorale". Scusante che più volte viene utilizzata per garantirsi un bel mesetto di campagna elettorale, a spese di tutta la collettività. Se prendiamo le elezioni della primavera del 2014, in tutto l’Abruzzo la partecipazione nelle liste elettorali da parte della Polizia Penitenziaria era stata di 121 agenti candidati. Il caso più clamoroso è quello di Carapelle Calvisio, paese con 85 abitanti effettivi e 67 elettori. Alle prossime elezioni amministrative di Giugno sono ben 7 le liste che corrono per eleggere il sindaco, per un totale di 62 candidati, nella pratica un candidato per elettore. Di queste liste, quattro sono composte in larga maggioranza da poliziotti, carabinieri e polizia penitenziaria che risiedono addirittura fuori dall’Abruzzo: Catania, Barletta, Napoli e Sardegna. Oltre al permettere a questi individui di poter disporre di un’aspettativa retribuita (stipendio garantito) durante la candidatura, la legge gli dà diritto di candidarsi anche fuori dalla propria Regione, Provincia o Comune: un’occasione che permette una stupenda vacanza fuori porta. Pazienza se poi, come successo in qualche piccolo comune della penisola, le elezioni siano annullate o come molto spesso accade (per fortuna) non si viene eletti, il privilegio è comunque servito o garantito. Questa incredibile voglia di partecipare alla cosa pubblica non è sfuggita a un’interrogazione parlamentare da parte dell’onorevole Gianni Melilla (Sel) al Ministro Alfano, nel suo documento ispettivo denuncia come questa candidatura di massa provochi “abusi intollerabili, con un danno per lo Stato e l'efficacia dei servizi di sicurezza con ricorso a straordinari a carico di chi deve sostituire chi si mette in aspettativa.” Questa legge tuttavia evidenzia solo in minima parte quelli che sono i privilegi di vestire la divisa. Oltre a essere un lavoro che non conosce crisi, le F.O. dispongono di: promozioni di comodo, pensionamenti vantaggiosi, doppi impieghi, giro di favori, tutele legali a spese dello stato se coinvolti in processi penali o civili (insabbiamenti a parte) e non ultima, la possibilità di trovare sempre un impiego all’interno dello stato una volta rientrati da un eventuale sospensione, ecc. Una scelta lavorativa che non richiede una particolare dote, se non quella di essere capaci a genuflettersi a ogni ordine ricevuto, sempre pronti a lamentarsi per via dell’insufficiente organico e degli stipendi troppo miseri a loro dire. Ma il solita solfa che il lavoro dell’ufficiale va difeso e tutelato perché per scelta rischia quotidianamente la vita per garantire la sicurezza dei cittadini e dello Stato, sta sempre più svanendo. La storia, quella delle Forze dell’Ordine, parla di una categoria da sempre “casta” all’interno della Repubblica, dove i favoritismi tra questi e la politica sono sempre andati a braccetto di un interesse condiviso, al fine di mantenere il proprio status quo a qualunque prezzo, che saranno sempre i soliti a pagare.

Elettorato passivo e appartenenti alle Forze di Polizia, scrive Carmelo Cataldi il 5 novembre 2013. Partendo dall’assunto che la Costituzione garantisce gli stessi diritti a tutti i cittadini italiani, senza distinzione di sesso, razza, religione e status, (art. 2 e 3) diamo per scontato che anche i cittadini in uniforme abbiano garantiti quelli politici alla stessa stregua di ogni cittadino italiano. L’art. 49 della Costituzione afferma che: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.”, mentre l’art. 98 chiarisce che: “Si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all’estero.” Questa ipotesi di riserva di legge non è stata mai attuata, almeno per gli appartenenti al comparto sicurezza e difesa, anche se vi fu un progetto di legge che naufragò nel 1991 per mancata riproposizione parlamentare del decreto legge. Oggi i diritti politici del cittadino in uniforme, ovvero l’esercizio dei diritti politici del cittadino in uniforme, si dividono su due grandi direttrici, quella riguardante le Forze di Polizia e quella riguardante le Forze Armate. Veramente vi sarebbe una terza, quella dovuta alla duplice natura giuridica delle Forze di Polizia ad ordinamento militare, cioè l’Arma dei Carabinieri e il Corpo della Guardia di Finanza, i quali però ormai, secondo consolidata giurisprudenza e prassi, vedono i loro appartenenti soggetti, per l’elettorato passivo, alle stesse regole delle Forze di Polizia (Polizia di Stato, Polizia Penitenziaria, Corpo Forestale, etc.) e per l’elettorato attivo invece al C.O.M. (Codice dell’ordinamento militare) ed al T.U.R.O.M.(Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare); insomma le solite cose alla così detta ”amatriciana”. In questo caso ci si occupa solo di un aspetto della questione e cioè quella relativa al diritto politico passivo degli appartenenti alle Forze di Polizia, comprese quelle a ordinamento militare. Questi sono soggetti, come altri appartenenti alla P.A., a diritti e doveri, ovvero a diritti e obblighi connaturati agli effetti giuridici scaturenti da una eventuale candidatura ad una qualsiasi tornata elettorale. Proprio perché la campagna elettorale è propedeutica all’eventuale elezione politica o politica amministrativa in caso di elezioni locali, ai sensi dell’articolo 81 c. 2 della legge 1 aprile 1981 n. 121 (per intenderci quella sulla riforma della Polizia) la legge ammette un periodo di Aspettativa per campagna elettorale. Questo speciale riconoscimento prevede che gli appartenenti alle Forze di Polizia, candidati ad una qualsiasi tornata elettorale, siano posti giuridicamente in una situazione di congelamento della propria posizione lavorativa, con mantenimento però degli assegni per tutta la durata della candidatura, potendo liberamente svolgere attività politica e di propaganda, con limitazioni solo di natura ambientale, nel senso che è da escludere che questa attività politica possa essere svolta nell’ambito del servizio e quindi  possibile solo al di fuori degli uffici e in abito civile. Una volta eletto si prospettano al personale delle FF PP delle situazioni giuridiche di favore, e ovviamente di distinzione rispetto alla propria professione, per evitare un conflitto d’interesse dovuto al doppio incarico di natura pubblicistica e amministrativa. Per tale motivo, a richiesta dell’interessato, è possibile all’Amministrazione dell’appartenente alle FF PP eletto, e per esempio a quello appartenente alla Polizia di Stato, di concedere, ai sensi dell’articolo 53 c. 3 del D.P.R. 24.4.1982, n. 335, un'aspettativa per mandato amministrativo per tutta la durata del mandato. Questo tipo di aspettativa, rivista sotto il profilo economico a seguito dell’abrogazione dell’articolo 3 della legge 12 dicembre 1966 nr. 1078, richiamato dall’art. 53 del DPR 335/1982, ad opera dell’articolo 28 della legge 27 dicembre 1985 n. 816, afferente la nuova disciplina in tema di aspettative, permessi e indennità degli amministratori locali, prevede, per tutti i lavoratori del comparto sicurezza, che il suddetto beneficio, ottenuto a domanda, è da intendersi a titolo non retributivo, con il solo rimborso e attribuzione di indennità previste dalla legge cui sopra, considerando i periodi di aspettativa come servizio effettivamente prestato. Dunque occorre che l’appartenente alle FF PP, in occasione di richiesta di aspettativa politico – amministrativa, prima di optare per tale forma di beneficio faccia due calcoli di natura economica, perché nella maggior parte dei casi le indennità per i mandati elettorali incominciano ad essere perequativi delle enormi disparità tra queste e lo stipendio percepito per il proprio servizio, solo con un’elezione alle amministrative regionali. Nel qual caso il soggetto appena eletto non si avvalesse dell’aspettativa senza retribuzione, perché la ritiene non congrua economicamente per la sua sussistenza, la legge gli permette di avvalersi invece dell’istituto dei Permessi per l’espletamento del mandato che gli consentono di assentarsi, qui invece, con la copertura stipendiale totale per il tempo necessario all’espletamento del mandato, con l’attribuzione degli assegni, indennità di carattere speciale, ma soprattutto, e di notevole interesse, con la retribuzione degli emolumenti straordinari. Un’ultima disciplina favorevole all’esercizio del diritto politico dei professionisti del comparto sicurezza è quella molto dibattuta e prevista dall’art. 78 comma 6 del decreto legislativo 18 agosto 2000 n. 267 “Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali” ovvero il Diritto all’avvicinamento per il lavoratore dipendente amministratore pubblico. Detto articolo pone due questioni sotto il profilo della tutela giuridica dell’esercizio del diritto all’elettorato passivo che della corretta e buona amministrazione e cioè:

la prima, che i lavoratori dipendenti, pubblici e privati, eletti in un’amministrazione locale, durante l’espletamento del loro mandato amministrativo, non possono essere trasferiti, se non previo consenso degli stessi, norma che configge con il contenuto di quella prevista dall’art. 81 secondo comma legge n. 121/1981 e  specificatamente per gli appartenenti alla Polizia di Stato anche dall’articolo 53, primo comma del D.P.R. 24.4.1982 n. 335, come meglio si indicherà da qui a breve;

la seconda, che i lavoratori dipendenti, pubblici e privati, eletti in un’amministrazione locale distante dalla sede di servizio, possano richiedere l’avvicinamento alla sede amministrativa dove sono stati eletti e per cui hanno attribuito il mandato amministrativo.

Questo secondo diritto presenta caratteristiche di priorità a cui il datore di lavoro non può sottrarsi, seppur è bene qui precisare però che la giurisprudenza, anche di recente (Consiglio di Stato, Sez, IV, n. 03865/2012 del 2 luglio 2012) ha riconosciuto una natura non proprio di diritto soggettivo al trasferimento per l’esercizio del mandato politico, evidenziando al contempo che, seppur la legge non lo prevede, il trasferimento a domanda dell’interessato deve avvenire nel rispetto generale del bilanciamento degli interessi anche del datore di lavoro, soprattutto di quelli di natura economici e organizzativi e dunque a maggior ragione se emerge un interesse pubblico connesso ad attività soggettive di espletamento di funzioni pubbliche ( Consiglio Stato , sez. III, 11 gennaio 2011, n. 1638). Per finire, oltre a queste note altamente positive, rispetto all’esercizio passivo del proprio diritto in materia politica per gli appartenenti alle FF PP, vi è una nota dolente, prima solamente accennata, che, contraddittoriamente a quanto espresso in linea di principio e di dritto ai sensi dell’art. 78 comma 6 del decreto legislativo 18 agosto 2000 n. 267 “Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali” e prevista ai sensi dell’art. 81 c. 2° della legge n. 121/1981, obbliga gli appartenenti alle FF PP alla fine a non poter prestare servizio nella giurisdizione della circoscrizione in cui sono stati eletti. Paradossalmente il medesimo articolo prevede, ed è bene che tutti gli operatori del comparto sicurezza ne siano a conoscenza, che, anche in caso di esito negativo della tornata elettorale, non potranno espletare servizio per tre anni nella giurisdizione del collegio ove si sono presentati come candidati! Peraltro il provvedimento è ormai del tutto automatico e avviene d’ufficio senza possibilità alcuna di dubbio, tenuto anche conto della consolidata pronuncia giurisprudenziale in materia, tanto che il provvedimento di trasferimento ad altra sede (pensate a colui che si candida alle regionali a quali conseguenze si espone) è avviato automaticamente dallo stesso momento in cui si notifica alla propria amministrazione la candidatura alla tornata elettorale.

Gianluca Buonanno. Una morte annunciata o una teoria complottistica?

"Buonanno ucciso come Haider per le sue idee": ecco i complottisti. Secondo Rosario Marcianò c'è qualcosa che non torna nell'incidente che ha provocato la morte dell'onorevole della Lega Nord, scomparso ieri pomeriggio, scrive Ivan Francese, Lunedì 06/06/2016, su "Il Giornale". Sulla morte di Gianluca Buonanno - come ogni volta che si verifica un evento tragico all'improvviso - non potevano mancare le teorie complottiste di Rosario Marcianò. Che in un post su Facebook ha provato a ricostruire la dinamica che ieri pomeriggio ha portato all'incidente stradale in cui ha perso la vita l'europarlamentare leghista. "Buonanno è morto investito da un'auto della quale, sul luogo dell'incidente - spiega Marcianò - non vi è traccia. Eliminato? Viste le sue dure e decise posizioni anti-europeiste ed anti immigrazione selvaggia, è lecito sospettare che non si tratti di un incidente ma di omicidio." E traccia un parallelo inquietante: quello con la morte del politico di destra austriaco Jorge Haider, scomparso in un incidente stradale nel 2008. Allora, in molti parlarono di un complotto, con relativa manomissione della vettura di Haider, forse sabotata da un'anonima mano assassina. "Nel report fotografico - prosegue Marcianò - notiamo due auto. Una delle due è il maggiolino di Buonanno, che avrebbe tamponato la vettura a tre volumi. Sull'asfalto si nota una traccia curvilinea lasciata da una terza vettura che pare entrare "intenzionalmente" sulla corsia di emergenza. Questo terzo autoveicolo non appare nel reportage di Varese News." Le insinuazioni di Marcianò, come di consueto, hanno scatenato una ridda di ipotesi fra i commentatori, che già hanno iniziato a chiedere come mai non siano ancora state mostrate immagini del corpo del povero Buonanno. Domande che è lecito porsi ma che necessitano - questo è un punto irrinunciabile - di risposte quanto mai fondate. Solo le indagini potranno restituire la verità alla famiglia e ai tanti simpatizzanti. Per ora non si può fare altro che lasciare spazio alla pietà.

"La morte di Buonanno annunciata: lo hanno ucciso": la teoria del complotto. Secondo Armando Manocchia, molte cose non tornano nella "versione ufficiale" della morte di Gianluca Buonanno: "Era stato minacciato di morte", scrive Claudio Cartaldo, Martedì 07/06/2016, su "Il Giornale". "Non ricordo di essermi mai imbattuto in un incidente come quello occorso a Gianluca Buonanno e alla sua compagna". Inizia così l'analisi del complotto sulla morte di Gianluca Buonanno da parte di Armando Manocchia, che ha scritto un lungo articolo sul perché secondo lui non è un incidente ad aver ucciso il leghista. "In un periodo in cui i media scavano come bulldozer in ogni fatto di cronaca, andando spesso anche oltre il lecito, la narrazione di questo incidente è arronzata, lacunosa, a tratti misteriosa e vi sono versioni molto diverse fra loro. C’è infatti chi dice - scrive Manocchia - che l’europarlamentare Buonanno sia morto in seguito ad un tamponamento, dopo esserci schiantato contro una vettura in sosta nella quale si trovavano due o tre inglesi. L’incidente è avvenuto sulla pedemontana, strada a doppia corsia per senso di marcia, fornita di regolamentare corsia di emergenza. Un’altra versione dice invece che è stato travolto da un automezzo mentre era a fianco della sua vettura, dalla quale era sceso per verificare i danni dopo un tamponamento. Il violento impatto con l’auto che lo ha travolto lo avrebbe ucciso sul colpo". Una notizia mai verificata, ma che è stata pubblicata e poi è misteriosamente scomparsa dal sito locale varesenews.it. Nella versione odierna, continua Mannocchia "sono spariti sia gli inglesi che l’investimento, resta solo il tamponamento. Possibile che, a distanza ormai di 24 ore, manchi ancora una ricostruzione precisa sulla dinamica dei fatti, una comunicazione ufficiale? E’ morto un rappresentante dell’Istituzione europea e ancora non si conoscono i dettagli? Possibile che nessun giornalista locale o nazionale, si sia recato in ospedale per raccogliere la versione dei fantomatici inglesi feriti? Qualcuno della Lega Nord, qualche dirigente del Movimento, si è recato sul luogo, immediatamente dopo l”incidente’?". Infine, il dubbio che Buonanno sia stato ucciso. "Buonanno era stato minacciato di morte pubblicamente, più di una volta. Ovviamente nessuno ha ritenuto di assegnargli una scorta perché quella è riservata alla Kyenge e alla Finocchiaro per lo shopping. Sorgono domande lecite e anche illecite a cui la Magistratura – e non solo – dovrà dare quanto prima una risposta…". Un'altra, non l'unica teoria sulla morte di Buonanno.

"Buonanno ucciso per la missione in Libia": l'ipotesi del complotto. Non si fermano le ricostruzioni sulla morte dell'europarlamentare della Lega Nord, Gianluca Buonanno. Sarebbe stato ucciso la sua missione in Libia, scrive Claudio Cartaldo, Mercoledì 08/06/2016, su "Il Giornale". Non si fermano le ricostruzioni sulla morte dell'europarlamentare della Lega Nord, Gianluca Buonanno. Ora spunta la pista libica e islamica. "Sulla Pedemontana, tra Mozzate a Solbiate, il 5 giugno moriva in un incidente stradale l’europarlamentare della Lega Nord Gianluca Buonanno - scrive l'ennesimo complottista Alessandro Lattanzio - secondo il sito Qui Como, Buonanno era sceso e a fianco della propria auto, ferma sulla corsia di emergenza, quando un’altra vettura l’investiva uccidendolo. In totale furono coinvolte tre auto almeno nell’incidente, con tre persone a bordo, oltre a Buonanno e alla moglie. Due dei passeggeri erano inglesi che avevano subito solo leggere ferite. Di tali inglesi, ovviamente, non si sa altro, se non che in seguito i media mettevano loro di fianco a un’auto ferma in corsia d’emergenza, e non più Buonanno". Secondo Lattanzio, insomma, Buonanno non sarebbe morto nell'incidente. Ma sarebbe stato investito volontariamente. E la spiegazione è da cercare nelle minacce ricevute dal sindaco leghista di Borgosesia e nella cosiddetta "pista libica". "Buonanno - prosegue - oltre ad essere oggetto di minacce anonime ed inchieste eterodirette, potrebbe aver infastidito i tanti sostenitori italiani o in Italia, delle organizzazioni terroristiche islamiste attive in Libia, Siria ed Egitto. Infatti, nel marzo 2015 l’eurodeputato Gianluca Buonanno si recava in Libia, suscitando articoli insultanti e sarcasmo stizzito e minaccioso sui vari media allineati a un PD filo-islamista, chiaramente infastidito dal fatto che un eurodeputato, recandosi presso il generale libico Qalifa Haftar, attribuiva un riconoscimento internazionale e legittimità ad una figura oggi oggetto degli strali delle sette terroristiche islamiste e dei loro mandanti delle intelligence inglesi, statunitensi, turche, qatariote ed infine italiane". "Ho girato per diverse città, non sono stato a Tripoli perché è in mano al terrorismo islamico - aveva detto Buonanno, riportato da Lattanzio - Ma ho incontrato molta gente, tra cui il Capo Supremo delle Forza Armate Qalifa Haftar. E’ stato lui a dirmi di non vedere i politici di queste parti da più di un anno. Adesso casualmente sono stato in Libia una settimana e il parlamento europeo ha messo all’ordine del giorno di parlare di Libia". Poi l'autore di questa nuova teoria sulla morte del politico, continua il racconto di quanto fatto da Buonanno."Ho trovato - scrive Lattanzio - che Buonanno scriveva sulla sua pagina Facebook: 'Dopo 5 giorni che sono qui, il Parlamento Europeo ha casualmente deciso di parlare di Libia e Terroristi… e io giovedì leggerò pubblicamente il messaggio che il Generale Khalifa Haftar mi ha lasciato!!!” Quali fossero queste rivelazioni, non ci è stato dato di sapere". La morte di Regeni e Buonanno sono collegate? Infine un collegamente, non mneglio precisato alla vicenda della morte di Giulio Regeni. "Collegato alle vicende libiche - scrive Lattanzio - va notato che professori e tutor di Giulio Regeni, l’esperto di sindacalismo inviato in Egitto dall’università di Cambridge, fulcro dell’intellighentsija colonial-imperialista anglosassone, si avvalevano della facoltà di non rispondere alle domande del sostituto procuratore della Repubblica Sergio Colaiocco, dei funzionari dello SCO e degli ufficiali del ROS dei carabinieri, giunti nel Regno Unito per indagare sulle e-mail scambiate da Giulio con i suoi docenti riguardo alla ‘ricerca’ che svolgeva a Cairo, e le personalità che aveva contattato e frequentato in relazione a tale ‘ricerca’. ‘Ricerca’ che tra l’altro risulta “confidenziale”. In particolare, Regeni aveva promesso a Muhamad Abdallah, capo di uno di quei sindacati, di devolvergli 10000 euro ricevuti dalla Fondazione Antipode del Regno Unito. Abdallah, che avrebbe litigato con Regeni per quei 10000 euro promessi ma non concessi, il giorno dopo il ritrovamento del cadavere di Regeni, dichiarò “mi ha offerto soldi per avere informazioni sui sindacati”.

"Hanno ucciso Buonanno: le prove": il video dei dubbi sull'incidente. Un video complottista sulla morte di Gianluca Buonanno. Il video che spiega: "Così hanno ucciso Buonanno". Il video mette insieme tutti i dubbi e "quello che non torna" sull'incidente mortale, scrive Claudio Cartaldo, Giovedì 09/06/2016, su "Il Giornale". Un video, costruito con attenzione, per "smontare l'informazione fasulla" sulla morte di Gianluca Buonanno. Il video, comparso sul canale DailyMotion, mette insieme tutti i dubbi, le versioni contrastanti, "quello che non torna" sull'incidente mortale di Buonanno. Secondo gli autori di questo video, il parlamentare leghista sarebbe stato ucciso. E mostrano quelle che, secondo loro, sono le prove di questo omicidio (guarda il video). Non si fermano, quindi, le teorie complottiste. "Le prime fonti di informazione - si sente nel video - che sono le più attendibili, poi sono stranamente scomparse". E questo spiegherebbe, secondo gli autori, che la versione della morte sarebbe stata modificata e cambiata in un secondo momento. Secondo gli autori, ad essere coinvolta - secondo quanto si evince dalle prime immagini pubblicate - sarebbe tre e non solo due. "Perché non si cerca la terza auto coinvolta? - dicono - Perché si è cambiata la versione dicendo che Buonanno sarebbe morto nell'abitacolo a seguito del tamponamento? E' una versione credibile? Oppure è lecito sospettare che chi può gestire i media, i servizi e le indagini abbia lavorato alla costruzione e ricostruzione dell'accaduto". Poi portano delle "prove" complottiste alle loro tesi complottiste. "Poniamo il caso che Buonanno non abbia allacciato le cinture di sicurezza, allora di chi è il corpo a fianco dell'auto ricoperto e fotografato vicino al maggiolino? Nel report fotografico ci sono due auto, di cui una quella di Buonanno. Ma dalle immagini notiamo che i danni del Maggiolino corrispondono, secondo i crash test, ad una velocità di impatto appena 65 km/h e a conseguenze che non sono compatibili con una morte sul colpo". Nel video mostrano allora i crash test del Maggiolino che, secondo loro, non porterebbe alla morte del conducente. "La cella di sicurezza dell'abitacolo è rimasta intatta - dicono - tanto che i pompieri hanno potuto aprire manualmente lo sportello. Se la versione è quella della morte all'istante nella sua auto, questa versione non regge. A quella velocità non si muore. Un impatto a tale velocità non giustifica la posizione dell'altra auto, tamponata e scaraventata a circa 50 metri di distanza. La Mercedes pesa molto più del maggiolino. Nella sua traiettoria, infine, si trova un paletto di ferro oltrepassato ma rimasto miracolosamente intatto". Poi continuano. "Le due auto accasciate a lato della carreggiata sembrano sistemate successivamente. Sull'asfalto, accanto al maggiolino, si nota una traccia curvilinea lasciata da una terza vettura che pare entrare intenzionalmente sulla corsia di emergenza." Infine l'attacco ai presunti colpevoli di questo presunto omicidio. "Nessuno, però, ne parla. Quello che è certo è che Buonanno era inviso alla burocrazia europea. Ed era stato anche minacciato di morte. Devono aver coinvolto Buonanno in un incidente di lieve entità, Buonanno è sceso per constatare i danni e lo hanno investito. Poi hanno spostato i veicoli, simulando un incidente più grave e inquinando la scena dell'incidente".

Gianluca Buonanno è stato ucciso? Gianluca Buonanno, parlamentare europeo, muore lungo la Pedemontana in Provincia di Varese, investito da un'auto, dopo essere sceso dalla propria vettura Volkswagen, a seguito di un tamponamento con una Mercedes. Sono circa le 10:00 del mattino del 5 giugno 2016. E' quanto riferiscono le prime fonti di informazione che, come accade in casi simili, sono le più attendibili e le prime a scomparire. Su Newsbiella.it la notizia dell'incidente, occorso a Gianluca Buonanno, viene pubblicata alle 10:50 del mattino. Successivamente l'articolo viene modificato, spostando l'orario al pomeriggio ed eliminando il dettaglio dell'investimento ad opera di altro veicolo. Ma resta l'orario di prima pubblicazione! Doti di preveggenza o manipolazione della cronaca? Ritenendo dunque queste prime notizie le uniche vere, secondo il reportage fotografico di Varese News, dell'auto pirata non vi sarebbe traccia. Ciò indurrebbe a farsi delle domande, senza che i "guardiani del cancello" della cosiddetta "informazione contro" abbiano a stracciarsi le vesti. Perché non si cerca la terza auto coinvolta? Perché si è successivamente cambiata versione, affermando che Buonanno sarebbe morto sul colpo nell'abitacolo della sua vettura a seguito del tamponamento, addirittura spostando l'orario dell'"incidente" alle 16:00del pomeriggio? E' questa una versione credibile? Oppure è lecito sospettare che qualcuno, capace di gestire il mainstream, i servizi e le indagini, abbia lavorato alla costruzione e ricostruzione dell'accaduto, comprese le testimonianze apparse nelle ultime ore? Poniamo il caso che Buonanno non abbia allacciato le cinture di sicurezza. Bisognerebbe chiedersi allora di chi sia il corpo ricoperto da un drappo sull'asfalto, fotografato alcuni metri prima della VW Beetle, subito dopo il sinistro. Nel dossier fotografico vediamo due auto. Una delle due è il veicolo di Buonanno, mezzo che avrebbe tamponato la vettura tre volumi. Dalle immagini a disposizione notiamo come i danni causati alla parte anteriore del Maggiolino corrispondono, secondo i crash test dello stesso modello di automobile, ad una velocità di impatto di circa 65 Km/h contro barriera fissa ed a conseguenze che, come emerge chiaramente dai fotogrammi, non sono assolutamente compatibili con una morte sul colpo, tanto meno per chi è alla guida! Infatti la cella di sicurezza dell'abitacolo è intatta. Così pure la portiera, che ha ancora le cerniere perfettamente integre e che quindi può essere regolarmente aperta senza difficoltà (Lo si vede anche dagli scatti di Varese News). Quindi, se la versione definitiva è quella della morte all'istante del parlamentare nella sua auto, questa ricostruzione, in tutta evidenza, non regge. I danni da impatto a 65 Km/h non sono conformi con il punto in cui la Mercedes sarebbe stata scaraventata (secondo la versione ufficiale) ad oltre cinquanta metri di distanza, anche perché la tre volumi tedesca ha un peso notevolmente superiore rispetto alla VW Beetle del parlamentare leghista e la sua forza di inerzia le avrebbe impedito di compiere un volo del genere. A questo proposito si visioni questo link, tanto per avere un'idea chiara. Osservate poi questa immagine: sulla traiettoria ipoteticamente seguita dalla Mercedes c'è un paletto, che però non è stato piegato. E' miracolosamente uscito integro, nonostante il violento impatto. Solitamente a subire ferite più gravi sono i passeggeri seduti a fianco del guidatore o sui sedili posteriori, ma in questo caso sappiamo, stando alle cronache, che la compagna del parlamentare europeo stava addirittura dormendo (alle dieci del mattino?). Eppure la donna ha riportato soltanto lievi lesioni e sembra che non possa descrivere la dinamica dei fatti. Riepilogando: se i danni riportati dalla VolksWagen di Buonanno sono quelli di un veicolo che impatta contro barriera fissa a 65 Km/h, si deve concludere che la vettura di Gianluca Buonanno non ha tamponato un veicolo fermo, ma che piuttosto era in forte decelerazione (una frenata improvvisa), supponendo quindi una velocità iniziale dei due veicoli di circa 110 Km/h. La Volkswagen ha quindi tamponato un'altra vettura (non necessariamente la Mercedes), mentre la sua velocità diminuiva repentinamente per una brusca frenata. La versione secondo cui la Mercedes in panne, ferma sulla corsia di emergenza, è violentemente urtata dal Maggiolino, vacilla miseramente e si apre un altro scenario più consono con i dati disponibili: Buonanno, con la compagna, stava percorrendo la statale Pedemontana in provincia di Varese quando, in prossimità di un punto senza guardrail, è stato costretto ad inchiodare per la rapida decelerazione di un veicolo che lo precedeva. L'impatto è stato inevitabile, ma Buonanno non ha subito lesioni apprezzabili ed anzi è sceso con le sue gambe dalla vettura per costatare i danni, mentre l'auto che ha bruscamente frenato ha fatto perdere le sue tracce. Di lì a pochi istanti l'Onorevole è stato investito mortalmente da un terzo mezzo che si è subito dileguato. Stava piovendo e la visibilità era scarsa. I primi soccorritori hanno ripreso la scena: con Buonanno a terra, qualche metro davanti alla sua auto. Anche questo è un elemento strano. Non si notano segni di frenata, visto l'asfalto reso viscido dalla pioggia. Buonanno viene è stato coperto con un drappo, come si vede in questo fotogramma estratto dal filmato di Prealpina.it. Poi, come sempre accade in questi casi, il teatro dell'"incidente" è stato inquinato, spostando l'orario della tragedia al pomeriggio. Infatti i reportage successivi presentano uno scenario differente: non si vede alcuna traccia del corpo mostrato sull'asfalto nei notiziari del mattino. Il resto è "cronaca". Una cronaca artefatta e tesa ad allontanare il sospetto che si sia trattato di un omicidio volontario e ad avvalorare la tesi dell'incidente fortuito, con buona pace dei giornalisti d'accatto che non si pongono mai domande, ma preferiscono seguire la direttiva dei loro padroni: insabbiare. Sempre!

E come volevasi dimostrare…

“Buonanno è morto per una distrazione”. Dalle immagini delle telecamere stradali si vede il sindaco di Borgosesia che si china per raccogliere il cellulare, scrive Maria Cuscela il 10 giugno 2016 su "La Stampa". Una semplice distrazione: è questo il motivo della tragica morte di Gianluca Buonanno. Ormai sembrano non esserci più dubbi: a raccontare quanto accaduto domenica pomeriggio sul tratto di strada lombardo sono le tante telecamere posizionate sulla Pedemontana, che essendo senza pagamento diretto ai caselli ha un monitoraggio video molto accurato per registrare i passaggi. Fonti vicine agli inquirenti riferiscono che dai filmati della società Autostrada Pedemontana Lombarda visionati dalla Polstrada si vedrebbe abbastanza chiaramente che l’europarlamentare, alla guida, si china verso il lato destro del sedile armeggiando con la mano destra, si presume per raccogliere il telefono cellulare caduto nell’abitacolo, mentre la donna che gli siede a fianco è assopita. Una distrazione che per pochi secondi gli deve aver fatto perdere il controllo del New Beetle di colore blu, trovando poi sulla traiettoria, per fatalità, sulla corsia di emergenza l’auto, parcheggiata, guidata da un albergatore, che stava facendo da autista a due turisti inglesi, e contro cui, a causa dell’impatto, Buonanno ha trovato la morte. I risultati dell’autopsia, fissata per oggi alle 14, serviranno a chiarire se alla base di tutto ci possa essere stato un malore di Buonanno, anche se pare essere un’ipotesi ormai lontana. Terminato l’esame autoptico il pubblico ministero Luca Pisciotta della procura di Varese darà il nulla osta per i funerali. E a Borgosesia, Varallo e Serravalle sono comparse le epigrafi. Gianluca Buonanno lascia il figlio Nicola, 13 anni, la mamma Lina Mazzone, il fratello Fabio e la sorella Emanuela, Daniela, gli zii. La camera ardente verrà allestita nel municipio di Borgosesia lunedì dalle 16 alle 19 e martedì dalle 10 alle 14. Martedì alle 15,30 ci sarà il funerale nella chiesa parrocchiale di Bornate, frazione di Serravalle. Il rosario sarà recitato in tre luoghi lunedì: alle 20 a Bornate e nella parrocchiale di Borgosesia, alle 20,30 nella chiesa della Madonna delle Grazie a Varallo.   

Quando tutti si leghistizzano. Muore il leghista Buonanno. E i centri sociali lo insultano. Scrive Antonio Angeli su "Il Tempo" il 5 giugno 2016. Un incidente stradale si è portato via ieri sera Gianluca Buonanno, politico appassionato e fuori le righe, aveva cinquant’anni. Nipote della «spalla» di...Un incidente stradale si è portato via ieri sera Gianluca Buonanno, politico appassionato e fuori le righe, aveva cinquant’anni. Nipote della «spalla» di Petrolini, a sedici anni si iscrisse al Movimento Sociale Italiano di Giorgio Almirante dove militò per anni, per confluire negli anni Duemila nella Lega Nord. Al coro addolorato di amici e politici sconcertati dalla morte improvvisa, si sono aggiunti attacchi e insulti via web da parte degli immancabili cialtroni. Gianluca Buonanno, europarlamentare e sindaco di Borgosesia (Novara), ha perso la vita ieri pomeriggio, in auto sulla Pedemontana a Gorla Maggiore (Varese). Il leder del Carroccio, Matteo Salvini, lo ha salutato così: «Non ho parole. Buon viaggio a una persona leale, coraggiosa, concreta, onesta, generosa, sempre fra la sua gente da Sindaco e parlamentare. Un pensiero ai suoi famigliari e alla gente della sua valle. Un impegno: non molleremo mai, anche per Te. Ciao Gianluca, mancherai». Cordoglio da tutti i principali esponenti leghisti a cominciare da Calderoli. Il premier Renzi ha telefonato a Salvini esprimendo il suo dolore. Politici di tutti gli schieramenti, da Giorgia Meloni a Toti di Forza Italia, ma anche dal MoVimento 5 Stelle alla presidente della Camera Boldrini hanno espresso il loro cordoglio. Buonanno cantò senza troppi complimenti la sua contrarietà a omosessuali e rom, una volta, in Parlamento, portò provocatoriamente un finocchio. Ieri, dopo la sua scomparsa il web è impazzito: un tal Marco scrive: «L’Italia è quel posto in cui dei morti se ne deve sempre parlare bene, anche se in vita sono stati degli emeriti imbecilli #Buonanno». E ancora: «Signor Bossi, è morto Buonanno! Grazie, anche a voi». Da Pirata 21: «È morto Gianluca #Buonanno della Lega. Mi dispiace era proprio una brava... vabbè mi dispiace». E molti altri che definire di cattivo gusto è un complimento: «Lega Nord: è morto #Buonanno in un incidente stradale. Molti di voi lo ricorderanno per avergli augurato un incidente stradale». «È morto #Buonanno, in cielo uno appena arrivato voleva uno sparring partner». «Ad Alì serviva un sacco da boxe che gli ispirasse violenza... e così #Buonanno». «È morto #Buonanno. Il proprietario dell’altra auto ora invoca la legittima difesa». Da Luca Maccioni: «Tutti felici per la morte di #Buonanno. Che ci crediate o no, ne è felice pure la famiglia che ora si becca un bel vitalizio». Una doppia imbecillità: nel 2011 Buonanno ha formalmente rinunciato al vitalizio.

Morto Gianluca Buonanno: la festa della vergogna dei "cretini" di Twitter. Diversi utenti su Twitter dopo la notizia della morte hanno "festeggiato" a colpi di tweet ignobili: il rispetto non c'è nemmeno davanti alla morte, scrive Claudio Torre, Domenica 05/06/2016, su "Il Giornale". Una morte improvvisa. Gianluca Buonanno è morto in un incidente stradale tra Mozzate e Solbiate in direzione Varese. Due auto si sono scontrate, forse complice anche il maltempo: uno scontro terribile che ha causato la morte di Buonanno, deceduto praticamente sul colpo nonostante i tentativi di soccorso da parte dell’équipe dell’automedica del 118. Subito dopo la notizia della morte il mondo politico si è stretto alla famiglia e soprattutto alla moglie che anche lei a bordo dell'auto e attualmente ricoverata con ferite ha visto il marito che li moriva accanto. Un dramma che ga colpito la Lega Nord e tutto il mondo politico. Ma sui social network chi non condivideva le idee di Buonanno si lascia andare ad uno sciacalaggio vergognoso. Soprattutto diversi twittaroli hanno fatto "festa" subito dopo la notizia. Gli insulti non si fermano nemmeno davanti alla morte. "Per cosa verrà ricordato un uomo di merda come Buonanno?", scrive un utente su Twitter. Qualcuno aggiunge: "R.i.p. Buonanno" aggiungendo alla scritta anche una foto con i botti d'artificio. A questo si aggiunge la creazione dell'hashtag "buonanno" in senso di festa usando il cognome del povero europarlamentare della Lega Nord. C'è chi prova a dire che "non si fa festa su chi muore", ma qualcuno che appartiene a quella parte feroce popolo di Twitter risponde così: "Quindi bisognerebbe portare rispetto a #buonanno?ma rispetto de che?". E ancora: "Muore un razzista, ignorante e ignobile "uomo". Di che dispiacersi?". Ma la realtà della bassezza e della pochezza di alcuni commenti è riassunta in questo tweet che critica aspramente questa festa ignobile a colpi di cinguettii: "Le reazioni alla morte di #buonanno dimostrano che la madre degli imbecilli non fa in tempo ad essere incinta ma sforna pargoli dopo pargoli".

Il Tg1 ignora Buonanno: morte cancellata dai titoli. Nell'apertura del Tg1 non è stato dedicato nemmeno un titolo alla morte dell'europarlamentare leghista Gianluca Buonanno, scrive Giuseppe De Lorenzo, Domenica 05/06/2016, su "Il Giornale".  Nessun titolo per la morte di Gianluca Buonanno. Il Tg1 ha ignorato la tragica scomparsa dell'europarlamentare leghista. C'è tutto, nei lanci del telegiornale della prima rete Rai. Ci sono le affluenze al voto, la tragedia degli immigrati nel mare della Libia, l'offensiva contro l'Isis in Iraq, la musica, il reddito di cittadinanza, il motomondiale e anche la morte di Muhammad Alì. Ma non Buonanno. Eppure la notizia della morte del sindaco della Lega Nord è stata battuta dalle agenzie di stampa alle 18.43. E i quotidiani locali avevano dato l'annuncio ancora prima. Come è possibile che nella redazione del telegiornale di Rai1 non abbiano trovato il tempo di confezionare, se non un servizio, almeno un titolo di due righe sulla tragica scomparsa dell'esponente del Carroccio? Che per quanto possa essere "poco apprezzato", ha comunque un certo peso politico. La mancanza del Tg1 non è passata inosservata alla rete. Che appena finiti i titoli del telegiornale hanno iniziato a bombardare il profilo Twitter del Tg1. "Che scandalo - scrive Serenella - è morto l'europarlamentare della Lega, di incidente stradale e il tg1 non dice niente". "Mentana sempre avanti - ribatte Luca - Buonanno subito dopo le elezioni. Il tg1 manco considerato nei titoli, in compenso ancora Muhammad Alì". Di tweet in tweet, l'indignazione corre sul web. "È vergognoso che il tg1 non parli della morte del leghista", aggiunge Antonio. Alcuni avanzano anche l'accusa di pilotaggio da parte del governo, che avrebbe "imposto al tg1 di coprire la notizia su Buonanno per non dare spazio alla Lega". Complice anche il maltempo, il leghista ha perso il controllo dell'auto e ha colpito un'auto sulla Pedemontana, tra Mozzate e Solbiate in direzione Varese. Il leghista è morto sul colpo. Ferita anche la moglie dell'europarlamentare, poi trasportata all'ospedale di Busto Arsizio. Le sue condizioni sono gravi. Nell'incidente sono state ferite anche altre tre persone.

"L'ultima provocazione di Buonanno": il commovente ricordo di chi lo conosceva bene, scrive di Matteo Pandini il 6 giugno 2016 su “Libero Quotidiano”. Pensavamo non potesse lasciarci senza parole, Gianluca Buonanno da Borgosesia, sindaco ed europarlamentare della Lega, famoso per provocazioni e battutacce ma amatissimo nella sua Valsesia, Vercelli, e non solo. Eppure, ieri, ci ha spiazzato. Nel tardo pomeriggio. Quando è morto a 50 anni in un incidente stradale sulla Pedemontana lombarda all’altezza di Gorla Maggiore, Varese. È andato a sbattere contro un’auto, ferma per un guasto. Lascia due figli piccoli. La moglie, che era con lui, è ricoverata in ospedale a Busto Arsizio in codice rosso. Altre tre persone sono rimaste ferite. Di solito, sentivi il nome Buonanno e immaginavi subito qualche sceneggiata, una dichiarazione scorretta, uno dei tanti show che l’avevano fatto diventare un personaggio. Sapeva indignare, a turno, tutto l’arco costituzionale. Ma dietro le quinte, anche molti dei suoi critici lo trovavano simpatico. A Roma, Laura Boldrini aveva cercato inutilmente di contenerlo. A Bruxelles, Martin Schulz aveva intimato al personale di marcarlo stretto dopo che aveva indossato una maschera di Angela Merkel e aveva esibito rotoli di carta igienica. Per dribblare i divieti, il leghista si era presentato vestito e truccato da Hitler, con tanto di capelli impomatati e baffetti: era il suo modo di provocare i fan della Cancelliera. «Mica possono obbligarmi a non pettinarmi…» ridacchiò. Schulz decise di multarlo. Poi varò una norma, ribattezzata anti-Buonanno, per impedire cartelli e magliette in Aula. Insuperabile - Perfino nel Carroccio molti non reggevano le sue trovate. Anche perché riusciva ad alzare sempre l’asticella. Alla Camera, portò un enorme forcone (finto) per pungolare la maggioranza. Cosa poteva fare di più? Be’, utilizzò le bolle di sapone soffiandole nell’emiciclo. Eccolo con le manette, sventolate per criticare lo svuota-carceri. Una volta, spuntò improvvisamente davanti allo scranno della presidente Boldrini. Cacciando un urlo. Lei trasalì. Lui rise di gusto. Quindi si superò sventolando un pesce, per l’esattezza una spigola, che la terza carica gli fece sequestrare dai commessi. «Dove è finita la mia spigola?» domandò il giorno dopo. Si era perfino dipinto la faccia di nero, per denunciare il governo «che discrimina gli italiani». Davanti alle telecamere, Buonanno realizzò un video in cui si spogliava, boxer esclusi: «Renzi ci lascia in mutande!» urlava dandosi manate sulle chiappe. Poi, in un’intervista su Sky, mostrò una pistola per parlare di legittima difesa. Matteo Salvini, in privato, gli chiese di smorzare i toni. Lui rilanciò: bonus di 200 euro per chi vuole una rivoltella per difendersi. La carriera politica da amministratore ruspante, Buonanno la comincia nella destra. Figlio di padre artigiano e nonno pugliese che faceva l’attore girovago (era spalla di Ettore Petrolini), l’effervescente Gianluca prende la tessera dell’Msi a 16 anni, per poi passare ad An che rappresenta anche nel consiglio provinciale di Vercelli. Fa il sindaco di Serravalle Sesia per due mandati, al timone di una lista civica, e quando scatta l’ineleggibilità scende in campo alle Politiche del 2001 con una formazione che porta il suo nome. Incassa più del 22%. Un successone. Poco dopo, passa alla Lega. Nel 2002 viene eletto sindaco di Varallo. Un drago: riconfermato nel 2007. La fama - Si guadagna la ribalta nazionale: decide di battezzare alcune rotonde e strade a personaggi famosi ancora in vita e trasmissioni tv, ma soprattutto piazza delle sagome di cartone con la divisa da vigile (e la sua foto al posto della faccia) sul ciglio della strada. Obiettivo: far rallentare le macchine, senza tartassarle con gli autovelox. All’imbocco della sua Valsesia, fa piazzare cartelli con scritte anche in arabo per vietare veli e burqa vari, oltre ai vu cumprà. Quindi annuncia di voler distribuire profilattici agli extracomunitari, per aiutarli a «non fare figli che poi non riescono a mantenere». Promette premi ai concittadini sovrappeso che dimagriscono, pensa di regalare galline ai residenti in difficoltà, ipotizza di recintare con filo spinato il suo Comune, sostiene che il grana padano «è la prova che la Padania esiste». Per incrementare la produttività dei dipendenti del municipio, fa spostare la macchinetta del caffè dal corridoio al suo ufficio. Tra il 2008 e il 2014 fa il deputato. Record di presenze. Nel 2010 diventa consigliere in Piemonte. Nel 2014, eccolo sindaco di Borgosesia. Uno dei suoi fiori all’occhiello è il festival dell’Alpàa di Varallo: grazie ad alcuni sponsor, richiama artisti di fama per concerti gratuiti. In piazza. Nell’elenco di chi fa capolino nella sua roccaforte, negli anni, spuntano pure Fedez e J-Ax. Buonanno punta Bruxelles nel 2014: becca quasi 27mila voti, tra i leghisti fa meglio solo Salvini. A Bruxelles non cambia registro. Esempi. Per «dare la sveglia» suona la tromba alla fine di un intervento in Aula. Poi, si presenta in divisa militare. E col burqa. Diventa un protagonista di alcune trasmissioni, a partire dalla Zanzara di Radio 24. Ne dice di cotte e di crude. Il conduttore, Giuseppe Cruciani, sghignazza. L’altro giornalista, David Parenzo, impersonificazione del politicamente corretto, s’indigna. Memorabili corpo a corpo. Parenzo: «Vai al circo!!». Buonanno: «Pidocchio!! Comunista!!».  Pure sui gay, Buonanno non si tira indietro. A un dibattito mostra un finocchio. E quando un omosessuale lo incrocia e gli dice di smetterla, lui va a Radio 24 per cospargersi il capo di cenere: «Scusami, non lo faccio più-più-più» detta con vocina esageratamente effemminata (sì, certo, voleva sfottere). Propone chip per controllare i profughi, suggerisce di espropriarli dei cellulari, dopo gli attentati a Bruxelles acquista paginate di giornali belgi per arrivare a Molenbeek: «Lotterò per difendere i valori cristiani». Quando scoppiano le bombe nell’aeroporto di Zaventem, lui le schiva per un improvviso impegno in Municipio. Spiega l’episodio a Canale 5 e si commuove. Proprio in tv, su La7, attacca i rom e li definisce «feccia della società». Buonanno ha dato dei piangina ai napoletani e accusato Garibaldi «di aver unito l’Italia ma diviso l’Africa». Ha fatto inferocire chiunque. Da Gad Lerner, a cui ha dato del tirchio, fino alla comunità ebraica per non parlare di Cécile Kyenge e Sel, il partito di Vendola ribattezzato «Sodomia e libertà». Ha accusato gli islamici di essere «bestie» per le morti durante il pellegrinaggio alla Mecca: «Dai, non si può morire così». In piazza, godeva nell’andare in bocca ai contestatori. L’aveva fatto anche a Bologna, pochi mesi fa, beccandosi gli urlacci di qualche leghista. Ieri, sui social, è esondata la fogna di chi festeggia per la sua morte. Ma da Renzi a Fi fino al Pd, al M5S e ad Alfano, sono piovute le condoglianze. Anche della Boldrini, della Kyenge, di Fassina, di Schulz, della Le Pen, della Meloni, di Maroni e Zaia. Un elenco sterminato. Scioccato Salvini: «Buon viaggio a una persona leale, coraggiosa, onesta». Addolorati, tra gli altri, Barbara d’Urso e Parenzo. Disperato Cota, che da leader della Lega piemontese l’aveva lanciato. Buonanno chiamava spesso Libero: «Hai visto cos’ho fatto?». E ridacchiava. Gianluca, non avremmo mai pensato di avere tue notizie e restare senza parole. Ci sbagliavamo.

Funerale laico per Marco Pannella: la veglia, la camera ardente e il ricordo di chi gli era vicino, scrive “Libero Quotidiano” il 21 maggio 2016. Funerale laico e musica jazz per Marco Pannella in Piazza Navona, proprio dove si tennero le grandi manifestazioni delle lotte dei radicali. Ci sono gli amici di una vita e i militanti di lungo corso: Emma Bonino, Sergio D'Elia, Rita Bernardini e la compagna Mirella Parachini. Il Requiem di Mozart ha segnato l'inizio del funerale laico. La piazza è gremita di persone e bandiere: quella del Radical Party, del Tibet, dei Radicali Italiani e di Israele. Sul palco per alcuni minuti è salita anche una delegazione dei detenuti di Rebibbia, che ha esposto uno striscione di ringraziamento a Marco Pannella. La polemica - Quando prende la parola Emma Bonino non si trattiene e le sue parole feriscono come lame: “Pannella nel corso della sua vita è stato soprattutto irriso e deriso, quando non vilipeso, e penso che alcuni omaggi postumi puzzano di ipocrisia lontano un miglio". Parole accolte dal lungo applauso delle centinaia di persone in piazza. Eppure l’ex ministro degli Esteri non aveva più visto nè parlato con il leader dei Radicali dopo un brutto litigio. “Non è mai andata a trovarlo, negli ultimi tre mesi. Ma non si sentivano da molto. Nemmeno una telefonata. Ogni tanto glielo chiedevo: “Emma ha telefonato?”. Lui scuoteva la testa. Un giorno gli ho chiesto: “Ma tu vuoi bene a Emma?”. Lui ha risposto: “Certo, che domanda stupida” – ha raccontato Rita Bernardini, l’ex segretaria dei Radicali Italiani, in un’intervista al Corriere della Sera - È un peccato, soprattutto per lei: penso che ci starà molto male, proverà rimorso”. La veglia – Il feretro di Pannella è arrivato in via Torre Argentina accolto da un lungo applauso. E lì è rimasto fino alle 13 di oggi, nella sala grande della sede dei Radicali, coperto da una bandiera del Tibet e diverse rose. Un flusso continuo di persone è andato a porgere l’ultimo commosso saluto: gente comune e vecchi militanti e amici. "Ho parlato con Marco un mese e mezzo fa e mi diceva che, per mantenere il partito ha venduto tutti gli immobili della famiglia – si è sfogato Luigi, uno dei tantissimi cittadini in attesa del proprio turno per salire alla sede dei Radicali - Non ha mai preso lira da nessuno e manco senatore a vita lo hanno fatto". Camera ardente – La camera ardente allestita nella sala Aldo Moro a Montecitorio per Marco Pannella è stata visitata da migliaia di persone, politici, militanti radicali, ex esponenti del partito. Ad accogliere gli ospiti, accanto alla bara, c'è un'Emma Bonino silente che, a chi l'abbraccia, accenna un educato sorriso. Anche Rita Bernardini, Sergio D'Elia, il segretario dei Radicali italiani Riccardo Magi e Francesco Rutelli sono nella sala Aldo Moro sin dall'apertura della camera ardente e accanto alla salma di Pannella c'è una Laura Harth che non riesce a trattenere le lacrime per la morte del leader che ha assistito fino agli ultimi istanti della sua vita. Chi c'era - Nella sala, tra i tanti arrivati, anche Achille Occhetto e diversi ex militanti radicali come Elio Vito e Daniele Capezzone. "Marco era un istrione, un immortale e certamente i nostri politici avrebbero potuto fare qualcosa di più per lui. Noi due siamo stati dei trasgressivi – è il commento di Cicciolina, l’ex pornostar arrivata in Parlamento proprio con i Radicali - Secondo me ora ci sta guardando divertito e sta dicendo 'vedi che vi ho fregato'". Nella camera ardente sono arrivati anche due monaci tibetani che si sono avvicinati alla salma del leader radicale ponendogli sopra delle pashmine bianche tradizionali della cultura tibetana, poi uno dei due monaci ha intonato una preghiera inducendo tutti gli altri presenti ad alzarsi.

«L’eredità di Marco Pannella? Le sue lotte e un debito da un milione». Maurizio Turco, dieci anni da tesoriere del Partito radicale: «Purtroppo ho visto tanto sciacallaggio attorno a Marco», scrive Monica Guerzoni il 23 maggio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Il patrimonio di Pannella? Le sue battaglie e un debito da un milione di euro. Maurizio Turco, dieci anni da tesoriere del Partito radicale, non ha voluto parlare davanti alla salma del leader per non gettare altro sale su ferite profonde. Ma ora rompe il silenzio: «Questa camera ardente è stata aperta due anni e mezzo fa, quando si è concluso il congresso dei Radicali italiani. Da allora Pannella ha subito umiliazioni e insulti gratuiti. Purtroppo ho visto tanto sciacallaggio attorno a Marco».

È una scissione?

«Più che scissione, uno scisma. Noi abbiamo offerto un disarmo unilaterale. Loro hanno deciso di fare altro».

Ce l’ha con i giovani che guidano i Radicali italiani? Con Riccardo Magi, con Marco Cappato? Anche con Emma Bonino?

«Con quelli che dicono di aver vinto il congresso. Ci sono due linee politiche contrapposte. C’è un gruppo che si è coagulato attorno a Magi, Cappato e a Valerio Federico. Ora parlano di unità, ma su cosa? Dovremmo mettere in piedi il partito che loro volevano fare e Marco non ha mai voluto? Come può essere ricomponibile, dopo due anni e mezzo?».

Rottura insanabile.

«Hanno negato a Marco il confronto e il dibattito politico. In due anni, per 365 volte a mezzogiorno ci siamo riuniti nella nostra sede. E loro non partecipavano alle riunioni e, se attraversavano il salone, lo facevano per andare al bagno o a prendere un caffé. Senza salutare Marco. Per due anni e mezzo non li abbiamo quasi mai visti. In una delle ultime riunioni Marco disse “Voi ci accusate di voler distruggere il partito perché noi vogliamo continuare a fare lotte radicali”. Sono loro che stanno personalizzando».

E il j’accuse della Bonino? 

«Non mi interessa, a me interessa quel che si è detto nelle riunioni del partito. Per me stare con Marco non era visitare i malati, era impegno politico e umano. C’è un limite di decenza politica che non si può superare».

Perché non c’è mai stato il chiarimento con la Bonino? 

«Dopo la rottura politica lui ha sempre cercato il chiarimento. La chiamava e lei lasciava squillare. Mandava messaggi ed Emma non rispondeva. A Radio Radicale lo disse anche, “vediamoci, Emma!”. Ma lei no, non voleva chiarirsi».

Pannella ci ha sofferto? 

«Sicuramente, sì».

A chi andrà l’eredità?

«L’eredità di Marco sono le sue lotte politiche, dunque andrà a chi le porterà avanti».

E il patrimonio? 

«Marco non aveva più niente. Si è venduto tutto per il partito, per finanziare la politica. Nella cassa del partito c’è un milione di euro, in debiti. Non c’è una guerra attorno alle spoglie di Pannella, c’è un dissesto manifesto».

Ha lasciato testamento? 

«Anche se ci fosse riguarderebbe Marco Pannella, i suoi pacchetti di sigarette, le sue cravatte e due buchetti a Riccione che non ha fatto a tempo a vendere e che andranno ai parenti. E così è finito il patrimonio di Pannella».

E la radio, la sede, i simboli? Pannella ha lasciato scritto come gestire il suo lascito, materiale e immateriale?

«La “roba” è intestata a una associazione, che si riunirà e deciderà. Siccome gestivo con lui e sui miei atti c’è la sua firma, Marco non mi ha lasciato detto niente. Ci riuniremo per eleggere il nuovo presidente».

Cosa ha provato nelle ore del lutto? 

«Lo dico con la frase di Marco ai funerali di Luca Coscioni, quando vide che lo osannavano come un leader. “I radicali sono buoni solo da morti”. Sa perché la gente quando Pannella è morto si è emozionata? Perché la tv di regime ha tirato fuori i fatti e l’Italia, per la prima volta, ha saputo chi era e si è riconosciuta».

Filippo Facci su “Libero Quotidiano” il 23 maggio 2016 attacco micidiale alla Bonino: "La verità su Emma e la frase di Pannella". Sarà anche vero che «alcuni omaggi puzzano di ipocrisia», ma forse Emma Bonino poteva lasciare che a dirlo fosse qualcun altro. Un solo uomo al mondo poteva giudicare il tasso di radicalità altrui: era lui, Pannella, e con la Bonino la condanna sembrava in giudicato. Quando alla notizia del tumore di Emma lui rispose «io ne ho due», come dire: la partita era chiusa, e non si dica che Pannella era così, che le parole volano e gli umori passano, che il rapporto era da inquadrare in una prospettiva quarantennale. Negli ultimi mesi lei non aveva più telefonato né era andata a trovarlo: qualcosa vorrà dire. Poi insomma, lui sarà anche stato un fumantino, ma le parole erano le sue: «Non ci consultiamo, non ci sentiamo mai, con me non parla, che cazzo faccia davvero lo sappiamo solo dalle indiscrezioni... Sono intervenuto io con Napolitano per fare inserire Emma nel governo Letta, in tutte le sue nomine c' entravo sempre io. Lei invece lavora molto, ma mai con noi». Del tumore abbiamo detto, ma lui aggiunse anche questo: «Ho parlato coi medici e posso dire che non ha motivo per essere allarmata. Poi, se si parla di psichiatria...». A sentire qualche militante, anche autorevole, la cesura definitiva fu la battaglia pannelliana per il «diritto umano alla conoscenza», che la Bonino non condivideva manco per niente. Secondo altri, ciò che a Pannella bruciava di più era invece che lei volasse per conto suo e con obiettivi personali che di radicale avevano poco: «Il suo problema è quello di far parte del jet set internazionale». Sono sempre parole di Pannella. «Io vado in giro a piedi o in taxi, non ho auto nera o blu». Negli ultimi anni, tutte nero su bianco, non erano mancate neppure battute su stipendi e pensioni di lei. «Battaglie comuni? Le mie, semmai... Tutti pensano che debba tutto a me. E questo, per Emma, dev'essere diventato insopportabile». Poi c'è un episodio che per qualche radicale è uno spartiacque: vedere Emma Bonino festeggiare l'anniversario del Concordato a Palazzo Borromeo, questo dopo che aveva combattuto il Concordato per tutta la vita, da anticlericale militante. Parliamo di tre anni fa, e sino a poco tempo prima, ogni 20 settembre, Emma festeggiava la Breccia di Porta Pia coi compagni anticlericali. Poi eccola, un martedì, presenziare all' anniversario della firma dei Patti Lateranensi all' ambasciata italiana presso la Santa Sede: c' erano le più alte cariche ecclesiastiche e naturalmente il segretario di Stato Vaticano. Una scelta obbligata e responsabile, da ministro degli Esteri che lei era? Nemmeno per idea, a quanto pare: e in ogni caso avrebbe potuto mandare uno dei suoi tanti viceministri o capi di gabinetto. Anche perché non era una cerimonia qualsiasi, una scartoffia burocratica, una fisiologica apertura tipo quelle che Pannella stava riservando a un papa sensibile verso il problema dei carcerati: si parla dei Patti Lateranensi e cioè del Concordato, forse il nemico numero uno dei Radicali dalla fondazione a oggi, quel Concordato contro il quale i Radicali promossero un referendum abrogativo poi bocciato dalla Corte Costituzionale. Ancora oggi, se andate sul sito dei Radicali, trovate tutto l'architrave della campagna storica contro i Patti Lateranensi: i costi e finanziamenti enormi, i condizionamenti vaticani sulle libertà civili, le scuole cattoliche, i privilegi fiscali, soprattutto i presidi che i radicali organizzano annualmente «per smascherare una celebrazione vuota e antidemocratica» a cui però la Bonino partecipò un martedì sera, omaggiandola. I Radicali del resto erano stati quelli che avevano portato al Parlamento Europeo il problema dell'Imu non pagata dal Vaticano. La Bonino era senz' altro complementare a Pannella, più istituzionale, va bene, più votata alla ragion di Stato, certo. Ma sino a che punto? La Bonino, nel 1979, manifestò davanti all' ambasciata dell'Iran contro l'imposizione del chador alle donne iraniane: e il 21 dicembre 2012 eccola in Iran che indossava il velo per incontrare le massime autorità iraniane. Ragion di Stato? Ragion di Stato, come pure accadde nel 1997 durante il viaggio da commissario europeo nell' Afghanistan dei talebani. Si può capire. Già è più difficile capire il suo silenzio sulla legge che in Russia reintroduce il divieto di parlare dei «comportamenti sessuali non tradizionali». Ragion di Stato anche qui, forse. La stessa che potrebbe spiegare il silenzio di Emma Bonino quando il governo Prodi di cui faceva parte, nel 2006, rifiutò di incontrare il Dalai Lama per non contrariare gli amici cinesi, noti sostenitori dei diritti umani. Si può capire tutto, ma occorre anche decidere da che punto in poi non si abbia più voglia di capire. Forse Pannella non ne ebbe più voglia. Figurarsi noi. Filippo Facci. 

Marco Pannella, ultimo profeta dell'antipolitica. La morte, la vita, la fame, la sete, i liquidi, la pipì. Il corpo come arma di lotta. Odiato, negli anni Settanta, dalla destra, dai moderati, dai democristiani, dalla sinistra comunista. Torrenziale, logorroico, irrefrenabile. Tra digiuno e televisione, scandalo e politica-spettacolo, coraggio e narcisismo. Storia di un uomo che con le sue battaglie ha cambiato l'Italia più di tanti partiti, scrive Marco Damilano il 19 maggio 2016 su “L’Espresso”. «Un gigionesco mattatore capace di rubare il posto a un morto nella bara pur di mettersi al centro del funerale», scriveva Indro Montanelli di Marco Pannella negli anni Settanta, in un ritratto pur affettuoso: «È figlio nostro, un figlio discolo e protervo, un gianburrasca devastatore, un brancaleone, uno sparafucile, un saccheggiatore di pollai». Ma sempre figlio nostro: di un'Italia laica, liberale, anarchica. Ora che non c'è più, in molti spereranno di vederlo prendere la parola al suo funerale, per non abbandonarla. Alzandosi in piedi, come aveva fatto una volta citando il Calvero di Chaplin in “Luci della ribalta”, Marco Pannella dirà: «Non vi preoccupate, sono già morto tante volte». La morte, la vita, la fame, la sete, i liquidi, la pipì. Il corpo come arma di lotta politica: il corpo delle donne, la libertà dell'utero contro il potere delle mammane, il corpo costretto in cella dei detenuti, il corpo prigioniero della malattia come quello di Luca Coscioni, ma anche il corpo di Ilona Staller nell'aula della Camera, con il seno nudo in piazza Montecitorio, a scandalizzare i benpensanti. E, più di tutto, il corpo del Marco, offerto a riscatto dei non rappresentati, quasi cristologico ma più di ogni cosa pannellacentrico, brandito come un oggetto contundente, gettato nella mischia, slentato, deformato. Carne, sangue, guance infossate, labbra screpolate, occhi vitrei. E la voce che non si fermava mai. Il primo digiuno pannelliano risale al 10 novembre 1969, un mese prima della strage di piazza Fontana, serve ad accelerare il voto della Camera sulla legge Fortuna-Baslini sul divorzio, sarà approvata diciotto giorni dopo. Il secondo, nel 1972, è per l'approvazione della legge sull'obiezione di coscienza. Il più drammatico (e tra i più lunghi: durerà 78 giorni) è quello che comincia il 3 maggio 1974, nove giorni prima del referendum sul divorzio. La sala Cavour dell'hotel Minerva è «la sala del digiuno», la chiama Camilla Cederna, nella stanza 167, costo seimila lire al giorno, Pannella è steso su un lettino, i medici diffondono comunicati: all'inizio il digiunante pesa novantanove chili e trecento grammi, alla fine scenderà a settantadue chili, le pulsazioni del cuore passano da ottantaquattro a quaranta, l'alimentazione è garantita da quattro tazze di latte macchiato, due cucchiaini di zucchero, sette litri di acqua. Interviene Pier Paolo Pasolini sul “Corriere”: «Marco Pannella è giunto allo stremo. La volgarità del realismo politico sembra non poter trovare alcun punto di connessione col candore di Pannella, e quindi la possibilità di esorcizzare e inglobare il suo scandalo. Il mondo del potere ignora, reprime, esclude Pannella, fino al punto di fare, eventualmente, del suo amore per la vita, un assassinio». Pannella digiuna per un quarto d'ora di televisione della Lid, la lega italiana divorzista, e un quarto d'ora per l'abate Franzoni, capofila dei cattolici del dissenso. Il 19 luglio il leader dei radicali appare sul piccolo schermo, la Rai democristiana vacilla, poi ecumenicamente apre le porte. E per la prima volta le due dimensioni del pannellismo si toccano: digiuno e televisione, scandalo e politica-spettacolo, coraggio e narcisismo, il brivido del funambolo che cammina sul filo. «Può darsi che si esibisca, ma senza rete di protezione», scrive Enzo Biagi. Pannella vestito da Babbo Natale. Pannella che distribuisce a ferragosto le banconote del finanziamento pubblico. Pannella che fuma gli spinelli e brinda con la sua pipì e la beve davanti alle telecamere. Pannella sotto il lenzuolo che fa il fantasma. Pannella con il numero degli iscritti al partito radicale dipinti sulla fronte. Torrenziale, logorroico, irrefrenabile nei suoi fili diretti con gli ascoltatori nella notti di “Teleroma 56” e di Radioradicale, affiancato da Massimo Bordin. Ma l'intervento più riuscito resta quello di giovedì 18 maggio 1978, alla tribuna autogestita sul referendum, in prima serata su Raiuno. Via la sigletta, appaiono seduti uno accanto all'altro Pannella e Mauro Mellini. Imbavagliati, con lo sguardo fisso e un cartello al collo, identici alle foto polaroid di Aldo Moro nel covo delle Br che hanno appena sconvolto gli italiani. Silenzio assoluto, cambiano i cartelli («Cittadini, difendete subito i vostri diritti!»), cambiano i compagni di Pannella (entrano Gianfranco Spadaccia e Emma Bonino), per ventiquattro interminabili minuti. Il più fragoroso silenzio della storia della tv italiana. Pannella odiato, negli anni Settanta, dalla destra, dai moderati, dai democristiani, dalla sinistra comunista. La sera della vittoria più bella, il referendum sul divorzio del 12 maggio 1974, i radicali festeggiano in piazza Navona. Si affacciano Maurizio Ferrara (il papà di Giuliano) e Paolo Bufalini, comunisti togliattiani e romani veraci. E Ferrara riassume pesantemente lo spettacolo in un sonetto: «'na manica de gente assai lasciva/finocchi e vacche ignude alla Godiva./Ar vedelli smanià come bonzi/sor Paolo ciancicò: “Bell'allegria,/ce tocca vince pure pe' sti stronzi"». Quando due anni dopo Pannella si avvicina al portone di Botteghe Oscure il compagno di vigilanza lo abbatte con un pugno. E Ferrara racconta la scena: «'Sto marpione fa l'offeso, me punta, fa 'no strillo/ e m'è toccato a daje 'no sgrugnone». A ripensarci i radicali nudi sul palcoscenico, l'onorevole Cicciolina e le parolacce lanciate al telefono nel microfono aperto di Radio radicale già a metà degli anni Ottanta, antenato della volgarità on line e degli insulti contro gli avversari sulla Rete, la campagna per le astensioni e le schede bianche e nulle nel 1983 e le grida contro «il Parlamento-squillo» che accompagnano l'ingresso in aula del deputato Toni Negri (che poi scapperà), si capisce adesso quel che allora sfuggiva a tutti, tranne che a Pannella. Che la politica italiana era entrata in crisi, già negli anni Settanta, che le forme tradizionali della politica non rappresentavano più la società, in crescita vertiginosa, civile e economica, ma anche disorientata e confusa. Di questa trasformazione epocale Pannella è stato l'interprete più geniale. Ha anticipato tutto: la politica-spettacolo, la trasversalità, la personalizzazione (nel 1992 fu il primo a candidare in Italia una lista con il suo nome: lista Pannella). La disaffezione: nel 1983 fece una doppia campagna elettorale, per il suo partito e per le schede bianche-nulle e astensioni. E la partecipazione, con i referendum, in fondo la sua invenzione che resterà. La bio-politica: l'onda lunga che è arrivata fino ad oggi, alle unioni civili, alla paternità di Nichi Vendola. Politico di professione, come forse nessuno, totus politicus, avvezzo a tutte le manovre e le furbizie, fin dagli anni dell'Unuri, del partito liberale, del “Mondo”, del partito radicale nato nel 1955, della tribù di Torre Argentina, unita nel segno di Marco e divisa nella diaspora a destra e a sinistra, da Francesco Rutelli a Daniele Capezzone, da Benedetto Della Vedova a Peppino Calderisi, Marco Taradash, Roberto Giachetti e, più di tutti, Emma Bonino. Difensore delle istituzioni repubblicane, dunque, ma anche profeta dell'antipolitica, modernamente intesa, anticipatore di processi di distruzione, spericolatamente a cavallo tra la ridicolizzazione dell'esistente, il libertinismo politico, il buffone che dichiara la nudità del Re e del potere. «Sì, sono un guitto», diceva di sé ben prima che Beppe Grillo immaginasse di fare un giorno politica. E Federico Fellini, in “Ginger e Fred” (1986), piazza il politico digiunante e lamentoso nel caravanserraglio dell'anticamera di un talk show, insieme a Moana Pozzi, immagine profetica della politica attuale. La battaglia più importante resta quella sui diritti civili, la più generosa quella sulla fame nel mondo che gli valse l'apprezzamento di papa Wojtyla, la più bella quella su Enzo Tortora e la giustizia giusta. Quando insieme salirono sul palco di piazza Navona, una sera, indimenticabile il viso scavato del giornalista ingiustamente processato, la sua dignità, Pannella che si regge i pantaloni mentre la sua passione oratoria travolge e commuove la folla. Gli ultimi anni ci consegnano l'immagine di un Marco in lotta contro la pena di morte, con il Dalai Lama, per i Montagnards vietnamiti, forse contro se stesso. Tollerato nel Palazzo, considerato un monumento nazionale, un padre della patria, ciclicamente candidato allo scranno di senatore a vita, di casa al Quirinale, da Sandro Pertini a Giorgio Napolitano, fino a Sergio Mattarella che un anno fa lo ha ricevuto per primo dopo l'elezione al Colle (e ne venne fuori un video strepitoso), dopo aver contribuito a sloggiare un altro inquilino, Giovanni Leone. Tutti gli altri leader si sono prima o poi impannellati, come ha scritto Filippo Ceccarelli. E nelle ultime settimane tutti si sono fatti vedere nella sua mansarda vicino alla Fontana di Trevi, fotografati accanto al leader, ripresi al citofono del portone, fino al giorno del suo ottantaseiesismo compleanno, il 2 maggio. Una lunga cerimonia degli addii, con Matteo Renzi e Silvio Berlusconi che nel 2013, appena condannato dalla Cassazione, si mise seduto al banchetto dei radicali in piazza di Torre Argentina per firmare i nuovi referendum, gli ennesimi quesiti. Quella mattina di fine estate Marco si allontanò sotto il sole ancora estivo con la busta di plastica della spesa, il sigaro tra le dita, i piedi scalzi alle scarpe, la buffa cravatta sul maglione blu, il codino da capo indiano. Così lo abbiamo incontrato ancora fino a pochi mesi fa, sotto la sede del Partito radicale in via di Torre Argentina, la sua vera casa. Era ormai trasfigurato, fino ad assomigliare al Pannella più puro, il laico e il cristiano, l'uomo delle verità impazzite, come può essere pazza e dolce e tagliente la verità. Il Pannella che nel 1973 di sé aveva scritto ad Andrea Valcarenghi nel testo che Pasolini considerò «il manifesto del radicalismo moderno»: «Io amo gli obiettori, i fuorilegge del matrimonio, i capelloni sottoproletari anfetaminizzati, i cecoslovacchi della primavera, i non violenti, i libertari, i veri credenti, le femministe, gli omosessuali, i borghesi come me, la gente con il suo intelligente qualunquismo e la sua triste disperazione. Amo speranze antiche: ideali politici vecchi quanto il secolo dei lumi, la rivoluzione borghese, i canti anarchici. Non credo al potere e ripudio perfino la fantasia se minaccia di occuparlo. Sogno una società senza violenza e aggressività. Credo alla parola che si ascolta e che si dice, ai racconti che ci si fa in cucina, a letto, per le strade, al lavoro, più che ai saggi o alle invettive, ai testi più o meno sacri ed alle ideologie...». Pannella non c'è più. Resteranno il fumo, le parole, i silenzi. E chissà poi se è morto per davvero.

Lo scandalo e la bestemmia, scriveva già il 22 marzo 2016, prima della morte di Pannella, Alessandro Gilioli su “L’Espresso”. A volte succede agli eterodossi, ai fuori-dal-branco, agli underdog: finire la propria parabola celebrati e coccolati proprio dall'establishment, dalle istituzioni, dal mainstream. Un paradosso, forse, ma paradossale è la vita. È quello che è successo nelle sue ultime settimane a Marco Pannella: che pure è stato, per decenni, «lo scandalo e la bestemmia» della politica italiana, come diceva di lui Pier Paolo Pasolini. Lo è stato per le battaglie che proponeva, così spaventose per la Dc e così urticanti per il Pci: il divorzio, l'aborto, l'obiezione di coscienza al militare, la legalizzazione delle droghe leggere, la condizione carceraria, l'eutanasia - per dirne solo alcune. Ma lo è stato soprattutto per il modo in cui lottava, per le pratiche che metteva in atto: anticonformiste, irridenti, provocatorie. Aliene da calcoli di partito, da strategie di corridoio. Frontali, aperte, imprudenti. Arroganti, talvolta: ma di quell'arroganza a cui le minoranze ricorrono per farsi sentire, avendo minor voce. Ha ottenuto molto così per l'Italia, si sa. Il divorzio, l'aborto e la legge sull'obiezione di coscienza alla naia, tra le altre cose. Ma direi anche, in tempi più recenti, l'abolizione de facto della legge medievale sulla fecondazione in vitro, fatta fuori pezzo a pezzo dai ricorsi dell'Associazione Luca Coscioni, una delle declinazioni tuttora migliori della galassia radicale. Ma è oltre i risultati politici che in questi giorni mi piace pensare a Pannella, a ciò che di buono ci ha dato e quindi ci lascerà. È cioè nel modo di ragionare, tipicamente radicale appunto: non sedersi mai dentro un'ideologia e nemmeno dentro un pensiero sistematico, dato che la complessità del mondo non permette alcuna onesta sistematicità; e la sistematicità alla lunga diventa una prigione per se stessi e una menzogna per gli altri, una grande ipocrisia individuale e collettiva. E poi: mescolare sempre il pubblico e il privato, il proprio corpo con le proprie idee, le proprie parole con le proprie azioni. Rovesciando ogni giorno il modo di pensare e di reagire più immediato e comune, quello che a chiunque viene in mente per primo: per stordire e stupire gli interlocutori con una mossa a sorpresa, con una scelta controintuitiva, insomma facendo il contrario di quello che gli altri si sarebbero aspettati. Disturbando, sempre, perché Pannella è stato fondamentalmente un disturbatore: delle certezze, delle coscienze, delle zone erronee incrostate di ciascuno e soprattutto di quelle della maggioranza. Ecco, a proposito: se c'è una paura che Pannella non ha mai avuto, è quella di essere minoranza. Ed è stato senza alcuna vergogna che con dieci o quindici compagni ha marciato per anni a Capodanno o a Ferragosto, tra i passanti che lo guardavano con sufficienza. Che lezione per i berlusconiani di ieri e molti renziani di oggi, cioè per tutti quelli che quando li contrasti nel merito ti rispondono che invece la maggioranza la pensa come loro, quindi hanno ragione. Già: Pannella è stato il più grande avversario immaginabile dell'argumentum ad populum, ma quella battaglia culturale proprio non l'ha vinta, in questo Paese. Poi ne ha cannate tante, Pannella, certo. Specie negli ultimi dieci-quindici anni. Fino a diventare, a tratti, quasi la negazione di se stesso, di quel se stesso che combatteva senza paure contro ogni conformismo, ogni conventicola, ogni istituzione, ogni potere, ogni polvere nascosta sotto il tappeto. Di qui forse anche il pellegrinaggio dell'establishment al suo capezzale, in questi giorni. È andata così e i primi a saperlo sono i Radicali stessi - quei pochi rimasti, quei pochi che lui non ha divorato come Crono: che pure da Pannella hanno imparato tutto, anche a detestarne la superbia e l'autocrazia, anche a contestarne le follie un po' solipsistiche, anche a criticarne la riluttanza nel preparare qualsiasi successione, come se lui volesse far morire con sé il partito che aveva creato. Questo è stato anche, per decenni, Pannella. Crogiolo di contraddizioni che però ci ha insegnato, appunto, a considerare le contraddizioni meno truffaldine di qualsiasi ideologia. Perché le contraddizioni palesano, mentre l'ideologia nasconde. Personalmente, poi, gli sono grato per le pubbliche urla di nonviolenza - sì,urla di nonviolenza - che negli anni Settanta hanno contribuito a tenermi lontano dalle peggiori derive dei movimenti. Mi sembrava più contemporaneo e antisistema lui, alla fine, di quelli dell'Autonomia operaia. È grazie a un banchetto in cui raccoglievamo firme per i referendum radicali, nella piazza Santo Stefano di Milano, che in un sabato di marzo del 1977 non sono andato in via De Amicis. E chissà che piega avrebbe preso la mia vita, se in quel giorno incerto avessi fatto la scelta contraria. Roba vecchissima, e i più giovani se non cliccano il link non sanno neanche di cosa sto parlando. Ma è proprio per loro, per quelli che hanno meno di 35-40 anni, che ho vinto l'imbarazzo di scrivere queste righe, di star dentro anch'io nel coro di elogi con cui oggi i potenti lo abbracciano - per riverginarsi e autoassolversi. Perché sappiano anche loro, i ragazzi, che Pannella non è stato solo l'uomo che hanno visto in questi ultimi tempi: autocentrato, narcisista, innocuo - e tutto sommato omologabile. Ma una persona la cui vita di scandalo e bestemmia è valsa la pena di essere vissuta.

Paolo Guzzanti su “Libero Quotidiano” del 21 maggio 2016 demolisce Pannella: "Tiranno, egocentrico e... La mia verità sul leader Radicale". Adesso che Marco Pannella è morto tutti lo incensano, ma, scrive Paolo Guzzanti sul Giornale, non tutti lo amavano. Per esempio Eugenio Scalfari "detestava, detestato a sua volta, Marco Pannella fin dai tempi in cui fondarono il partito radicale da sponde lontane". L'operazione Rutelli sindaco di Roma, continua, "non mi piacque e abbandonai il buen retiro lasciando una nota di spiegazione. Da allora non mi volle più parlare. Ci siamo però incontrati altre volte e lo trovavo sempre più incattivito, vanitoso oltre la soglia del sopportabile e gelosissimo di chiunque potesse dargli ombra". Come Saturno, spiega Guzzanti, "mangiava i suoi figli politici. Il suoprotagonismo lo spinse a compiere la restaurazione che portò Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale dopo Cossiga. Anche allora tutti applaudirono. Pannella adorava essere adorato e non metteva freni ai suoi umori. Da Radio Radicale aggrediva chi gli stava sullo stomaco in quel momento con una facondia straripante e irosa come quella di Fidel Castro". Insomma, conclude, "a rabbia e l'asimmetria nei giudizi erano il suo motore". Ma era anche "un amabile e insopportabile tiranno per chi gli stava accanto".

Filippo Facci su “Libero Quotidiano” del 21 maggio 2016: Essi vivono. Marco, era perfetto, era il momento giusto. Cioè: in un pugno di ore capita di passare dal contorcimento interiore per l'epilogo di Marco Pannella (scorrendo in rassegna sessantanni di battaglie fondamentali che non sempre hanno avuto lo spazio che meritavano) al dovere professionale di riportare e commentare un'altra notizia che evidentemente di spazio ne ha trovato eccome, cioè questa: durante un ricevimento in Vaticano, Mario Balotelli e Philippe Mexes (Milan) si sono scattati un selfie irriguardoso con il Papa sullo sfondo. In uno scatto si vede Mexes che fa la bocca da papero, nell' altro si vede Balotelli che - peggio - fa la faccia normale. Papa Francesco è dietro di loro, sul filo del fuorigioco. Come da tradizione giornalistica, si segnala un precedente: circa un mese fa, nel giorno del funerale di Cesare Maldini, i due geni del Milan si erano fatti un altro selfie con la lingua fuori e un'oggettiva espressione da idioti. Fine della notizia. Nostro commento? Nessuno, tranne questo, appunto: ottima scelta, Marco, momento perfetto. Te la ricordi la rubrica di Umberto Eco su L' Espresso del 12 giugno 1997: "L' unico modo di prepararsi alla morte è convincersi che tutti gli altri siano dei coglioni. Da giovani bisogna pensare che tutti siano migliori di noi, dalla mezz' età bisogna avere i primi dubbi, del crepuscolo dev'essere la progressiva certezza che niente da fare: sono proprio tutti dei coglioni. Capirlo con tempismo è un'arte sottile". Dacci tempo, Marco, siamo sulla buona strada.

Pannella e la sinistra, strade parallele. Il leader radicale era visto con diffidenza dal Pci di Berlinguer, perché il suo scandalo non era integrabile: eppure la sua parabola umana e politica si è intrecciata più volte con i sentimenti e i destini dei protagonisti del comunismo (e del socialismo), scrive “Il Corriere della Sera” il 21 maggio 2016. Sul portone di Botteghe Oscure, per dire, prese uno schiaffone da un compagno della «vigilanza», indifferente alla rosa che gli veniva offerta: era il maggio del 1976, i radicali si apprestavano a fare opposizione in Parlamento (e la fecero, eccome, anche se erano solo in quattro) ai governi di solidarietà nazionale, e l’Unità parlava sprezzantemente di lui come di Pannella Giacinto, detto Marco. Ma, meno di vent’anni prima, quel portone Pannella lo aveva varcato per parlare a quattr’occhi con Palmiro Togliatti, lo stesso Togliatti che, piegando le ritrosie di Enrico e Giovanni Berlinguer, aveva sponsorizzato lo scioglimento del Cudi, l’associazione degli universitari socialcomunisti, e la loro confluenza nell’Unione goliardica italiana, di cui Pannella era stato ed era tuttora magna pars. «Sa, onorevole, noi radicali siamo forse gli ultimi illuministi», azzardò Marco. «Se è per questo non si preoccupi, è un peccato veniale», replicò il Migliore. E tredici anni dopo, quando venne giù fragorosamente il Muro di Berlino, e Achille Occhetto si provò, senza successo, a dar forma alla Cosa chiamata a subentrare al Pci, Pannella fu, all’inizio, prepotentemente della partita. Provocando parecchie reazioni, tra il preoccupato e l’indignato, all’idea che stesse nascendo un improbabile «partito radicale di massa». Tutto questo per dire che certo, allo «scandalo inintegrabile» Marco Pannella la sinistra reale di questo Paese, e forse lo stesso concetto di sinistra, andavano stretti, strettissimi: ma pure, come ha ricordato Pierluigi Battista, che nella sinistra, contro la quale pure quotidianamente lanciava i suoi strali, il liberale, libertario, libertino Pannella era ancorato. Nel suo irripetibile modo, naturalmente: e cioè come vivente (e ostentato fino all’insopportabilità) segno di contraddizione. Fu così, naturalmente, negli anni Settanta, che nella vulgata si ricordano pressoché solo come anni di piombo ma furono, grazie in primo luogo a lui, anche anni di diritti e di libertà. O, più precisamente, di una secolarizzazione della società italiana e di un nuovo individualismo di massa che misero in crisi vistosa la Dc fanfaniana, certo, ma incrinarono pure, e quanto in profondità lo si sarebbe visto nel volgere di pochi anni, il radicamento politico, sociale e culturale di un Pci che pure, in termini elettorali, ne traeva il massimo giovamento. Lo colse, e lo visse come un pericolo mortale, Enrico Berlinguer, che detestava Pannella e ancor più la «società radicale» di cui scriveva Gianni Baget Bozzo. E lo colse pure, ma nello spirito opposto di chi su questa grande trasformazione faceva affidamento per il proprio futuro politico, Bettino Craxi: Pannella lo conosceva benissimo sin dai tempi delle battaglie universitarie, e lo considerava un interlocutore da ascoltare, sì, ma da prendere con le molle (per evitare, diceva lui, di farsi «impannellare»), e per un lungo tratto anche, e soprattutto, un concorrente. Nessuno o quasi lo ricorda più, ma molto si scrisse e si discusse, tra i Settanta e gli Ottanta, su chi dei due avrebbe potuto essere il Mitterrand italiano; e, a corsa ormai finita, fu a Pannella che Craxi provò in extremis a intestare, senza successo, quel che restava del Psi. Storie di ieri, anzi, dell’altro ieri. Storie di quando c’era la sinistra, e Pannella, il liberale di strada abilissimo nel praticare i piani alti come i sottoscala della politica, poteva immaginare di influenzarne le sorti, o addirittura di prenderne, direttamente o indirettamente, la guida. Ma chi in queste ore lo presenta come una specie di precursore di Beppe Grillo e del grillismo dovrebbe tenerne conto. E ricordare pure che qualcosa (nel caso di Pannella: moltissimo) contano anche i valori, o se volete i sogni, almeno nella misura in cui si riesce a tradurli in realtà. Altro che giustizialismo, altro che tintinnar di manette. Non so se tra i sogni di Marco, il garantista inesausto e inesauribile combattente contro la partitocrazia e i «ladri di legalità», ci sia stato quello (anarchico) di un mondo senza galere. Di sicuro c’è stato, sino alla fine, un impegno fortissimo e vissuto dolorosamente per gli ultimi in carne e ossa, i carcerati. Non ha ottenuto molto, e ha trovato pochi compagni di strada. Tra questi, mi piace ricordarlo, Giorgio Napolitano. Che, salutandolo per l’ultima volta sull’Unità, ha scritto: «Abbiamo per decenni camminato per sentieri paralleli, attraverso consensi e dissensi, separandoci e ritrovandoci, sempre rispettandoci a vicenda e restando legati da sentimenti comuni e da solidarietà di fondo». Non è vero per tutta la sinistra, ma per la parte migliore della sinistra, sì.

Perché sono ipocriti da sinistra gli elogi a Marco Pannella, scrive Umberto Minopoli su Formiche il 21 maggio 2016. Trovo un po’ ipocrite e reticenti le celebrazioni da sinistra di Pannella. Del suo pensiero si vuole ricordare solo il lato laicista e anticlericale. Tutti dimenticano, invece, il Pannella strenuo liberista, l’evocatore delle battaglie liberali di Ernesto Rossi, il sostenitore in Italia della traduzione in politica del liberalismo sociale di Gobetti, il teorizzatore dell’incontro – la rosa nel pugno – tra liberismo e socialismo riformista, il nemico dello statalismo, del collettivismo socialista, del corporativismo sindacale, il censore dei ritardi italiani in economia dovuti al compromesso storico quarantennale tra tradizione comunista e conservatorismo cattolico-statalista. Questo Pannella io lo ritengo assai più coraggioso, importante e utile del laicista anticlericale o del Pannella antiproibizionista estremo. So che un uomo politico non si può prendere in parte. Ma questa terza parte di Pannella, liberale e liberista, è quella che a me piace di più. E che mi ha fatto cambiare delle idee. E questo Pannella liberale e liberista, ha rappresentato, per me, la presenza coraggiosa in un’Italia egemonizzata dal pensiero unico, statalista.

La sinistra di oggi più figlia sua che di Berlinguer e Moro, scrive Fabrizio Rondolino il 20 maggio 2016 su “L’Unità”. La grande bellezza di Marco Pannella è il fuoco della libertà – la sua libertà, cioè la libertà di ciascuno di noi. Ognuno di noi ha un’immagine di Marco Pannella nella memoria –non soltanto delle sue grandi, impossibili, necessarie battaglie, ma anche del suo corpo ora rinsecchito dal digiuno e ora invece monumentale, del suo grande, enorme naso, della sua criniera di capelli argentati. Fra le tante cose che Pannella ci ha insegnato, c’è anche la fisicità della leadership, la centralità del corpo nella comunicazione politica moderna, l’esemplarità del gesto che s’invera nella carne di chi lo compie. E ora che il corpo di Pannella ci ha lasciati, l’irripetibilità della sua avventura umana e politica –verrebbe da dire: politica perché umana – ci lascia soli e sconsolati. La centralità assoluta del corpo in Pannella non è stata però soltanto la prima manifestazione di quella personalizzazione della politica (e dei partiti) che ha progressivamente sostituito la struttura burocratica e impersonale degli apparati e dei gruppi dirigenti: il corpo, in Pannella, significa prima di tutto il corpo di Pannella: inconfondibile, e per questo libero. Perché la libertà –e questa è senz’altro la grande, fondamentale lezione che il leader radicale ha tentato non sempre con successo di impartire ad una sinistra profondamente, strutturalmente collettivista – è soltanto libertà dell’individuo, libertà di ogni soggetto irriducibile per legge naturale a qualunque schema, legge o imperativo che ne invada la sfera personale, libertà di ciascuno come condizione unica e irrinunciabile della libertà di tutti. Pannella, da questo punto di vista, è l’erede e il frutto politico più autentico del Sessantotto, che ovunque tranne che in Italia e in Francia – dove prevalse invece un neomarxismo desolatamente provinciale – aveva un profondo segno libertario e individualista. La modernità “anglosassone” del leader radicale – tutti i liberali, del resto, sono culturalmente anglosassoni – è stata la prima vera grande sfida al Pci del compromesso storico e del centralismo democratico. Un giorno Pannella rivelò di aver ricevuto da Bettino Craxi, negli anni bui di Tangentopoli, una sorta di investitura ufficiale per raccoglierne lo scettro. Il leader radicale rifiutò, Craxi prese la strada di Hammamet e il Psi, dopo molti sussulti e tre segretari cambiati in pochi mesi, letteralmente si dissolse. Ciò non significa, naturalmente, che Pannella avrebbe salvato il Psi, e che poi avrebbe conquistato la leadership della sinistra, e che infine avrebbe sconfitto Berlusconi nel ’94 – o magari avrebbe sconfitto Occhetto al posto di Berlusconi, rimasto felicemente ad Arcore, chissà. Quel che è certo è che la sinistra come la conosciamo oggi in Italia è figlia più di Pannella (e di Craxi) che di Berlinguer o di Moro, sebbene – e questo è uno dei tanti paradossi italiani – i radicali e i socialisti nel Pd siano pochissimi. E’ nell’Ugi degli anni ’50, vera e propria scuola-quadri della classe dirigente laico-socialista, che si mescolano e s’intrecciano le componenti riformiste e laiche della giovane sinistra anticomunista che voleva l’alternativa alla Dc. Ad un Pci impegnato nel cambiare la società ma sostanzialmente sordo al destino degli individui, socialisti autonomisti, radicali e laici opponevano un’idea di sinistra liberale e “individualista” che diventerà poi il manifesto di Bill Clinton e di Tony Blair. Negli anni in cui Craxi conquista la segreteria del Psi e consolida il suo potere nel partito, il rapporto con Pannella si fa sempre più intenso, anche in virtù della comune, profonda avversione per il compromesso storico, che troverà poi espressione simbolica (e politica) nelle polemiche sulla “fermezza” seguite al rapimento Moro. La modernizzazione della sinistra cui si dedicò con tenacia Craxi (dalla polemica ideologica su Lenin e Proudhon alla Conferenza programmatica di Rimini fino allo scontro sulla scala mobile) incontrava oggettivamente la cultura del Partito radicale, e ne celebrava le origini comuni nel nome di Ernesto Rossi, dei fratelli Rosselli, di Gaetano Salvemini. Politicamente, Pannella esaurisce la sua funzione con il crollo della Prima repubblica: il bipolarismo – per quanto coatto e improbabile sia stato il nostro – non prevede la trasversalità, il nomadismo, l’impollinazione creativa ma, al contrario, impone un’alleanza che tuttavia, nel caso del Partito radicale, equivale alla rinuncia ad un modo di fare politica negli interstizi del sistema (oltreché nelle piazze e con i referendum) che funziona alla perfezione soltanto in un sistema consociativo e sostanzialmente bloccato. Ciò nondimeno, il Pannella della Seconda repubblica non è stato meno iconico: semmai, è stato meno urticante. La sua progressiva ascesa nel pantheon della Nazione, sebbene non sia mai stata coronata dalla doverosa nomina a senatore a vita, ne ha fatto una figura amata e rispettata, paradossalmente al di sopra della mischia pur essendo, lui, incapace di non immischiarsi, impegnato nel dialogo con Papi e presidenti e, per dir così, istituzionalizzato persino nella protesta estrema dello sciopero della fame, che di tanto in tanto lo riproponeva nei telegiornali di prima serata. Ma questi sono dettagli, particolari secondari. La grande bellezza di Marco Pannella è il fuoco della libertà – la sua libertà, cioè la libertà di ciascuno di noi.

La sinistra di oggi è più figlia di Pannella e Craxi o di Berlinguer e Moro? Si chiede Francesco Damato su Formiche il 21 maggio 2016. Fra i tantissimi articoli letti in memoria di Marco Pannella, mi ha colpito di più per il contenuto e per il giornale che l’ha diffuso – l’Unità - quello di Fabrizio Rondolino, già collaboratore di Massimo D’Alema e oggi fra i più vicini, se non il più vicino in assoluto a Matteo Renzi. “Quel che è certo è che la sinistra come la conosciamo oggi in Italia – ha scritto testualmente Rondolino – è figlia più di Pannella (e di Craxi) che di Berlinguer e di Moro, sebbene i radicali e i socialisti nel Pd siano pochissimi”. “E questo – ha aggiunto in un inciso – è uno dei tanti paradossi italiani”. Il coraggio di Rondolino è stato solo parzialmente riversato nel titolo, si presume dal direttore uscente del quotidiano fondato da Antonio Gramsci: “La sinistra di oggi, più sua che di Berlinguer e Moro”. Dove per sua s’intende naturalmente Pannella, ma manca il riferimento di Rondolino anche a Bettino Craxi. Che evidentemente è ritenuto da Erasmo D’Angelis, il direttore appunto dell’Unità di cui è stata annunciata un’imminente sostituzione, un personaggio ancora troppo scomodo, diciamo pure indigesto ad una certa nomenclatura e militanza del Pd già sofferente per la svolta riformista impressa al partito da Renzi. Si può ben considerare tanto galeotta quanto clamorosa quella parentesi dedicata da Rondolino allo scomparso leader socialista, che in effetti con Pannella condusse tante battaglie, pur dissentendo da altre. Egli condivise, per esempio, le cause del divorzio, dell’aborto, della responsabilità civile dei magistrati. Dissentì invece dalla liberalizzazione della droga e dalla rinuncia al Concordato con la Chiesa, che Craxi preferì rinegoziare, riuscendo in una trattativa tentata inutilmente dai suoi predecessori. E raccontò poi scherzosamente di essersene scusato con un busto del suo amatissimo Giuseppe Garibaldi, cui Pannella s’ispirava invece nella sua posizione anticoncordataria. Che tuttavia non gli impediva di tenere eccellenti rapporti personali con Pontefici ed altre gerarchie ecclesiastiche, in una miscela di felici contraddizioni di cui solo lui era capace, come dimostra la sua ultima, struggente lettera a Papa Francesco, con quel finale “ti voglio bene davvero”. La sacralità della figura di Enrico Berlinguer, un leader forse ancora più popolare del mitico ma ormai lontanissimo Palmiro Togliatti nella memoria dei comunisti italiani, è già stata messa in discussione sull’Unità di conio, diciamo così, renziano con un ampio, approfondito e non monocorde dibattito. Al quale peraltro, a torto o a ragione, molti nel Pd hanno attribuito buona parte della perdita di copie, e dei conseguenti problemi economici della tormentata testata, già scomparsa due volte dalle edicole negli ultimi anni. Figuriamoci che cosa accadrebbe – si deve essere chiesto il direttore titolando l’articolo di Rondolino – se adesso si apre un dibattito anche su quello che viene ancora considerato da parecchi nel Pd il nemico storico Craxi. Del quale, in verità, ha potuto scrivere di recente sull’Unità l’ex dirigente socialista Fabrizio Cicchitto, poi capogruppo di Forza Italia alla Camera e ora fra gli esponenti del partito di Angelino Alfano più convinti dell’utilità, anzi della necessità dell’alleanza col Pd di Renzi. Ma lo ha fatto con un articolo di rivendicazione dei meriti di Craxi e, insieme, di riconoscimento dei suoi errori. Che sono poi quelli rimproveratigli in vita ai loro tempi dai dirigenti del Pci, a cominciare da un presunto appiattimento finale sulle posizioni degli alleati democristiani Arnaldo Forlani e Giulio Andreotti. Lo stesso Andreotti, tuttavia, che i comunisti negli anni della maggioranza di cosiddetta solidarietà nazionale, fra il 1976 e la fine del 1978, avevano appoggiato a Palazzo Chigi, preferendolo ad altri democristiani. Quanto poi alla sacralità della figura di Aldo Moro, essa non impedì ai dirigenti del Pci, quando il presidente dello scudo crociato fu sequestrato dalle brigate rosse, di respingerne i tragici appelli dalla prigione delle Brigate rosse a trattarne in qualche modo il rilascio, come reclamavano insieme anche Pannella e Craxi procurandosi l’accusa d’irresponsabile cedimento al terrorismo. Eppure tre anni dopo il sequestro e la morte di Moro, nel 1981, la Dc avrebbe trattato addirittura con la mediazione della camorra il rilascio dell’assessore regionale campano Ciro Cirillo, anche lui sequestrato dalle Brigate rosse. Per fortuna Renzi in quei tempi era soltanto un bambino, essendo nato nel 1975. E del Pci e della Dc non si poteva francamente immaginare la fine che avrebbero fatto. L’aveva forse intuita il povero Moro subendo gli effetti delle loro convergenze, un po’ meno parallele di quelle che egli aveva immaginato e teorizzato negli anni Sessanta per preparare l’alleanza di centrosinistra con i socialisti di Pietro Nenni. Alla cui scuola stava peraltro crescendo l’allora giovanissimo Craxi. Non so se Renzi, giustamente prodigo di elogi con Pannella, prima ancora di onorarne la morte, avendo fatto in tempo a fargli visita a casa col candidato a sindaco di Roma e vice presidente della Camera Roberto Giachetti, ha letto l’articolo di Fabrizio Rondolino. Che con quella parentesi lo ha invitato praticamente a riconoscersi anche nell’eredità riformista di Craxi, smettendo di parlarne come di una figura “non pedagogica”, per via delle sue disavventure giudiziarie, che gli fecero pagare con una durezza “senza pari”, come riconobbe dieci anni dopo la sua morte Giorgio Napolitano al Quirinale scrivendo una nobile lettera alla moglie Anna, il fenomeno largamente diffuso del finanziamento illegale dei partiti e, più in generale, della politica. Un’altra cosa che Renzi dovrebbe smettere di fare è di contrapporne il presunto “opportunismo” di Craxi alla diversità comunista rivendicata da Berlinguer e fatta più di parole che di fatti, come le cronache giudiziarie si sarebbero poi incaricate impietosamente di dimostrare, senza lo scatto generazionale che gli avversari cercano sbrigativamente di addebitare all’attuale segretario del Pd, e presidente del Consiglio.

Pannella, un vecchio vizio. Dalla sinistra radicale all’alleanza con l’estrema destra, scrive Antonio Moscato venerdì 20 maggio 2016 su “Agoravox”. L'articolo è stato pubblicato il 19 gennaio 2013 dal prof. Antonio Moscato sul blog Movimento Operaio e ieri riproposto sulla pagina Facebook a seguito della scomparsa di Marco Pannella. Non sono tra quelli che si sono stupiti per la scelta di Pannella di allearsi con il superfascista Francesco Storace designato da Berlusconi per guidare la riconquista della Regione Lazio. Conosco Pannella dal 1956, quando nelle elezioni per il comune di Roma era apparsa una lista radicale. A me, giovane comunista non ancora diciottenne, era parso interessante che dal vecchio troncone del partito liberale si fosse staccata una sinistra antifascista guidata da Bruno Villabruna, Leopoldo Piccardi, Ernesto Rossi, Leo Valiani. Pannella non era ancora una figura di primo piano, e faceva come me (che tra l’altro non potevo far altro, data l’età) il giro dei seggi per controllare l’andamento dello spoglio delle schede. Ma non era destinato a un ruolo subalterno: in poco tempo i fondatori del partito se ne andarono o furono emarginati, e Pannella emerse come leader unico. Ma il suo partito, ancorché spregiudicato, appariva ai più come di sinistra, anche se cominciavano le dichiarazioni del genere “non siamo né di destra né di sinistra”. Per giunta, ad accrescere la confusione, Pannella usava con larghezza come un insulto la parola “fascista”, anche se la usava di preferenza nei confronti del PCI. Nel 1964 c’era stata una nuova verifica: Pannella aveva rilasciato un’intervista ambigua al giornaletto di Randolfo Pacciardi, ex repubblicano e combattente della guerra di Spagna, ma ultra reazionario e precursore di Licio Gelli con un progetto di “Nuova Repubblica” che anticipava largamente quello della P2. Non molti glielo avevano rinfacciato, e Pannella continuava a pescare militanti nelle sezioni del PCI con il suo apparente radicalismo verbale. Ma non era che l’inizio. Pannella frequentava la sede di “Primula goliardica”, che doveva essere la formazione giovanile di Nuova Repubblica, ed era stata costituita con una campagna acquisti tra i picchiatori del MSI, di AN e di altri gruppuscoli fascistissimi, che per penetrare in ambiente studentesco assumevano spesso vesti nazimaoiste, gridando slogan contro “i due imperialismi”, quello USA e quello sovietico. L’orrore fu vedere insieme a quei fascisti, affacciato al balcone della loro sede, Marco Pannella, mentre la polizia caricava chi come me manifestava contro la “visita privata” di Moisés Ciombé, l’assassino di Lumumba, venuto a Roma per essere ricevuto dal papa. [Il filmato fascistoide del 12 dicembre 1964 della “Settimana Luce” che esaltava la visita di quel mostruoso servo dell’imperialismo, e demonizzava chi protestava]. Nel 1966 questi picchiatori erano ancora operanti come squadracce, e il 29 aprile aggredirono dentro l’università di Roma lo studente socialista Paolo Rossi, uccidendolo. Rischiai di fare uguale fine la stessa sera, dopo la manifestazione per Paolo Rossi, perché finii insieme a Celeste Ingrao e un paio di compagni in un imboscata accanto all’università, organizzata da un “fronte unico” tra picchiatori di “Primula goliardica” e quelli rimasti nel MSI. Me la cavai “solo” con una prognosi di venti giorni…Pannella ancora flirtava con loro, ma poco dopo – vista la crescita di un imponente movimento studentesco - riprendeva accenti di sinistra. I fascisti, dopo aver tentato qualche operazione di penetrazione nel movimento (a Valle Giulia ad esempio furono decisivi per l’esito della battaglia con la polizia, data la loro professionalità come picchiatori), si ritirarono in più sicure - per loro - azioni terroristiche. Molti di quelli che erano stati identificati come gli assassini di Paolo Rossi e miei aggressori, come i fratelli Di Luia, Stefano Delle Chiaie, Flavio Campo, ecc., furono incriminati per le stragi del 1969, ma regolarmente protetti dai servizi segreti, passarono a far danni altrove, ad esempio nella Bolivia di Banzer, sia come guardie del corpo, sia come narcotrafficanti. E Pannella? Riprese il suo posto nella sinistra, riservando però sempre qualche sorpresa. Sempre in vendita al migliore offerente, quindi a volte disponibile per Berlusconi (a cui andava benissimo!), a volte per il PDS-PD, che assurdamente se lo riprendeva nelle truppe ausiliarie, senza turarsi il naso. Va detto che il mito dei radicali come formazione di sinistra è così forte che mentre Pannella trattava con Storace, Ingroia o qualcuno dei suoi cattivi consiglieri proponeva un collegio alla Bonino, vecchia complice di Pannella, e beneficiaria delle sue campagne che la presentano come un’eroina da candidare come Presidente della Repubblica o altro incarico simile. Può essere che la Bonino oggi si dissoci davvero da questa ennesima giravolta, ma ha condiviso per anni le peggiori scelte di Pannella. Se la “rivoluzione civile” avesse un minimo di attenzione alle questioni internazionali, dovrebbe considerare la Bonino una nemica, per la sua costante esaltazione di ogni crimine israeliano (come il bombardamento di Tunisi) e la sua difesa di tante imprese imperialiste. Postilla: Ma pare che a queste cose i consiglieri di Ingroia non pensino molto. e si è visto il risultato in occasione del penoso esordio nella trasmissione di Lucia Annunziata di ieri, con il povero Ingroia attaccato su tutti piani: sembrava sbranato da una muta di cani rabbiosi, da Salustri ai galoppini di Marchionne fatti venire da Pomigliano, ai tanti beceri vocianti a cui non sapeva come rispondere. Ma non ha avuto neppure l’onestà di spiegare che i problemi nelle candidature con in testa di lista a volte fascisti incalliti come Luigi Li Gotti, a volte riformisti inconsistenti come Franco La Torre (con tessera del PD e nostalgia del medesimo), calabresi in toscana e toscani in puglia, non sono conseguenza fatale del solo Porcellum, ma sono dovute alla delega totale della selezione ai segretari di partito, alla faccia della democrazia e della trasparenza. Per giunta i due candidati a cui Ingroia aveva affidato la sua difesa, l’inconsistente Flavio Lotti e il dotto Vladimiro Giacché, studioso accademico di Marx ed esperto economista (ma incapace di reggere allo scontro diretto), non sono stati all’altezza. Ingroia è stato salvato solo da due persone semplici e coraggiose, Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, e Patrizia Moretti, mamma di Federico Aldovrandi, che hanno saputo tener testa efficacemente alla canea scatenata. Su Pannella consiglio un bell’articolo di Giuseppe Paolo Samonà, Mussolini e dintorni, sul numero 3 della rivista “Critica comunista”, giugno luglio 1979, che inserisco qui di seguito. Di Pannella si parla solo verso la fine, ma vale la pena di leggere tutto con calma: Samonà era stato lucido e lungimirante. (a.m.19/1/13)

Rievocazioni e vocazioni. Mussolini e dintorni di Giuseppe Paolo Samonà. Mussolini fascista e Mussolini socialista. Mussolini pacifista, o meglio guerriero contro la guerra e Mussolini interventista. Mussolini direttore dell'«Avanti!» e Mussolini padrone del «Popolo d'Italia». Le antitesi, comprensibilmente forse, più vituperate che analizzate; o magari, dall'enorme mole di lavoro di De Felice, descritte. Entro questo quadro si può registrare di recente una novità positiva: la ricerca di Gerardo Bozzetti su Mussolini direttore dell'«Avanti!» pubblicata di recente da Feltrinelli e della quale ben si può dire che tenta di entrare nel cuore. di una di queste antitesi (e quindi anche delle altre, dato il loro evidente collegamento). A dire il vero, c'era stato in passato qualche tentativo in questo senso, ma si era trattato di tentativi più o meno celatamente propagandistici, di parte riformista moderata, per mostrare la continuità stilistica, e non solo, fra il Mussolini massimalista e quello nazionalista e poi fascista; il che avrebbe dovuto insinuare il sospetto di una più sostanziale continuità politica, spia di una intrinseca intercambiabilità fra opposti estremismi. Il libro di Bozzetti, pure di matrice visibilmente socialista di destra e pieno di simpatia (critica, peraltro) verso i Turati e i Treves, è ben superiore a simili semplificazioni, come è manifesto innanzitutto dalla appropriatezza dei passi mussoliniani riportati per svolgere via via il filo degli avvenimenti e delle argomentazioni. Questa ricerca, cosa rara per tale tipo di temi, è inoltre condotta senza tarpanti tabù ma anche senza quei compiacimenti ostentatori di obiettività che sembrano talvolta servire a De Felice per celare surrettizie velleità di rivalutazione del protagonista dei suoi studi. Indicativa a questo proposito è la narrazione di un piccolo episodio fatto da Ugoberto Alfassio Grimaldi in apertura della sua prefazione: La sera del 26 settembre 1978 Gherardo Bozzetti ed io, mentre davanti al primo canale televisivo vedevamo l'ultima puntata di «Alto tradimento», la trasmissione dedicata a Cesare Battisti, trasalimmo nel cogliere una «perla» madornale. Si diceva che il protagonista nell'agosto del 1914, lasciata Trento per non più ritornarvi che per offrire il collo al cappio del boia, si dirige a Milano per cercarvi il direttore dell'Avanti! Morgari: fattoselo indicare da un cameriere in un bar, lo elogia per il successo del foglio e per il modo con cui lo conduce. Il direttore dell'Avanti!, allora, era Mussolini: Oddino Morgari aveva, si, diretto quella testata, ma nel 1908. Un semplice errore materiale o un ritorno al vecchio tabù? La cultura socialista italiana ha fatto fatica ad ammettere di aver espresso fisiologicamente dal proprio seno Benito Mussolini. Ma vediamo la tesi in cui Bozzetti mostra di riuscire convincente ripercorrendo il biennio di esordio di Mussolini come figura importante della scena politica italiana e come uno dei protagonisti di quella giornalistica: la scintilla che catalizzò quel tanto di energia interiore per l’«arvultaja» (la capriola) fu la prospettiva immediata di diventare padrone assoluto di qualche cosa: il giornale interventista «Il Popolo d'Italia », interamente suo. Mi sembra molto ragionevole; molto più, per esempio, che attribuire a Mussolini chissà quale lungimirante opportunismo. Certo il futuro duce (nome che a dir la verità gli nacque ai primi del secolo, in ambito socialista forlivese) si rendeva conto che il pacifismo andava perdendo terreno e, sfumati i bollori giovanili, che era una barca da abbandonare; ma ciò si rese visibile e palpabile come prospettiva politica e pratica solo con la possibilità di diventare padroncino da autorevolissimo direttore quale era. Una parte della ricerca di Bozzetti è tesa giustamente a dimensionare quella libertà che a Mussolini veniva appunto dall'essere autorevole, non solo all'«Avanti!» ma in tutto il socialismo italiano; perché in effetti il partito era sì in buona misura infatuato di Mussolini, ma non più che di infatuamento si trattava, se è vero che il direttore dell'« Avanti!» andò via praticamente solo, pur se tra i suoi gerarchi di ogni calibro non saranno pochi quelli che avevano cominciato da una milizia PSI. Questo però non vuol dire che Mussolini fosse stato un corpo estraneo nel socialismo italiano, bensì che lo diventò col tradimento (che sia consentito continuare a scrivere fuori di virgolette non in deroga ma in omaggio a quella obiettività che tanto calorosamente viene sempre raccomandata sull'argomento non solo da De Felice ma ormai anche da tanti fautori della necessità di trattare il fascismo alla stregua di una corrente politica come le altre. Di ciò però si dirà più avanti). Si può ben dire che Mussolini direttore dell'«Avanti!» è innanzitutto una esemplificazione dimostrativa di questa fisiologicità di Mussolini al socialismo italiano. Piuttosto che ripercorrere fase per fase l'itinerario di Bozzetti, credo sia il caso di raccomandarne la lettura a chi è interessato, anche in senso lato, all'argomento, che presenta, a mio avviso, aspetti attualissimi. Prima di trattare i quali, però, mi sembra opportuno menzionare una fonte, o meglio un punto di riferimento importantissimo cui Bozzetti – come tutte le ricerche serie sul Mussolini di quel periodo - si rifà più volte: il libro della scrittrice anarchica Leda Rafanelli, intitolato Una donna e Mussolini. Si tratta del carteggio che negli anni '13 e '14 (fino appunto al tradimento) l'autrice ebbe con Mussolini, di lei fortemente invaghitosi. Le lettere sono inserite in una sorta di intelaiatura diaristica della Rafanelli, i cui moduli letterari e sentimentali datati nulla tolgono a una notevole capacità psicologica sostenuta da salde convinzioni rivoluzionarie, pur se di generico indirizzo anarchico. Una finestra, una delle poche dal vivo e fuori dalle ricostruzioni romanzate, sul Mussolini privato, e che costituisce uno strumento prezioso per tutta la ricostruzione di una personalità, ma ancor di più, eventualmente, per la comprensione del periodo cruciale del biennio in cui il carteggio ebbe luogo. Non meno preziosa testimonianza delle lettere è la memoria dell'allora giovane Rafanelli, che fra i suoi miti estetizzanti e una non meno estetizzante infatuazione (duratura, peraltro) per la fede musulmana, poco posto lascia a digressioni autoapologetiche e che sembrino comunque posticce e giustificatorie (tutto il libro è anzi un'ampia ammissione dell'inganno in cui era caduta nel suo periodo di frequentazione mussoliniana pur talora con più di un sospetto premonitore). Notevole per esempio (e crediamo debba averci riflettuto anche Bozzetti) questo squarcio di ricordo su un momento di abbandono da parte del direttore del quotidiano socialista: «Tanti ricordi mi addolorerebbero, se avessi il tempo di pensarci... Ma il tempo incalza, e bisogna correre... Ho il terrore del tempo che incalza invano. Vorrei fare tante cose... Ed ora sono incerto, scontento, irrequieto... Mi sento negato e fuori posto.» «Eppure credevo che, essendo arrivato ad essere direttore del massimo giornale socialista, dovreste essere contento.» «Non sarò mai contento, io! Vi dico, ho bisogno di salire, di fare un balzo in avanti, in alto... Ma ho bisogno di una spinta... di un appoggio. Vorrei che tutti parlassero di me... divenire l'uomo del giorno... l'uomo del destino...»

«Come Napoleone...» dissi leggermente ironica. «Ancora più di Napoleone.» Notevoli anche, fra l'altro, alcune premonizioni (ricostruite con una credibilità che le fa sembrare autentiche) dell'infidezza mussoliniana che l'autrice trae da una capacità straordinaria di concentrarsi sui piccoli episodi; capacità che in lei compensa spesso la cattiva letteratura, tutt'altro che assente dalle sue pagine. L'enigma Mussolini non sta naturalmente nell'«arvultaja», in sé, di cui questi due libri, meglio di tanti altri magari più vasti e organici, ci danno credibili chiavi di interpretazione. Sta piuttosto nel tipo di consenso che il capo del fascismo riuscì a raccogliere. Bisogna guardarsi in proposito dalla vulgata qualunquistica, secondo la quale tutti gli italiani furono fascisti; ma che consenziente o benevolmente indifferente ful'intelligenciia, è difficile negarlo. Come è difficile negare che questa intelligencija fu in gran parte consenziente con ciò che venne dopo la guerra. Desiderio di adattamento certo; ma solo questo? La personalità di Mussolini (o per meglio dire i connotati culturali e antropologici di essa) non è che un solo elemento del fenomeno fascista italiano. Non è però un elemento secondario. Il che è meno ovvio di quanto sembra, perché la sinistra italiana - marchiata durevolmente sul piano culturale dagli aspetti oggettivistici dello stalinismo (da quelli soggettivistici fu influenzata piuttosto sul piano più direttamente politico) - ha sempre provato un'acuta diffidenza verso indagini del fenomeno fascista che in qualche modo tendessero a vedere nel fascismo radici che non fossero da ricercare tutte nella destra post-unitaria.[iii] Stando così le cose, se davvero si dovesse approfondire il discorso sulla organicità del primo Mussolini - che palesemente conteneva tutte le premesse del futuro duce - alla cultura populista italiana, si andrebbe a una notevole svolta in senso autocritico di tutta la nostra cultura di sinistra. E qui vorrei dire, magari brutalmente, perché trovo questa tematica di estrema attualità. La sinistra italiana, sia storica che non, sta esaurendo un suo ciclo, non perché c'è il famoso riflusso ma perché alle «generose illusioni» del '68 studentesco non crede più nessuno, pur se quella spinta non si è esaurita. Per lo spettacolo che gli intellettuali PSI-PCI - e anche di estrema sinistra - stanno in gran parte offrendo non è il caso di trovare aggettivi: l'invettiva non aiuta l'analisi. È d'obbligo inoltre non fare d'ogni erba un fascio, purché però non si giunga alla conclusione che l'erba non esiste o che le sue varietà sono numerose quanto i suoi fili. Nell'ambito di quelle mutazioni di rotta indotte in molti militanti (che in qualche modo vogliono continuare) per la delusione che la storia non ha seguito le bubbole in cui credevano dieci e meno anni fa, mi sembra sensato distinguere tre atteggiamenti culturali fondamentali: il primo, molto buonsensistico piccolo borghese ma anche piuttosto diverso dagli altri due, consiste nel riguardare all'impegno degli anni ruggenti con l'animo con cui un maturo scienziato dalla candida barba ripensa all'acne giovanile; di solito si sceglie per queste elegiache esibizioni il PCI o i suoi immediati paraggi, come ha fatto l'infaticabile viandante di sinistra Corvisieri. Il secondo consiste principalmente nel ritenere che l'unico punto valido di quell'impegno sia l'avversione al PCI, la quale è, beninteso, da incrementare trasformandola in una avversione, non sempre dissimulata, per tutto il movimento operaio e la sua storia: in questo caso la scelta craxiana è molto praticata, anche perché tiene al riparo - tranne le poche soubrettes - da sguardi culturalmente indiscreti e può indurre gli interlocutori a qualche cautela per quel relitto di falce e martello rimasto per ogni evenienza sotto lo straripante garofano a ombrello (per esempio: riesce difficile credere che su questo genere di copertura non abbia contato Giampiero Mughini al momento in cui ha progettato di far pubblicare nientemeno che sull'«Avanti!» il risultato di un suo cordiale incontro con la fascista Gianna Preda, redattore capo del «Borghese»; i retroscena dell'episodio incredibile ed erroneamente sottovalutato in tutta la sinistra, sono stati riassunti dall'«Espresso» del 6 maggio scorso, con accompagnamento di interviste a esponenti dell'area nuovofilosofeggiante italiana favorevoli sostanzialmente al Mughini in nome della «non demonizzazione» dei fascisti). Il terzo atteggiamento, contiguo al precedente non solo numericamente, prevede la scoperta dell'interclassismo e della proprietà privata come novità rivoluzionarie del giorno nonché unico antidoto al gulag, e tante altre cose dello stesso genere; l'area caratterizzata da questi motivi si pone esplicitamente come quella del riciclaggio in senso filocapitalista di trucioli (ma sono miriadi) dell’estrema sinistra e in particolare di Lotta Continua, che vi apportano fra l'altro un odio antisindacale praticamente illimitato; tutto ciò trova il suo punto di coagulo attualmente nel Partito radicale, il quale in sé non è certo portatore di mascherate istanze autoritarie, come troppo spesso mostra di credere il PCI (ma è un'altra variante dei suoi tic stalinisti): certo però è questo entourage del PR - con il suo disprezzo per la cultura e per le idee, con la sua pratica quotidiana di una incontrollata violenta verbosità, con la sua abitudine alla pratica di un domestico culto della personalità - a costituire un terreno di coltura per personalità carismatiche in transito da sinistra verso destra, e che giustamente scelgono Pannella come compagno di spensieratezze anticomuniste. Certo la storia non si ripete mai identica, ma è anche vero che per l'«arvultaja» dalla rivoluzione socialista al punto di vista in un modo o nell'altro capitalistico, le vie non sono infinite. E i motivi ricorrono, con le dovute varianti ma con notevoli analogie: il culto per l'azione di timbro gentiliano, l'ansia di rimanere tagliati fuori da chissà che cosa... tutto ciò nei momenti d'ascesa può diventare il torrente spontaneista, in quelli in qualche misura difensivi può invece assumere il ghigno del Mussolini della crisi 1914. Mi rendo conto sin qui di avere fatto soprattutto delle enunciazioni, sia pure sulla base di ipotesi a lungo personalmente meditate. Passare a esemplificare una volta o l'altra sarà necessario, e allora bisognerà spingere il discorso sino in fondo e con tutte le pezze d'appoggio. Ma non c'è fretta. Perché ne vedremo delle belle. E gli ex uomini di sinistra che vorranno contribuire a mobilitare la piccola borghesia contro la classe operaia - come del resto già incominciano a fare - daranno del loro agire esempi pratici tali che varranno meglio di ogni pur necessaria citazione virgolettata, di ogni bibliografia e di ogni tipo di chiosa. A quel punto - se sarà superata la diffidenza del marxismo rivoluzionario italiano per la speculazione sovrastrutturale; se sarà affermata una accezione più limitata e rigorosa del termine fascismo, che in ogni caso non coincide strettamente con mussolinismo -, a quel punto, davvero, sarà opportuno riprendere il libro di Bozzetti e quello della Rafanelli e ristamparli in economicissima a grande tiratura.

Il culto del Duce Quando Benito era una divinità. Al MuSa di Salò bronzi, statue, ritratti di Mussolini: testimonianze di una «fede popolare» durata vent’anni, scrive Luigi Mascheroni, Domenica 29/05/2016, su "Il Giornale". C’ è Mussolini futurista, c’è Mussolini dalla mascella volitiva e marmorea, c’è Mussolini che si trasfigura nel fascio littorio, ci sono innumerevoli Mussolini equestri, c’è il meraviglioso Mussolini di Renato Bertelli del ’33, una terracotta dipinta di nero con il Profilo continuo del Duce, identico da qualunque parte si guardi, l’occhio dell’Insonne che controlla a 360 gradi, che tutto vede, tutto sa e tutto risolve – quando gli italiani si sussurravano «Se lo sapesse lui...» - e poi c’è, 1937, anno XVI dell’Era Fascista, il Mussolini di Albino Manca, che sguaina la spada dell’islam, e c’è un piccolo esercito bronzeo di Mussolini-mascelloni, c’è un bizzarro «pezzo» di Antonio Ligabue, un bronzetto del 1942-43 che raffigura Mussolini a cavallo, realizzato su commissione, rifatto due volte (evidentemente un po’ malvolentieri): il Capo, come l’artista, ha gli occhi e l’espressione da pazzo...E poi c’è un elegante Mussolini in marsina, un gigantesco Mussolini di cemento ricoperto di lamine d’ottone, e c’è la fantastica e fantascientifica Espressione immaginativa del Duce di Barbara (all’anagrafe Olga Biglieri), un volto di Mussolini in marmo statuario che è - in bianco - la maschera di Dart Fener, cinquant’anni prima, e chissà se George Lucas l’aveva visto su qualche catalogo... C’è l’intero catalogo della figura e del mito di Mussolini nelle sale del terzo piano (lo stesso della sezione permanente sulla Rsi) del MuSa, il museo di Salò che oggi inaugura la mostra – durerà un anno esatto, fino al 28 maggio 2017 – Il culto del Duce. L’arte del consenso nei busti e nelle raffigurazioni di Benito Mussolini voluta, pensata e realizzata dallo storico Giordano Bruno Guerri, direttore del museo e presidente del Vittoriale degli Italiani, la casa di Gabriele D’Annunzio a Gardone Riviera, poche migliaia di metri da qui. «In gioventù Benito Mussolini era stato un attento lettore di Gustave Le Bon, lo studioso di psicologia delle folle – ci dice Giordano Bruno Guerri che ci accompagna in una visita in anteprima -, e aveva ben presente il suo famoso aforisma: “Una credenza religiosa o politica si fonda sulla fede, ma senza i riti e i simboli la fede non può durare”. E così il Duce trasformò il fascismo in una religione, e se stesso in un dio». Ed eccola, la religione fascista e il suo dio: la divinizzazione procede in ordine cronologico, attraverso due grandi sale e un centinaio di opere (quasi tutte di collezionisti privati e mai viste prima) di artisti sconosciuti, noti, meno noti e celeberrimi, da Salvatore Monaco a Giacomo Balla, da Fortunato Longo a Ernesto Michaelles in arte Thayath (autore del Dux prettamente futurista), da Enrico Prampolini a Mino Delle Site: in tutto 33 sculture e decine e decine di xilografie, dipinti, incisioni, ceramiche (alcune, colorate, bellissime). Iconografie di vario tipo e materiale. Nessuna celebrazione, ovviamente. Ma, per tagliare la testa alle polemiche che pure da giorni agitano questa sponda del Garda, solo la volontà, dice Giordano Bruno Guerri e gli fa eco il sindaco di Salò Giampiero Cipani, di studiare i vari momenti del fascismo, che proprio qui morì: «La mostra è storico-artistica, non politica». E infatti è la prima di una serie che sotto l’occhiello «Il lungo viaggio attraverso il fascismo» per citare Ruggero Zangrandi, racconterà prodromi, glorie, tragedie ed epilogo del Ventennio: il prossimo anno sarà la volta di antifascismo e Resistenza. Intanto, mentre in Italia non c’era ancora l’antifascismo ma solo 45 milioni di fascisti, prima dell’entrata in guerra e delle disillusioni, l’illusione era massima, e il consenso montante. Si inizia negli anni Venti con un Mussolini ancora liberale, ritratto in cravattino e collo di camicia inamidato, dall’aria giolittiana (come in Per la battaglia del grano di Romeo Pazzini, del 1927) e, semmai, risorgimentale, un padre della Patria più che il Primo degli italiani. Poi, negli anni Trenta, dopo il Concordato, alla «fede» del littorio si sovrappone il culto del Duce come strumento di affermazione del regime. «Il carisma di Mussolini fu istituzionalizzato, rafforzato, impostato dalla propaganda divenendo il medium tra la fede delle masse e il futuro della nazione», spiega Giordano Bruno Guerri. E il Duce diventa il prodotto mainstream e vendutissimo della fabbrica del consenso. Mussolini è statista, legislatore, filosofo (c’è una meravigliosa xilografia di Mussolini-Machiavelli di Carlo Guarnieri), scrittore, artista, profeta, messia, maestro infallibile, inviato da Dio, eletto dal destino e portatore di destino, come ha scritto Emilio Gentile. È l’Uomo della Provvidenza. E la Provvidenza ha i suoi corifei. Che raffigurano il Duce sempre più forte, fiero, potente. Mussolini ad un certo punto dismette gli abiti borghesi, si rasa e indossa soltanto divise e camicie nere, oppure la toga romana da Imperatore. E, nella sua apoteosi, è a petto nudo: senza vestiti supera tutte le divisioni di classe. Infatti la seconda parte della mostra – che a dispetto di possibili contestazioni si snoda dentro le sale del museo permanente della Repubblica sociale italiana: alle pareti è appesa la gloria effimera dei Colli fatali, in mezzo si vive la tragedia dell’Italia divisa e sconfitta – si chiude con il gigantesco «dipinto museale» di Alberto Beltrame, una tela 220x117 intitolata Verso la meta che rappresenta Mussolini completamente nudo e vincitore. E che sintetizza la concezione ideologica del pensiero fascista e della sua rivoluzione. Poi sarà il momento dell’Impero e dell’ora fatale, quando il Duce, in fase bellica, è sempre raffigurato con l’elmetto e, metaforicamente, il pugnale in bocca... Quanti volti ha l’Uomo. L’uomo Mussolini ha mille volti, ma è sempre se stesso. Cambia tutto, eppure il piglio marziale resta uguale. C’è un curioso Mussolini su un cavallo imbizzarrito che intima di tacere alle personificazioni di Stati Uniti, Inghilterra e Francia che guardano timorose. C’è un incredibile Mussolini con gli occhi azzurri. C’è un piccolo ritratto stilizzato di Mario Sironi, c’è un ritratto aeropittorico, ci sono alcuni «pezzi» anonimi e di mano «semplice» che testimoniano la fede popolare nel Duce (l’idea della mostra è di portare fuori dalle case le «opere» dell’epoca, quelle realizzate da donne e bambini: ricordate il ritratto del Duce fatto con i bottoni da Sophia Loren in Una giornata particolare? Ce ne sarebbero di storie da raccontare...). E, infine, c’è il manifesto del plebiscito per le elezioni della Camera dei fasci del 1934: un collage di Mussolini e il popolo italiano che sembra anticipare la pop art di Roy Lichtenstein. A proposito. Per la cronaca, e per la propaganda, gli iscritti a votare furono 10 milioni e 526mila 504, i votanti 10 milioni e 61mila 978, i favorevoli il 99,8% e i contrari – perché il regime sa tollerare il dissenso – lo 0,15%, ossia 15.201 italiani. Quando l’Italia, insomma, concedeva il massimo consenso al Duce.

Fratelli coltelli. Come Alessandra e Rachele Mussolini. Storie di fratelli su fronti politici diversi. Il contrasto più clamoroso fu tra Antonio Gramsci, fondatore del Pci, e il fratello Mario, fascista e aderente alla Rsi. Ma i casi di fratelli e sorelle con idee politiche contrarie non sono rari. E i dissapori, anche per le prossime amministrative, rischiano di avere lunghi strascichi familiari, scrive Valeria Palumbo il 6 maggio 2016 su “Il Corriere della Sera”.

1. Antonio e Mario Gramsci. Uno, Antonio (1891-1937), è il fondatore, nel 1921, del Partito comunista italiano. L’altro, Mario (1893-1945), fondò la sede di Varese del Partito nazionale fascista. Antonio morì il 27 aprile 1937, pochi giorni dopo essere stato rimesso in libertà totale e dopo anni di persecuzioni fasciste. Al suo funerale, della sua famiglia, c’era solo il fratello più piccolo, Carlo (1897-1968). Mario Gramsci aveva combattuto nella Prima guerra mondiale, fu segretario cittadino del Partito fascista a Ghilarza, poi si spostò a Varese. Partì volontario per l’attacco all’Etiopia e nella Seconda guerra mondiale. Aderì alla Rsi, fu catturato dai partigiani, consegnato agli inglesi e spedito in un campo di prigionia in Australia. Lì si ammalò: morì in ospedale al ritorno in Italia. Dopo anni di silenzio con il fratello Antonio, cercò di mitigare la durezza della sua prigionia.

2. Rita e Nando Dalla Chiesa. Figli del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, ucciso dalla mafia a Palermo nel 1982, Rita (1947) e Nando (1949) hanno storie professionali e politiche diverse. Nando è professore associato di Sociologia della criminalità organizzata all’Università di Milano, presidente di Libera e fondatore di Società civile. Nel 1992 è stato capolista della Rete a Milano-Pavia; nel 1993 fu candidato sindaco a Milano; nel 1994 fondò Italia democratica; nel 1996 è entrato in Parlamento con i Verdi e ha fatto parte della direzione nazionale del Pd. Rita è conduttrice televisiva: a inizio 2016 Giorgia Meloni ha lanciato il suo nome come candidata sindaca per il centrodestra a Roma. La candidatura non ha avuto seguito.

3. Giovanni e Maurizio Ferrara. Giovanni (1928-2007) professore di storia antica, senatore repubblicano, di mentalità liberale e firma del Mondo di Pannunzio e poi di Repubblica. Maurizio (1921-2000), comunista ortodosso, togliattiano, ex partigiano, di natura ribelle, padre del giornalista teocon Giuliano. Giovanni e Maurizio: il padre Mario, liberale, crociano, amendoliano, gobettiano, ha pagato amaramente il suo antifascismo. Giovanni lascia un libro inedito alla morte, Il fratello comunista, pubblicato da Garzanti: «Comunista, mio fratello Maurizio fu per quasi tutta la vita. Io non sono mai stato comunista o filocomunista: per tutto il tempo in cui ciò poteva avere un senso concreto, io mi sono sempre considerato anticomunista – una parola che, nelle idee e nella pratica ha molti significati, si va dal peggior fascismo al più puro spirito liberale e democratico.»

4. Mirford sisters. Così celebri per le loro eccentriche diversità da diventare quasi una caricatura: «Diana la fascista, Jessica la comunista, Unity l’amante di Hitler, Nancy la romanziera, Deborah la duchessa e Pamela la discreta esperta di pollame», come le definì il giornalista del Times Ben Macintyre. Di certo le sei figlie dell’inglese David Freeman-Mitford, secondo barone Redesdale, fecero scelte radicali ed ebbero destini singolari. Diana Mitford (1910-2003) è stata la seconda moglie di Oswald Ernald Mosley, fondatore del partito fascista britannico: per la sua adesione alla politica del Terzo Reich finì anche in carcere. Jessica Lucy Freeman-Mitford è stata membro del Partito comunista e ha combattuto nella guerra civile di Spagna con i repubblicani; Unity fu sostenitrice del fascismo e del nazismo e amica intima di Hitler.

5. Mio fratello è figlio unico. Anche il cinema ha affrontato il tema dei fratelli divisi sul fronte politico: Mio fratello è figlio unico di Daniele Lucchetti (2007) si ispira al libro di Antonio Pennacchi, Il fasciocomunista, e racconta di Accio, che entra nel Msi, e Manrico, comunista. Accio (Elio Germano) abbandona i fascisti e alla fine del film partecipa a un’occupazione di case. Manrico (Riccardo Scamarcio) diventa un terrorista rosso e viene ucciso dalla polizia. Il film prende il titolo da una canzone di Rino Gaetano.

6. Alessandra e Stefano Caldoro. Stefano (1960), presidente della Regione Campania dal 2010 al 2015, è esponente di Forza Italia. Era entrato in Parlamento nel 1992 con il Partito socialista, di cui faceva parte il padre Antonio. Alessandra gli è stata accanto nei cinque anni al vertice della Regione. Poi è stata molto attiva sui social contro il nuovo presidente della Regione, Vincenzo De Luca, per i suoi guai giudiziari. Ha aderito a Italia Unica dell’ex ministro Corrado Passera. Ma giovedì ha denunciato di essere stata estromessa per “volere” di Mara Carfagna dalle prossime elezioni: avrebbe dovuto capeggiare la lista Prima Napoli, con candidato a sindaco Gianni Lettieri, in rappresentanza di Italia Unica: «E la cosa che mi ha fatto più male è stato che mio fratello non si è neanche preoccupato di avvertirmi, da lui nemmeno una telefonata».

7. Alessandra e Rachele Mussolini. Alessandra (1962), figlia di Anna Maria Scicolone e Romano Mussolini (figlio di Benito), ha un lungo curriculum politico: più volte deputata e senatrice, è attualmente eurodeputata. È passata dal Msi ad An, fino ad approdare a Forza Italia. Rachele, 38 anni, figlia di Romano e Carla Maria Puccini, finora era conosciuta per una biografia sull’omonima nonna, Donna Rachele. Alle prossime elezioni amministrative, per Roma, Alessandra è schierata con Alfio Marchini. Rachele, al suo debutto politico, ha scelto Giorgia Meloni che di lei ha detto: «Voglio candidare Rachele come persona, non il suo cognome. ...Una delle tante ragazze in Italia che non hanno un lavoro all’altezza della loro formazione. Penso che il suo cognome non possa essere né un vantaggio, ma neanche uno svantaggio».

Labocetta: "Vi racconto quella telefonata tra Fini e Napolitano per far fuori il Cav". Amedeo Laboccetta, già deputato del Pdl e a lungo amico e stretto collaboratore di Fini si racconta in un libro. “Almirante, Berlusconi, Fini, Tremonti, Napolitano. La vita è un incontro” traccia la storia degli ultimi anni della storia italiana e apre uno squarcio sulle presunte manovre di palazzo ordite da Fini e Napolitano per estromettere il Cav da palazzo Chigi, scrive Mario Valenza, Domenica 13/12/2015, su "Il Giornale".  “Almirante, Berlusconi, Fini, Tremonti, Napolitano. La vita è un incontro” traccia la storia degli ultimi anni della storia italiana e apre uno squarcio sulle presunte manovre di palazzo ordite da Fini e Napolitano per estromettere il Cav da palazzo Chigi. Come racconta a Libero, "il culmine della vicenda è il 22 aprile 2010, all’auditorium della Conciliazione (potere dei nomi) a Roma, direzione nazionale del Pdl. Ma sì, il famoso 'Che fai, mi cacci?' scagliato da Fini da sotto il palco a Silvio. Una sceneggiata. Qualche ora dopo, appartamento di Fini a Montecitorio. Laboccetta lo ha raggiunto per farlo ragionare, ricordargli che se il Msi e lui stesso sono usciti dal recinto dei paria, sono arrivati al governo e alle più alte responsabilità, lo devono a Berlusconi. La replica è tranchant. "Lui fu spietato: “Berlusconi va politicamente eliminato. E Napolitano è della partita... Ma lo vuoi capire che il presidente della Repubblica condivide, sostiene e avalla tutta l’operazione?”. A riprova, Fini chiama il Quirinale e mette in viva voce. E questa è la trascrizione che fa Laboccetta di quanto si dicono, come due vecchi amiconi, "Giorgio" e "Gianfranco". “Caro Presidente, come avrai visto abbiamo vissuto una giornata campale...”. “Più che campale - rispose Napolitano - direi una giornata storica...”. “Ovviamente, caro Giorgio, continuo ad andare avanti senza tentennamenti”. “Certamente. Fai bene ma fallo sempre con la tua ben nota scaltrezza”. Amedeo Laboccetta annota: "Avevo assistito - in diretta - all’organizzazione di un golpe bianco orchestrato dalla prima e dalla terza carica dello Stato...". In realtà il progetto è cominciato prima. "Fini lo stava coltivando forse fin dal post-elezioni del 2008" è la convinzione di Laboccetta: "Della sua ambizione e della sua personalissima sfida contro il Cavaliere, ha approfittato Giorgio Napolitano che ha saputo blandirlo e utilizzarlo per liberarsi dell’ingombrante presenza di Berlusconi, salvo poi abbandonarlo al suo destino a missione fallita".

Libri. “Almirante, Berlusconi, Fini, Tremonti, Napolitano. La vita è un incontro” di Laboccetta, scrive il 24 marzo 2016 Luca Gallesi su “Barbadillo”. A chi non fosse di Napoli o non avesse a lungo militato nei ranghi del Msi, il nome di Amedeo Laboccetta risultava familiare per due motivi contrastanti: da un lato, il personaggio si era guadagnato una certa fama come epigono di “Mani Pulite” in salsa partenopea, mentre, dall’altro, risultava invischiato in certi loschi affari legati al mondo del gioco d’azzardo, e a un computer portatile che, durante una perquisizione, rifiutò di consegnare agli inquirenti, avvalendosi dell’immunità parlamentare. Questo, almeno, era ciò che io, meneghino distante dalle beghe politiche, ricordavo del consigliere comunale, poi onorevole, per averlo letto sui giornali. Accettai, quindi, con qualche riserva l’invito del caro amico Angelo Ruggiero a presentare a Milano, assieme all’autore e ad Alfredo Mantica, il libro autobiografico di Laboccetta Almirante, Berlusconi, Fini, Tremonti, Napolitano. La vita è un incontro pubblicato da Controcorrente (pagg.160 €15). Dopo le perplessità iniziali, mi sono ricreduto immediatamente: ho divorato il libro in due sere, trovandolo appassionante e ben scritto da una persona sincera e verace, fugando tutti i dubbi che erano semplicemente dovuti a una lettura distratta delle cronache. Come scrive Marcello Veneziani nella prefazione, oltre che autobiografico in senso stretto, il libro è “l’autobiografia collettiva di una generazione meridionale e di destra in un’epoca a cavallo tra i millenni”. Ci troviamo, infatti, di fronte a una testimonianza personale, politica e anche storica. Personale, perché all’inizio e alla fine Laboccetta ci racconta della sua famiglia, storia avvincente e appassionata, fatta di slanci e casualità, governata dal destino. Il sottotitolo, che definisce la vita come “incontro”, infatti, sottolinea proprio questo, l’inevitabilità, per chi ci crede e vi si abbandona, della “fortuna” in senso latino, che per i pagani era il fato e per i cristiani la Provvidenza. Lasciando al lettore il piacere di scoprire la vita avventurosa dell’autore, penso che il libro debba sollecitare prima delle riflessioni, magari private, e poi una discussione, sicuramente pubblica, su almeno due livelli di lettura: uno politico e uno storico. Quello politico riguarda un mondo che non c’è più, almeno in Occidente: quello delle vite spese in politica. Sebbene non siano passati secoli ma soltanto pochi decenni, sembra lontanissimo il tempo in cui si faceva politica per passione, spendendosi, appunto, in un’attività che, specialmente a destra, non offriva che molti rischi e ben pochi vantaggi. Oggi, più che di una vita “spesa” in politica, dovremmo parlare di una vita “guadagnata”, rappresentando – o avendo rappresentato anche a destra- la politica il modo più rapido di ascesa sociale e soprattutto economica offerto dalla società. La vita di Laboccetta, senza inutili nostalgie o sterili piagnistei ci ricorda un mondo fatto di passione e sacrificio, di militanza e condivisione, di guasconerie e, anche, di divertimento: esperienze ormai bandite dal mondo sordo e grigio della politica odierna. Un altro fattore sottolineato dal politico napoletano è l’importanza della cultura, importanza che non si riduce alle solite chiacchiere preelettorali, ma che ha visto l’autore impegnarsi concretamente ed efficacemente per trovare una cordata imprenditoriale disposta ad avviare l’ultimo esperimento editoriale significativo della destra, quel settimanale “Lo Stato”, che per poco tempo rinnovò i fasti dell’“Italia settimanale” . Fanno davvero sorridere, inoltre, gli aneddoti raccontati nel libro sugli intellettuali considerati “inaffidabili” perché pensano, e quelli che riguardano la politica culturale di Berlusconi, il quale, agli articolati progetti di Marcello Veneziani preferì la musichetta dell’inno di Forza Italia, sicuro che quel jingle avrebbe affascinato il popolo ben più di qualsiasi ardita teoria costituzionale, e purtroppo aveva ragione. Ma le pagine che dovrebbero davvero suscitare un polverone mediatico, con girotondi frenetici dei soliti indignati e paludati giornaloni che si stracciano le vesti per le gravissime violazioni delle regole democratiche, riguardano le rivelazioni del vero e proprio golpe (altro che Borghese, altro che Sogno!) effettuato da Napolitano ai danni di Berlusconi, con la complicità di Fini e di Tremonti. Lasciando al lettore il piacere –e l’irritazione- di scoprire i retroscena della politica italiana degli ultimi anni, raccontati con dovizia di particolari e prove inoppugnabili da Laboccetta, mi limito a sottolineare come questo libro sarebbe dovuto uscire per la Mondadori con il titolo Intrigo Internazionale, con prefazione di Silvio Berlusconi, che, a un certo punto (indovinate quale) ha cambiato parere, invitando l’autore a non pubblicare nulla. Buona lettura.

Dal libro “Almirante, Berlusconi, Fini, Tremonti, Napolitano - La vita è un incontro” (Controcorrente edizioni). […] Alla fine, decisi di andare a incontrare un’ultima volta il Presidente della Camera per rinfacciargli tutto quello che non ero riuscito a mandar giù in direzione nazionale e dirgli, a brutto muso, che la sua strategia era ripugnante. “È una cosa ignobile, Gianfranco. Il tuo non è nemmeno un errore, ma un orrore. Silvio Berlusconi non merita quello che gli stai facendo”. Lui fu spietato: “Berlusconi va politicamente eliminato. E Napolitano è della partita”. Usò proprio questa espressione: essere della partita. Ed io aggiunsi: “Ma che significa essere della partita?”. Replicò dicendo: “Ma lo vuoi capire che il Presidente della Repubblica condivide, sostiene e avalla tutta l’operazione?”. Era la prima volta che si lasciava andare a una considerazione così esplicita. In altre occasioni, mi aveva fatto intuire l’esistenza di quest’alleanza ma mai in maniera così brutale. Sapevo che diceva la verità, ma lui volle regalarsi il coupe-detheatre. Davanti ai miei occhi, chiamò il Quirinale per informarlo degli ultimi sviluppi del golpe. Attivò il vivavoce e parlò con Napolitano delle sue prossime mosse. “Caro Presidente – salutò Fini – come avrai visto abbiamo vissuto una giornata campale”. Il riferimento, chiaro, era alla sceneggiata nell’Auditorium della Conciliazione. “Più che campale – rispose Napolitano – direi una giornata storica”. Era proprio la voce del Presidente della Repubblica. Non riuscivo a crederci. Mi accasciai sulla sedia, come svuotato. “Ovviamente, caro Giorgio, continuo ad andare avanti senza tentennamenti”. “Certamente. Fai bene – lo incitò Re Giorgio – ma fallo sempre con la tua ben nota scaltrezza”. Ascoltai come incantato quella decina di secondi di conversazione in vivavoce, con lo sguardo perso nel vuoto. Avevo assistito – in diretta – all’organizzazione di un golpe bianco orchestrato dalla prima e dalla terza carica dello Stato. Rimasi per qualche istante ammutolito, mentre i due – disattivato il vivavoce – si mettevano d’accordo per l’indomani. Lasciai subito dopo l’ufficio di Fini in preda a una crisi nervosa. Frugai nelle tasche alla ricerca dei miei sigari. Ma nemmeno qualche boccata mi restituì i nervi saldi. Attraversai a grandi falcate i corridoi e le stanze di Montecitorio per guadagnare il prima possibile l’uscita. Dopo averla varcata, feci un bel respiro. E non per colpa del fumo. Era l’aria velenosa e tossica della Camera che mi aveva strozzato la gola. Una telefonata inaspettata mi raggiunse nel mese di giugno 2004. Gianfranco Fini, all’epoca Vice Presidente del Consiglio, mi chiamò per chiedermi se fossi stato in grado di organizzargli una vacanza a Saint Martin per un paio di settimane. Rimasi per qualche istante interdetto. Erano anni che non mi chiamava. “Ma figurati Gianfranco, che problema c’è.” Gli risposi. Quella vacanza caraibica la ricordo molto bene. Alla vigilia di ferragosto del 2004, Fini atterrò all’aeroporto Juliana con quattordici persone al seguito, la comitiva aveva già trascorso una lunga vacanza negli Stati Uniti d’America. C’era anche il suo segretario particolare, l’amico Checchino Proietti con moglie e figli. Provvidi ad ospitare tutti in una delle più prestigiose ville dell’isola. Si trova a nord. Nella zona francese, denominata Ance Marcel. Il proprietario del panoramico complesso è Monsieur Collarò, il Mike Bongiorno della televisione francese. La villa si trova in collina, a strapiombo sul mare. Una zona tranquilla e riservata con vista mozzafiato: erano tutti incantati, d’altronde, quando faccio le cose, in genere, mi piace farle bene. Fini mi aveva sottolineato le sue intenzioni. Ci teneva a fare immersioni tutti i giorni. Fu per questo che reclutai, anche per motivi di sicurezza, un istruttore subacqueo, un californiano con esperienza collaudata ed un fotografo marino di nazionalità francese. Ovviamente mi preoccupai anche di noleggiare una barca. Devo dire che nelle immersioni Fini se la cavava fin troppo bene. Mi fu confermato dai due esperti che lo accompagnarono per quindici giorni alla scoperta di quei fantastici fondali nell’Oceano Atlantico. Dopo la mattinata sportiva, li riaccompagnavo in villa. Ci si rivedeva la sera, con tutto il suo gruppo, per cenare insieme. La sera del 25 Agosto del 2004, onomastico di mia moglie, durante la cena al ristorante di Davide Foini, il vice di Berlusconi, volle omaggiare la mia Patrizia con un dono raccolto in fondo al mare. Una conchiglia bianca. Un ricordo per la bella vacanza trascorsa insieme. Dopo la mezzanotte, si andò tutti a giocare in uno dei casinò di Francesco Corallo. Fini vinse. Nel suo delirio di onnipotenza quel colpo era significativo. Subito incassò e volle andare via. Dopo tre giorni, la comitiva ripartì per l’Italia. Io e Patrizia rimanemmo ancora una settimana. Avevamo bisogno di rilassarci... Sono preciso nell’ospitalità e provo piacere nel vedere gli amici sempre contenti e soddisfatti. Quella bella conchiglia non l’ho portata in Italia. Il giorno dopo la partenza di Fini, con Patrizia decidemmo di restituirla a quel meraviglioso e cristallino mare caraibico. Era quella la sua giusta dimora. Non certo una mensola della nostra casa...

"Napolitano nel 1942 era iscritto al Gruppo universitario fascista". Il vicedirettore del "Fatto Quotidiano" riafferma punto per punto le sue critiche al capo dello Stato sulle telefonate con Mancino, scrive PMI il 19 settembre 2012. Nel replicare al "garbato" attacco mossogli dal professor Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale, che lo accusava di "diffamazione" per aver osato denunciare pubblicamente il "sospettoso" comportamento del capo dello Stato sulle telefonate con l'ex ministro degli Interni e ex vicepresidente del Csm, Nicola Mancino, imputato per falsa testimonianza nell'ambito dell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, il vicedirettore de "Il Fatto Quotidiano" Marco Travaglio a pagina 5 dell'edizione del 22 agosto non solo riafferma punto per punto le sue critiche a Napolitano ma rileva fra l'altro che "Giorgio Napolitano si formò politicamente dal 1942 nel Guf (Gruppo universitario fascista) non appena s'iscrisse all'Università di Napoli, e solo successivamente approdò all'antifascismo". Una verità a dir poco infamante per la più alta carica dello Stato nonché garante della Costituzione. Una verità inconfutabile quanto inconfessabile e vergognosamente nascosta da tutta la stampa di regime che ha steso un clamoroso velo di silenzio su tutta la vicenda evitando accuratamente di parlarne. Insomma Napolitano, prima di salire al Quirinale e vestire i panni del nuovo Vittorio Emanuele III, come tanti altri intellettuali borghesi divenuti poi dirigenti del PCI nel dopoguerra, era un fascista, iscritto al Guf fin dal 1942, ha collaborato attivamente al settimanale dei fascisti universitari di Napoli "IX maggio", dove curava una rubrica di critica teatrale e cinematografica, e ha anche partecipato alla Mostra di Venezia e all'annesso convegno degli universitari fascisti in Laguna. Un'adesione al fascismo che Napolitano compie in piena consapevolezza, maturata all'apice dei vent'anni di dittatura mussoliniana, dopo la promulgazione delle leggi razziali, l'alleanza con Hitler e l'ingresso dell'Italia nella seconda guerra mondiale prima contro la Francia (10 giugno 1940) e poi contro l'Unione Sovietica. Come mai Napolitano non ha mai rinnegato questo suo imbarazzante passato di militanza fascista e non ha mai sentito il bisogno di fare un'autocritica pubblica? Cosa ha da nascondere la massima carica dello Stato che da grande opportunista quale egli è, militava nel Guf mentre i partigiani lottavano e morivano in montagna e si è iscritto al PCI solo nel 1945? Da fascista a revisionista, il suo anticomunismo ha cambiato forma ma non sostanza. Fin da subito Napolitano è diventato il pupillo prediletto dell'ultrarevisionista rinnegato Amendola e poi ha proseguito sulla strada del riformismo divenendo l'esponente storico della destra "migliorista" del PCI-PDS; capogruppo del PCI alla Camera dall'81 all'86; liquidatore del PCI e riabilitatore di Craxi e del PSI; e successivamente presidente della Camera nel '92, senatore a vita nel 2005 e infine presidente della Repubblica che invece di contrapporsi al neoduce Berlusconi e alla seconda repubblica neofascista li ha favoriti, invece di denunciare e contribuire a fare piena luce sui "misteri" d'Italia ha coperto e aiutato chi ha tramato con la mafia, invece di fare chiarezza sul suo passato pieno di ombre e camicie nere, addirittura cerca di autoassolvere e di giustificare la sua militanza fascista nel GUF dichiarando vergognosamente che: "Il GUF era in effetti un vero e proprio vivaio di energie intellettuali antifasciste". Sic!

Napolitano-Scalfari. I ricordi da ex fascisti. Nel lungo colloquio pubblicato ieri su Repubblica, i due ripercorrono con giustificato distacco i trascorsi fascisti, scrive Luigi Mascheroni, Martedì 11/06/2013, su "Il Giornale". Ha qualcosa di istruttivo il lungo colloquio fra Giorgio Napolitano e Eugenio Scalfari pubblicato ieri su Repubblica, un'amabile e onesta chiacchierata fra due figure istituzionali, la prima in senso proprio, dal punto di vista del potere politico, l'altra in senso simbolico, dal punto vista del potere dei media. Due personalità, fin dalle foto, ieratiche, apparentemente «al di sopra» delle scelte comuni e dei compromessi quotidiani - una icona del comunismo di ferro l'altra del progressismo intransigente - e che pure rivelano tutta l'accomodante e domestica italianità delle proprie biografie, dei propri dubbi, delle proprie scelte. Classe 1924 Eugenio Scalfari, partito dal settimanale Roma fascista e arrivato a principe del giornalismo italiano; classe 1925 Giorgio Napoletano, partito dal Pci e arrivato al Colle; i due grandi vecchi d'Italia, raccontando loro stessi, hanno raccontato una comunissima e familiare storia italiana, in cui tutti citano Benedetto Croce e solito «non possiamo non dirci liberali», in cui si evoca il padre fascista (e nel caso di quello di Napolitano scopriamo che «sotto il regime visse appartato, esercitando la professione di avvocato fino alla fine degli anni Trenta senza iscriversi al Pnf. Poi finì per prendere la tessera»... anche lui...), in cui si ripercorrono con giustificato distacco i trascorsi fascisti (Napolitano frequentava il Guf, ma perché si poteva studiare meglio e lì del resto «si formarono anche molti antifascisti e comunisti», Scalfari orgoglioso di essere «un giovane fascista» espulso dai Guf da uno dei capi del Pnf e «ciò mi fece venire dei dubbi»...), entrambi protagonisti di viaggi più o meno lunghi «attraverso il fascismo» per approdare sulle sponde dell'Italia democratica e progressista, dove ci si iscrive al Pci «più per impulso morale che per una scelta ideologica», e dove, se ti chiedono di accettare una rielezione (come tante altre cose da noi), anche se sei «profondamente convinto di lasciare», alla fine «non puoi dire di no». Che è una splendida risposta, così comune, tutta italiana.

Eia eia alalà. Controstoria del Fascismo di Giampaolo Pansa. Prima di “Bella ciao” la canzone più nota era “Eia eia alalà”. La cantavano gli italiani sbarcati in Albania per spezzare le reni alla Grecia. Poi i Figli della Lupa e i piccoli Balilla. “La verità è che tutti eravamo fascisti o ci comportavamo come se lo fossimo” scrive Giampaolo Pansa che quell’Italia l’ha vissuta e poi l’ha raccontata per demolire soprattutto la mitizzazione arbitraria della guerra civile. Perché l’Italia è stata una nazione in grandissima parte attratta dal Fascismo, tutti gli italiani sono stati fascisti, hanno adorato Mussolini e gli hanno obbedito, almeno fino alla notte del 25 luglio 1943 quando un gruppo di gerarchi, e non un’insurrezione popolare, mandò a gambe all’aria il Duce.

Giampaolo Pansa su “Libero Quotidiano del 8 febbraio 2014: ogni italiano è figlio di un fascista. Per oltre vent'anni nessuno si oppose al regime del Duce. Solo la conduttrice de "Le invasioni barbariche" sembra ignorarlo. Mi ha fatto tenerezza la signora Daria Bignardi nel corpo a corpo con un deputato grillino, Alessandro Di Battista. Era in diretta su La7 per le sue Invasioni barbariche e tentava di mettere in difficoltà il grillino sul padre fascista. Deliziosa ingenuità quella di madamin Bignardi. Risultava chiaro che nessuno le aveva spiegato che per vent’anni, dal 1922 al 1943, tutti gli italiani sono stati fascisti, hanno adorato Benito Mussolini, gli hanno obbedito e si sono fatti accoppare per lui. Fino alla notte del 25 luglio, quando un gruppo di gerarchi, e non un’insurrezione popolare, mandò a gambe all’aria il Duce. Nel mio piccolo, sono stato anch’io un fascista, essendo venuto al mondo il 1° ottobre 1935, in pieno regime mussoliniano. Il giorno successivo alla mia nascita, la sera del 2 ottobre, dal balcone di palazzo Venezia il Duce annunciò all’Italia di aver dichiarato guerra all’Etiopia. Per volere di Benito, il discorso venne trasmesso in tutto il Paese, nelle piazze dove milioni di persone stavano in religiosa attesa del suo verbo. Tra i tantissimi raccolti nella piazza principale della nostra città, doveva esserci anche mio padre Ernesto, operaio delle Poste con la mansione di guardafili del telegrafo. E in quanto dipendente statale precettato per l’adunata in onore dell’attacco al maledetto Negus, al secolo Hailè Selassiè. Però mio padre in piazza del Cavallo non ci andò. Gli era appena nato un figlio, il primo, e questo evento gli sembrava un motivo più che valido per restare accanto alla moglie, mia madre Giovanna. Devo ricordare che in quel tempo le donne partorivano in casa con l’assistenza di una levatrice, ossia di un’ostetrica. Così aveva fatto Giovanna, urlando un paio d’ore poiché ero grosso e lungo. E non volevo saperne di uscire dalla sua pancia. Il giorno successivo, era il 3 ottobre, due della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale si presentarono in casa nostra e chiesero a Ernesto perché mai non fosse andato anche lui in piazza ad ascoltare il Duce. Mio padre spiegò che gli era appena nato un figlio. «Maschio o femmina?», domandarono i militi. «Maschio», rispose Ernesto. E i militi, una coppia di bonaccioni in divisa e camicia nera, si congratularono: «Ottimo! Anche lui diventerà un soldato della Patria fascista». Mio padre gli offrì un bicchiere di Barbera che bevvero alla salute di mia madre e dell’inconsapevole sottoscritto, addormentato nella culla. E l’ispezione finì lì. A vestire la divisa di soldato del Duce non feci in tempo perché il regime cadde molto prima. In compenso, il 1° ottobre 1941, giorno del mio sesto compleanno, divenni un Figlio della lupa. Era il gradino iniziale della scala inventata per la gioventù del regime. A sette anni, in seconda elementare, si restava sempre Figli della Lupa. A otto si diventava Balilla. Si chiamava Balilla anche il giornaletto che leggevo, una specie di concorrente del Corrierino dei piccoli. Lì avevo imparato chi erano i nemici dell’Italia. Re Giorgetto d’Inghilterra. Il ministro Ciurcillone. Rusveltaccio Trottapiano, presidente americano, che ubbidisce alla signora, la terribile Eleonora. Ma i più pericolosi erano i russi che si ammazzavano tra di loro. Il terribile Stalino, l’Orco rosso del Cremlino, dice urlando come un pazzo alle guardie del palazzo: i compagni qui segnati siano tutti fucilati! Nell’estate del 1943, conclusa la seconda elementare, i miei genitori decisero di mandarmi alla colonia montana delle Regie Poste di Alessandria. Era un luogo triste, nascosto fra alture basse vicine a Biella, dove pioveva sempre. Le giornate si aprivano con l’alza bandiera e le preghiera del Balilla, recitata a turno da uno dei ragazzini: «Signore, benedici il Duce nostro nella grande fatica che Egli compie. E poiché l’hai donato all’Italia, fallo vivere a lungo per la Patria e fa’ che tutti siano degni di lui...». Ogni mattina, dopo il caffelatte, cominciava l’ora di dottrina fascista. Ed era l’unica vera attrazione della giornata. Il merito andava all’insegnante: una ragazzona maestosa, un trionfo di capelli rossi e un seno stupefacente, figlia del capostazione della nostra città. Era una cliente della modisteria di mia madre e aveva fatto impazzire il panettiere del negozio accanto. Quando andavo a comprare il pane, il fornaio mi domandava: «Le hai viste quelle tette? Darei mille lire per poterle pastrugnare!». Ma la maggiorata dai capelli rossi non badava alle occhiate dei maschi, tanto meno alle nostre di ragazzini troppo arditi. E per tenerci a bada, escogitava ogni giorno una preghiera per il Duce. A me ne toccò una che recitava: «Gioventù italiana di tutte le scuole, prega che la Patria non manchi al suo radioso avvenire. Chiedi a Iddio che il ventesimo secolo veda Roma centro della civiltà latina, dominatrice del Mediterraneo, faro di luce per le genti del mondo». Un mese dopo, era la fine del luglio 1943, tutto sembrò sparire con la caduta del Duce. In piazza si videro molte manifestazioni di giubilo, ma la maggior parte della gente se ne restò a casa. La guerra iniziata nel 1940, e i tanti ragazzi morti su troppi fronti, stavano allontanando dal fascismo un numero sempre più grande di italiani. Ma nessuno aveva il coraggio di riconoscere di essere stato un fascista senza pentimento. E di aver sostenuto con entusiasmo un regime che adesso ci aveva portato al disastro. Il nostro fascismo esistenziale lo si constatò sino in fondo in due momenti terribili che confermarono la natura crudele della dittatura di Mussolini. Il primo, nel 1938, fu il varo delle leggi razziali contro gli ebrei. Il secondo l’inizio delle deportazioni nei campi di sterminio nazisti di migliaia di israeliti, quando l’Italia del centro e del nord stava sotto la Repubblica sociale, un regime sostenuto dai tedeschi. Mi rammento bene quel che accadde in quei momenti. Per il motivo che non accadde nulla. Nella mia piccola città, gli ebrei perseguitati e poi uccisi nelle camere a gas li conoscevamo tutti. Erano nostri vicini di casa, insegnanti nelle nostre scuole, medici che ci avevano curato, clienti della modisteria di mia madre. Ma nessuno aprì bocca. Pochi li compatirono. Pochissimi gli offrirono un aiuto. Quando ci ripenso oggi, mi rendo conto di una verità terribile. Pure in casa mia, dove ogni sera si discuteva di tutto, della guerra, del fascismo, di Mussolini e dei suoi gerarchi, della Repubblica sociale e dei tedeschi, nessuno disse anche una sola parola sulla fine di persone identiche a noi. E mi domando se, insieme al nostro fascismo mentale, dentro il cuore di ciascuno non si celasse il mostro dell’indifferenza disumana, della cattiveria, della ferocia. Per tutto questo mi sembra grottesco che nell’Italia del 2014 qualcuno chieda a qualcun altro: tuo padre era fascista, tuo nonno portava la camicia nera? La verità è che tutti eravamo fascisti o ci comportavamo come se lo fossimo. Oggi la mia speranza è che lo sfacelo della nostra classe politica non metta in pista qualche nuovo signore autoritario che ci obblighi a innalzare la bandiera voluta da lui. Il colore non importa. Però mi domando quanti accetterebbero di sventolarla. E temo che anche stavolta non sarebbero pochi.

Le icone comuniste santificate. Saviano contro Pd: "Si vergogni degli alleati di Ala". L'ira dell'autore di Gomorra dopo l'attacco del senatore verdiniano D'Anna che lo ha definito "icona farlocca, inutile che abbia la scorta". Zanda: "Parole inaccettabili e ingiustificabili, Verdini si è scusato". Ma la minoranza dem torna in trincea: "Con certa gente il nostro partito non deve avere nulla a che fare", scrive il 26 maggio 2016 "La Repubblica". "Il Pd si vergogni". Roberto Saviano risponde senza mezzi termini all'attacco del senatore verdiniano Vincenzo D'Anna, che oggi l'autore di Gomorra definisce "dannoso scherano di Verdini, renziano e cosentiniano insieme". E aggiunge, lo scrittore: "Impone a me di rinunciare alla scorta. A me che non vedo l'ora di tornare libero. Cosa debbo pensare: ha forse progetti per il mio futuro? Un "grazie" va anche a Radio Rai e al servizio pubblico che hanno consentito la diffusione delle solite porcherie" scrive su Facebook l'autore di 'Gomorra'. Che aggiunge: "E poi, sarebbe questa la comunicazione del Pd? Sono questi gli alleati di Renzi a Roma e di Valeria Valente a Napoli? Sono queste le nuove risorse campane? Buona fortuna. E Vergogna". D'Anna, senatore di Ala, casertano, una reazione così se la doveva aspettare. Ieri era stato ospite di "Un giorno da pecora" su Radio2 Rai, e si era scagliato violentemente contro Saviano. "E' un'icona farlocca che non ha mai detto nulla che possa infastidire la camorra. Se fosse per me, toglierei la scorta", aveva, tra l'altro, sostenuto il verdiniano. E altre considerazioni su questo stile. Dopo aver riascoltato le sue parole, rimbalzate su tutti gli organi di stampa, il senatore ha poi provato a sfilarsi, parlando di "frasi estrapolate dal contesto, nel corso di una trasmissione votata al paradosso" ma sul via alla scorta a Saviano è rimasto sulle sue posizioni, basate, a suo dire, "su precisi riferimenti di sentenze emesse dalla magistratura allorquando si è interessata delle minacce a carico della senatrice Capacchione e dell'opera dello scrittore Saviano". Gelo e imbarazzo in casa Pd, con la minoranza dem tornata subito all'attacco contro l'alleanza con Verdini e i suoi amici, "dopo aver ascoltato con rabbia e disgusto" le parole di D'Anna. Per Roberto Speranza, ad esempio, "il Pd con questa gente non deve più avere nulla a che fare". Fase delicata, con Luigi Zanda, presidente dei senatori Pd che prende la parola a nome del partito nell'Aula di Palazzo Madama: "Le parole di Vincenzo D'Anna sono inaccettabili sotto qualsiasi profilo e sono ingiustificabili per qualsiasi ragione politica, elettorale, di 'concorrenza' sul territorio", afferma con nettezza e aggiunge: "Parole rese molto più gravi perché riferite a Saviano e a Capacchione, due persone cui le autorità di sicurezza dello Stato hanno ritenuto, per ragioni serie e confermate da indagini svolte, di dover assegnare la scorta per essere difese in un territorio che pone in pericolo di vita le persone perbene che si oppongono e ribellano a un equivoco, difficilissimo e pericolosissimo ambiente". E, sempre Zanda, fa sapere in Aula che Verdini si è scusato, ha telefonato alla senatrice Rosaria Capacchione, "porgendo le sue scuse e quelle di D'Anna". Da Napoli il pieno sostegno del Pd a Saviano contro le parole del casertano D'Anna: dalla candidata sindaca Valente al segretario regionale Tartaglione, tutti chiedono "scuse subito da D'Anna" e "più impegno reale da parte di tutti alla lotta ai clan".

Se anche Verdini s'inginocchia a Saviano. Le scuse di Denis sono fuori luogo, scrive Massimiliano Parente, Venerdì 27/05/2016, su "Il Giornale". Figuratevi cosa ne ho pensato io, che da anni, e, come si dice, in tempi non sospetti, scrivo quanto Saviano non faccia letteratura, né saggistica, né vero giornalismo d'inchiesta (in altre parole ha avuto una botta di culo con un libro e una scrittura mediocri), quando ho saputo del senatore Vincenzo D'Anna. Il quale ha accusato Saviano di copia e incolla («icona farlocca, si è arricchito con un libro che ha copiato a metà») invocando, alla trasmissione Un giorno da pecora, di togliergli la scorta. Uno scandalo. Quando si parla di togliere la scorta a Saviano si pronuncia un'eresia, lo si vede già morto come Falcone e Borsellino. Questi ultimi, però, erano magistrati. Quindi, in realtà, il ragionamento ci sta: se Saviano è il simbolo della lotta alla mafia, e dunque non può vivere la vita di tutti, un magistrato che combatte la mafia a Napoli quale vita farà? Non mangia gelati? Non mangia pizze? Si lagna appena può da Fabio Fazio? Tutti i pubblici ministeri della Campania e della Sicilia sono in esilio, blindati, protetti e con l'aplomb del martire? Delle due l'una: o i magistrati sono collusi con la mafia (ma il vate Saviano non l'ha mai denunciato, anzi i magistrati sono sempre buoni e giusti e coraggiosi) o Saviano gode di un privilegio spropositato, alle spese del contribuente italiano. E senza neppure essere Céline né Proust né Pasolini: semplicemente gli mancano le opere. Infatti D'Anna ha aggiunto che la camorra viene combattuta dai magistrati, dai carabinieri, dalla polizia, non certo da Saviano, sul cui feuilleton camorristico ci si fa perfino una serie tv di successo, con relativi incassi girati all'autore. In teoria D'Anna avrebbe detto un'ovvietà. Invece il punto è un altro: una volta che un senatore di Verdini ne ha detta una giusta, interviene Verdini stesso per chiedere scusa? Un giorno da pecora, appunto.

D'Anna (Ala) e la scorta (da togliere) a Saviano: «Parlo come voglio e non chiedo il permesso a Denis». Il senatore: «Non polemizzo con Denis. Con i risparmi di scorte come quella di Saviano, di soldi per chi combatte la camorra per davvero ce ne sarebbero di più», scrive Tommaso Labate il 26 maggio 2016 su “Il Corriere della Sera”.

«Una cosa deve essere chiara. A Saviano non rispondo».

Senatore D’Anna, conferma però che a Saviano dovrebbe essere tolta la scorta?

«Confermo quello che ho detto. Nella caserma dei carabinieri del mio paese non ci sono i soldi per la carta o la connessione internet. Con i risparmi di scorte come quella di Saviano, di soldi per chi combatte la camorra per davvero ce ne sarebbero di più».

Le sue parole hanno scatenato il caos.

«Mi sono difeso perché avevano raccontato un sacco di falsità sulla lista di Ala a Napoli».

Parla del manifesto di un vostro candidato con dietro il cognato di un boss?

«Falso. Nessun cognato di nessun boss».

Verdini s’è dissociato dalle sue frasi.

«Verdini pensa che sia meglio non parlare con i giornalisti, ignorare le infamità che ci dicono, sognare il quieto vivere? Legittimo, lui ragioni come crede. Per me, invece, decido io. Se mi attaccano, rispondo. Sono una persona onesta e le accuse di collusione le respingo».

In Ala non vi coordinate sulle interviste?

«Se voglio parlare lo decido da solo. Non devo chiedere il permesso a nessuno».

Alcuni suoi colleghi, come Mazzoni e Parisi, hanno preso le distanze da lei…

«Visto che l’intervista è scritta, colleghi me lo scriva tra virgolette... Non so da loro in Toscana, ma da noi in Campania i voti ce li guadagniamo lottando, non stando zitti».

Vale anche per Verdini?

«Deve essere chiaro che io, in un partito dove decide un cervello solo, non ci sto».

In Ala decide Verdini?

«Non polemizzo con Denis, che ha una responsabilità nazionale. Noi operiamo sui territori e a volte abbiamo visioni diverse».

Siete spaccati?

«No. Sugli obiettivi siamo compatti. Si lavora alle riforme, con Renzi, con la Valente».

D'Anna attacca ancora Saviano: "E' diventato milionario con l'antimafia". Il senatore verdiniano torna ad attaccare lo scrittore: "Chi compra un appartamento panoramico a Manhattan e rivolge pensosi pensieri sulle sorti del bene in Italia è farlocco", scrive "La Repubblica" il 28 maggio 2016. "Ho spezzato una lancia a favore di magistrati e forze dell'ordine. Chi compra un appartamento panoramico a Manhattan e rivolge pensosi pensieri sulle sorti del bene in Italia è farlocco. La battaglia antimafia ha procurato a Saviano proventi milionari con cui ha comprato casa a New York, mentre ci sono carabinieri e poliziotti che con 1.300 Euro al mese si fanno un mazzo così e rischiano la vita. Loro sono i veri eroi, le vere icone dell'antimafia". Il senatore verdiniano di Ala, Vincenzo D'Anna a La Zanzara su Radio 24 torna ad attaccare Roberto Saviano dopo le polemiche sulla scorta dei giorni scorsi iniziata ai microfoni della trasmissione di Radio2, Un giorno da pecora. D'Anna attacca Saviano: "Toglierei la scorta, nessuno lo vuole uccidere: è un'icona farlocca". "Non esiste un camorrista in Italia - assicura D'Anna - che vuole ammazzare Saviano. Se ne fregano altamente. I camorristi guardano al vantaggio, al guadagno fraudolento. Saviano non dà fastidio a nessuno. Mario Puzo quando ha scritto 'Il Padrino' girava con la scorta? No. Quali pericoli - insiste - sono venuti alla camorra dal libro di Saviano? Nessuno, tranne forse il pericolo dell'emulazione. Quale la concreta minaccia?". "Le parole di Saviano - dice il senatore di Ala - valgono come il due di briscola, non ha titoli per essere il metro della morale di nessuno. E' stato trasformato in un'icona. Vi rendete conto che ha detto che la Rai non doveva permettere a D'Anna di dire certe cose? Siamo alla megalomania, all'io ipertrofico. La Rai non deve ospitarmi perché non riconosco Saviano. Vi rendete conto? Io sono una persona perbene, più di Saviano. Ho detto che il Re è nudo e sono diventato un farabutto. Mi hanno messo al rogo come Giordano Bruno...". E alla domanda sul perché vuole togliere la scorta a Saviano, il senatore risponde attaccando la giornalista e senatrice del Pd Rosaria Capacchione: "C'è una recente sentenza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere - sottolinea - che ha accertato l'infondatezza delle minacce, che erano alla base della scorta assegnata alla senatrice Capacchione e allo scrittore Saviano. Se quelle minacce erano false, la scorta non va più assegnata. Alfano ci deve spiegare quali altre minacce ci sono per tenere impegnati 8 carabinieri e 3 macchine di cui 2 blindate". "La scorta costa 2-3 milioni di euro l'anno - assicura D'Anna - mentre abbiamo carabinieri che non possono mettere la benzina nelle auto e commissariati che non hanno Internet. Abbiamo tanta gente che fa la lotta alla camorra a 1200 euro al mese". D'Anna ribadisce poi che la senatrice: "Ha due carabinieri di scorta e una macchina che la porta avanti e indietro da Caserta a Roma. A spese dei contribuenti. Se non ci sono minacce a cosa serve questa scorta?".

Le icone liberali smerdate. Porro intervistato da Luca Telese su “Libero Quotidiano del 24 maggio 2016: "Io, Santoro, Fazio e quel dramma in famiglia".

Nicola, sei sulla cresta dell’onda!

«(Ride) Non posso rilasciare interviste, Luca». 

Che fai, adesso, te la tiri anche con me? 

«Voglio essere chiaro, soprattutto con un amico: non dico più nemmeno una parola su Rai, Virus o Campo Dall’Orto!». 

Perché ci hai già litigato troppo? 

«(Tono sospettoso) Luca, ti ho detto che non parlo di Rai! Non fregheresti un amico, no? Sono un aziendalista». 

Sì, ma so bene che tu al mio posto lo faresti, quindi…

«(Risata crassa) Sono indignato, ma hai ragione. Possiamo parlare di tutto, tranne che del programma. Quello che dovevo dire l’ho già detto. Ogni altra parola è superflua». 

Per lunghi anni, Nicola Porro e io siamo andati In Onda insieme su La7. Un programma a due è come un fidanzamento: o ti sposi o ti separi (e vuoi gli alimenti). Noi incredibilmente andavamo d’accordo. Avevamo un compito che ci riusciva benissimo: lui raccontava le cose partendo da un punto di vista “di destra”, io da un punto di vista “di sinistra”. Il massimo della differenza e il massimo della sintonia, nel rispetto della diversità. Ho capito allora che Nicola è un liberale vero. La gente ci ferma, ancora oggi: “Come facevate a sostenere sempre due cose opposte? Era tutto scritto?”. Veniva naturale: una volta partiva lui, una volta io - a braccio - e l’altro era obbligato a variare all’impronta. Un ospite lo invitavo io e uno lui, un servizio lo immaginavo io, uno lui. Poi Nicola ha creato Virus su Raidue: per una strana follia, proprio nell’anno dei suoi record, lo chiudono. L’ultima puntata ha superato il 6%. 

Cosa farai? 

«Combatto per portare sempre in scena, spero alla Rai, l’idea più sbagliata e metterla a confronto con quella dominante. Il contagio delle idee è un valore».

Ti offrono, un programma, domenica pomeriggio, accetterai?

«No comment».

L’unico talk "di destra": una condanna o una fortuna?

«In un paese in cui in tutti i salotti definirsi di sinistra sembra un certificato di cittadinanza, pena l’indegnità, sono contento di essere bollato “di destra”».

Tu cosa sei?

«Un liberale. Punto».

Cosa significa, questo, nella tua tv? 

«Raccontare gli invisibili, chi non ha successo».

Ovvero? 

«Le persone inutili per i salotti di oggi, che - per dire - non sono à la page per Fazio, non hanno il faccione».

Quali sono i "salotti di oggi"?

«Un tempo erano Mediobanca e le sorelle Crespi. Oggi, per trovare un simbolo, sono due locali radical chic di Roma, sono Settembrini e il Salotto 42». 

Quartiere Mazzini: produttori, sceneggiatori e del cinema, e in centro.

«Due piccoli templi del pensiero dominante. Ovvero di ciò che le persone fiche, le persone giuste pensano».

Non è da te inveire!

«Giornalisti e i politici, spesso prigionieri nel circuito del potere, hanno un fortissimo rischio di allontanarsi dalla realtà. La confondono con quel che si dice al Settembrini e al Salotto 42».

Avevi un nonno liberale!

«Nicola come me, cognome Melodia, è stato vice-presidente del Senato. Ma non l’ho mai conosciuto. La mia famiglia era di destra, vagamente nostalgica, papà votava Msi».

So che con Vendola avete ricordato le sorelle Porro.

«Agrarie, zitelle e incolpevoli. Ma sorelle e zie di fascistissimi Porro pugliesi».

Vennero trucidate nel 1945, siamo dalle parti di Pansa.

«Furono linciate, stuprate e lasciate nude sulla pubblica piazza di Andria. Io Il sangue dei vinti ce l’ho nelle vene».

Eppure nel dna non hai l’odio.

«Mio padre Maurizio e mia madre Lucilla non mi ha trasmesso nulla di tutto questo: non una parola di rancore. Era come se tutti in famiglia avessero accettato la fatalità brutale della guerra civile».

Come faceva a non odiare?

«Lui fu mandato in Svizzera a studiare: parla il tedesco meglio dell’italiano. Mai avuto una tradizione orale di quel dramma».

Pazzesco.

«Dopo, con i rapimenti degli anni ’70 in casa mia giravano armi. In campagna papà dormiva con la 38 special sopra la sponda del letto. Sapevo, ma non ne parlavamo».

E il Pli?

«Sono del 1969. Rimasi folgorato dalla lettura di un saggio di Antonio Martino che mi aveva prestato il mio amico Antonio De Filippi fratello di Giuseppe».

E i cugini radicali, il fascinoso Pannella?

«Zecche: non potevo proprio tollerare di essere chiamato da qualcuno “compagno”».

E gli odiati cugini repubblicani? Più a sinistra di voi.

«Macché di sinistra! Ho conosciuto Oscar Giannino con i capelli, senza bastone e senza ghette. Ma era più padronale di me. Mi sono convinto a votarlo quando ho scoperto la storia della sua finta laurea: è indecoroso il linciaggio che ha subito».

Politica all’università?

«Capisco cos’è il conflitto perché vengo menato sia dai fascisti che dai comunisti».

Spiegami un motivo di rissa.

«Quando giravo per i corridoi di economia spiegando: “Le tasse universitarie devono essere più alte!”».

Facevano bene a menarti.

«È un principio di equità. I dieci delle classi sociali più ricche che si laureano, hanno un futuro. È giusto che se lo paghino. Chi non ha soldi viene finanziato con una borsa di studio. Chi perde tempo paghi».

E dopo la laurea?

«Mi chiama Ferrara che apre il Foglio, ci incontriamo al Radetzky. E poi la prima, unica e provvidenziale raccomandazione della mia vita: Paolo del Debbio chiama Carlo Maria Lomartire e gli chiede di trovarmi un lavoretto a Rete Quattro».

E che fai?

«Mi devo svegliare alle cinque di mattina per una rassegna stampa. Con una Yahamaha Teneré 600 fichissima. Compravo i giornali e li portavo in redazione».

Ma torni anche sulla carta stampata.

«Ferrara e il grande Sergio Zuncheddu, editore de Il Foglio, mi offrono di fare una pagina finanziaria del quotidiano. Dura un anno. Un giorno Giuliano, quasi serafico mi fa: “Da domani non esci più”. Ho metabolizzato in quel momento la flessibilità. Svengo. Però poco dopo mi assume al Foglio».

Poi torni all’economia.

«Nel 2000 mi chiama Paolo Panerai e con Giuseppe De Filippi fondiamo Class Financial Network. Copiando spudoratamente Cnbc».

E poi? 

«Il buon risultato mi procura la chiamata di Belpietro. Pensa: non l’avevo mai visto. Nel 2003 mi dice: “Vuoi venire a fare il capo dell’economia a Il Giornale?”».

E tu? 

«Mi pare incredibile: la prima volta che mi vede mi assume». 

Il passaggio a La7? 

«Ero in vacanza a Stromboli. Gianni Stella, detto "Er canaro", una leggenda, si presentò in elicottero!».

E tu?

«Andai a prenderlo con l’Ape. Mi disse all’orecchio quando mi volevano dare a puntata. Capii male. Temevo pochissimo. Ero imbronciato. E così lui, davanti a mia moglie: “Sai quante donne rimorchi con la tv!”». 

E Allegra? 

«Donna di classe infinita: “Allora Nicola accetta!”».

Te ne vai a Raidue litigando con Cairo per una sciocchezza. 

«Malamente, insulti. Subito dopo diventiamo amici. Questo ti dice la grandezza dell’uomo».

E il passaggio alla Rai?

«Ho avuto libertà straordinaria. In poche settimane mettiamo su un programma di prima serata partito il 3 luglio. Se si muove la macchina di viale Mazzini non ce n’è per nessuno».

Non hai citato Feltri.

«Solo perché ora è direttore. Per me è un maestro. Ha una dote rara: rendere semplici le cose complesse. Quando inizio a scrivere me lo vedo davanti come Obi Wan Kenobi che me lo ripete. È difficile semplificare senza banalizzare».

Altro maestro?

«Non ci crederai: Santoro. Nei suoi programmi, dove si andava a combattere, sono diventato “il berlusconiano dal volto umano”». 

E il tuo amore-odio con Freccero? 

«Ripete sempre che sono bravissimo nella carta stampata, che vesto bene, e che passo tutti i miei week a Saint Tropez».

La terza cosa è quasi vera.

«Ho conquistato tutto da solo non ho motivo di vergognarmi».

Non sei cool, Nicola.

«A vent’anni andavo al Piper la sera, e il giorno litigavo con i compagni».

E quindi? 

«Per fare il giornalista non devi essere malvestito, ma con la giacca di Armani stropicciata, avere la barba incolta, e una multiproprietà in Puglia. Capisco, però, che aiuta molto».

"Appena metto piede a Napoli vengo travolto dall'affetto. Non esagerate perché alla mia età ci si commuove facilmente". Così Silvio Berlusconi inizia il suo discorso al Politeama. "Accanto a me la nostra favolosa capolista Mara Carfagna e il nostro decisissimo candidato sindaco Gianni Lettieri - dice tra gli applausi - all'Hotel Vesuvio mi hanno dato la stessa camera quando guidai il G7 nel 1994 e quando mi arrivò l'avviso di garanzia, il secondo dei quattro colpi di Stato avvenuti in Italia", scrive Gerardo Ausiello su “Il Mattino” il 27 maggio 2016. È il momento di Berlusconi: "Siamo e siete in buone mani. Dentro di me ho la sicurezza di vedere Gianni far rivivere questa città. Abbiamo avuto da Mara e da Gianni numerosi report sullo stato di Napoli oggi. Dovete allora contattare i tanti indecisi e convincerli. Non bisogna rassegnarsi. Dopo la vittoria alle Amministrative dovremo guardare anche noi alle Politiche e potremo vincere grazie ai tanti moderati, non ideologizzati come quelli di sinistra, per impedire la deriva autoritaria senza fine a cui rischiamo di andare incontro. Siamo già in un momento di democrazia sospesa che dura da anni, con un governo non scelto dai cittadini, con una maggioranza retta da parlamentari eletti nelle fila del centrodestra. Il premier non eletto sta dimostrando una bulimia di potere preoccupante, occupa tutto quello che può, ultimamente persino la Rai. Se passasse la riforma della Costituzione ci sarebbe un solo padrone, cioè lui, Renzi. Sarebbe un regime. Il primo colpo di Stato c'è stato con Tangentopoli e molti di noi allora sentimmo la necessità di scendere in campo. In due mesi portammo i moderati a Palazzo Chigi ma la magistratura di sinistra mandò al presidente del Consiglio un avviso di garanzia e dopo sette mesi il governo cadde perché l'allora capo dello Stato Scalfaro chiamò Bossi e gli disse di voltarmi le spalle. Ma noi tornammo al governo e ancora nel 2008 quando mi dissero qui "Silvio santo subito" dopo che liberai la città dai rifiuti. Salvammo l'Italia è in Abruzzo dopo il terremoto nessuno dormì all'addiaccio e Berlusconi arrivò nei sondaggi al 75,3 per cento. A quel punto il Pd e i magistrati dissero che dovevano distruggermi. Amedeo Laboccetta lo ha raccontato in un libro. Napolitano provò a farmi cadere con la promessa di nominare Fini premier. Amedeo cercò di dissuadere Fini ma lui prese il telefono e chiamò Napolitano per accordarsi sulla mozione di sfiducia contro di me. Era un colpo di Stato tra la prima e la terza carica dello Stato, che non riuscì. Poi arrivò l'anno orribile del 2011, delle accuse infamanti, della frase inventata contro la signora Merkel. Così partì l'offensiva delle banche tedesche e fui costretto a dimettermi perché mi avevano tolto altri otto deputati, plagiati. Se avessi accettato l'offerta del Fondo monetario internazionale l'Italia sarebbe stata colonizzata. Se non mi fossi dimesso mi avrebbero sfiduciato in Parlamento. Questo fu il terzo colpo di Stato, definito un tranquillo colpo di Stato da un giurista tedesco. Mi allontanai dalla politica ma il partito perse consensi. Alle ultime elezioni tutti vennero a richiamarmi e in 23 giorni il partito guadagnò 10 punti ma la solita grande professionalità della sinistra nei brogli fece vincere loro i voti per poche migliaia di voti. Poi a Letta è subentrato il non eletto Renzi. Io ero ancora pericoloso per loro e fui eliminato per la via giudiziaria da un collegio di sinistra con una velocità record per frode fiscale. Il relatore disse che quello era un plotone di esecuzione contro di me". Berlusconi parla quindi del referendum: "Dobbiamo votare no e difendere la democrazia e la libertà. Le prossime elezioni saranno cruciali e allora con Fulvio Martusciello stiamo mettendo in campo un esercito di 200mila difensori del voto che dovranno convincere anche gli indecisi. Per farlo ho lavorato a un programma approvato dai nostri alleati della Lega e di Fratelli d'Italia. Più garanzie per ciascuno è il punto più importante perché il nostro Paese è ammalato di democrazia a causa del sistema giudiziario. Avevo pronta questa riforma dal 1994. In Consiglio dei ministri mi dissero: non è possibile fare questa riforma altrimenti cade il governo, abbiamo un accordo con l'Anm". Via le tasse sulla casa, via l'imposta di successione, condono fiscale, via l'Irap dalle imprese, basta alle autorizzazioni preventive, chiusura immediata di Equitalia, chi ha tradito il mandato degli elettori non può più candidarsi, almeno mille euro al mese per tutti, la pensione alle nostre mamme e l'istituzione del poliziotto di quartiere: questi alcuni dei punti del programma annunciati dall'ex presidente del Consiglio".

Quando il politico rimette la toga: quelle porte girevoli fra Palazzo e magistratura. Accuse di mancanza di imparzialità. Casi di doppi incarichi. Confini spesso troppo labili. Tutti i casi (e le insidie) di chi è tornato in tribunale. Dove più che le norme contano le ragioni di opportunità, scrive Paolo Fantauzzi il 27 maggio 2016 su "L'Espresso". Fra i tre giudici di Corte d'Appello che hanno condannato a due anni e mezzo per peculato Augusto Minzolini per l'uso illecito della carta di credito della Rai sentenza confermata in Cassazione nei mesi scorsi) c'era Giannicola Sinisi: parlamentare col centrosinistra dal 1996 al 2008, sottosegretario all'Interno con Prodi e D'Alema e candidato governatore in Puglia nel 2000. Circostanza che secondo Forza Italia, che si oppone alla decadenza da senatore di Minzolini prevista dalla legge Severino, avrebbe dovuto indurre il magistrato ad astenersi per ragioni di opportunità: troppo politicizzato, il suo passato, per non prefigurare il rischio di mancanza di imparzialità. Chi invece lo ha fatto, nel processo a Napoli a carico dei coniugi Mastella, è stato un paio d'anni fa Nicola Miraglia Del Giudice: eletto alla Camera con An e transitato nel Ccd di Casini, nel 1998 aveva seguito l'esponente beneventano nell'Udr. Si condivida o no la posizione dei berlusconiani, il problema del rientro in carriera delle toghe che hanno fatto politica si pone. Anche perché una legge non c'è: per chi non è stato eletto vale il divieto di tornare al lavoro nelle circoscrizioni in cui ci si è candidati - come mostra il caso di Antonio Ingroia, spedito al tribunale di Aosta dopo il flop di Rivoluzione civile - ma la norma nulla dice nei riguardi di chi, dopo essere stato in Parlamento, vuole tornare a svolgere il lavoro di prima. Attualmente, ha ricostruito l'Espresso, ci sono 22 magistrati in servizio con un passato in politica: 13 nel centrosinistra, 9 nel centrodestra. Di questi, 10 sono ex parlamentari, equamente ripartiti fra gli schieramenti. Nel vuoto legislativo e in attesa che le Camere si muovano (a Montecitorio giace un ddl approvato dal Senato due anni fa) il Csm si è dato delle regole di proprio iniziativa, ricollocandoli per almeno cinque anni in un distretto diverso da quello dell'elezione e mai con funzioni inquirenti. Collocamenti in aspettativa che durano decenni. Dimissioni che restano un miraggio. Promozioni assicurate anche senza svolgere attività giudiziaria. Mentre la legge che dovrebbe rivedere il sistema è ferma da mesi. Ma non sembra interessare nessuno È il caso dell'ex sottosegretario Alfredo Mantovano, parlamentare con An e Pdl per quasi vent'anni: candidato sempre in Puglia, dal 2013 è consigliere di Corte d'Appello a Roma. Il democratico Lanfranco Tenaglia, che fu anche ministro-ombra della Giustizia ai tempi di Veltroni, non rieletto in Abruzzo alle ultime elezioni, dopo otto anni da deputato adesso è giudice al tribunale dei minori di Venezia. Angelo Giorgianni, sottosegretario diniano nel Prodi I, è in Corte d'Appello a Messina, dove a breve arriverà come presidente di sezione un altro ex dai lunghi trascorsi politici: Sebastiani Neri, deputato con An (di cui fu responsabile Giustizia) e l'Mpa di Raffaele Lombardo, che lo portò anche alla Regione Sicilia dopo una mancata elezione con Salvatore Cuffaro. Altri ex più “datati” sono invece arrivati nel frattempo in Cassazione, come Francesco Bonito (per anni responsabile Giustizia dei Ds), Domenico Gallo (con Rifondazione nel '94) e Antonio Oricchio (nel 2001 con Forza Italia). Situazione identica pure per vari ex assessori: Alfonso Sabella dopo la breve esperienza con Ignazio Marino in Campidoglio (e in attesa di tornare nella Capitale come capo di gabinetto del nuovo sindaco, se Roberto Giachetti vincerà le elezioni) è ora giudice a Napoli. Giuseppe Narducci, in squadra per un anno e mezzo col sindaco Luigi De Magistris, è a Perugia. Scelta diversa per Lorenzo Nicastro, eletto con l'Idv e membro dell'ultima giunta Vendola in Puglia, che adesso è pm a Matera. Tutto bene dunque? Non sempre. Non solo per la delicatezza di conciliare un diritto costituzionalmente riconosciuto come la partecipazione alla vita politica con la terzietà richiesta a chi indossa la toga senza sconfinare nelle porte girevoli (non a caso il Csm sta lavorando a una stretta sulle incompatibilità negli enti locali). Ma anche perché, pure quando la legge lo consente, le situazioni-limite non mancano, sempre per questioni di opportunità. Il magistrato Roberto Bufo, ad esempio, ha collezionato negli ultimi anni un gran numero di cariche: consigliere comunale a Lerici per cinque anni e al tempo stesso giudice a Pisa, poi assessore ai rapporti con gli enti istituzionali in un paesino di poche centinaia di abitanti in provincia di Lucca durante l'aspettativa dal tribunale del capoluogo; poi, mentre era a La Spezia, una candidatura al comune di Massa in una lista civica di centrodestra e un'altra per Strasburgo coi montiani di Scelta europea nella circoscrizione Nord-ovest, che comprende anche la Liguria (per l'occasione sulla sua pagina Facebook si definiva "personaggio politico"). Non eletto, è stato spostato a Pisa (che ricade in un altro collegio) e in quegli stessi giorni è stato nominato assessore all'isola d'Elba. Per quanto singolare possa apparire, tutto assolutamente legittimo: nulla allo stato attuale vieta di esercitare un ruolo amministrativo al di fuori del circondario del tribunale in cui si esercita. Come mostra la vicenda del sindaco di Portici Nicola Marrone: eletto da una coalizione formata da Sel, Verdi, Idv e Udc, nei primi mesi dopo l'elezione ha continuato a fare il giudice a Torre Annunziata anziché chiedere subito l'aspettativa. Non era obbligato: le due città, per quanto distanti pochi chilometri, si trovano in distretti giudiziari diversi ma le critiche non sono mancate. Il problema insomma resta, anche se la riforma Castelli del 2006 ha vietato l'iscrizione e la partecipazione alla vita dei partiti con la motivazione che possono "condizionare l'esercizio delle funzioni o comunque compromettere l'immagine del magistrato". Ne sa qualcosa Luigi Bobbio, pm antimafia a Napoli e in seguito senatore di An, capo di gabinetto del ministro Giorgia Meloni e sindaco di Castellammare di Stabia (ruolo che nel 2012 lo rese celebre per aver abbandonato una processione che omaggiava un boss della camorra): nel 2010 è stato condannato con l'ammonizione dal Csm per aver assunto la presidenza della federazione napoletana di Alleanza nazionale mentre era fuori ruolo per un incarico di collaborazione con la Camera. Il motivo: i "metodi partitici" per loro natura "non sono compatibili con l'indipendenza del magistrato". Un rilievo avanzato a suo tempo anche nei confronti di Ingroia al termine dell'aspettativa chiesta per candidarsi alle ultime elezioni. Bobbio, che dal 2013 è giudice a Nocera Inferiore, nei mesi scorsi è anche stato condannato a otto mesi (pena sospesa) per aver scritto sul suo profilo Facebook che Carlo Giuliani, il ragazzo ucciso durante il G8 di Genova, era " una feccia di teppista di strada ". Un caso in parte simile interessa anche il governatore pugliese Michele Emiliano per la sua veste di segretario regionale del Pd: o la politica o la toga, l'aut aut del procuratore generale della Cassazione, che un anno e mezzo fa ha aperto un procedimento disciplinare nei suoi confronti. Una contestazione che però non risulta essere mai stata mossa verso quei magistrati che sono parlamentari e svolgono vita di partito, come nel caso di Anna Finocchiaro, in aspettativa dal lontano 1987.

Minzolini: «Io condannato da un giudice avversario politico», scrive Paola Sacchi il 15 luglio 2016 su “Il Dubbio”. «Mi condannò un magistrato che fu sindaco di Andria, parlamentare e sottosegretario di Napolitano, esattamente l’ex Presidente di cui avevo teorizzato l’impeachment...». Parla con Il Dubbio il senatore di Forza Italia Augusto Minzolini, ex direttore del Tg1, giornalista e analista politico, inventore di un genere («Scrivere quello che davvero avviene nella stanza dei bottoni») finito sulla Treccani. Ma Minzolini è anche al centro di una caso politico-giudiziario, che lunedì incomincerà l’iter a Palazzo Madama, per il quale rischia la decadenza da senatore. Una vicenda “persecutoria”, denuncia.

Veniamo alla sua vicenda, che è un caso politico, per la quale rischia la decadenza da senatore, in base alla legge Severino. E’ così?

«Penso di sì, viste le logiche prevalenti secondo le quali questo viene quasi considerato un automatismo. Ma io lo ho già detto e lo ridico con molta franchezza: in ogni caso ho intenzione di dimettermi. Però non sollevo il Senato dalla responsabilità di assumere una posizione su una vicenda giudiziaria che, secondo me, è stata condizionata da un atteggiamento persecutorio nei miei confronti, con una valenza politica non indifferente».

Ci può riassumere la kafkiana vicenda che la riguarda?

«In Rai mi proposero una retribuzione del 6 per cento in meno rispetto a quella del mio predecessore. Accetto, ma dico che, avendo un rapporto di collaborazione con il settimanale Panorama, avrei preferito mantenerlo. Ma l’allora presidente Rai Garimberti disse che non era possibile sia dal punto contrattuale sia etico. Chiesi quindi di riconoscermi almeno quello che avevo da inviato e editorialista della Stampa: una carta di credito per spese riguardanti il mio lavoro».

Poi, che accadde?

«Mi venne concessa la carta di credito che fu data anche agli altri direttori. Per 18 mesi mandai le ricevute. E non eclatanti, non c’erano cravatte, alberghi e menate varie. Si trattava di pranzi di due o tre persone. Nessuno mi disse nulla. Ma nel frattempo aumentava la tensione nei miei confronti per le mie posizioni politiche controcorrente. L’allora direttore generale Masi prima mi difende poi si rimangia tutto e mi dice che non era un benefit compensativo (per la mancata collaborazione con Panorama) ma una facility. E mi chiedono di mettere i nomi insieme con le ricevute. A questo punto ridò esattamente tutti i soldi, 65.000 euro, riservandomi di rivolgermi al giudice. E richiesi di collaborare con Panorama, cioè quello che contrattualmente e eticamente non era stato possibile prima, diventò possibile. Mi sembrò tutto abbastanza assurdo, ma pensai anche che la cosa si chiudesse lì».

Com’è che finisce in una vicenda penale?

«Nel frattempo Antonio Di Pietro aveva fatto un esposto. Nel processo, viene ascoltato anche Clemente Mimun ex direttore del Tg1 il quale dichiarò che era prassi che il direttore del Tg1 non faceva i nomi delle persone con le quali andava a pranzo. Il Pm chiese per me 2 anni, ma venni assolto in primo grado».

Poi dall’assoluzione alla condanna definitiva che accade?

«Innanzitutto che il giudice del lavoro mi dà ragione e obbliga la Rai a ridarmi i soldi. Ma nel frattempo io divento senatore e pongo la questione di un possibile impeachment di Napolitano per la vicenda del 2011, mi esprimo contro le riforme con Renzi, denuncio, infine, il presidente del Senato Pietro Grasso alla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo per la gestione del dibattito sulle riforme costituzionali, strozzandolo con il “canguro”. Arriviamo all’appello, il tribunale capovolge di 180 gradi la sentenza. E invece di darmi due anni come aveva chiesto il Pm in primo e secondo grado mi danno mi danno 2 anni e 6 mesi e con quei 6 mesi proprio per far scattare la legge Severino Quindi viene fatta una sentenza squisitamente politica».

Ma arriva poi la Cassazione. E lì che accade?

«Due giorni prima viene cambiato il presidente del Tribunale che mi doveva giudicare. Era Milo, che aveva assolto Berlusconi sulla vicenda Rubi, e ne arriva un altro di Magistratura Democratica. Mi viene confermata la condanna. Entrato ormai in un incubo, vado a vedere chi fosse nel Tribunale della Corte d’Appello che aveva cambiato la mia sentenza di assoluzione. E scopro che c’era un giudice che per vent’anni aveva fatto politica: da sindaco di Andria a parlamentare a sottosegretario del governo Prodi, al ministero dell’Interno con Napolitano, esattamente l’ex Presidente di cui avevo teorizzato l’impeachment, a sottosegretario anche con D’Alema. Poi fu mandato per nomina politica a fare il consigliere giuridico dell’ambasciata italiana a Washington, rientrando quindi in magistratura nel 2013 appena un anno prima della mia sentenza. Si tratta di Nicola Sinisi. Ma che uno dalla politica possa rientrare così in magistratura a giudicare mi lascia quanto meno perplesso. Forse una cosa del genere avviene, chessò, in Turchia, in Egitto?»

Lei poi ha rincontrato lo stesso Di Pietro. Che le disse?

«Che per lui è un assurdo che un giudice che abbia fatto politica torni a fare il magistrato, che non a caso lui non lo ha fatto. E ora fa l’avvocato, ma neppure a Milano. In un momento poi di sincerità mi disse: tu hai pagato per la politica».

Magistrati di toga e di governo: quando il giudice entra in politica ma non si dimette. Collocamenti in aspettativa che durano decenni. Dimissioni che restano un miraggio. Promozioni assicurate anche senza svolgere attività giudiziaria. Mentre la legge che dovrebbe rivedere il sistema è ferma da mesi. Ma non sembra interessare nessuno, scrive Paolo Fantauzzi il 23 maggio 2016 su "L'Espresso". L’affondo del presidente dell'Anm, Piercamillo Davigo, sui politici che "non hanno smesso di rubare ma di vergognarsi". I giudizi non proprio lusinghieri sul governo del giudice Piergiorgio Morosini, ora al Csm. Le polemiche sul diritto di schierarsi sul referendum costituzionale. E come risposta, le accuse di invasioni di campo, interventi a gamba tesa, "barbarie giudiziarie". Se i venti di tempesta ricordano i tempi dell'assalto alle presunte toghe politicizzate, già cavallo di battaglia di Silvio Berlusconi, nessuno pare ricordarsi del caso opposto: i "politici togati", ovvero tutti quegli esponenti di partito che, pur non avendo intenzione di rimettere piede nelle aule di giustizia da dove provengono, sono in aspettativa da tempo immemore. Così da risultare a tutti gli effetti in servizio e maturare pure l'anzianità per la progressione di carriera. Come? In base a una semplice relazione della Camera di appartenenza relativa all'attività parlamentare svolta. E quando l'avventura finisce, nessun problema: tornano nei tribunali senza colpo ferire, e pazienza per l'immagine di obiettività e imparzialità che dovrebbe accompagnarli. Ci vorrebbero dei paletti, ha ammonito a suo tempo Giorgio Napolitano e nei mesi scorsi anche il Csm. Solo che la legge, approvata all'unanimità dal Senato due anni fa, da dicembre è ferma a Montecitorio in commissione Giustizia. Presieduta, nemmeno a farlo apposta, da un magistrato fuori ruolo dal 1999 e in aspettativa dal 2008: Donatella Ferranti (Pd). In Parlamento siedono nove toghe (erano 17 la scorsa legislatura). Sei sono formalmente in attività: oltre alla Ferranti, i senatori democratici Felice Casson, Anna Finocchiaro, Doris Lo Moro e il deputato montiano Stefano Dambruoso. Fra gli ex, il presidente del Senato Piero Grasso, che andò in prepensionamento quando si candidò col Pd, e come lui due forzisti: Nitto Palma, che si dimise nel 2011 a seguito della nomina a Guardasigilli (dieci anni dopo l'ingresso in politica) e l'ex sottosegretario Giacomo Caliendo. Caso a parte il verdiniano Ignazio Abrignani, in passato giudice tributario ma di fatto avvocato civilista. Emblematico il caso della Finocchiaro, magistrato per un lustro appena: pretore nell'ennese dal 1982 al 1985 (dove escluse dalle comunali il Psi, che aveva depositato la lista con 20 minuti di ritardo) più un paio d'anni da pm a Catania. Nel 1987, quando la Germania è ancora divisa e Maradona fa sognare Napoli, l'elezione alla Camera col Pci e l'aspettativa. Che dura tuttora: lo scorso 29 aprile, certifica il Csm, dalla prima delibera di autorizzazione erano trascorsi 28 anni, 3 mesi e 20 giorni. Fra le 823 toghe in servizio collocate fuori ruolo almeno una volta, ha ricostruito l'Espresso, nessuno può vantare un tale record. In questi tre decenni la Finocchiaro è stata ministro, capogruppo, candidata governatrice in Sicilia, due volte presidente di commissione, il suo nome è girato per il Quirinale ma di dimissioni nemmeno a parlarne. La lontananza dalle aule di giustizia non le ha comunque impedito di ottenere nel tempo sette valutazioni di professionalità, il massimo, e di veder confermati nel 2011 dal Consiglio giudiziario della Corte di appello di Roma “i giudizi positivi conseguiti nel corso di tutta la sua carriera”. Benché trascorsa in Parlamento anziché in tribunale. In questo modo, coi contributi versati, oltre a un vitalizio superiore a 5mila euro l'esponente Pd riscuoterà anche una cospicua pensione da magistrato. Porte girevoli invece per Doris Lo Moro. Dal 1988 ha esercitato una decina d'anni appena, peraltro a intermittenza: un quinquennio da giudice a Lamezia Terme, qualche mese a Roma alla sezione Lavoro, poi otto anni da sindaco (proprio a Lamezia). A seguire, ancora un po' di qua e un po' di là: di nuovo giudice nella capitale per altri quattro anni e dal 2005 la politica a tempo pieno, come consigliere regionale Ds e parlamentare Pd. Adesso, dopo due legislature, la senatrice è pronta per ricominciare il giro al Consiglio di Stato, dove Matteo Renzi vorrebbe nominarla. Vita a metà per la Ferranti: 17 anni con la toga, altrettanti fuori ruolo. Prima al Csm ai tempi di Rognoni e Mancino (dove diventa segretario generale) e poi, grazie anche a questi sponsor di peso, il salto in politica nel 2008: con una blindatura a capolista nel collegio Lazio 2. Se la Ferranti ha in serbo di tornare in magistratura, magari con l'ambizione di finire in Cassazione (si dice che per questo faccia grandi resistenze sul ddl che disciplina il rientro in carriera), chi non ci pensa affatto è Felice Casson. Il giudice istruttore del processo Gladio dopo un quarto di secolo da inquirente si è dato alla politica nel 2005: da allora due candidature a sindaco di Venezia, senza successo, e tre legislature. Oggi, a 63 anni, nella doppia veste di parlamentare e consigliere comunale, aspetta di poter andare in pensione. Alla prima esperienza è invece Dambruoso (Sc), esperto di terrorismo internazionale. Fra incarichi vari all'estero e ministeri la toga l'ha indossata poco ultimamente (dal 2003 solo per un anno, come pm a Milano) ma pure lui nei mesi scorsi ha ottenuto un avanzamento. L'emblema dei cortocircuiti che possono prodursi è Cosimo Ferri, sottosegretario in quota Alfano e al tempo stesso leader di Magistratura indipendente, di cui sponsorizzò i candidati via sms alle ultime elezioni per il Csm. Talmente "indifendibile", come lo definì, che Renzi dopo l'indignazione d'ufficio l'ha lasciato dov'era. Nemmeno questo figlio d'arte (il padre Enrico, ministro Psdi, è stata una toga prestata a tempo indeterminato alla politica) ha sudato particolarmente in tribunale: in tutto una decina d'anni, inframmezzati peraltro da un mandato al Consiglio superiore. Quando nel 2010 torna a fare il giudice a Massa, ha un seguito tale da risultare il più votato di sempre all'Anm ed è pronto per il salto in politica, che arriva grazie alle larghe intese in quota Forza Italia. Malgrado sia finito in pochi anni nelle intercettazioni di Calciopoli, dell'inchiesta Agcom-Annozero e della P3. Poco male: nel 2014, quando era già sottosegretario, il ministero della Giustizia ne ha certificato “equilibrio, imparzialità, serenità ed autonomia” che a gennaio gli sono valsi un nuovo scatto. Del resto, ministero che vai, sottosegretario-magistrato che trovi: al Viminale c'è Domenico Manzione, un passato da pm a Lucca, Monza e Alba prima di approdare all'esecutivo con Letta su indicazione di Renzi, di cui è intimo. A livello locale la musica non cambia, tanto che il Csm ha allo studio un'apposita delibera per stringere sulle incompatibilità con gli incarichi amministrativi. Nel 2009 Caterina Chinnici (figlia di Rocco, il giudice ucciso dalla mafia) ha accantonato la toga a Palermo per entrare nella giunta di centrodestra guidata da Raffaele Lombardo, poi è passata alla guida del dipartimento Giustizia minorile e nel 2014 è volata in Europa col Pd. Da pm antimafia, senza muoversi da Bari Michele Emiliano è diventato invece sindaco e governatore pugliese. In attesa, vai a sapere, di sfidare il segretario-premier al congresso. La nomina a segretario regionale dem gli è costata però un procedimento disciplinare: fare politica sì, militare a tutti gli effetti in un partito no. Questione di forma. Per quanto impalpabile possa essere il confine.

Compagno magistrato. Da Mani pulite alla lunga guerra contro il Cav. Cinquantadue anni di militanza a fianco della sinistra. Grande inchiesta sul marxismo giudiziario di Magistratura Democratica, scrive Annalisa Chirico il 17 Aprile 2016 su "Il Foglio". Magistratura Democratica nasce il 4 luglio 1964 a Bologna, nell’Aula magna del collegio universitario Irnerio dove si tiene la sua prima assemblea pubblica. Magistratura Democratica. Magistratura di sinistra. Toghe rosse. Contropotere. Lotta di classe. Marxismo giudiziario. Autonomia e indipendenza. Resistenza costituzionale. Costituzione Costituzione Costituzione. Corre l’anno 2016, e per difendere la Costituzione Md combatte al fianco dell’Arcinemico, il Caimano from Brianza, l’attentato alla Costituzione in carne e ossa, che se solo potesse la cambierebbe tutta in un istante. Ma ora lui non può, e l’idea si fa scintilla nella mente del Royal baby, Matteo Renzi, quello che “preferisco i magistrati che parlano con indagini e sentenze a quelli che parlano con i comunicati stampa”. Apriti cielo. Il premier vuole superare il bicameralismo paritario, due Camere uguali uguali che si rimpallano ogni testo in un ping pong snervante e interminabile. Addio spola, addio navette. Ma Berlusconi, che ieri era d’accordo, oggi scandisce il “no, giammai”, noi siamo opposizione. Rodotà e Zagrebelsky fissano pensosi l’orizzonte, e quasi trasecolano quando si accorgono che lui, il Caimano from Brianza, con incedere baldanzoso cammina dritto verso di loro. Che cosa vorrà mai? Il nemico è comune, il fronte pure. Tocca farsene una ragione. Sul sito web di Md campeggia il comunicato ufficiale di adesione al comitato per il NO (in stampatello) guidato dalla triade Zagrebelsky-Pace-Rodotà. “Lei è giovane come il direttore del Foglio con il quale sono già entrato in polemica – spiega con modi garbati l’attuale presidente di Md Carlo De Chiara – Dovete rendervi conto che la legge di riforma Renzi-Boschi, in sinergia con quella elettorale nota come Italicum, non ammoderna la macchina dello stato. A nostro avviso ne determina una pericolosa involuzione”. Ma, dottor De Chiara, lei non ravvisa neppure un filo di inopportunità nel fatto che una corrente giudiziaria ingaggi una battaglia politica contro il governo? “Md non è né si sente coinvolta in una lotta contro l’esecutivo. La materia costituzionale però travalica la politica contingente. La Costituzione è destinata a durare ben oltre la vita di un singolo governo”. “Io mi sento partigiano. Partigiano non solo perché sono socio onorario dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia ma soprattutto perché sono un partigiano della Costituzione. E tra chi difende la Costituzione e chi quotidianamente cerca di violarla, violentarla, stravolgerla, so da che parte stare”. 30 ottobre 2011, il sostituto procuratore di Palermo Antonio Ingroia, iscritto Md, partecipa al sesto congresso dei Comunisti italiani. Il magistrato, “partigiano della Costituzione”, si sente investito di una missione all’apparenza neutra, in realtà profondamente politica e potenzialmente totalizzante. La “resistenza costituzionale” è l’alibi perfetto per condurre ogni sorta di battaglia extragiudiziaria. Se la Costituzione chiama, il “magistrato democratico” risponde. “Nel 2006 mi schierai contro il tentativo di revisione costituzionale voluto dal governo Berlusconi; partecipai a ben cinquantadue iniziative, le ho contate. Io non mi sono mai tirato indietro, non lo farò neppure questa volta”, Franco Ippolito, iscritto alla corrente della sinistra giudiziaria dal 1972, ha sfiorato l’elezione a primo presidente della Corte di Cassazione lo scorso dicembre. Ippolito era il candidato di bandiera di Md ma alla fine i Verdi – che con Md sono confluiti in Area – hanno optato per Giovanni Canzio, forte dell’appoggio del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini. Ippolito, preso atto dei rapporti di forza, il giorno prima dell’elezione ha spedito una lettera a Palazzo dei Marescialli per ritirare ufficialmente la propria candidatura. “Non vorrei parlare della vicenda, anzi non vorrei parlare affatto perché sono della vecchia scuola, non mi intrattengo con i giornalisti. Da gennaio sono presidente della sesta sezione penale, e il lavoro non mi manca”, cordialità. Si mostra più affabile Piergiorgio Morosini, classe 1964, iscritto Md dal 1997, membro togato del Csm dal 2014, si è astenuto sul nome di Canzio (“nel suo caso la proroga di un anno per il pensionamento non riflette lo spirito della norma”). Nell’estate 2012, da gup di Palermo, Morosini è investito dall’inchiesta sulla presunta trattativa stato-mafia. All’epoca è pure segretario nazionale di Md, carica dalla quale decide di dimettersi. “Dovevo studiare oltre duecento faldoni e maneggiare una materia delicata sia per la natura eterogenea delle fonti di prova che per la complessità dei capi di imputazione. Non avevo il tempo per continuare a occuparmi della vita della corrente”. I beninformati invece sostengono che lei si sarebbe autosospeso per via delle voci interne critiche sul contenuto e sulla solidità dell’inchiesta palermitana, nonché sull’esposizione mediatica di alcuni rappresentanti della pubblica accusa, Ingroia e Nino Di Matteo (presidente della sezione palermitana dell’Anm). “Mi sono autosospeso e-sclu-si-va-men-te per portare a compimento il mio lavoro”. Nel marzo 2013 Morosini rinvia a giudizio dieci imputati per “violenza o minaccia aggravata a un corpo politico dello stato”, e il rito siculo, tra uomini di stato tacciati di mafiosità e uomini di mafia eretti a icone legalitarie, ha inizio. Due anni dopo, da componente togato del Csm Morosini si batte, senza successo, per la nomina dello stesso Di Matteo alla procura nazionale antimafia (“ho sostenuto che avesse meriti e titoli per quel ruolo. Non ho cambiato idea”). Morosini ha conosciuto i “convegni ideologici” soltanto per tradizione orale, negli anni di piombo era un adolescente, eppure di quella stagione non rinnega nulla: “Md ha svolto un ruolo cruciale per aumentare il tasso di civiltà del paese”. Md era una corrente esplicitamente politicizzata, caldeggiava la lotta di classe per via giudiziaria e il superamento della “giustizia borghese”. “Intendiamoci anzitutto sui termini: io parlerei di gruppi associati, non di correnti”. Pruderie linguistica. “Lei deve calarsi nell’atmosfera di quegli anni. L’obiettivo di Md era la costituzionalizzazione del diritto e la riforma profonda delle istituzioni retaggio dell’epoca fascista. Md voleva contaminare la società, per questo organizzava i cineforum dove la gente, terminata la visione del film, si intratteneva con i magistrati per discutere di politica e attualità. Mi risulta che lei si sia occupata estensivamente di abuso della custodia cautelare in carcere”. Confermo. “Sarà lieta di sapere che ho partecipato a decine di convegni a Sasso Marconi dove i magistrati seniores ci insegnavano che la carcerazione preventiva è una extrema ratio. Il mio patrimonio garantista mi deriva dall’appartenenza a Md”. Proviamo a riannodare il nastro. Md è la corrente del “disgelo” della Costituzione. La sua missione originaria consiste nella codificazione dei principi costituzionali nell’ordinamento. Md si caratterizza come avanguardia garantista, tutto vero. Non potrà negare però, consigliere Morosini, che Md è e rimane un “gruppo associato”, come dice lei, a elevato tasso di politicizzazione. Le “toghe rosse” sono tali per esplicita rivendicazione. In nome di una missione superiore – far vivere la Costituzione nella società – si sentono legittimate a intervenire su ogni questione: dalla Guerra del Golfo all’articolo 18, dalla scala mobile a Guantanamo, dai Pacs alla stepchild adoption. Quelli di Md non-si-tirano-mai-indietro. Md è vocata alla discesa in campo. “E che cosa ci sarebbe di disdicevole? Pensi al referendum sulla riforma del Senato”. Penso esattamente a quello. “La posizione di Md non va strumentalizzata. Il superamento del bicameralismo paritario riguarda la nostra ingegneria costituzionale. Chi cerca di farlo apparire come un plebiscito sul governo persegue obiettivi diversi. Più voci si confrontano meglio è per tutti. E’ un fatto salutare per la democrazia”. Se la magistratura si occupa di legiferare, mandiamo i parlamentari ad amministrare la giustizia? “La separazione dei poteri non è intaccata. La riforma in oggetto riduce le prerogative del Parlamento e dilata quelle del governo. Questo ci va bene?”. Io sogno Charles de Gaulle, si figuri. “Lei non mi dà alcuna soddisfazione, sottovaluta il rischio di una democrazia autoritaria. Quando sento bollare come stupido conservatore chi osa avanzare critiche, mi domando quale sia la vera posta in gioco. Intendo dire: perché si dovrebbe impedire a libere coscienze, peraltro dotate di competenze tecniche, di offrire un contributo pubblico? Ci si scandalizza se un magistrato si schiera su un tema rilevante come la riforma costituzionale e poi si tace se un altro fuori ruolo, con funzioni apicali in autorità di nomina governativa, assume ogni giorno posizioni politicistiche”. Si riferisce per caso a Raffaele Cantone? “Non mi costringa a far nomi”. Le “libere coscienze” togate dunque sarebbero meglio equipaggiate di noi comuni mortali per destreggiarsi tra tecnicalità costituzionali. E’ dello stesso parere Gennaro Marasca, Md dal 1970, scuola giuridica partenopea, in pensione per superato limite d’età. E’ membro del Csm negli anni di Tangentopoli e dello scontro frontale tra l’allora capo dello stato Francesco Cossiga e l’Associazione nazionale magistrati. A marzo dello scorso anno presiede la quinta sezione della Cassazione che assolve in via definitiva Raffaele Sollecito e Amanda Knox. “Il cittadino magistrato, di norma, ne capisce più degli altri. Non mi scandalizza che Md esprima la propria posizione, tanto più su un tema di rilevanza istituzionale. Ciò non toglie che io voterò a favore della riforma perché ritengo un fatto positivo imboccare la direzione del monocameralismo”. Il cittadino può affidarsi al giudice “terzo e imparziale” se costui scende in campo contro il governo? “La politicizzazione e l’imparzialità sono concetti distinti. L’imparzialità in sede di giudizio è un dato tecnico. La neutralità non è richiesta ed è anche pericolosa. Ogni scelta è politica”. Il magistrato, oltre che esserlo, dovrebbe apparire imparziale. “I magistrati sono, in primo luogo, cittadini. Rispetto alle grandi conquiste di civiltà e democrazia, non ci siamo mai tirati indietro. Leggiamo i giornali, viviamo di passioni, coltiviamo sensibilità politiche e culturali. La neutralità è una chimera”. Nel ’94 lei entra a far parte della giunta bassoliniana in qualità di assessore alla Trasparenza del comune di Napoli. Tre anni dopo, torna a esercitare la funzione giurisdizionale. Se domani lei vestisse i panni dell’imputato dinanzi a un giudice che è stato, a sua volta, assessore missino, non temerebbe un pregiudizio ostile nei suoi confronti? “Assolutamente no. La politicizzazione e l’imparzialità viaggiano su binari separati. La mia professione è stata sempre improntata al rigoroso rispetto della legge. Non avrei mai danneggiato un cittadino d’idee politiche opposte alle mie. Da assessore ho prestato un servizio civico in una città che ancora oggi versa in condizioni difficili. E il rischio è che De Magistris vinca per la seconda volta, anche per responsabilità di Bassolino che non ha saputo allevare una nuova classe dirigente. Le confesso, Renzi un po’ di ragione ce l’ha quando parla di rottamazione. Io ho 71 anni e mi sono fatto da parte. Le persone dovrebbero capire quando la loro stagione è conclusa”. A metà degli anni Sessanta una nuova generazione di giuristi progressisti mette in discussione il paradigma giuridico dominante. L’obiettivo è il disgelo della Costituzione. La stagione, le stagioni. Md ne ha vissute più d’una. Cinquantadue anni in trincea contro il potere costituito, dentro e fuori le aule di giustizia, nelle fabbriche e nelle piazze, a colpi di comunicati stampa e mozioni approvate per alzata di mano. E poi le email, quante email, frenetiche email, in una corrispondenza per ticchettio talvolta violata. Come nel dicembre 2009 quando un tale Tartaglia ferisce al volto il Cavaliere con una statuetta del Duomo meneghino, e una toga rossa erutta in una mailing list privata: “Ma siamo proprio sicuri che quanto accaduto sia un gesto più violento dei respingimenti dei clandestini in mare, del pestaggio nelle carceri di alcuni detenuti o delle terribili parole di chi definisce eversivi i magistrati?”. La stagione, le stagioni di Md. All’origine è marxismo giudiziario allo stato puro. Lotta di classe e giustizia proletaria. L’ordinamento risale al regime fascista, la Costituzione repubblicana è perlopiù inattuata. I “magistrati democratici” sono investiti di una missione: conferire linfa vitale alla Carta fondamentale. L’interpretazione evolutiva è preordinata a tale scopo. Segue poi la stagione del sangue, terrorismo fa rima con brigatismo, i magistrati cadono come eroi civili sotto il fuoco dell’ideologia armata. La corrente è spaccata tra movimentisti e gradualisti: i primi, vicini alla sinistra extraparlamentare, vedono nel Pci l’alibi di un sistema impermeabile al cambiamento, il terrorismo sarebbe una macchinazione dello stato borghese. I secondi perseguono un piano di riforma graduale del sistema capitalistico, il Pci è un alleato. Dopo qualche tentennamento e ambiguità di troppo, prevale la linea dell’intransigenza, esattamente come in via delle Botteghe Oscure. La terza stagione è a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. A Ginevra Reagan e Gorbaciov s’incontrano, i berlinesi orientali scavalcano frenetici il Muro, le due Germanie si apprestano alla riunificazione. La cortina di ferro si sgretola nel cuore dell’Europa, e gli effetti si propagano fino in Italia. Il Pci teorizza la svolta post ideologica. Md deve cambiare per non morire. La missione originaria è esaurita: il disgelo della Costituzione è ormai compiuto. In questo frangente Md cambia pelle: da corrente giudiziaria fiancheggiatrice della politica si trasforma in soggetto politico tout court. Tangentopoli segna la crisi della Repubblica dei partiti. Md cavalca l’inchiesta Mani pulite, i suoi esponenti assurgono a paladini della legalità. Nei confronti degli inquisiti per corruzione e tangenti lo zelo garantista, che negli anni Settanta ha suscitato frizioni interne sull’atteggiamento da riservare ai presunti terroristi, scompare: forma e sostanza dell’inchiesta milanese non sono minimamente messe in discussione, nessuna denuncia di “eccessi inquisitori”, di abusi manettari, nulla. Il 1994 è l’anno dell’“imprevisto” che di nome fa Silvio Berlusconi, capo di un partito e leader dell’antipartitismo. Il 21 novembre dello stesso anno, come preannunciato dal Corriere della Sera, il premier, nel bel mezzo di una conferenza internazionale contro la criminalità a Napoli, riceve dalla procura di Milano un invito a comparire per corruzione. Il Cav. è nemico delle toghe. Le toghe sono nemiche del Cav. Nel corso del cosiddetto Ventennio lo scontro si svolge in un crescendo rossiniano: Md è il “plotone d’esecuzione che vuole realizzare la via giudiziaria al socialismo contro il capitalismo borghese”, l’“associazione a delinquere delle toghe rosse”, il “cancro della democrazia italiana”. Il copyright è di Berlusconi. La stagione dei giorni nostri, la stagione che viviamo, porta con sé tre paroline: crisi di identità. Md è disorientata. Non è più quella che è stata e non sa quel che sarà. Lotta di classe e Costituzione sono le parole d’ordine di un’epoca definitivamente archiviata. Md non è più fucina di elaborazione culturale e politica, non è più avanguardia modernizzatrice. Md sopravvive come corrente tra le correnti, anestetizzata dalle logiche corporative e spartitorie tipiche della magistratura associata. Nelle fabbriche e nelle piazze non ci sta più, resiste invece nei luoghi del potere, nel parlamentino delle toghe, l’Anm, e nel supremo organo di autogoverno, il Csm. Per mantenere influenza e peso elettorale è confluita in Area insieme ai Verdi del Movimento per la giustizia. Una scelta sofferta e contestata al suo interno. Alle ultime elezioni del Csm Area ha eletto sette membri, soltanto due di Md. “Venuta meno la strategia politica, non è rimasta che quella dei posti”, chiosa implacabile Luciano Violante che dei tempi d’oro fu autorevole esponente. Alcuni dei padri fondatori confidano di non riconoscersi nella versione attuale. E’ come se Md, con lo sguardo rivolto a un glorioso passato, non sia in grado di sintonizzarsi con la contemporaneità. Arrancando così nell’impietosa routine di una corrente tra le correnti. C’era una prima volta Magistratura Democratica, anno di nascita 1964, governo Moro di centrosinistra. Md è uno “strano animale”, nelle parole di Pietro Ingrao, “un soggetto politico-culturale: una organizzazione quindi impegnata in una battaglia di trasformazione politica e sociale, e contemporaneamente nella costruzione di una specifica cultura giuridica. Organizzazione a forte politicità generale”. L’Anm, sciolta d’imperio dal regime fascista nel 1925, risorge a Roma nel ’44, e negli anni Cinquanta vede germinare al suo interno le prime “correnti” (la più antica si chiama Terzo potere). Nel ’61 una pattuglia di strenui difensori dello status quo abbandona l’Anm: sono perlopiù magistrati di Cassazione che danno vita all’Unione magistrati italiani. Tra i fondatori di Md si annoverano gli scontenti dei risultati alle elezioni del Csm nel ’63. Con il sistema maggioritario uninominale senza liste ufficiali, né Dino Greco né Adolfo Beria d’Argentine, entrambi del cosiddetto “gruppo milanese”, risultano eletti. Giovanni Palombarini è la memoria vivente di Md alla quale aderisce sin dagli albori. Ricopre gli incarichi di segretario nazionale e presidente del gruppo associato, negli anni di piombo è giudice istruttore a Padova dove segue le inchieste di eversione politica, incluso il famigerato “processo 7 aprile”. Agli inizi degli anni Novanta è eletto al Csm. Autore di poderosi volumi sulla parabola storica della corrente, per uno di essi sceglie un titolo che è un attestato di sincerità, “Giudici a sinistra”. Nel 2013, ormai in pensione, si candida alla Camera come capolista nella circoscrizione padovana per Rivoluzione civile fondata dall’ex collega Antonio Ingroia. Secondo Palombarini, la nascita di Md “non è stata il frutto del confluire più o meno spontaneo di soggetti omogenei quanto a cultura istituzionale e sentimenti politici, ma dell’aggregazione di magistrati certamente democratici, capaci di cogliere come sotto il dogma dell’apoliticità dei giudici si nascondesse una storica omogeneità con il ceto politico di governo”. Anche dopo la proclamazione della Repubblica, la Corte di cassazione, al vertice della piramide giudiziaria, si consolida come il moloch della conservazione. La giurisprudenza della Suprema corte mira infatti alla sterilizzazione della Carta costituzionale. Nel libro “La toga rossa”, scritto a quattro mani con il giornalista Carlo Bonini, il compianto Francesco Misiani, tra i fondatori di Md, spiega così l’impulso originario: “La divisione tra noi e quelli che chiamavamo gli ermellini, vale a dire i magistrati di Cassazione, nonché le stesse correnti di destra dell’Anm (Magistratura indipendente e Terzo potere, nda), era profonda. E non solo per un problema di carriere ma anche di interpretazione della legge. Noi sostenevamo che nello scrivere le nostre sentenze si dovesse ritenere prevalente la Costituzione fino al punto di disapplicare le leggi ordinarie che fossero ritenute in contrasto. Al contrario, la Cassazione si poneva quale ostacolo di qualunque giurisprudenza di tipo evolutivo”. Nel febbraio ’48 le sezioni unite si schierano contro l’attuazione della legge fondamentale con una sentenza che introduce la distinzione tra norme programmatiche e precettive, statuendo che soltanto le seconde avrebbero immediata efficacia nell’ordinamento. Le norme costituzionali sul diritto allo sciopero, sulla libertà di associazione e di pensiero non rientrerebbero tra queste. A metà degli anni Sessanta una nuova generazione di giuristi progressisti, tra i quali Stefano Rodotà, Pietro Barcellona e Sabino Cassese, mette in discussione il paradigma giuridico dominante. L’obiettivo è la costituzionalizzazione del diritto, vale a dire il disgelo della Costituzione, l’affermazione cioè del suo primato e del suo carattere immediatamente normativo. Si fa largo inoltre una nuova concezione del ruolo interpretativo del giudice che non può ridursi a mero esercizio burocratico secondo il mito della neutralità della legge. Negli stessi anni il giurista Giuseppe Maranini pubblica gli atti di un convegno intitolato, provocatoriamente, “Magistrati o funzionari?”. A suo giudizio, è dovere del giudice valutare la norma alla luce del dettato costituzionale esprimendo così un preciso indirizzo di politica costituzionale. Nel ’92 Giuseppe Borré, già componente del Csm e fondatore della rivista Md Questione giustizia, afferma: “La magistratura è politica nel senso che è indipendente, non falsamente neutrale – alla vecchia maniera – ma indipendente nel senso voluto dalla Costituzione, e qui parlerei di politicità-indipendenza, politicità in quanto indipendenza. La magistratura è politica proprio perché è indipendente dagli altri poteri dello stato. Il suo essere indipendente non la colloca in un altro universo (pretesamente apolitico), ma la fa essere un autonomo e rilevante momento del sistema politico”. A partire dai primi mesi del ’64 i “magistrati democratici”, delusi dall’ordine esistente e smaniosi di una “rinascita costituzionale”, cominciano a incontrarsi in conciliaboli informali presso le abitazioni degli stessi animatori progressisti fin quando Federico Governatori, pretore del lavoro, meglio noto come il “giudice degli operai”, chiede al rettore dell’Università di Bologna un locale che possa ospitare la prima assemblea pubblica. Il 4 luglio 1964, nell’Aula magna del collegio Irnerio in via Zamboni, si compie l’atto di nascita di Magistratura Democratica. Il nome lo propone un giudice di Varese, Vincenzo Rovello. In calce alla mozione costitutiva di Md si leggono le firme di ventisette magistrati. Governatori è il primo segretario nazionale. “Di padroni a cui dobbiamo ubbidienza ce n’è uno solo, la Costituzione”, esordisce così sul primo numero della rivista Qualegiustizia di cui sarà direttore. Nella mozione conclusiva Md si caratterizza come movimento di rottura “contro il gran vuoto ideologico” della magistratura italiana. E’ compito del magistrato farsi promotore del cambiamento, non semplice burocrate addetto all’applicazione asettica delle norme. Il magistrato non è funzionario, non è “bocca della legge”. Si fa strada l’idea di una “giurisprudenza alternativa”, incentrata sul ruolo interpretativo del giudice e formalizzata nel ’71 in un libretto giallo, dal colore della copertina, intitolato “Per una strategia politica di Magistratura Democratica”. Gli autori sono tre nomi di peso: Luigi Ferrajoli, Vincenzo Accattatis e Salvatore Senese. Nel documento si sostiene che è compito del magistrato formulare una “interpretazione evolutiva del diritto”: i magistrati democratici devono organizzarsi come “componente del movimento di classe” e dar vita a una “giurisprudenza alternativa che consiste nell’applicare fino alle loro estreme conseguenze i princìpi eversivi dell’apparato normativo borghese”. La formula apparentemente innocua – interpretazione evolutiva del diritto – servirà a giustificare la funzione di “supplenza” del magistrato che in assenza di una legge è in grado di inventarla ex novo, in presenza di essa può interpretarla in modo innovativo, alla luce dei costumi e dei mutamenti sociali in atto, fino a stravolgerne il significato letterale. E’ il caso del giudice che interpreta la legge non già per applicarla ma per cambiarla. “Era una tesi certamente forte e pericolosa – commenta Violante con gli occhi di oggi – Non rispecchiava la mia posizione, e lo stesso Ferrajoli nel tempo ha preso le distanze. Numerosi iscritti alla corrente erano attratti dall’idea che l’attività giurisdizionale servisse non già a consolidare ma a trasformare. Ricordo che Barcellona organizzò un convegno a Catania sul cosiddetto uso alternativo del diritto. Io mi rifiutai di prendervi parte”. La mole di documenti, notiziari e riviste testimonia l’effervescenza culturale di Md. La Costituzione è onnipresente, è il Santo Graal, l’articolo 3 è il dogma infallibile e non negoziabile. “Si trattava di far vivere la Costituzione nell’ordinamento”, replica Violante, iscritto Md dal 1967 fino all’uscita, nove anni dopo, in polemica per una “insopportabile ambiguità sul terrorismo”. Violante diventa l’anello di congiunzione tra la politica (di sinistra) e la magistratura (di sinistra). “Ero giudice istruttore a Torino quando m’iscrissi a Md. Il punto focale era la contestazione della neutralità del diritto e la necessità di porre al centro il sindacato costituzionale delle norme. C’era da smantellare un codice d’impianto autoritario, e noi di Md ci muovevamo nell’ottica dell’articolo 3, per la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale alla realizzazione dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, senza distinzioni di razza, sesso, età, ceto sociale”. Una formula che comportava una scelta di vita e di campo. “La tensione tra conservazione e modernità era presente nella società civile e si rifletteva in ogni ambito. In quegli anni nascono organizzazioni ispirate ad analoghe istanze di cambiamento, come Medicina Democratica, animata da Giulio Alfredo Maccacaro, e Psichiatria Democratica, fondata da Franco Basaglia”. Nel dicembre ’71 a Roma Md approva la seguente mozione: “Il nostro comune assunto teorico è che l’attuale giustizia è una giustizia di classe”, tale da “imporre un processo di riappropriazione popolare”. Anticapitalisti alla riscossa. “Certi toni erano un po’ sopra le righe, d’accordo. Però mi permetta di farle notare che chi era sul fronte conservatore e sosteneva la neutralità del diritto, era considerato al di sopra delle parti. Noi che stavamo dalla parte dei più deboli, dei soggetti sottoprotetti, eravamo tacciati di faziosità. La verità è che abbiamo modernizzato il paese. I primi passi per il riconoscimento dei diritti dei lavoratori e contro la discriminazione di genere provengono dall’attività giudiziaria dei magistrati democratici. A Torino entravamo nelle fabbriche della Fiat, ascoltavamo i lavoratori per conoscere l’organizzazione del lavoro e per sanzionare certe prassi che, al fine di velocizzare la catena di montaggio, mettevano talvolta a repentaglio l’incolumità degli operai". Ecco, le fabbriche e le piazze. Md esce dalle aule giudiziarie per sintonizzarsi con la società, per contaminare il tessuto sociale, per conquistare le casematte di gramsciana memoria. Nelle fabbriche e nelle piazze si salda l’alleanza tra magistrati di sinistra, sindacati e Pci. Il sistema giudiziario non è più visto come apparato fascista, arma delle classi dominanti e sovrastruttura borghese da abbattere. Il magistrato diventa gradualmente alleato. In seno a Md si consuma una spaccatura profonda tra i movimentisti, che guardano alla sinistra extraparlamentare e considerano il partito di Botteghe Oscure come l’alibi perfetto di un sistema che non ha alcuna intenzione di riformarsi; e i gradualisti che vedono nel Pci il riferimento naturale per un percorso che approdi progressivamente alla riforma del sistema capitalistico. Tra questi si annoverano Edmondo Bruti Liberati, Vittorio Borraccetti, Elena Paciotti, Nuccio Veneziano. Misiani, movimentista del “gruppo romano” (il più esagitato), ricorda così il viaggio in Cina nell’estate del ’76 insieme al collega togato Franco Marrone: ‘Accompagnammo una delegazione dell’allora Partito comunista d’Italia invitata dal Partito comunista cinese. Eravamo subito dopo la Rivoluzione culturale e riuscimmo persino a esaltare il processo popolare in Cina, di cui avevamo avuto un saggio all’interno di uno stadio dove vennero condannati per acclamazione quattro disgraziati. Avemmo la sfacciataggine di esaltare quel tipo di processo sostenendo che lì si realizzava la partecipazione del popolo all’amministrazione della giustizia. Al contrario di quanto avveniva nelle nostre aule di giustizia dove i giudici borghesi condannavano i nemici di classe”. A proposito dell’allucinazione ideologica di quegli anni Misiani ammette: “Non posso negare che nelle mie decisioni di allora, e parlo delle mie decisioni da giudice, non abbia influito, e molto, la mia ideologia. Se proprio dovevamo condannare, condannavamo al minimo e poi mettevamo fuori. Ma avevamo di fronte un esercito di miserabili che ritenevamo ingiusto condannare in nome di una giustizia di classe cui erano regolarmente estranei i soggetti forti. Sulle ragioni giuridiche facevano agio quelle di carattere sociale”.

Come nasce la strategia politica dei compagni magistrati. Il terrorismo, le divisioni, la Costituzione come schermo per incalzare i governi. L’attivismo del partito delle procure spiegato con la storia a puntate di Md (e il suo primo processo interno), scrive Annalisa Chirico il 21 Aprile 2016 su "Il Foglio". A partire dalla fine degli anni Settanta, l’alleanza tra magistratura di sinistra e politica di sinistra si trasforma in autentica osmosi con frequenti cambi di ruolo. Il primo riguarda Luciano Violante. Membro della giunta nazionale di Md con Generoso Petrella segretario, nel ’76 Violante abbandona la corrente in segno di protesta contro l’“insopportabile ambiguità” nei confronti del fenomeno terroristico, e comincia a lavorare presso l’ufficio legislativo del ministero della Giustizia. Nel ‘79 prende la tessera del Pci ed è eletto alla Camera dei deputati. Petrella, a sua volta, sarà senatore comunista per due legislature. “Md era spaccata al suo interno – commenta Violante – e c’era una componente movimentista, esagitata, che corrispondeva al cosiddetto gruppo romano e considerava il brigatismo rosso come una montatura a opera di apparati dello stato. Questa fazione, anti Pci, faceva capo a Luigi Saraceni, padre di una terrorista. Poi ce n’era invece un’altra che simpatizzava per il partito di Botteghe oscure”. La figlia di Saraceni è Federica, brigatista condannata in via definitiva per l’omicidio del giuslavorista Massimo D’Antona. Saraceni senior sarà deputato per due legislature nelle file dei Ds e dei Verdi. In un certo senso, per una lunga stagione Md e Pci si muovono lungo un percorso parallelo: da una parte e dall’altra, ci sono “comunisti ortodossi” e quelli affascinati dalle sirene della sinistra extraparlamentare. “Io direi piuttosto che Pci e Md –puntualizza Violante – si muovono lungo la medesima corsia ideale. Almeno all’inizio il giudice è un nemico agli occhi dell’elettorato di base. Il Pci rivendica il monopolio esclusivo della politica. Soltanto in seguito all’approvazione dello Statuto dei lavoratori nel 1970, il rapporto del giudice con la base comincia a mutare”. A quel punto il giudice si trasforma nel supremo vendicatore della classe operaia contro la giustizia borghese. A un convegno di corrente Antonio Bevere, all’epoca sostituto procuratore del tribunale di Milano, detta la linea: “Il capitalismo è il vero nemico della democrazia”. 1969: l’ordine del giorno Tolin provoca una scissione interna. Il 30 ottobre di quell’anno il professore padovano Francesco Tolin, direttore responsabile della rivista Potere operaio, pubblica un articolo dal titolo “Sì alla violenza operaia”. Il 24 novembre viene arrestato e processato per direttissima: l’accusa è istigazione continuata a delinquere. Siamo nell’Autunno caldo, a Milano e Roma alcuni tipografi arrivano a chiedere il preventivo visto della questura prima di stampare un manifesto delle organizzazioni sindacali e politiche. L’arresto immediato di Tolin e la condanna a diciassette mesi di carcere senza condizionale suscitano aspre reazioni. Sessanta giornalisti Rai firmano un appello per la sua scarcerazione. Il 30 novembre l’assemblea nazionale di Md, riunita in via Galliera a Bologna, approva un ordine del giorno, frutto di una travagliata discussione interna, in cui si esprime preoccupazione per “un disegno sistematico operante con vari strumenti e a vari livelli, teso a impedire a taluni la libertà di opinione”. La scissione è datata 20 dicembre: presso l’albergo Minerva di Roma i moderati, bollati spregiativamente come “socialdemocratici”, esigono una retromarcia rispetto al controverso odg Tolin e accusano i colleghi di essere “schiavi dell’ideologia sessantottina”. Ma che cos’è accaduto nella parentesi temporale intercorsa tra l’approvazione dell’odg e la richiesta di dietrofront? 12 dicembre, strage di Piazza Fontana. La madre di tutte le stragi. Diciassette morti e quasi novanta feriti. “Resto convinto che senza quell’evento traumatico la scissione non ci sarebbe stata, o forse sarebbe stata rinviata. La bomba ebbe un effetto lacerante, suscitò reazioni umane impreviste. La posta in gioco era altissima. Nessuno di noi sapeva che cosa sarebbe potuto accadere di lì a poco”. Parla così Giuseppe Pulitanò, iscritto Md sin dal suo ingresso in magistratura nel 1968. Abbandona la toga dodici anni dopo quando ottiene l’agognata cattedra universitaria di diritto penale. Pulitanò, come Violante e Gian Carlo Caselli, è fautore della linea dura contro l’estremismo violento. “L’odg Tolin non era nel mio stile, era nel clima del tempo”. Quando il processo per la strage di Piazza Fontana viene trasferito a Catanzaro per motivi di ordine pubblico e legittimo sospetto, la giunta milanese di Md approva un documento critico. Passano pochi giorni e il Csm apre un procedimento disciplinare nei confronti dei promotori Pulitanò, Greco e Guido Galli (che sarà ammazzato nel 1980 da un nucleo di Prima linea). “Nel ’74 fummo completamente assolti – ricorda Pulitanò, esponente della destra Md – Il clima era talmente esasperato che ogni accenno critico era visto con sospetto. E’ innegabile che tra noi ci furono degli eccessi, alcuni colleghi del gruppo romano erano letteralmente innamorati della Rivoluzione culturale di Mao Tse-Tung. Tuttavia l’ambiguità di chi diceva né con lo stato né con le Brigate rosse non ebbe mai echi nella corrente. La diversità di approccio era piuttosto tra chi protestava le ragioni del garantismo in senso assoluto, e chi invece, come me e Violante, riteneva che la priorità fosse una soltanto, contrastare il terrorismo senza se e senza ma”. Così sul finire del ’69 i moderati guidati da Beria d’Argentine danno vita a una nuova corrente, Giustizia e Costituzione (dopo qualche tempo, questa prenderà il nome di Impegno Costituzionale da cui nascerà poi Unità per la Costituzione). “Andammo a cena in una trattoria dietro il Pantheon. Tre Md; freddo di fuori e freddo di dentro. Mi ricordavo il tempo di guerra, quando intorno a un po’ di brace ci si stringeva serrati per godere di tutto il poco calore che dava”, così Marco Ramat, strenuo difensore dell’odg Tolin, ricorda i minuti successivi alla rottura quando insieme a Petrella e a Luigi De Marco prendono atto della impossibilità di ricomporre la frattura. “Il nostro piccolo Vietnam”, commenta Petrella. In Md rimangono i duri e puri, quelli che non hanno paura di intervenire su un processo in corso perché nessuno deve finire dietro le sbarre per un reato di opinione.

Eppure le contraddizioni interne a Md si manifestano sin dalla metà degli Anni Sessanta con le cosiddette “contro inaugurazioni” dell’anno giudiziario. Ottorino Pesce, anima della sezione romana di Md, è l’ispiratore della contromanifestazione a opera di magistrati che contestano la tradizionale e pomposa inaugurazione istituzionale. Pesce è lo stesso che muore d’infarto nel gennaio 1970, e ai funerali è presente il capo della Resistenza Ferruccio Parri. La commemorazione si tiene fuori dal palazzo di giustizia, quando la bara si allontana da piazza Cavour sventolano decine di bandiere rosse e tutti, compresi i magistrati presenti, la salutano con il pugno alzato. L’ultima pagina de L’Unità è invasa dai necrologi in suo onore, uno di essi recita testualmente: “E’ morto Ottorino Pesce, magistrato, militante della classe operaia. Lo ricordano i compagni…”, e via un profluvio di nomi illustri, tutte toghe rosse. “Io non ero d’accordo con le contro inaugurazioni, e non ero il solo”, precisa Violante. Nel ’69 le contro inaugurazioni si tengono a Roma, Milano, Bari e Bologna. Il 9 gennaio 1969 Pietro Nenni appunta sul diario personale: “Cenato da Saragat. Stamattina inaugurando l’anno giudiziario al Palazzaccio s’è trovato coinvolto anche lui in un episodio della contestazione. Avvocati, magistrati che accusano parlamento e governo per disfunzioni giudiziarie e fanno a botte tra loro sui rimedi da apportare”. Vittorio Borraccetti, già segretario di Md e membro del Csm tra il 2010 e il 2014, ha vivida memoria dell’anno 1969. “Ero appena entrato in magistratura e m’iscrissi a Md. La battaglia sul’odg Tolin era una battaglia squisitamente liberale. Volevamo non solo opporci all’arresto di una persona per un reato d’opinione ma contestavamo inoltre una norma che prevedeva l’autorizzazione della questura per la stampa di manifesti. Quel giorno a Bologna non ero presente ma ero ugualmente favorevole”. Era presente invece Violante che difende tuttora lo spirito dell’iniziativa. “Nessuna interferenza col processo in corso. Era un’autonoma presa di posizione del tutto legittima”. A Bologna c’era Libero Mancuso: “Sono tuttora iscritto alla corrente seppure in pensione dal 2006. Con l’odg Tolin rivendicavamo il diritto di critica, e prendevamo le distanze da quei giudici che lo avevano negato in un clima di intimidazione che rappresenta, scrivemmo, un grave sintomo di arretramento della società civile”. In altre parole, Md rivendica in quegli anni il diritto di contestare apertamente l’operato di alcuni magistrati in procedimenti specifici. Si celebra il processo al processo. “Sempre al fine di difendere i valori della Carta costituzionale, beninteso – rincara Mancuso – Senza partigianerie al di fuori di quella militanza”. Eccovi servita la parola chiave: militanza. Di sinistra. “Md delle origini è cosa diversa da quella attuale. Oggi assistiamo a un declino dovuto alla presenza più invasiva del correntismo quale strumento di affermazione carrieristica. Il che è avvenuto a causa della crisi delle idee, della politica e del prevalere delle correnti latrici di derive clientelari”. Mancuso, che da toga eretica di sinistra indaga sugli intrecci tra coop rosse e mafie, voterà al prossimo referendum costituzionale? “La riforma Renzi è persino più aggressiva e pericolosa della vecchia riforma Berlusconi. Non mi tirerò indietro neanche questa volta”. Di parere opposto Pulitanò che come Mancuso ha abbracciato l’attività forense: “Voterò a favore della riforma. E ritengo ragionevole non coinvolgere in questa diatriba un gruppo di magistrati associati, Md dovrebbe starne fuori. Non ne faccio un discorso di legittimità ma di opportunità, un elemento che per un magistrato conta”. O almeno dovrebbe contare. Tirarsi indietro, mai. E’ un motivo ricorrente. Chi lotta non si tira indietro. Chi è investito di una missione non si tira indietro. La svolta, come si diceva, avviene attorno all’odg Tolin: la “scissione socialdemocratica” va di pari passo con la radicalizzazione interna a Md. “Il punto è che noi siamo figli del Sessantotto ma la nostra vita ha avuto un seme radicato nella storia delle lotte del movimento operaio. E se non siamo scomparsi dalla scena politica alla pari di altre espressioni del Sessantotto è perché siamo cresciuti con quelle lotte e a fianco di essere”, scrive Francesco Misiani, storico fondatore di Md. Ma che cosa significa “essere figli del Sessantotto”? Negli stessi mesi del contestato odg Tolin a Roma due giovani del movimento studentesco sono arrestati dalla polizia. Il fascicolo è trasmesso al sostituto di turno, Franco Marrone (lo stesso del viaggio in Cina in compagnia di Misiani). Il giorno dopo il Tempo denuncia l’assegnazione del fascicolo a una toga “maoista”. Prontamente il procuratore capo gli sottrae il fascicolo e lo affida a un più mite collega. Il 12 maggio 1970 durante un convegno a Sarzana Marrone spiega alla platea che secondo un’analisi marxiana del diritto la legge consacra i rapporti di forza esistenti ma non è in grado di modificarli. Perciò, prosegue Marrone, “i magistrati sono servi dei padroni”. L’affermazione ardita gli costa un processo penale per vilipendio all’ordine giudiziario, alla fine ne esce assolto. Negli anni di piombo la corrente, muovendosi lungo la medesima “corsia ideale” del Pci, è chiamata a fare i conti con il terrorismo rosso, non laccato di rosso. Ne sa qualcosa Gian Carlo Caselli, iscritto Md sin dall’ingresso in magistratura nel ’67, tra i primi a comprendere che “non ci trovavamo di fronte a Robin Hood ma a un gruppo di assassini”. L’8 settembre 1974 i carabinieri del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa arrestano a Pinerolo, vicino Torino, i capi delle Br Renato Curcio e Alberto Franceschini. Le indagini sono coordinate dal pm Bruno Caccia e dal giudice istruttore Caselli. In un’intervista rilasciata a Repubblica nel 2014, Caselli rievoca un successivo incontro con Franceschini a Rebibbia: “Era un arrogante. Si dichiarò rivoluzionario di professione. E mi chiese: dottor Caselli, lei non è di Magistratura democratica? Io risposi: sì, perché? Lui era convinto che essere di Md significasse avere un atteggiamento di condiscendenza verso la violenza”. Ci volle del tempo, evidenzia Caselli, per “rompere il muro di ambiguità dei compagni che sbagliano, i complici silenzi di certi intellettuali”. Si dovette assistere alla “vergognosa campagna contro il commissario Calabresi che pagò con la vita quelle menzogne”, fin quando si ottenne “la fine delle contiguità e degli appoggi che avevano portato molti a non vedere la tempesta che stava addensandosi”. Nel ’76 Violante decide di interrompere l’iscrizione alla corrente per via dell’“insopportabile ambiguità” nei confronti della violenza armata. “Ricordo chi, come Giorgio Bocca su L’Espresso, prendeva in giro noi magistrati che istruivamo i processi contro i terroristi. Ai funerali di Casalegno, davanti alla chiesa del quartiere Crocetta, non c’era quasi nessuno”. Nel ’77 Carlo Casalegno, vicedirettore de La Stampa di Torino, è il primo giornalista a essere ucciso da un commando delle Br. “Berlinguer parlava di fascisti rossi perché in effetti l’unica violenza che l’Italia aveva conosciuto era quella fascista. Per estirpare il fenomeno fu necessaria l’attività repressiva, e poi servirono decine di assemblee nelle sedi di partito, nelle parrocchie, nelle fabbriche per convincere l’opinione pubblica che eravamo alle prese con la violenza eversiva di sinistra”. “Il fatto terroristico – spiega Borraccetti – aiutò tutti noi a fare chiarezza al nostro interno. Ci volle del tempo, è vero, ma alla fine le zone d’ombra scomparvero e Md si schierò compatta contro il terrorismo. Molti di noi imbastirono i processi contro il terrorismo rosso e nero. Tuttavia, domando, che senso ha soffermarsi su qualche frangia facinorosa di quarant’anni fa quando poi, ai giorni nostri, si accolgono con tutti gli onori esimi intellettuali già militanti di Lotta Continua?”. Ecco, che senso ha. Nel 2013 Caselli abbandona Md in seguito alla pubblicazione di un pezzo di Erri de Luca sull’agenda annuale della corrente. “Euridice alla lettera significa trovare giustizia […]. Ho fatto parte di una generazione politica appassionata di giustizia, perciò innamorata di lei al punto di imbracciare le armi per ottenerla”, scrive Erri de Luca. A proposito degli anni di Piombo, “si consumò una guerra civile di bassa intensità ma con migliaia di detenuti politici. […] Conoscemmo le prigioni e le condanne sommarie costruite sopra reati associativi che non avevano bisogno di accertare responsabilità individuali”. Caselli, procuratore capo di Torino e oggi, dopo un percorso non sempre lineare, simbolo della lotta alla violenza armata in Val di Susa, sfoglia la rivista della “sua” corrente che ha deciso di accogliere il contributo “culturale” dello scrittore pasdaran no-Tav con un passato da responsabile del servizio d’ordine di Lotta Continua. L’iniziativa appare come un duplice affronto verso chi, con indosso la toga, ha rischiato la vita per contrastare la violenza brigatista e, in tempi più recenti, ha accusato di terrorismo ed eversione dell’ordine democratico i responsabili degli assalti ai cantieri di Chiomonte. E’ come se un’intollerabile ambiguità tornasse a solleticare gli istinti profondi della corrente. E non è un mistero che alcuni autorevoli esponenti, in primis Livio Pepino, contestino radicalmente l’imputazione per terrorismo. Pepino, classe 1944, ex presidente Md e membro del Csm, già direttore di Questione giustizia e co-direttore di Narcomafie (“mensile redatto in stretta collaborazione con Libera”), bolla pubblicamente l’imputazione terroristica come un “fatto di inaudita gravità”. Quando la corte d’assise di Torino condanna i quattro militanti no-Tav a tre anni e sei mesi per porto d’armi da guerra, danneggiamento seguìto da incendio e violenza a pubblico ufficiale, Pepino esulta perché i quattro sono assolti dall’accusa di terrorismo: “C’è un giudice a Torino!”. Questa volta la misura è colma. Dopo la pubblicazione dell’articolo deluchiano, Caselli non proferisce verbo, non si ferma a spiegare, non gli interessa più persuadere i colleghi che con la violenza non si scherza. Per lui la stagione Md è definitivamente chiusa. Caselli si dimette. A un anno di distanza rompe il silenzio: “Non mi preoccupa l’eventuale rinascita di un partito catacombale e clandestino come furono le Br. Mi sembra fuori dalla realtà e spero di non sbagliarmi. Mi preoccupa il ripetersi in certi ambienti intellettuali di oggi delle stesse ambiguità di allora di fronte alla violenza delle frange estreme. Mi preoccupa il ritorno, in sedicesimo, della stagione dei compagni che sbagliano. Mi preoccupano le predicazioni di intellettuali miopi e nostalgici che possono far credere a chi ha già pochi filtri critici che stia riproducendosi il clima di allora”. Gli anni di piombo. Le fratture dentro Md. Il no alle leggi emergenziali, al decreto Cossiga, all’allungamento dei termini di carcerazione preventiva. Il ’78 e l’assassinio di Aldo Moro. Il ’79 e il “processo 7 aprile” con decine di imputati per associazione sovversiva e banda armata (tra questi Antonio Negri e Giuseppe Nicotri). Il pm che coordina l’inchiesta padovana, Pietro Calogero, afferma: “Un unico vertice dirige il terrorismo in Italia. Un’unica organizzazione lega Brigate rosse e gruppi armati dell’Autonomia. Un’unica strategia eversiva ispira l’attacco al cuore e alle basi dello Stato”. All’interno di Md si fronteggiano due anime: i “garantisti ortodossi” e quanti invece intendono farsi carico delle esigenze della lotta al terrorismo, anche a costo di attenuare lo zelo garantista. Borré, presidente Md dal ‘78 all’‘86 e fondatore della rivista Questione giustizia (di cui resterà direttore per quindici anni), tenta insieme al segretario nazionale Salvatore Senese -– tre legislature targate Ulivo – un delicato esercizio di equilibrio tra le divergenti spinte interne. La destra Md, capitanata da Pulitanò e Greco, aderisce alla linea dell’intransigenza. “La verità – chiosa Violante – è che, una volta che Md fece finalmente chiarezza al suo interno e ruppe ogni contiguità, diversi magistrati iscritti alla corrente diventarono bersaglio dei brigatisti”. Nel libro “Le catene della sinistra” Claudio Cerasa riporta un elenco delle vittime togate del fuoco estremista. Tra il 1976 e il 1990 ben undici pm muoiono assassinati da Br, Prima Linea e Ordine Nuovo. Tra i caduti per mano dei terroristi di estrema sinistra ci sono Emilio Alessandrini, Francesco Coco, Guido Galli e Girolamo Tartaglione. “Ripercorrendo quella sequela di morti – prosegue Violante – capisci come tra noi sopravvissuti sia nata un’amicizia speciale, un legame simile a quello che si salda tra chi combatte in trincea e riesce a tornare a casa sano e salvo. E’ questa la natura del mio rapporto con Gian Carlo”, un nome che fa il paio con Caselli. Anni Ottanta. Craxi e il craxismo. La strategia del “pentapartito”. Tutto ha inizio nel 1981 con il “patto del camper” quando, a margine di un congresso del Partito socialista italiano, il democristiano Arnaldo Forlani e il segretario socialista Bettino Craxi siglano un patto di governo, con la benedizione di Giulio Andreotti. Craxi è leader di minoranza estraneo alle due chiese, Dc e Pci, e determinato a conquistare palazzo Chigi. Nel volume “La costituzione e i diritti. Una storia italiana”, scritto a quattro mani con il collega di corrente Gianfranco Viglietta, Palombarini liquida il “decennio da bere” come contraddistinto da “un nuovo modo di gestire la cosa pubblica, disinvolto e spavaldo”. La stagione dei diritti civili degli anni Settanta – statuto dei lavoratori, divorzio, diritto di famiglia, aborto, referendum – ha comportato una mutazione sociale. “Abbiamo modernizzato il paese”, rivendica Violante. “Il paese si è modernizzato da solo – replica Pulitanò – Tra noi di Md alcuni hanno fatto bene, altri no. La storia non dovrebbero scriverla mai i protagonisti”. Quel che è certo è che l’Italia degli anni Ottanta è molto diversa da quella in cui Md ha visto la luce nel ‘64. Il disgelo della Costituzione è ormai compiuto. 14 ottobre 1980, la “marcia dei quarantamila”: a Torino impiegati e quadri Fiat sfilano a sostegno dell’azienda contro i picchettaggi che da oltre un mese impediscono l’accesso in fabbrica. La retorica del capitale contro il lavoro subisce un duro smacco. Nel 1981 dinanzi al comitato centrale del partito Craxi espone un programma “riformista” (bestemmia) che comprende, accanto al rafforzamento dell’esecutivo (seconda bestemmia), la “politicizzazione” della magistratura (e allora ditelo). Nel 1984 il governo Craxi taglia di quattro punti percentuali la scala mobile contro l’aumento galoppante dei prezzi. Berlinguer lancia il referendum abrogativo, numerosi esponenti di Md si schierano pubblicamente per il sì. Si desume che l’adeguamento dei salari all’inflazione e il potere d’acquisto dei consumatori rientrino nella missione di un vero “magistrato democratico”. I cittadini votano e la maggioranza dice no, il taglio rimane. Per giunta, Craxi è amico del “diabolico imprenditore televisivo”, Silvio Berlusconi. I pretori di Torino, Pescara e Roma ordinano la sospensione dei programmi delle tre reti Fininvest – mediante il famigerato sistema delle videocassette – perché in violazione del monopolio pubblico Rai su scala nazionale. Il governo Craxi interviene per decreto. Md protesta con toni accesi. Si materializza, per la prima volta in assoluto, la triangolazione Md-Craxi-Berlusconi. Siamo ai prodromi della guerra. Nel frattempo la vita interna della corrente è tutt’altro che tranquilla. I punti di disaccordo si moltiplicano. Alle elezioni del Csm nel 1981 il candidato Md Marrone, esponente dell’esagitato gruppo romano (“magistrati servi dei padroni”, ricordate?), è apertamente osteggiato dalla destra interna al punto da non essere eletto. Sul Manifesto le toghe Romano Canosa e Amedeo Santosuosso affermano che Md non deve più difendersi dalle accuse di politicizzazione ma da un “serpentello” interno: “Proprio gli iscritti di Md con maggiore furore e entusiasmo si sono buttati a costruire processi di terrorismo fondati prevalentemente sulla parola dei pentiti”. L’accusa per niente velata nei confronti dei colleghi inquirenti è di aver condotto trattative sottobanco con gli indagati; i due fanno esplicito riferimento al processo a carico di Marco Barbone, assassino di Walter Tobagi, e del gruppo denominato “Brigata XXVIII marzo”. Il giudice istruttore dell’inchiesta è Elena Paciotti, storica toga Md, in magistratura dal 1967, prima donna a ricoprire l’incarico di componente del Csm. Paciotti è per due volte presidente dell’Anm, nel ’99 è eletta eurodeputata nelle liste dei Democratici di sinistra. Canosa e Santosuosso subiscono un procedimento disciplinare che si conclude con un ammonimento per entrambi. Al congresso di Sorrento nel 1984 Caselli contesta pubblicamente il segretario nazionale Palombarini che nella sua relazione mette in evidenza le “smagliature sostanzialiste” ravvisabili, a suo dire, nei processi a carico dei presunti terroristi. Per Caselli invece non c’è stato alcun “coinvolgimento emergenziale”: i magistrati hanno svolto soltanto il proprio dovere. Ora che il disgelo della Costituzione è compiuto, ogni tentativo di modificare la legge fondamentale va scongiurato. I princìpi costituzionali finalmente vivono nell’ordinamento, la missione del magistrato democratico consiste adesso nella salvaguardia del carattere immutabile della Costituzione. Il magistrato democratico è il guardiano della sua impermeabilità a qualunque cambiamento. Che il premier si chiami Craxi, Berlusconi o Renzi, la parola d’ordine è una soltanto, anzi due, “resistenza costituzionale”, vale a dire strenua difesa del progetto del costituente repubblicano. “Un progetto che implica il conflitto verso l’esistente e nel quale l’uguaglianza sostanziale è presupposto di una reale democrazia politica”, recita così la mozione conclusiva del congresso di Palermo, ottobre 1988. Già nel 1982, anno di nascita della rivista Questione giustizia, il neodirettore Borré mette in guardia da “emergenti prospettive di riforma istituzionale”, e nel primissimo editoriale elenca i tre punti caratterizzanti la “scelta di fondo” della corrente: in primis vi è l’affermazione dell’articolo 3, emancipazione ed eguaglianza, come “parametro di riferimento per gli orientamenti legislativi e giurisprudenziali”; segue l’affermazione dell’indipendenza della magistratura come “insostituibile strumento di controllo diffuso della legalità”; in ultimo, l’esigenza di un processo garantito che assicuri il rispetto dei valori della persona. Dunque l’articolo 3 deve servire da bussola non soltanto per il magistrato ma anche per il legislatore. Quanto al controllo di legalità Claudio Martelli, già ministro della Giustizia e artefice della nomina di Giovanni Falcone alla direzione generale degli Affari penali, osserva: “Siamo sicuri che al magistrato spetti il cosiddetto controllo di legalità? O forse compito della magistratura è piuttosto quello di esercitare la repressione dell’illegalità? Non è soltanto un banale equivoco semantico in cui molti continuamente incorrono. Arrogandosi il compito non di reprimere le violazioni di legge di chi delinque ma di controllare la legalità dei comportamenti di tutti, questa parte della magistratura non solo dilata abusivamente le proprie competenze e il proprio potere, ma finisce con il sindacare e minacciare le libertà di tutti e l’equilibrio dei poteri costituzionali”. A metà degli anni Ottanta Md ricerca nuove frontiere. La vocazione alla lotta politica trova sfogo solo se c’è un nemico da fronteggiare. Il vecchio apparato fascista è ormai un arnese della storia. Nel 1989 entra in vigore il nuovo codice di procedura penale ispirato a una riforma in senso liberale: si passa dal rito inquisitorio – d’impronta fascista, con l’istruttoria segreta dominata dalle figure del giudice istruttore e del pubblico ministero, con scarsa o quasi nulla presenza della difesa – al rito accusatorio incentrato sulla formazione della prova in dibattimento attraverso il contraddittorio tra le parti dinanzi a un giudice terzo. “Nel mondo che cambia Md deve individuare nuovi terreni di lotta. Li identifica in Tangentopoli e nell’antimafia’, Violante la mette così, difficile dargli torto. Che cos’è d’altronde la mafia se non uno dei volti demoniaci del potere costituito? Che cos’è la corruzione politica se non la prova regina di un sistema di potere da abbattere? Legalitarismo e antimafia sono la bussola ideologica che traghetta Md negli anni Novanta. Su ciascuno di questi fronti la corrente si scontra con un implacabile picconatore, il capo dello stato (e supremo vertice del Csm) Francesco Cossiga. Facciamo un passetto indietro. 1987, referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, meglio noto come “referendum Tortora”. L’opinione pubblica è scossa dal caso nazionale di Enzo Tortora, giornalista e conduttore televisivo ingiustamente accusato, detenuto in carcere, processato e infine assolto. “Dunque, dove eravamo rimasti?”, con queste parole il 20 febbraio 1987 Tortora torna a condurre il suo Portobello, accolto dal pubblico con una lunga e commossa standing ovation. In vista del referendum radical-socialista nel novembre dello stesso anno, che cosa fa Md? Decide di condurre una battaglia solitaria e corporativa contro il tentativo di estendere il perimetro della responsabilità togata. L’appello della corrente è pubblicato dapprima in sordina, con cautela, su quotidiani minori; il giorno dopo, Franco Ippolito, all’epoca segretario nazionale, riceve una telefonata del venerato maestro Norberto Bobbio che gli chiede di poter apporre la propria firma in calce al manifesto. Come prevedibile, l’adesione di Bobbio suscita una pioggia di consensi: si uniscono intellettuali doc come Massimo Cacciari, Natalia Ginzburg, Pietro Scoppola. La tesi, ben nota anche ai lettori contemporanei perché puntualmente riproposta a ogni cenno di riforma, è che il tentativo di estendere la responsabilità civile rappresenterebbe una seria minaccia all’indipendenza e un inaccettabile strumento di delegittimazione della funzione giudiziaria. I cittadini italiani però la pensano diversamente: l’ottanta percento dei votanti si esprime per il sì. Il comitato del no, da Bobbio in giù, esce sconfitto. L’anno seguente il Parlamento approva la legge Vassalli, modesto tentativo di introdurre un meccanismo che consenta alla persona danneggiata di rivalersi, seppur indirettamente e attraverso numerosi filtri di ammissibilità, nei confronti del magistrato reo di aver agito con dolo o colpa grave. Le cinque condanne emesse dal 1989 al 2012 valgono più di mille parole. Al congresso di Sorrento, 1984, Md approva una mozione che istituisce un gruppo di studio con l’incarico di occuparsi, sentite bene, di pace e relazioni internazionali. S’inaugura il cosiddetto “fronte straniero”. Per Md è venuto il tempo di affermare make peace not war. La svolta irenista sopravvive fino ai giorni nostri come una vena pulsante nel corpaccione invecchiato di Md. Nel 1985 una truppa di magistrati multinazionali fonda a Strasburgo l’Associazione dei magistrati europei per la libertà e la democrazia, sigla Medel. Md ne è la costola italiana. La missione internazionalista-pacifista-terzomondista non conosce tregua: si rincorrono gli appelli e le manifestazioni contro gli Stati Uniti complici delle dittature sudamericane e contro i missili F16 – pure questi a stelle e strisce – sul suolo italiano. E se certe pattuglie di magistrati conducono “spedizioni esplorative” in Cile per verificare “lo stato delle garanzie” nei processi agli ex ministri del governo Allende, altre volano a Gerusalemme per una ‘ricognizione delle violenze e dei rastrellamenti’ nei territori arabi occupati. A Roma nell’89 la corrente organizza un convegno per perorare la causa del riconoscimento della Palestina. Non è Amnesty International, è Md. L’acme si raggiunge nel gennaio ’91 quando la corrente approva un documento che condanna aspramente da una parte l’annessione irachena del Kuwait, dall’altra la guerra del Golfo in quanto “rottura sia dell’ordine internazionale sia dell’assetto costituzionale italiano”. Peccato che l’Italia, con un atto formale del suo Parlamento, abbia aderito allo schieramento guidato dagli Stati Uniti, la flotta nazionale è schierata nel golfo persico, il paese partecipa ai bombardamenti. La reprimenda più indignata contro l’intollerabile invasione di campo proviene del capo dello stato che invia al vicepresidente del Csm Giovanni Galloni una lettera sferzante: oltre alla viva preoccupazione “al pensiero che a siffatti pubblici dipendenti è commessa la funzione di promuovere l’azione penale e di giudicare”, Cossiga comunica di aver prontamente segnalato la vicenda ai titolari della funzione disciplinare. L’invito presidenziale non ha alcun séguito. 11 settembre 2001, l’attacco alle Torri gemelle. L’una implode, inghiotte se stessa. L’altra si fonde come un panetto di burro sul fuoco. Si levano venti di guerra, il governo Berlusconi non farà mancare il suo apporto alla coalition of the willing guidata da Bush jr. Nel gennaio 2003 a Roma Md approva una mozione congressuale tematica: “Gli incombenti pericoli di guerra e l’inconciliabilità dell’uso brutale della forza con la legalità e la democrazia, nella sua dimensione sostanziale di garanzia e promozione dei diritti fondamentali, a cominciare dal diritto alla vita e alla pace, impongono ai giuristi e ai giudici di ricordare che l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Toh, l’articolo 11 della Costituzione viene in soccorso. L’inchiostro Md percorre decine di articoli e appelli contro la guerra preventiva, la prigione di Guantanamo, le pratiche di waterboarding e alimentazione forzata…Pace e diritti umani. Ai girotondi degli indignados nostrani fanno capolino noti esponenti della corrente, mischiati nella folla, qualche volta sul palco ad aizzare le folle. Del pool di Mani pulite fanno parte due pesi massimi della corrente, Gherardo Colombo e Gerardo D’Ambrosio. A distanza di cinque mesi dall’arresto di Mario Chiesa, il primo confida: "Prima arriviamo a voltare pagina, a dichiarare defunto questo sistema e a instaurarne un altro, e meglio è". Ma cosa direbbe il Picconatore della magistratura di oggi? Un’intervista onirica Tra moralismo e intercettazioni, non sappiamo più che cosa vogliamo dai politici Viva Napolitano (soprattutto quando picchia) Sotto il palazzo di giustizia si levano le grida: “Borrelli, facci sognare’. Come riporta Mattia Feltri nel libro ‘Novantatré L’anno del terrore di Mani pulite’”, il 3 giugno 1993 a Saint Vincent nel corso del convegno “Il pubblico ministero oggi” Francesco Saverio Borrelli spiega alla platea: “Noi incarceriamo la gente per farla parlare. La scarceriamo dopo che ha parlato”. Borrelli, mai iscritto a Md, dirige il pool di Milano. Dopo l’uscita del libro di Feltri jr. lo scorso gennaio, il magistrato smentisce di aver mai pronunciato la frase incriminata che l’Ansa e il Giornale riportano testualmente il 4 giugno successivo. Tangentopoli fa emergere un singolare paradosso tutto interno a Md. La corrente che è super garantista verso i brigatisti negli anni di piombo tace sugli eccessi processuali e giustizialisti nei confronti degli inquisiti di Tangentopoli. Le cautele agitate da autorevoli esponenti contro la “deriva sostanzialista” negli anni della lotta al terrorismo, anche a costo di emarginare i colleghi personalmente esposti nell’attività repressiva, scompaiono. Verso i politici e gli imprenditori accusati a vario titolo di mazzette e corruzione, l’ortodossia garantista non emette un fiato. Sembra che anche per Md il richiamo alle garanzie, tanto in voga nei confronti dei terroristi, vent’anni dopo sia diventato di colpo obsoleto, per niente in sintonia con lo spirito del tempo. Eccessi investigativi, manette preventive, confessioni estorte, suicidi eccellenti, interrogatori senza avvocato, circo mediatico-giudiziario: il tutto rientrerebbe in un rito encomiabile per i nuovi canoni Md. Il rito ambrosiano. Il 3 agosto 1993 sulle colonne de L’Unità Violante, nelle vesti di deputato e presidente della Commissione antimafia, evidenzia l’esigenza di ristabilire l’equilibrio tra i poteri: è doveroso “vietare ai magistrati, con adeguate sanzioni disciplinari, di dare interviste o rilasciare dichiarazioni sui procedimenti che essi stanno conducendo; il magistrato ha gli stessi diritti di qualsiasi cittadino tranne che in relazione agli specifici processi che sta conducendo: in quella materia deve parlare soltanto con i propri atti, non attraverso i telegiornali”. “Il magistrato – prosegue l’ex Md – non persegue finalità politiche come l’abbattimento del sistema politico. Questo può diventare un effetto della sua azione ma non può costituirne il motivo ispiratore”. Il monito di Violante sembra confermato nella sua funesta previsione a distanza di nove anni, nel 2002, dall’ex presidente della Repubblica Cossiga che per Violante conia il soprannome di “piccolo Vishinsky”, il grande accusatore staliniano (pur intrattenendosi spesso con lui a colazione alle sei e trenta del mattino). In un’intervista al Giornale Cossiga dichiara: “Se Tangentopoli fosse una ordinaria storia di ladri comuni sarebbe grave ma non gravissima. Tangentopoli invece è gravissima perché è stata costitutiva di un regime politico”. L’inchiesta, secondo il ruvido picconatore, ha agito come una “valanga che ha sconvolto gli equilibri politici trasformando tra l’altro gli sconfitti della storia in vincitori e spingendo nel girone infernale dei criminali coloro che come Craxi avevano visto giusto e si erano collocati da tempo dalla parte della ragione”. Agli occhi di Md Cossiga è il diavolo, l’anti-Pertini, l’alleato di Craxi nel progetto di smantellamento delle prerogative giurisdizionali. Con Cossiga capo dello Stato e vertice del Csm, dal 1985 al 1992, il conflitto istituzionale raggiunge l’apice. Le avvisaglie di un’incompatibilità insanabile sono chiare sin dal principio. Pochi mesi dopo l’elezione quirinalizia, i membri del Csm chiedono di incardinare in plenum un dibattito sulle dichiarazioni di Craxi reo di aver difeso gli esponenti dello Psi e il direttore de L’Avanti Ugo Intini condannati per diffamazione a mezzo stampa ai danni del sostituto milanese Armando Spataro. “E’ stato scritto un capitolo oscuro della vita della democrazia italiana. Noi confermiamo, uno per uno, i giudizi che i nostri compagni condannati hanno espresso nei confronti dell’operato della magistratura”, asserisce il premier Craxi riferendosi alle critiche mosse a Spataro e alla procura per la condotta processuale nel caso dell’omicidio di Walter Tobagi. I magistrati non gradiscono, i componenti del Csm vogliono intavolare un dibattito sulle ardite affermazioni del presidente del Consiglio. Cossiga si oppone e, senza giri di parole, lo vieta. “Decido e dispongo”, è la formula che usa in questo e in molti altri frangenti. E’ il suo stile. Md denuncia immediatamente la lesione dell’onore giudiziario e la deriva autoritaria del Capo dello stato. 1990, il giudice istruttore di Venezia Felice Casson bussa alla porta del Quirinale perché, nell’ambito dell’inchiesta Gladio, tra eversione nera e servizi deviati, desidera interrogare il presidente della Repubblica in qualità di testimone. La richiesta perviene alla segreteria della presidenza. L’ex ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani ha rivelato al giudice che sarebbe stato proprio Cossiga, nella veste di sottosegretario alla Difesa, a disporre nel 1969 gli omissis sul piano Solo e sulla rete Stay behind. Come riporta Gianni Barbacetto nel libro “Il Grande Vecchio”, Cossiga è furibondo: “Quel giovane ha in mente più le fumoserie del ’68 che la Costituzione e i codici”. “Nel ‘68 avevo 14 anni ed ero in collegio dai salesiani”, replica a distanza Casson. Dopo il rifiuto di Cossiga, il magistrato intervistato da Repubblica commenta: “Non so cosa farò in futuro”. Intende dire che dopo aver sondato la disponibilità del capo dello Stato potrebbe convocarlo formalmente?, incalza il cronista. “Non ho affatto detto questo – precisa lui – Ho voluto dire soltanto che, siccome la mia inchiesta va avanti, non posso anticipare i passi che farò”. In realtà la tensione con Cossiga cova da lungo tempo. Nel giugno dello stesso anno sulla Nuova Venezia Casson scrive: “Mi chiedo come mai l’onorevole Cossiga non abbia mai risposto nulla a coloro che, pubblicamente, hanno parlato dei suoi rapporti con Licio Gelli”, tanto basta per chiedere al ministro Vassalli un procedimento disciplinare per vilipendio del Capo dello stato. Intanto la bufera politica divampa, da più parti si denuncia l’inopportunità dell’iniziativa. Il ministro della giustizia Vassalli, ravvisando diverse anomalie processuali, avvia accertamenti preliminari nei confronti del magistrato che ha preteso il coinvolgimento della più alta carica dello stato. Md prende le difese del giudice (che pure non è un suo iscritto). L’Anm si schiera compatta con lui. Dopo il trambusto mediatico e istituzionale, il filone Gladio passa ai giudici romani e Casson torna a occuparsi di tangenti. Nel 2005 si candida sindaco di Venezia ma è sconfitto da Cacciari. Dal 2006 siede ininterrottamente in Parlamento nelle file del Partito democratico. Torniamo all’interrogatorio del capo dello stato. Cossiga rispedisce l’invito al mittente (“E’ una vergogna per lo stato di diritto che Casson rimanga ancora giudice. E’ un ragazzaccio al quale bisognerebbe togliere la marmellata”). Anno 2014, l’ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, anima dell’inchiesta sulla presunta trattativa stato-mafia con un passato in Md, plaude al “momento di democrazia” celebratosi con la deposizione di Giorgio Napolitano al cospetto degli inquirenti palermitani. Che democrazia coi fiocchi. L’udienza, in una sala del Quirinale, dura oltre tre ore. “Pensate che abbia la memoria di Pico della Mirandola?”, Napolitano sdrammatizza e risponde a ogni domanda, anche a quelle poste dall’avvocato di Totò Riina e giudicate inammissibili dalla Corte. Il braccio di ferro con la procura palermitana è cominciato oltre due anni prima quando la procura, nell’ambito della stessa inchiesta, ha intercettato alcune conversazioni telefoniche intercorse tra il presidente della Repubblica e l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino. Il Quirinale chiede la distruzione dei nastri. La procura si oppone. Ne scaturisce un conflitto di attribuzione dinanzi alla Consulta che nel dicembre 2012, accogliendo il principio dell’assoluta inviolabilità della riservatezza quirinalizia, ordina la distruzione delle conversazioni illegalmente captate. 28 luglio 2012. Napolitano al funerale del suo consigliere Loris D’Ambrosio. Due giorni fa, l’ex capo dello stato ha ricordato le particolari circostanze che portarono a quella morte. “Spesso vengono pubblicate intercettazioni manipolate, pezzi di conversazioni estrapolate dal contesto. Com’è successo al mio consigliere D’Ambrosio che ci ha rimesso la pelle con un attacco cardiaco. E io certe cose non le dimentico”. “Siamo cornuti e mazziati, le ragioni della politica hanno prevalso su quelle del diritto”, reagisce così Ingroia in spedizione guatemalteca per conto dell’Onu, di lì a poco scenderà in campo (alle politiche dell’anno seguente si candida premier con Rivoluzione civile). In una recente intervista a Libero, novembre 2015, lo stesso Ingroia, ora dedito all’attività forense, a proposito del misterioso contenuto di quelle telefonate fa un mezzo annuncio: “Probabilmente un giorno lo racconterò: credo che tutte le verità di uno stato democratico vadano svelate ai cittadini. Ma non in un’intervista. Magari attraverso un romanzo, un mezzo che mi permetterebbe di usare certi filtri per raccontare una realtà che va ben aldilà della più fervida immaginazione”. Ha in mente un titolo?, gli domanda il cronista. “Potrebbe essere: Caro Giorgio, come stai?”. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ordina un’ispezione presso la procura palermitana per la verifica della “effettiva documentazione e corretta custodia delle intercettazioni”. Ingroia è costretto a ridimensionare: ‘Al romanzo ci sto lavorando. Il libro parlerà della storia di una trattativa tra la mafia e lo stato di un paese immaginario e recherà la classica dicitura ogni riferimento a fatti o persone è puramente casuale. Io non ho mai detto e non volevo dire che avrei tirato fuori copia delle intercettazioni”.

Perché i magistrati vogliono fermare Renzi. “C’è il rischio di una democrazia autoritaria”. Il magistrato Morosini, consigliere del Csm, Md, vuota il sacco con il Foglio e spiega da dove nasce lo scontro tra il presidente del Consiglio e le procure, scrive Annalisa Chirico il 5 Maggio 2016 su "Il Foglio". Roma. “Dottoressa, mi scusi, il dottor Morosini l’ha vista passare nel corridoio e vorrebbe salutarla”. Ah, il dottor Morosini, che piacere. Roma, piazza dell’Indipendenza, sede del Consiglio superiore della magistratura. La cronista si dirige verso l’uscita, il portone di Palazzo dei marescialli è già alle sue spalle quando un giovane assistente la invita a raggiungere Piergiorgio Morosini, consigliere del Csm in quota Magistratura democratica. Morosini è uomo affabile e garbato, da gip a Palermo ha rinviato a giudizio gli imputati nel processo sulla presunta trattativa stato-mafia. “Buongiorno, dottore”, la cronista si accomoda sul divanetto del suo ufficio. Innanzitutto, come sta? “Che vuole che le dica, non vedo l’ora di tornare in trincea. Qui è tutto politica. La politica entra da tutte le parti: le correnti, i membri laici (quelli eletti dal Parlamento, dovrebbe vedere come sono compatti in tempi nazareni…), dall’esterno, da tutte le parti”.  Così avete concluso una bella infornata di nomine, immagino le pressioni. “Da tutte le parti. Persone sponsorizzate da politici, liberi professionisti, imprenditori. Perché sulla Costituzione bisogna fermare Renzi. La linea ufficiale di Magistratura democratica sul referendum Pm pronti ad arrestare il governo Un dubbio: chi c'è dietro Legnini? Mi tocca assistere alla scelta di candidati che per competenze e curriculum non meriterebbero quel posto”. Dottore, lei dovrebbe ribellarsi. “Io, a fine mandato, me ne torno in Sicilia a fare il gip. Adoro il mare e la qualità della vita in Sicilia”. Sì, bella la Trinacria, ma diciamolo: il processo sulla presunta trattativa non sta andando a gonfie vele. “Va a rilento, è vero, la sentenza di primo grado è prevista per la fine del prossimo anno. I pm non hanno osato abbastanza”. Ah, dovevano osare di più? “Certi filoni dell’inchiesta non sono stati approfonditi a sufficienza. Io resto del parere che la trattativa c’è stata”. Torniamo al Csm: l’ex procuratore capo di Bolzano, Cuno Tarfusser, oggi giudice a L’Aja, ha lamentato di essere stato “dimenticato”: lui si è candidato ma nessuno l’ha audito. “Tarfusser non ci voleva venire in Italia, ha ancora da fare in Olanda. Si è trattato di sua negligenza: lo hanno convocato per un giorno ma non poteva. E comunque vi scandalizzate per questa storia che è nulla rispetto a quello che accade qui dentro”. Il colloquio sta assumendo i contorni di una seduta psicoterapeutica, Morosini ha le maniche della camicia arrotolate, chi scrive apre il taccuino e comincia ad appuntare. Eccoci, la ascolto. “La prossima settimana si dovrebbe risolvere la partita di Milano. Lì si rischia di designare al vertice della procura il capo di gabinetto del ministero della Giustizia, si rende conto? Non sarebbe un bel segnale per l’indipendenza della magistratura. Il dottor Melillo lavora a stretto contatto con il ministro Orlando. L’alternativa è Francesco Greco, magistrato simbolo di competenza indiscussa”. Ecco, un’altra figura simbolo di Tangentopoli insieme al neopresidente dell’Anm Piercamillo Davigo: non sarà troppo? “Condivido ogni parola di Davigo, c’è solo una parte mancante nel suo discorso: anche noi magistrati dobbiamo fare autocritica. Pensi allo scandalo Saguto a Palermo nell’ambito dell’inchiesta sulla gestione dei beni confiscati alla mafia. C’è una questione morale anche dentro la magistratura”. All’interno del Csm ve ne state occupando? “Qui si parla solo di nomine. E’ tutto politica, gliel’ho detto. Ora io sto lavorando a un parere che il Csm presenterà al Parlamento contro l’emendamento Ferranti che intende sopprimere il tribunale dei minori. Sono contrario perché è un settore delicato che necessita di una formazione specialistica”. Beh, si sta occupando di una questione concreta, è contento? “Il parere sarà ignorato. Decide il Parlamento, mica noi”. Di solito in democrazia decide chi è eletto. “Bisogna guardarsi bene dal rischio di una democrazia autoritaria. Un rapporto equilibrato tra Parlamento e organi di garanzia va preservato. Per questo al referendum costituzionale il prossimo ottobre bisogna votare no”. Md, la sua corrente, ha aderito ufficialmente al comitato di Pace e Rodotà. “Ho appena comunicato alla segreteria centrale le mie prime disponibilità”. Siete organizzati militarmente. “Ognuno trasmette le proprie date, certo. Io copro tre regioni: Lazio, Sicilia ed Emilia Romagna”. Complimenti. “Gireremo il paese in lungo e in largo. Ma alla fine vincerà Renzi. Vince sempre lui”. Vince chi convince, dottore, ma lei non si abbatta, magari alla fine vincete voi. “Se passa la riforma costituzionale, abbinata all’Italicum, il partito di maggioranza potrà decidere da solo i membri della Consulta e del Csm di nomina parlamentare. Renzi farà come Ronald Reagan, una bella infornata autoritaria di giudici della Suprema Corte allineati con il pensiero repubblicano su diritti civili, economia… Uno scenario preoccupante”. Lei è un irriducibile antiliberista. “Io sono per una sinistra sociale che pensi alle persone svantaggiate, ai pensionati, agli immigrati…”. Il Movimento per la giustizia, che con Md è confluito in Area, non ha aderito al comitato per il no. Continuate a vivere da separati in casa? “C’è freddezza ma Armando Spataro ha già detto sì, lui non si tira mai indietro”. Tornando al governo, al di là delle parole e dei toni del premier, qual è la riforma del governo che, a suo giudizio, ha inciso sulla professione? Morosini esita, volge lo sguardo al soffitto, si risistema sulla poltrona e poi prende fiato: “In realtà nessuna”. Sulla responsabilità civile dei magistrati Davigo ha detto: “L’unica conseguenza è che ora pago 30 euro l’anno in più per la mia polizza”. “In effetti – prosegue Morosini – anche io pago un po’ di più, bazzecole. Per il resto non mi pare che ci siano effetti rilevanti”. E se le dico “taglio delle ferie”? “Avevamo 45 giorni di pausa, che vuole che sia. Poi noi lavoriamo spesso pure da casa. In un periodo di sacrifici per tutti l’ho trovato, tutto sommato, uno sforzo accettabile”. Più che i fatti, vi disturbano le parole del governo. “E’ la forma che proprio non va. Le misure su responsabilità civile e ferie sono state presentate come una rivincita della politica nei confronti della magistratura, una logica retaggio del ventennio berlusconiano”. Questi fiorentini peccano di arroganza? “Eh, no, il problema è che sono dei mestieranti, buoni a gestire il potere. Che discorso di prospettiva può fare uno come Luca Lotti? E vogliamo parlare della Boschi? Se uno la accosta ad altre personalità impegnate sul fronte delle riforme costituzionali, ad Augusto Barbera o a Giuliano Amato, vengono i brividi”. Eppure il governo rivendica di aver aumentato le pene per i corrotti e ha nominato un magistrato al vertice dell’Anticorruzione. “Lasci perdere. Per noi questo genere di commistioni inquina l’immagine di indipendenza della magistratura”. Raffaele Cantone si è attirato un po’ di umane invidie, non trova? “Lui, come Gratteri, è un uomo Mondadori. Non so se mi spiego”. Si spieghi si spieghi. “Quando firmi libri Mondadori, l’azienda ha interesse a trasformarti in un personaggio per vendere più copie. Ti invitano in tv, diventi un volto noto e poi la politica ti chiama”. Secondo lei, Cantone ce lo ritroviamo candidato? “E’ l’anti-Renzi perfetto, c’è da capire se avrà la stoffa del politico. Renzi, gli va riconosciuto, si è gettato senza rete contro l’apparato del suo partito, ha perso le primarie al primo tentativo, è un animale politico”. Lei era un elettore dei Ds, è un po’ nostalgico, lo ammetta. “Mi sento un esule in patria. Renzi ha i suoi voti, c’è poco da fare. Chi vuole che voti per Matteo Orfini o per Stefano Fassina?”. Non lo chieda a me. “Un tempo la politica ruotava attorno a personalità come Enrico Berlinguer e Aldo Moro. Massimo D’Alema non spicca per simpatia ma rimane un fuoriclasse. Oggi nel Pd c’è un’enorme questione morale. Ha visto che è successo a Lodi?”. Un sindaco si ritrova dietro le sbarre per una gara da 5mila euro: non sarebbe meglio aspettare le condanne? “Mi conosce, sa come la penso. La carcerazione preventiva dovrebbe essere extrema ratio”. Eppure, quando il giorno successivo al nostro incontro il Pd porta il caso al Csm giudicando l’arresto una misura abnorme, Morosini, insieme agli altri eletti di Area, insorge in una nota: “Parole inaccettabili. Un’indebita interferenza sull’autonomia e la serenità dei magistrati”. Tornando alla nostra conversazione, Morosini rincara: “Il principale partito di governo è investito dalle inchieste, pure in Campania. Io vengo dall’Emilia Romagna dove le reti corruttive tra burocrazia amministrava e imprenditori sono state occupate da ‘ndranghetisti e camorristi”. La moralità può essere monopolio di un partito o di una categoria professionale? “Non dico questo. Io ci metto dentro tutta la classe dirigente italiana, inclusi i magistrati”. La sensazione, dottor Morosini, al termine della nostra “seduta”, è che una parte della magistratura, certi magistrati, siano fortemente politicizzati. Anche questo è un pericolo per la democrazia. “Gliel’ho detto: qui tutto è politica. Io volevo questo incarico perché per uno come me, che ha sempre fatto politica associativa, è un coronamento. Ma non vedo l’ora di tornare a fare il giudice”. Intanto, nell’attesa, Morosini scalda i motori per il tour referendario. Lei, antiberlusconiano com’è, condurrà una battaglia fianco a fianco con Berlusconi. “Io lotto non con Berlusconi, ma per la Costituzione”.

 “Fanno meno danno cento delinquenti che un cattivo giudice.” (Francisco de Quevedo, scrittore e poeta spagnolo del XVII sec.).

Magistrati e politica, dannosi scambi di ruolo, scrive Michele Ainis il 3 maggio 2016 su “Il Corriere della Sera”. «E tu, che lavoro fai?». «Il tuo». Alle nostre latitudini, succede di frequente: lo sport più praticato è il gioco a rubamazzo. Perché i ruoli di ciascuno non sono mai precisi, univoci, scolpiti sulla pietra. Perché l’invasione di campo non può essere un delitto, quando manca il campo. E perché, mentre in Italia gli incompetenti sono ormai legioni, tutti si dichiarano pluricompetenti. Le baruffe tra politica e giustizia (ultimo episodio: l’arresto del sindaco di Lodi) trovano proprio qui la loro miccia detonante, anche se per lo più non ci facciamo caso. D’altronde si tratta d’una vecchia storia, che ci accompagna da quando giravamo coi calzoni corti. Quante volte il Csm ha cercato di rimpiazzare il Parlamento, dettando moniti e pareri non richiesti sulle leggi da approvare? E quante volte il Parlamento si è sostituito alle procure? Provate a domandarvi chi sia il personaggio più noto nell’azione di contrasto alle cosche mafiose. Risposta: Rosy Bindi, presidente dell’Antimafia. Una Commissione parlamentare d’inchiesta che rimbalza da una legislatura all’altra fin dal 1962, e che fin qui ha alternato 15 diversi presidenti. Chi fa cosa, ecco il problema. Non solo nel rapporto fra giudici e politici: anche nelle scuole, negli ospedali, nelle aziende pubbliche e private. Anche nei ministeri, o nelle relazioni fra lo Stato e le Regioni. Dove gli sconfinamenti hanno innescato oltre 100 conflitti l’anno dinanzi alla Consulta, nel lustro successivo alla riforma del Titolo V. Magari adesso la riforma della riforma ci metterà una pezza, o magari aprirà un altro contenzioso fra Camera e Senato, per regolare il loro diritto di parola sulle leggi. Tanto, si sa, nel dubbio ognuno chiede la parola. E il giudice che dovrebbe giudicare non di rado straparla a sua volta. Per dirne una, nel 2015 le Sezioni unite della Cassazione (sentenza n. 19.787) hanno dovuto alzare la paletta multando il Tar del Lazio, che pretendeva di surrogarsi al Csm nel conferimento degli incarichi giudiziari direttivi. Da qui la fortuna d’un mestiere ormai praticato in lungo e in largo: il supplente. Irrinunciabile, a quanto pare, nella scuola, dove quest’anno sono state assegnate 122 mila supplenze, nonostante l’assunzione di 86 mila docenti. Anche in famiglia, però, il reddito di cittadinanza al figlio disoccupato viene garantito dal papà, l’asilo per i nipotini sta a casa dei nonni, mentre del bisnonno s’occupa una badante ucraina. Tutti supplenti rispetto allo Stato assente, come le associazioni di volontariato, come le fondazioni bancarie, chiamate a turare le falle del welfare. E se il nostro ordinamento lesina i diritti civili, oltre a quelli sociali? Possiamo sempre rivolgerci a un supplente di Stato, con una toga sulle spalle o con una fascia tricolore al petto. Nel primo caso supplisce la magistratura, che nel 1975 stabilì il diritto alla privacy (la legge intervenne 21 anni dopo), nel 1988 offrì tutela al convivente more uxorio (la legge manca ancora), mentre nel dicembre scorso il Tribunale di Roma ha riconosciuto la stepchild adoption, proprio mentre il Parlamento la disconosceva. Nel secondo caso entra in scena il sindaco: per esempio trascrivendo i matrimoni gay (nell’ottobre 2014 Marino l’ha fatto per 16 coppie) oppure con il Registro dei testamenti biologici (fin qui adottato in 169 Comuni, oltre che dal Friuli Venezia Giulia a livello regionale). E se invece il sindaco si rivela un incapace? Allora tocca al supplente del supplente, nelle vesti del commissario prefettizio. Il record è in provincia di Caserta, con 18 amministrazioni comunali decapitate; tanto che la prefettura ha dovuto chiedere rinforzi al ministero, perché da quelle parti i viceprefetti sono soltanto 11. Una Repubblica male ordinata reca più danni d’una tirannia, diceva nel Cinquecento Donato Giannotti. Ieri come oggi, il disordine è allevato da un ordinamento sovraccarico e confuso, dove le leggi si fanno per decreto, dove i decreti durano quanto un volo di farfalla. Sicché in ultimo il destino che ci aspetta sarà uguale a quello già sperimentato da una maestra di Bergamo: licenziata a gennaio, continua ad insegnare grazie alle liste fuori graduatoria. Proprio come lei, ogni italiano diventerà ben presto il supplente di se stesso.

"In Italia il partito dei giudici fa e disfa le leggi da decenni". L'ex senatore: «Le continue invasioni di campo non nascono per caso I magistrati si sentono depositari della volontà popolare, un'anomalia», scrive Stefano Zurlo, Sabato 23/04/2016, su "Il Giornale". Prende una sentenza del 2009. E legge il passo decisivo in cui la Cassazione rivendica, testualmente, «la funzione interpretativa del giudice in ordine alla formazione della cosiddetta giurisprudenza-normativa, quale autonoma fonte di diritto». «Ecco - riprende Giuseppe Valditara, ex senatore di Fli e professore ordinario di Diritto romano all'università di Torino - la Suprema corte ci dice che il giudice è una fonte autonoma di diritto. È sconvolgente, capisce? Perché solo in Italia la magistratura arriva a concepirsi come soggetto normativo che affianca e sostituisce il legislatore. Le leggi, per capirci, le fa il Parlamento, ma la Cassazione si mette sullo stesso piano. Succede solo nel nostro Paese, ma la nostra storia è un susseguirsi di anomalie, una più inaccettabile dell'altra. Tutto si tiene». Tutto si spiega. Anche le feroci polemiche di queste ore. Piercamillo Davigo, neopresidente dell'Associazione nazionale magistrati, parla al Corriere della Sera e liquida la nostra classe dirigente: «I politici rubano più di prima, ma adesso non si vergognano». Scintille e ancora scintille sullo sfondo di un conflitto fra poteri che va avanti da troppi anni. Valditara ha appena scritto il libro Giudici e legge che vorrebbe essere una meditazione scientifica e tecnica sulla magistratura tricolore, ma basta sfogliare quelle trecento pagine dense di citazioni per incrociare l'attualità bruciante, le polemiche chi si ripetono sempre uguali, le esternazioni del partito dei giudici e di tutto l'armamentario del giustizialismo italiano.

Professor Valditara, perché parla di anomalie italiane?

«Perché le continue invasioni di campo delle toghe non nascono per caso».

Più d'uno a sinistra ci aveva spiegato che i giudici alzavano la voce per rispondere alle provocazioni e agli sconfinamenti di Berlusconi.

«Ma no. Quella è una battaglia dentro una guerra molto più lunga e complessa. Bisogna tornare indietro agli anni '50».

No, un attimo, partiamo dalla diagnosi: qual è la malattia?

«Gliel'ho detto: i giudici italiani si considerano in qualche modo i depositari della volontà popolare e di fatto scrivono e riscrivono le leggi, le interpretano, le disapplicano, fanno un po' quello che gli pare».

Non le pare di esagerare?

«Ma no. Sono loro a parlare di tutte queste cose. Prendiamo il testo della norma sulla legittima difesa, modificato nel 2006».

D'accordo, ma che c'entra?

«C'entra perché la modifica è stata di fatto annullata dai giudici che, interpretando le parole, spesso finiscono per rimettere il padrone di casa che si ribella ai ladri sul banco degli imputati. L'esatto opposto di quel che voleva il legislatore».

Ma come è possibile?

«Non solo è possibile, questo è solo un episodio dentro una strategia molto più aggressiva».

Addirittura?

«La sentenza che riguarda il rapporto fra la Renault e le concessionarie arriva ad un punto estremo: il giudice è autorizzato a modificare il contratto fra le parti. Non so se ci rendiamo conto della portata di questa considerazione: c'è un contratto e la toga lo modifica in base a sue valutazioni. Altro che equilibrio fra i poteri. Qua il partito dei giudici fa e disfa a suo piacimento. E d'altra parte, la sentenza numero uno della Corte costituzionale, nel 1956...»

Si fermi, non possiamo tornare all'ormai lontano 1956.

«E invece dobbiamo. Perché già quel lontanissimo verdetto dice che le norme della Costituzione non hanno un valore solo programmatico. E dunque in questo modo si scardina un'altra porta e si apre un varco enorme: gli articoli della Carta, che hanno un indirizzo politico, vengono applicati al caso concreto dal giudice che quindi esce dal recinto tecnico e fa politica, saltando la legge ordinaria. Siamo all'interpretazione costituzionalmente orientata».

In concreto?

«Per fare un esempio paradossale il giudice potrebbe arrivare ad annullare un contratto di affitto».

E perché?

«Perché potrebbe giudicare troppo alto il canone in relazione all'articolo 2 della Costituzione e dunque al dovere di solidarietà politica, economica, sociale».

Dunque, con la sentenza del 1956 i giudici cominciano a fare politica?

«Certo. Si avvia quel percorso perverso che arriva fino al verdetto che ricordavo del 2009. Con tutte le conseguenze che conosciamo».

Sia più esplicito.

«Solo in Italia la magistratura è organizzata per correnti che sembrano clonare i meccanismi e le divisioni del Parlamento».

Siamo a Magistratura democratica, alle toghe rosse...

«In proposito c'è un testo esemplare del 1970 di Franco Marrone. Marx ha affermato - nota Marrone - che il diritto non dà niente, ma sanziona solo ciò che esiste. Che cosa esiste attualmente nella nostra società? Esiste il dominio di una classe, quella borghese, sulle altre. Chiaro? Il resto è solo uno sviluppo coerente di quel programma: un'oligarchia al posto della democrazia».

Imprese, fisco, pubblico impiego: un Paese governato dai giudici. Le toghe stravolgono la volontà del Parlamento interpretando le leggi. Dai casi Ilva e Fincantieri alle tasse per le scuole cattoliche, gli ultimi pasticci, scrive Anna Maria Greco, Martedì 28/07/2015, su "Il Giornale". Complici le troppe vigliaccherie del Parlamento i giudici ormai dettano legge. L'incapacità politica di regolare certi fenomeni porta a norme frutto di compromesso che lasciano ampi spazi d'interpretazione alla magistratura. E le toghe, sempre più spesso, ne approfittano per sconfinare dai loro compiti e arrivare anche a sovvertire la volontà del legislatore. Dà una mano il quadro europeo, che fornisce a volte la direttiva giusta per piegare la norma in un senso o nell'altro. È storia di tutti i giorni. Da Corti e Tribunali arriva una lettura delle leggi che determina conseguenze, talvolta contraddittorie, nella vita dei cittadini. Al giudice tocca la parola «finale» sulla legge Severino e il caso De Luca come sull'Ilva di Taranto, sul cambiamento di sesso e sulle pensioni, sulle tasse per le scuole cattoliche e sull'immigrazione, sulla fecondazione artificiale e sui contratti dei calciatori. Indicano la strada della legge Corte costituzionale, Cassazione, Tar. Anche la singola toga di Canicattì sa di poter conquistare la prima pagina con una sentenza «innovatrice», un'interpretazione «evolutiva» che legge la norma fuori dal contesto in cui è nata, in progress. Presto, perfino un giudice di pace si metterà a legiferare. Molto dipende da come sono scritte le leggi, dall'ambiguità che passa a chi deve interpretarle la palla dell'applicazione alla vita concreta. Sui temi più delicati e dov'è difficile trovare l'accordo politico, spesso in parlamento si arriva a compromessi-papocchio. E quando non è chiara la volontà del legislatore è facile per il giudice sottrargli il privilegio e riscrivere soggettivamente o, peggio, ideologicamente: manipolare, sovvertire, strumentalizzare. Succede soprattutto sui «nuovi diritti», quelli che i giuristi chiamano «di quarta generazione» e riguardano manipolazioni genetiche, eutanasia, internet. Per il magistrato rampante c'è ampio spazio quando si tratta di coppie gay, fecondazione artificiale, trans, regole del web. Ieri la Cassazione ha deciso che i siti internet non possono pubblicare, senza consenso dell'interessato, foto osè. Su coppie e famiglia spesso i giudici danno il meglio, entrano in camera da letto e discettano di corna, obbligano i genitori a mantenere figli attempati, a mandarli a messa e al catechismo se sono battezzati. Ricordiamo la sentenza della Cassazione che entrava nell'uso dei jeans in caso di stupro. Basta pensare alla legge 40 sull'inseminazione eterologa: non c'è parte che non sia stata corretta, colpita, reinterpretata da Cassazione, Corte europea dei diritti umani o singoli magistrati, spesso ribaltando pronunce precedenti e arrivando a conclusioni imprevedibili. E poi c'è l'esempio del reato di immigrazione clandestina, di fatto depenalizzato prima che intervenisse il Parlamento, dal momento in cui la Consulta ha dichiarato illegittima l'aggravante, la Corte europea di giustizia ha bocciato la legge, la Cassazione l'ha circoscritta e i giudici hanno iniziato a firmare sentenze non solo sui processi in corso ma anche su quelli già chiusi. L'altro grande campo d'intervento giudiziario è quello del lavoro. Ieri la Cassazione ha detto che la perdita del lavoro non è un «grave danno alla persona». Anche qui le norme Ue forniscono materia prima per scardinare leggi italiane in nome del principio della «prevalenza» di quelle sovranazionali. Spesso i Tar sono i più oltranzisti, pretendendo di decidere loro prima della Consulta quando e come disapplicarle. Adesso, i giudici del lavoro già si fregano le mani pensando al contenzioso in arrivo per il Jobs act. Che la tendenza nella magistratura ad utilizzare principi costituzionali o europei per creare nuove leggi si stia diffondendo sempre più lo denuncia da tempo uno schieramento trasversale di giuristi, da quelli conservatori a quelli più progressisti. E si riconosce l'unicità del caso italiano: negli altri Paesi, di fronte ad una sentenza di Strasburgo, i poteri dello Stato cercano una risposta unitaria, da noi si scatena la corsa dei giudici a dire ognuno la sua. Qualcuno parla di «diritto libero», che esalta nel giudice la funzione di creatore più che di interprete della norma. Ma se salta il sistema dei contrappesi tra poteri dello Stato, se la legge diventa Una, Nessuna e Centomila, perde ogni certezza.

Una corporazione "fuori mercato". La pessima condizione in cui versa il nostro ordine giudiziario è conseguente al fatto che si diventa magistrati un po' come si entra alle Poste: grazie a un concorso e per la tutta vita, scrive Carlo Lottieri, Domenica 24/04/2016, su "Il Giornale". L'intervista rilasciata dal presidente dell'associazione nazionale dei magistrati, Piercamillo Davigo, ha suscitato più che giustificate polemiche, né poteva essere diversamente. Chi voglia riflettere, andando al di là delle polemiche di superficie, sul presente degrado della giustizia deve comunque muovere da una constatazione elementare: che il nostro sistema giudiziario è in una crisi profonda. Si ha spesso la sensazione che in ambito penale siamo tutti po' tutti criminali fino a prova contraria, mentre quando chiediamo giustizia nel settore civile siamo obbligati a fare i conti con ritardi e inefficienze abnormi, che pesano come un macigno sull'intera economia. Alla radice di tutto c'è il fatto che, in definitiva, abbiamo una magistratura «fuori mercato». Questo è sostanzialmente vero in tutto l'Occidente, ma lo è in modo particolare in Italia, dove ogni forma alternativa di risoluzione delle controversie (dall'arbitrato alla mediazione) sembra ostacolata di proposito dall'ottusità dei legislatori e dalla strenua difesa delle proprie posizioni che la magistratura sa esercitare con successo. Per giunta, la pessima condizione in cui versa il nostro ordine giudiziario è conseguente al fatto che si diventa magistrati un po' come si entra alle Poste: grazie a un concorso e per la tutta vita. Se sapessero rinunciare a un po' della loro boria, quanti fanno parte della corporazione di Stato incaricata di emettere sentenze e moralizzare gli italiani trarrebbero beneficio dalla lettura di quelle pagine della Ricchezza delle nazioni in cui il padre dell'economia moderna, Adam Smith, nel 1776 spiegava al lettore per quale ragione i giudici inglesi del tempo fossero ovunque tanto apprezzati. Nel capitolo primo del quinto libro egli sottolineava come, al tempo, spesso fosse facile evitare il giudice «naturale» (scegliendo insomma da chi farsi giudicare) e come ogni tribunale vivesse grazie alle spese processuali. C'era, insomma, un libero mercato che premiava e puniva, spingendo ogni magistrato a operare nel migliore dei modi. Fedeli a un'antica tradizione, nella società inglese «tutti i giudici si sforzavano di dare, nel proprio tribunale, il rimedio più veloce e più efficace che il diritto ammettesse per ogni genere d'ingiustizia». Solo i tribunali che funzionavano, d'altra parte, chiamavano a sé una clientela disposta a finanziarli. Tornare a Smith aiuta a capire come questa magistratura che a parole attacca con tanta veemenza i politici, nei fatti sia legata a doppio filo alle logiche più ottuse della sovranità e del monopolio statale della forza. Quando si parla di liberalizzazioni, in Italia, solitamente di tirano in causa i tassisti e i notai; e qualche volta ci si spinge pure a parlare di farmacie, aziende municipalizzate o banche. Ma è ora giunto il momento di far scendere dal piedistallo una delle corporazioni più potenti e arroganti, facendo sì che ogni magistrato debba costruirsi un'immagine: com'è costretto a fare chiunque sia in concorrenza con altri.

Magistrati corrotti Nazione infetta. Su questo Davigo e l’ANM hanno la memoria corta...scrive “Il Corriere del Giorno” il 23 aprile 2016. Si diceva che se la capitale è corrotta, la nazione è infetta, come sintetizzò nel 1955 in un celebre titolo il settimanale L’Espresso. L’equazione ha senso ancora oggi a giudicare da quello che accade in molte città italiane. Compresa Taranto. Si diceva che “se la capitale è corrotta, la nazione è infetta”, come sintetizzò in un celebre titolo nel 1955 il settimanale L’Espresso.  L’equazione ha senso ancora oggi a giudicare da quello che accade in tutt’ Italia. Ma sarebbe ingiusto fermarsi soltanto alla sfera politica. La percentuale di onestà, dignità e trasparenza della classe politica è sicuramente uno degli indicatori dello stato di salute del paese, quello che più appassiona l’informazione e l’opinione pubblica, in particolar modo il popolino grillino, ma non è sicuramente il più pericoloso per la democrazia. La politica non arresta e manda in carcere gli innocenti. Nell’ultima “crociata” dell’ANM contro la politica il premier Renzi intende lasciare Piercamillo Davigo da solo sul ring senza volergli concedere il rango di istituzione all’Anm che non ha. “È un leader sindacale, per giunta pure a tempo. Non vedo perché si debba dare enfasi a dichiarazioni che non piacciono neppure ai suoi associati”, ha dichiarato un sottosegretario del governo al giornalista Marco Conti del quotidiano Il Messaggero, che scrive “Meglio, quindi, lasciare al Csm il compito di riprendere un suo magistrato. Il vicepresidente Giovanni Legnini lo fa con un lungo comunicato ovviamente vistato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella che del Csm ne è il presidente. A quelle che definisce in privato «vere e proprie provocazioni», Renzi non intende replicare ufficialmente come invece avrebbe fatto un suo predecessore a Palazzo Chigi”. Una democrazia efficiente si basa su pesi e contrappesi, controllati e controllori nei poteri dello Stato. E se è ben noto ed accertato che il ruolo della “politica” è malato, sfugge a molti lettori e commentatori che il contrappeso “giustizia” non è immune, non è assolutamente messo meglio ed in condizione di dare lezioni di moralismo. Alcuni mesi fa, e cioè nello scorso mese di novembre il CSM, il Consiglio superiore della magistratura ha sospeso dalle funzioni Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione antimafia del Tribunale di Palermo. La signora è soltanto…. indagata per corruzione e secondo l’accusa ne ha fatte veramente di tutti i colori, a partire dall’aver comprato una laurea al figlio. Questo caso, portato ad esempio insegna che la “casta dei magistrati” si sente “intoccabile” mentre in realtà non è esente da responsabilità, come qualcuno vorrebbe fare credere, da infezioni e collusioni, da corruzioni in alcuni casi palesi, altrimenti abilmente occultate. Ma è “infezione” anche se la giustizia è applicata in modo diverso in base all’appartenenza a una casta o all’altra. Anche noi siamo contrari alla carcerazione preventiva in mancanza di un’accertata pericolosità sociale, ma è più che lecito chiedersi chiedo: in base a quale principio si mette in carcere un politico sospettato di aver ottenuto uno sconto sospetto sulla ristrutturazione di casa, mentre un’alta magistrata come la Saguto, accusata di corruzione è tranquillamente a casa sua? Perché, come ha scritto tempo fa Alessandro Sallusti, direttore del quotidiano milanese Il Giornale, ad un imprenditore indagato i magistrati spesso bloccano beni e conti correnti mentre alla dottoressa Saguto, sia pur sospesa per infamia, il Csm ha riconosciuto l’erogazione di un assegno di mantenimento pari ai due terzi dell’ultimo stipendio? Su queste cose l’ANM, l’Associazione Nazionale dei Magistrati taceva e continua a tacere. Com’è possibile che la Saguto abbia combinato per anni tante porcate senza che colleghi e superiori abbiano mai sospettato nulla? Incapacità, complicità, soggezione? Qualunque sia la risposta a queste domande, la conclusione è che siamo di fronte spesso ad una magistratura infetta. E questo causa una sospensione della democrazia ben più grave dei danni che il sindaco Alemanno, il suo successore Marino e soci hanno provocato a Roma, come l’inchiesta del ROS dei Carabinieri su “Mafia Capitale” ha molto bene documentato. Il bravo collega Emiliano Fittipaldi sull’ Espresso dell’aprile 2014 raccontava che “A Napoli, dove il caos è dannazione di molti e opportunità per gli scaltri, il tariffario lo conoscevano tutti: se un imputato voleva comprarsi il rinvio della sua udienza doveva sganciare non meno di 1.500 euro. Per “un ritardo” nella trasmissione di atti importanti, invece, i cancellieri e gli avvocati loro complici ne chiedevano molti di più, circa 15mila. «Prezzi trattabili, dottò…», rabbonivano i clienti al telefono. Soldi, mazzette, trattative: a leggere le intercettazioni dell’inchiesta sul “mercato delle prescrizioni” su cui ha lavorato la procura di Napoli, il Tribunale e la Corte d’Appello partenopea sembrano un suk, con pregiudicati e funzionari impegnati a mercanteggiare sconti che nemmeno al discount”. Il compianto Presidente della repubblica Francesco Cossiga, appartenente ad una famiglia di altissimi magistrati, intervistato dal giornalista Vittorio Pezzuto, disse: «La maggior parte dei magistrati attuali sono totalmente ignoranti a cominciare dall’amico Di Pietro che un giorno mi disse testualmente: “Cosa vuoi, appena mi sarò sbrigato questi processi, mi leggerò il nuovo codice di procedura penale”». Nel corso della medesima intervista Cossiga sottolineava le scadenti qualità dei membri della magistratura, li definiva “incapaci a fare le indagini”. Invitato a dare una spiegazione sull’incredibile e ingiustificato avanzamento di carriera toccato ai due magistrati (Lucio di Pietro e Felice di Persia) noti per aver condannato ed arrestato Enzo Tortora e centinaia di persone innocenti nell’ambito dello stesso processo (tutti rilasciati dopo mesi di carcere per imperdonabili errori macroscopici), Cossiga rispose: “Come mi è stato spiegato, la magistratura deve difendere i suoi, soprattutto se colpevoli”. La sicurezza di quanto affermava il Presidente Cossiga gli proveniva da una confessione fattagli da un membro interno del Csm, di cui non rivelò mai il nome ma risulta evidente che si tratti di un personaggio di calibro elevatissimo, “Un giovane membro del Consiglio Superiore della Magistratura, appartenente alla corrente di Magistratura Democratica, figlio di un amico mio, il quale mi è ha detto: “Noi dobbiamo difendere soprattutto quei magistrati che fanno errori e sono colpevoli perché sennò questa diga che noi magistrati abbiamo eretto per renderci irresponsabili ed incriticabili crolla!”” Quello cosa pensava e disse il compianto Presidente Cossiga in televisione su Sky Tg24, intervistato dalla giornalista Maria Latella, rivolgendosi al magistrato Maurizio Palamara, predecessore di Maurizio Carbone, alla segreteria dell’Associazione Nazionale dei Magistrati, lo potete vedere ed ascoltare dalla sua voce. Ma quello campano non è un caso isolato. A Bari un sorvegliato speciale per riavere la patente poteva pagare un magistrato con aragoste e champagne, anche in Calabria sono stati tre i giudici antimafia accusati di corruzione per legami con le ’ndrine più feroci della ndrangheta. Alla Sezione Fallimentare del Tribunale di Roma un gruppo formato da giudici e commercialisti ha preferito arricchirsi indisturbati per anni facendo da parassita sulle aziende in difficoltà. Gli imprenditori disposti a pagare tangenti hanno scampato il crac grazie a sentenze pilotate; gli altri, che fallissero pure. Nella Procura di Taranto si è visto di tutto e di più. A partire dalla vicenda sul pm Matteo Di Giorgio, che era in servizio alla Procura della Repubblica di Taranto, e com’è noto, venne arrestato l’11 novembre 2010 con l’accusa di concussione al termine di una inchiesta avviata dopo le denunce presentate da alcuni cittadini di Castellaneta che si ritenevano danneggiati dal magistrato.  Il pm potentino inquirente, Laura Triassi (attualmente impegnata nell'”inchiesta Petrolio” a Potenza che sta facendo tremare il Governo)   avallata dal gip Gerardina Romaniello, scrisse che “evidenziano come l’esercizio della funzione di magistrato da parte del dottor Di Giorgio – pubblico ministero in servizio alla Procura della Repubblica di Taranto – sia stato asservito al conseguimento di utilità personali, in gran parte di natura politica, in danno del suo nemico storico, il senatore Rocco Loreto”. Di Giorgio secondo i giudici potentini nella sentenza che il nostro quotidiano ha pubblicato integralmente ha “approfittato della sua funzione pubblica, del prestigio connesso alla sua attività per perseguire interessi privati o politici attraverso l’uso strumentale della sua qualità e dei suoi poteri”. In quella triste vicenda per la magistratura e soprattutto per la giustizia in generale, vi sono stati anche dei magistrati come Aldo Petrucci (procuratore capo a Taranto all’epoca dei fatti) e Pietro Argentino (attuale procuratore aggiunto) che hanno detto il falso come hanno scritto nella loro sentenza i giudici di Potenza, che ne hanno chiesto conseguentemente il rinvio a giudizio, sulla base di valutazioni successivamente confermate dalla Procura, e persino dal Giudice per le Indagini preliminari del Tribunale di Potenza che ha prosciolto Argentino senza però assolverlo dalle sue false dichiarazioni, confermando di fatto le accuse a suo carico, ed infatti la posizione del magistrato di Torricella (che viene dato in partenza dalla Procura di Taranto), è attualmente al vaglio della commissione disciplinare del Csm. E le sue ambizioni a diventare procuratore capo, sono ormai naufragate, dovendo peraltro a breve lasciare anche l’attuale incarico di procuratore aggiunto. Negli ultimi tempi magistrati compiacenti e avvocati senza scrupoli sono stati beccati anche nei Tar, nelle Commissioni Tributarie dove in stanze anonime si decidono controversie milionarie, o tra i giudici di pace. I casi di cronaca sono centinaia, in aumento esponenziale, tanto che gli esperti cominciano a parlare di un nuovo settore illegale in forte espansione: la criminalità del giudiziario. Ma su tutto questo il nuovo “leader” dei magistrati Piercamillo Davigo ed i suoi predecessori Rodolfo Maria Sabelli ex presidente nazionale dell’ANM e Maurizio Carbone ex-segretario nazionale dell’associazione dei magistrati, quest’ultimo in servizio da non pochi anni proprio presso la Procura di Taranto, non parlano. Hanno la memoria corta. Noi no.

E la chiamano democrazia…E’ solo una contrapposizione tra Comunisti di destra e di sinistra (ceppo comune del socialismo) ed i liberali. O meglio dire, dato l’atteggiamento violento adottato per l’imposizione della loro religione, Fascisti di destra e di sinistra contro i liberali. I fascisti comunisti per le loro nefandezze si nascondono dietro l’impunità della massa, pretendendo che tutto gli sia dovuto. I Liberali sono perseguitati perché isolati dal loro soggettivismo ignavo.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Ecco la nostra collana firmata Pansa. Da oggi il primo romanzo che rilegge le vicende del Paese, scrive Matteo Sacchi, Sabato 16/04/2016, su "Il Giornale". Non è mai facile raccontare la storia recente, quella che dista da noi meno di un centinaio di anni. Si rischia sempre di incorrere nelle distorsioni da vicinanza, ci si sente toccati dai fatti. Meno che mai è facile farlo in un Paese come l'Italia. La Seconda guerra mondiale, spartiacque fondamentale della modernità, ha spaccato la nazione in due. Si è trasformata anche in guerra civile, con dei vincitori e con dei vinti. Un popolo che si sentiva vinto e sconfitto ha fatto tutto il possibile per scordarsi di essere stato fascista e per nascondersi dietro il mito della Resistenza. Che ci fu, ma fu un fenomeno militare di modesta portata, condotto da poche decine di migliaia di persone, ovviamente escludendo dal novero dei combattenti chi saltò sul carro del vincitore all'ultimo momento. E che fu un fenomeno non certo alieno da ideologie totalitarie, come quella comunista, quanto lo stesso fascismo. Questi concetti possono apparire come ovvi e banali, ma è stato necessario un enorme sforzo per renderli evidenti, rompendo il conformismo degli storici ufficiali. Gran parte del merito in questa impresa va riconosciuto a Giampaolo Pansa il quale, pur non essendo uno storico di professione, ha scandagliato quelle pieghe della storia che molti italiani avrebbero voluto dimenticare. Ora alcuni dei suoi volumi più significativi ritornano in abbinata con il Giornale, riuniti in una collana: «Controstoria d'Italia». Il primo volume sarà in edicola da oggi a 8,50 euro oltre al prezzo del quotidiano. Il titolo è Eia Eia Alalà. Controstoria del fascismo. Si tratta di un romanzo storico che attraverso la finzione letteraria racconta le vicende e gli amori della camicia nera della prima ora Edoardo Magni (personaggio inventato dall'autore). Magni incarna il fascista patriottico e in assoluta buona fede il quale, poco a poco, dovrà rendersi conto dei fatali errori commessi da Mussolini. Dalla scelta folle di aderire alle leggi razziali alla guerra rovinosa e disperata. Gli entusiasmi di Magni danno conto con grande onestà del consenso, quasi unanime, di cui godette il regime («erano tutti fascisti dice Pansa e poi hanno fatto finta di essere stati tutti antifascisti») e di come l'adesione di massa si tramutò in indifferenza e disillusione. Nel caso del protagonista del libro, anche in sincera autocritica (grazie all'incontro con la giovane ebrea Marianna). Pansa nella prefazione, e poi nel testo, dà anche conto con grande precisione di come le violenze iniziali del fascismo fossero strettamente legate alle violenze del «biennio rosso». E anche questo è un pezzo di storia su cui spesso si preferisce sorvolare. Il percorso che inizia con Eia Eia Alalà proseguirà poi con Bella ciao. Controstoria della Resistenza (dal 23 aprile); Sangue, sesso, soldi. Una controstoria d'Italia dal 1946 a oggi (dal 30 aprile); La destra siamo noi. Da Scelba a Salvini (dal 7 maggio); Tipi sinistri. I gironi infernali della casta rossa (dal 14 maggio) e infine Poco o niente. Eravamo poveri. Torneremo poveri (dal 21 maggio). E anche in questi volumi Pansa ci mette di fronte ad analisi non allineate e che costringono a riflettere e a uscire dai luoghi comuni. Qualche esempio: De Gasperi? Ha salvato la libertà dell'Italia e non era affatto un lacchè degli Usa. Il Sessantotto? Un tragico bluff. Andreotti un Belzebù che le ha sbagliate tutte? Assolutamente no.

Il fascismo fu la risposta alle minacce dei "rossi". Nel 1919-20 la sinistra evocò lo spettro della rivoluzione, ma provocò la nascita dello squadrismo. Come racconta Pansa in "Eia Eia Alalà". Scrive Giampaolo Pansa, Sabato 16/04/2016, su "Il Giornale". "Tutti i nodi vennero sciolti con il colpo di spada dell'offensiva squadrista. È il calendario a ricordarci la velocità di quell'azione. Un blitz che ebbe inizio, si sviluppò e vinse in meno di due anni: dalla fine del 1920 all'ottobre del 1922. I rossi cianciavano di rivoluzione, i neri costruirono con i fatti la reazione a tante chiacchiere. Aveva ragione il mio edicolante: la colpa di aver messo in sella il fascismo, e di aver mandato al governo Mussolini, era soltanto dei socialisti. Chi comprese subito quanto era avvenuto fu uno scrittore anarchico, il bolognese Luigi Fabbri, autore di un libro stampato nel 1922 dall'editore Cappelli e intitolato: La controrivoluzione preventiva. La sua tesi era semplice. La rivoluzione tanto predicata dai socialisti non era arrivata e in un certo senso non era mai stata voluta per davvero. Ma le sinistre l'avevano fatta pesare come una minaccia per tutto il 1919 e il 1920. Questo fu sufficiente a provocare la controrivoluzione moderata, di cui il fascismo era il protagonista più impietoso e risolutore. Una bufera che si giovò soprattutto di due armi: la violenza illegale dello squadrismo e la repressione legale del governo liberale, attuata dalla polizia, dai carabinieri e dalla guardia regia, quasi sempre rivolte contro le sinistre. Il risultato fu simile ai giochi di guerra delle Play Station odierne. Le sinistre avevano gridato per due anni di voler fare come in Russia, ma senza saper passare dai proclami alla rivoluzione vera. E i fascisti andarono all'assalto per impedire a chiunque di trasformare in fatti le teorie del bolscevismo nostrano. Gli incauti parolai rossi si erano comportati come l'apprendista stregone: avevano creato il mostro che li avrebbe divorati. Infine le sinistre erano pronte a farsi sconfiggere. Dentro un corpo in apparenza molto solido celavano il virus della discordia e della divisione. Stavano insieme in un solo partito e in poco più di un anno si ritrovarono frantumate in tre segmenti. Nel gennaio 1921, a Livorno, la corrente guidata da Antonio Gramsci e Amadeo Bordiga lasciò il Psi e fondò il Partito comunista d'Italia. Allora accadde un fatto assurdo, che anticipava tutte le pazzie destinate nel futuro a corrodere la sinistra italiana. Mentre il nuovo partito iniziava subito l'attacco ai vecchi compagni, i socialisti rimasti nel Psi rinnovavano all'unanimità la fedeltà a Mosca che aveva voluto la scissione. Anni dopo, un Gramsci costretto all'autocritica avrebbe affermato che la scissione era stata «il più grande regalo fatto alla reazione». Ma in quel 1921, già carico di pericoli per la sinistra, pochi lo compresero. Fra questi c'era Nenni, che scrisse: «A Livorno è cominciata la tragedia del proletariato italiano». E un altro politico vicino al Psi sfornò un'immagine sempre attuale: «La scissione è il cacio sulla minestra della borghesia». Ma al socialismo italiano una sola frantumazione non bastava. Se ne costruirono una seconda all'inizio dell'ottobre 1922, ventiquattro giorni prima della marcia su Roma. Al diciannovesimo congresso del Psi, la corrente massimalista, sfruttando una lieve maggioranza di delegati, espulse i riformisti di Filippo Turati, Claudio Treves e Giacomo Matteotti. I compagni messi fuori dalla vecchia casa formarono un nuovo movimento politico: il Partito socialista unitario. Affidato alla guida di Matteotti, nominato segretario. Gramsci schernì subito il deputato di Fratta Polesine dicendo che era «un pellegrino del nulla». Mentre la sinistra si svenava in una guerra senza quartiere contro se stessa, lo squadrismo fascista cresceva a vista d'occhio e partoriva figure sempre nuove. Molti protagonisti della controrivoluzione in camicia nera il lettore li troverà effigiati in Eia eia alalà. Alcuni di loro emergevano da un'Italia sotterranea e sconosciuta, da mondi estranei alla politica, con un passato torbido, non privo di nefandezze. È il caso di una coppia di amanti, poi divenuti marito e moglie: i conti Carminati Brambilla che hanno un posto di rilievo in questo libro. Mentre scrivevo questo libro mi sono rivolto una domanda. Nell'Italia degli anni Duemila è possibile vedere emergere un regime autoritario non molto diverso dal regime fascista, anche se di colore differente, bianco invece che nero, oppure rosso o rosa? Non è un interrogativo privo di senso. La storia europea del Novecento ci ha insegnato che le dittature nascono in paesi che hanno tre caratteristiche. Sono deboli perché stremati da una guerra o da una crisi economica feroce. Hanno istituzioni democratiche screditate e che non funzionano più, in mano a partiti inefficienti e corrotti. Risultano dilaniati da contrasti sociali molto forti, tra una minoranza di presunti ricchi e una maggioranza di cittadini sempre più poveri. L'Italia del 2014 è così? Esiste un'affinità tra il paese di oggi e quello del 1919-1922? Qualche volta temo di sì".

Classe Balilla, ecco gli allievi del Ventennio. A Segrate (Milano) in mostra circolari diari e quaderni dei bambini della scuola primaria, scrive Antonio Ruzzo, Sabato 16/04/2016, su "Il Giornale". Tutti in piedi entra la maestra... Quando salutare era un imperativo come credere, obbedire, combattere. Quando ai professori non si dava del «tu» e note e bocciature non erano materia per i giudici del Tar. Quando gli insegnanti erano definiti «apostoli» e «sacerdoti» e avevano la missione di educare la gioventù italiana a «comprendere e rinnovarsi nel Fascismo». Quando di libertà e diritti non si discuteva. Quando a scuola c'era lui insomma. Anni fa. Tanti anni fa che rivivono nella mostra «A scuola col Duce. L'istruzione primaria durante il Ventennio fascista», ideata e realizzata già nel 2003 dall'Istituto di Storia Contemporanea «Pier Antonio Perretta» di Como. Da ieri, e fino alla fine del mese, è allestita a Segrate (Milano) nel Centro Giuseppe Verdi proprio nella piazza dove l'architetto Aldo Rossi realizzò il monumento al partigiano. Nessuna nostalgia. Anzi. A volerla è stata la sezione cittadina dell'Anpi e a ospitarla è una giunta di centrosinistra. «L'idea ci è venuta per celebrare il 25 aprile - spiega Gianluca Poldi, assessore alla cultura di Segrate - e per approfondire un periodo della storia che deve essere affrontato come tale, senza preconcetti. E mi ha fatto piacere che a proporci questa mostra sia stata proprio l'associazione dei partigiani. Poi alla base di tutto c'è lo straordinario lavoro storico dell'Istituto di Storia Contemporanea Pier Antonio Perretta che è un garanzia». In esposizione oltre sessanta pannelli che riproducono per la maggior parte illustrazioni a colori, fotografie e testi ripresi dai manuali scolastici, dai quaderni degli scolari di allora e che, insieme a una serie di quadri riassuntivi, ripercorrono le tappe e i momenti più significativi della scuola di regime. L'Istituto comasco possiede una cospicua raccolta denominata Fondo scuola che comprende anche pagelle, certificati di studio, saggi pedagogici, periodici, libri di narrativa, fotografie. «La maggior parte della nostra raccolta - spiegano i responsabili - proviene dai mercatini dell'antiquariato e da donazioni di privati, ma una ricchissima documentazione la si può trovare negli archivi di molte scuole, soprattutto per quanto riguarda i registri scolastici e i giornali di classe stilati dall'insegnante. Chi ha ideato e fortemente voluto questa mostra è stato Ricciotti Lazzero, giornalista e storico di fama, presidente dell'Istituto Perretta, purtroppo scomparso nel dicembre del 2002, un mese prima dell'inaugurazione della mostra». La scelta di proporre la mostra in occasione della ricorrenza del 25 Aprile, Festa della Liberazione, non è casuale. «Assolutamente no - spiega l'assessore Poldi -. La speranza è che diventi un momento di riflessione per tutti. Mi aspetto che a vistarla vengano i nonni con i loro nipoti, mi aspetto che vengano anche molti studenti, anche se devo ammettere che vedo un po' di pigrizia negli insegnanti. Ma soprattutto mi aspetto che venga visitata e apprezzata senza pregiudizi. Anche perché il materiale raccolto è importante. La grafica di allora a esempio era straordinaria e aveva una grande capacità di sintesi. Si prenda la locandina che apre la mostra, quella dello studente col pennino che ha nella sua ombra la proiezione dell'uomo soldato. C'è tutto il regime, in quell'immagine...». Quella sotto il duce fu una scuola in cui il bambino era un adulto in miniatura, da istruire e mantenere sano nella mente e nel corpo, un potenziale militare. E centrale fu il ruolo dell'Opera Nazionale Balilla, ben presente nelle istituzioni scolastiche: presidi e insegnanti erano tenuti ad aprire le porte alle sue iniziative, a essa era affidato l'insegnamento dell'educazione fisica ai ragazzi. Conoscere «l'istruzione primaria durante il ventennio fascista», come recita il sottotitolo della mostra, significa capirne non solo la struttura e l'evoluzione, ma anche le motivazioni e le finalità: «Voi siete l'aurora della vita, voi siete la speranza della Patria, voi siete soprattutto l'esercito di domani...» diceva Mussolini ai ragazzi. «La mostra commenta la curatrice Elena D'Ambrosio - vuole contribuire a esaltare quella libertà dell'uomo che comincia difendendo i diritti del fanciullo in formazione. Poiché la libertà nasce nelle aule delle scuole elementari, dove per la prima volta al bambino viene consegnato un libro. Quel libro deve essere corretto e leale, senza dottrine, aperto all'ottimismo, chiaro, semplice». Un messaggio che passa dalla storia e arriva ai giorni nostri: «Sì un po' è così - conclude l'assessore Poldi -. Uno sguardo nel passato per capire che l'educazione dei bambini alla libertà è un valore da cui non si deve mai prescindere».

Olocausto provocato dai Nazisti e dai fascisti? Una menzogna a metà. Si censura la parte riguardante i comunisti. Dustin Hoffman choc: "I miei parenti ebrei uccisi dai comunisti". Nel corso di uno show, il premio Oscar ha scoperto il tragico passato della sua famiglia ucraina, vittima della polizia sovietica e dei gulag, scrive Eleonora Barbieri, Sabato 12/03/2016, su "Il Giornale". «Questa è una storia terribile, non è una bella cosa da raccontare ai bambini...». Sarà anche per questo che Dustin Hoffman ha dovuto aspettare fino a 78 anni, per scoprire la verità sulla storia della sua famiglia. Su quel nonno e quei bisnonni di cui suo padre Harry non gli aveva mai parlato, sui quali aveva come eretto un muro. Dietro quel muro c'era la tragedia di un popolo e di un mondo, e anche di una famiglia intera e di un ragazzo in particolare: perché il nonno Frank e il bisnonno Sam Hoffman sono stati sterminati in Russia, anzi in Unione Sovietica, nei primi anni dopo la Rivoluzione; e la bisnonna, Libba, è stata imprigionata in un gulag per cinque anni, prima di riuscire a fuggire e arrivare sull'altra sponda dell'oceano, prima in Argentina e poi, finalmente, a Ellis Island. Era il 1930, Libba Hoffman aveva già 62 anni. I referti medici dicono: affetta da «demenza senile». La donna aveva perso il braccio sinistro, era quasi cieca. Era sopravvissuta a un campo di sterminio, di quelli che servivano a punire i nemici della Rivoluzione. Perché i signori Hoffman erano ebrei. Oggi Hoffman lo dice: «Sono ebreo... Sì, sono ebreo». Ha scoperto tutto grazie a una trasmissione televisiva della Pbs, Finding Your Roots, letteralmente «Scoprendo le tue radici». Ed è stato in diretta, l'altra sera, mentre il conduttore Henry Louis Gates Jr gli raccontava che cosa avevano scoperto sulla sua bisnonna coraggiosa e indistruttibile, che l'attore si è messo a piangere: «Loro sono sopravvissuti perché io fossi qui». La bisnonna Libba era, semplicemente, «un'eroina». Una donna che a 53 anni aveva visto sparire, nel giro di pochi mesi, il figlio e il marito. Era andata così: Frank Hoffman si era già trasferito in America, a Chicago, dall'Ucraina, il suo paese d'origine. Però poi gli erano arrivate le notizie di quei pogrom, quei massacri in cui finivano gli ebrei, ed era accaduto anche a Belaya Tserkov, la sua città. Perciò Frank Hoffman, che in America aveva una vita e anche un figlio (cioè il padre di Dustin Hoffman) era tornato a casa, per salvare i suoi genitori. Tempo di rimettere il piede in patria ed era sparito. Qualche mese dopo, lo stesso destino era toccato al padre Sam. Entrambi erano stati arrestati e poi uccisi dalla Ceka, la polizia segreta dei bolscevichi. Libba non si era data per vinta. Come racconta un trafiletto in un giornale russo del 1921, Libba aveva cercato di corrompere un agente della Ceka, probabilmente per sapere qualcosa del destino del marito e del figlio: e così era finita in una campo di concentramento. Anche se aveva già più di cinquant'anni, Libba era riuscita a sopravvivere. Il lavoro duro, le sofferenze, le condizioni di vita estreme non l'avevano piegata, nonostante tutto. Era fuggita in Argentina. E poi era arrivata in America, a Chicago, dove era morta nel 1944, a 76 anni. Di tutto questo, di questa storia di sacrifici e dolore e separazioni che è intrecciata a una storia molto più grande e altrettanto terribile, Dustin Hoffman non sapeva niente. «Mio padre era ateo» ha raccontato l'attore. Di ebraismo non si parlava, di religione non si parlava in casa sua. Non si parlava, soprattutto, della famiglia paterna, con la quale «non c'erano rapporti» (i suoi si erano trasferiti a Los Angeles). Oggi lui prova a capire. Quelle lacrime che significano? Commozione, certo. «Orgoglio», come ha detto lui, per una donna, la sua bisnonna, che ha dato la vita e anche di più per essere libera, e non si è lasciata piegare dall'orrore, dalla dittatura, dalla perdita dei suoi amori. Anche affetto per il padre, quello che aveva eretto un muro di dimenticanza: «Forse era semplicemente che non voleva fare sapere ai bambini, alla famiglia, perché è tutto così atroce. Magari mio padre, chi lo sa, ha pianto, si è aggrappato alle gambe di suo padre, gli ha gridato: Ti prego, papà, non andare... Povero papà». Oggi, dice Hoffman, «a chi mi chiede: chi sei?, rispondo: sono un ebreo». Certe parole vanno esibite, «portate sulla manica». Bisogna «fare un annuncio», scoprirle, come certe verità di famiglia, anche se non sono delle belle favole da raccontare ai bambini.

"Questa è la democrazia dei rossi, non ci fate ridere ma pena". A scriverlo su Twitter l’1 marzo 2016 è Matteo Salvini dopo la contestazione a Bologna da parte dei soliti "rossi" che hanno appeso il manichino che lo ritrae con tanto di maglietta verde padano a testa all'ingiù come Mussolini.

Si dice che i comunisti una volta mangiassero i bambini…ora li comprano!

“E’ stato un bel regalo all’Italia avere impedito che due persone dello stesso sesso, cui lo impedisce la natura, avessero la possibilità di avere un figlio. Abbiamo impedito una rivoluzione contronatura e antropologica”. Angelino Alfano, parlando delle unioni civili a margine del consiglio Ue Interni a Bruxelles il 23 febbraio 2016, esulta così all’indomani della vittoria sul braccio di ferro all’interno della maggioranza che ha portato alla riscrittura del ddl Cirinnà, sul quale il governo ha posto il voto di fiducia. “Sulle unioni civili ha vinto il buonsenso – ha proseguito il ministro dell’Interno – Abbiamo bloccato ciò che non è permesso in natura”. 

Invece...Nasce il figlio di Vendola, Salvini sbotta: "Disgustoso", scrive “Libero Quotidiano” il 28 febbraio 2016. Dopo lo scoop di Libero sulla nascita di Tobia Antonio, figlio di Nichi Vendola e del suo compagno Eddy Testa grazie a una madre surrogata, scoppia il caso politico. Il primo a commentare è il leader della Lega Matteo Salvini, che su Twitter scrive: "Vendola e compagno sono diventati papà, affittando utero di una donna californiana. Questo per me non è futuro, questo è disgustoso egoismo". Sulla stessa lunghezza d'onda il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri: "Questa è la sinistra italiana. A parole sono contro l'utero in affitto. Ma poi usano questo turpe metodo per inventarsi genitori dei figli di altri". La sinistra stessa si spacca: Adriano Zaccagnini, di Sinistra italiana: "Congratulazioni a Vendola e Testa, ma non condivido la tecnica della maternità surrogata, soprattutto se fatta dietro pagamento di denaro". "In questo mondo ci sono tanti bambini senza genitori da aiutare, sostenere o adottare. Non abbiamo bisogno di dare legittimità ad una pratica del genere". A tutti risponde lo stesso Vendola: "Non c'è volgarità degli squadristi della politica che possa turbare la grande felicità che la nascita di un bimbo provoca", assicura. "Condivido con il mio compagno una scelta e un percorso che sono lontani anni luce dalla espressione utero in affitto": "Questo bambino è figlio di una bellissima storia d'amore, la donna che lo ha portato in grembo e la sua famiglia sono parte della nostra vita".

Vendola diventa papà, Salvini: "Questo è disgustoso egoismo". Il figlio avuto da Vendola con l'utero in affitto scatena una polemica accesissima. Il mercato dei figli è già realtà. Piovono accuse contro l'ex governatore: "È sfruttamento proletario". Critiche anche da sinistra, scrive Sergio Rame, Domenica 28/02/2016, su "Il Giornale". Al piccolo è stato dato il nome di Tobia Antonio. La notizia è stata confermata da persone vicine all'ex presidente della Regione Puglia e ha scatenato una pioggia infinita di critiche. "Questo per me non è futuro - tuona Matteo Salvini - questo è disgustoso egoismo". Al leader del Carroccio l'ex governatore della Regione Puglia ha replicato duramente assicurando che non si farà "turbare la grande felicità che la nascita di un bimbo provoca" da "insulti squadristi". Chi condanna, chi esulta e chi ci scherza su ("Ma Tobia che nome è?"). La notizia della paternità di Vendola sta dividendo il web. Testa, che è il padre biologico del bimbo, è canadese e in quel Paese è possibile avere figli con la tecnica dell'utero in affitto. Grande gioia, si è saputo, è stata manifestata dai diretti interessati e da famigliari e amici della coppia. La notizia della nascita del bimbo era stata anticipata oggi da alcuni quotidiani e da tempo si era a conoscenza che Vendola e Testa avevano compiuto tutti i passaggi, anche burocratici, per avere un figlio. Tanto che c'è chi, come il deputato Gian Luigi Gigli, parla di "sfruttamento proletario". Per Salvini, invece, "affittare l'utero" è uno "schifoso egoismo". Eugenia Roccella, parlamentare di Idea, riconosce amaramente che "il mercato dei figli è già realtà". Anche tra le fila della Sinistra italiana c'è chi storce il naso. Adriano Zaccagnini invita a "non dare legittimità" all'utero in affitto. "È una transazione come altre - tuona - e il figlio un oggetto di un desiderio di chi se lo può permettere". Vendola non ha apprezzato le critiche e dal Canada ha replica duramente. "Non c'è volgarità degli squadristi della politica che possa turbare la grande felicità che la nascita di un bimbo provoca", ha replicato sottolineando di aver condiviso con il suo compagno "una scelta e un percorso che sono lontani anni luce dalla espressione 'utero in affitto'". Dagli studi di Fuori Onda su La7, però, Salvini è tornato ad attaccare l'ex governatore. Pur facendo gli auguri al piccolo appena nato, il leader della Lega Nord ha ribadito che la scelta presa da Vendola e Testa è "un'aberrazione" dal momento che si tratta di "un atto di egoismo di due adulti". "Al centro commerciale - ha quindi concluso - si comprano i dvd, le lavastoviglie, ma non i bambini". Durissima anche la replica di Maurizio Gasparri che fa notare a Vendola che "squadrista è chi strappa figlio a madre". Su Twitter l'hastag #Vendola è di tendenza da ore. E i commenti sono i più disparati. C'è chi scrive: "Ciao, sono Vendola, volevo un regalo e ho comprato un bambino". E chi aggiunge: “Ma una volta i comunisti non li mangiavano bambini? Ora li comprano". E ancora: "Ma ci rendiamo conto? Generare con i soldi un bambino da una sconosciuta solo per dire sono papà. Egoismo assoluto". Ci sono anche tanti che fanno gli auguri all'ex governatore: "Tanti auguri ai neo genitori ed al piccolo". "Moralisti da social smettetela- fa eco un altro - Nichi sarà un padre dolcissimo". E ancora: "Le bestialità che scrivete su Vendola mi fanno capire perché questo Paese è in rovina, basta!". Infine, non mancano gli ironici. Come chi, prendendo di mira l'eloquio vendoliano, scrive: "L'unico problema per il figlio di Vendola è che la ninna nanna durerà tre ore". E infine chi proprio non si fa una ragione per il nome scelto: "Nessuno ha inquadrato il vero problema della questione: ma perchè lo ha chiamato Tobiaaaa?".

Vendola, la nascita di Tobia è un caso politico, scrive il 29 febbraio 2016 “Avvenire”. ​Nichi Vendola e il suo compagno Eddy Testa hanno avuto un bambino tramite la pratica della maternità surrogata. Sabato pomeriggio in una clinica in California, dopo una gestazione portata avanti da una madre in affitto, è nato il piccolo Tobia Antonio. All'indomani del voto sulle unioni civili che ha però escluso le adozioni del figlio del compagno nel caso di coppie gay, saranno i giudici italiani a dover decidere sul riconoscimento della paternità di Vendola (il padre biologico del bimbo è il compagno Eddy). La nascita del piccolo è stata in queste ore al centro di un duro scontro politico e ha riacceso la polemica sulle conseguenze che l'introduzione della stepchild adopotion (stralciata dal ddl sulle unioni civili ma in agguato nel ddl sulla riforma delle adozioni che dovrebbe venire discusso nei prossimi mesi) potrebbe portare. Vale a dire il ricorso alla maternità surrogata in maniera sempre più consistente da parte delle coppie omosessuali. "Il figlio del compagno di Vendola, nato grazie a un contratto di utero in affitto, per cui la madre ha dovuto abbandonare il suo bambino appena nato, potrà essere rapidamente riconosciuto in Italia dal leader di Sel grazie alla nuova legge sulle unioni civili", afferma Eugenia Roccella, parlamentare di Idea. "Se la coppia ricorrerà alla nuova legge, infatti, - spiega - il tribunale consentirà l'adozione a Nichi Vendola senza problemi e senza neppure aspettare la nuova legge sulle adozioni. È chiaro a tutti così - conclude - che la stepchild adoption è già una realtà, e che lo scopo della legge è la legittimazione dell'utero in affitto e della nuova filiazione di mercato". La deputata di Area Popolare Paola Binetti mette in guardia il Pd: "non voteremo una legge sulle adozioni che comprenda la stepchild". "Sappiamo dalla cronaca che un bambino può costare 120mila euro; l'onorevole Rossi ci ha detto che il suo è costato quasi 100mila euro, pensiamo che questa cosa sia una forma di schiavismo", ha detto ancora Binetti. Di "sfruttamento proletario dello stato di bisogno economico di due donne, quella che ha donato gli ovuli e quella che ha affittato l'utero", parla il deputato Gian Luigi Gigli di Democrazia solidale. "La sinistra da paladina dei diritti umani si è trasformata in promotrice di desideri individuali". Di "nuovo modello antropologico" e di "donne ridotte a schiave" parla anche Alessandro Pagano, coordinatore del Comitato Parlamentari per la famiglia chiedendosi come mai le femministe e il presidente Boldrini non hanno nulla da dire. Rocco Buttiglione, vicepresidente dei deputati di Ap, mette l'accento sul dolore di quella donna di cui nessuno parla. "Una mamma senza il suo bambino" che lo ha sentito scalciare e crescere per nove mesi sapendo già che però non sarebbe stato suo visto che "era stato venduto già prima del concepimento". Dal Pd arriva la voce fuori dal coro di Beppe Fioroni che invita il suo partito a non insistere sulle adozioni per le coppie gay concentrandosi invece sui problemi reali del Paese come le tasse e il lavoro. "Il figlio di Vendola? È nato un bambino orfano di madre". Non usa mezzi termini Massimo Gandolfini, portavoce del comitato 'Difendiamo i nostri figli e tra gli organizzatori del Family Day al Circo Massimo. La vicenda del figlio di Nichi Vendola "ci lascia attoniti". Marco Griffini, presidente dell'Aibi, (Amici dei Bambini), esprime un giudizio "totalmente negativo", sottolineando che "l'utero in affitto è una forma di schiavitù nella forma più aberrante". "Dovrebbero restituire il bambino alla mamma, così che possa crescerlo. Mi meraviglio -aggiunge - che una persona che ha fatto della politica una scelta di vita possa fare una cosa simile. Come movimento di famiglie adottive - sottolinea - siamo attoniti". Si congratula per la nascita di un bambino ma resta perplessa sull'utero in affitto Laura Boldrini, presidente della Camera, che da Londra confessa di aver difficoltà ad accettare questa pratica, soprattutto "quando queste maternità avvengono in Paesi in via di sviluppo, quando ragazze povere si prestano". Resta da vedere ora quale sarà il destino del piccolo Tobia Antonio: dovrebbe risultare cittadino canadese, Paese di origine del padre biologico, e di una madre che non desidera essere identificata. Vendola potrebbe adottarlo in Canada e allora potrebbe chiedere in Italia il riconoscimento dell'atto canadese. Oppure potrebbe presentare richiesta di adozione in Italia, che andrebbe di fronte ai giudici sotto la fattispecie di adozione in casi speciali.

Caso Vendola: altro che «diritti», siamo al mercato dell'umano, scrive Marco Tarquinio l'1 marzo 2016 su “Avvenire”. "E venne un tempo…Venne infine un tempo in cui tutto ciò che gli uomini avevano considerato come inalienabile divenne oggetto di scambio, di traffico, e poteva essere alienato; il tempo in cui quelle stesse cose che fino allora erano state comunicate ma mai barattate, donate ma mai vendute, acquisite ma mai acquistate – virtú, amore, opinione, scienza, coscienza, ecc. – tutto divenne commercio. È il tempo della corruzione generale, della venalità universale, o, per parlare in termini di economia politica, il tempo in cui ogni realtà, morale e fisica, divenuta valore venale, viene portata al mercato per essere apprezzata al suo giusto valore". Karl Marx, Miseria della Filosofia.

"​Gentile direttore, Nichi Vendola, fondatore di Sel, fautore assoluto del ddl Cirinnà sin dalle primissime versioni, ha “avuto” ieri un bambino. Da un ovulo di donna californiana, impiantato in una donna di origine indonesiana, con un seme del suo compagno italo-canadese, il tutto a pagamento, negli Usa. L’avevamo sentito dire: «Ogni volta che leggo di un neonato abbandonato in un cassonetto dell’immondizia, vorrei correre a prendermi cura di quella creatura». Ma è la stessa menzogna evocata (in ordine alfabetico) da Boschi, Cirinnà e Renzi: i bambini orfani non li “prendono in cura” (anche perché ci sarebbero già tante coppie uomo-donna in lista d’attesa), li producono. Sfruttando le donne. Ecco che cosa fanno quelli come Vendola e il senatore del Pd Sergio Lo Giudice. La legge Cirinnà, tra le altre cose, è una legge ad personam per miliardari e comunque per ricchi e potenti". Filippo Sassudelli - Trento.

"Caro direttore, Tg1 Rai di domenica 28 febbraio, ore 13.30. Il conduttore annuncia, testuale: «Paternità per Niki Vendola. In California è nato il figlio biologico del compagno Eddi». A seguire, servizio sulla riforma della legge sulle adozioni, estese a tutti con intervento compiaciuto di Debora Serracchiani alla scuola di formazione del Pd. Quasi tutti i quotidiani on line e i vari siti titolano e riferiscono in termini simili. Per riassumere: utero di donna di origini indonesiane più ovulo di donna californiana (madre biologica) più apporto di uno dei maschi. Se la madre è un «concetto antropologico» – ce lo insegna la coppia costituita dal senatore Lo Giudice (Pd) e compagno – lo è anche il padre… Ma da un paio di anni – “Avvenire” ne ha dato puntualmente conto – circolano le indicazioni Unar anche per i giornalisti, sui termini di genere da usare e da evitare. Le “veline” del ventennio fascista forse erano meno ridicole. Ebbene, in tre giorni: prima il Senato che approva le Unioni civili senza più stepchild adoption (adozione del figliastro), poi l’annuncio di Monica Cirinnà e colleghi di una prossima riforma ad hoc della legge sulle adozioni che apra alle persone omosessuali, poi la notizia su Vendola “padre”. È la «dittatura del pensiero unico», con la complice adesione di molti giornalisti. Papa Francesco ne ha parlato spesso, ed ecco ci siamo. Rimangono pochi uomini politici, pochi mezzi di informazione, ma moltissimi cittadini comuni (inclusi quelli del Family Day) che non tacciono e non si piegano. Il premier Renzi vuole «andare nelle parrocchie» a spiegare le unioni civili. Clericalismo a parte – può incontrare cittadini cattolici in tanti altri luoghi –, venga a spiegarci anche questo, gliene chiederemo volentieri ragione. Nel seggio elettorale, per le amministrative e per il referendum confermativo, decideremo noi". Gianluca Segre - Torino.

Il fatto di cronaca al centro di queste due lettere (e di altre che stanno piovendo in redazione) è già oggetto oggi degli ampi e approfonditi commenti che ho affidato a Marina Corradi e a Francesco Ognibene e questo mi consente di limitarmi, qui, a un paio di sottolineature in risposta ad altrettante specifiche questioni poste dai lettori. La prima annotazione riguarda la natura di «legge per ricchi e potenti» della normativa sulle unioni civili approvata in prima lettura al Senato nonché – arguisco – di altri progetti che, secondo le dichiarazioni di Monica Cirinnà, dovrebbero portare alla cosiddetta “adozione gay”. Se, come intendo, il principale motivo di questa affermazione del lettore Sassudelli è legato al ricorso all’utero in affitto da parte di chi richiede l’adozione del figlio del compagno in un’unione gay, direi che si tratta di una mezza verità. La verità tutta intera è che non tutte le persone omosessuali sono ricche e potenti, ma tutte le madri surrogate “acquistate” da coppie eterosessuali od omosessuali sono povere e senza potere. La seconda sottolineatura è per il linguaggio “politicamente corretto” usato in particolar modo dai notiziari del servizio pubblico radiotelevisivo. Un fenomeno impressionante di camuffamento della dura realtà della cosificazione di una madre senza nome, senza volto e ridotta a pura esecutrice di un contratto padronale. Siglato da un politico di sinistra che ha contribuito a “comprare” gli ovociti di una donna e il corpo di una madre per far “fare” un figlio biologico del proprio compagno e intestarsene a sua volta la paternità legale (all’estero) e politica (in Italia) in violazione di una legge anti–schiavista del proprio Paese. Stavo per ricorrere a un’immagine di papa Francesco o di Benedetto XVI, ma poi ho pensato che a Nichi Vendola era meglio dedicare una citazione di Karl Marx, quella che pubblichiamo qui accanto. Il triste mercato dell’umano cresce, e ha ingressi di destra e di sinistra. Si smetta di chiamarli «diritti».

Per soddisfare un suo desiderio il paladino dei poveri e degli oppressi è andato all'estero come un facoltoso signore, ha reso orfano della madre un bambino e ha eluso la Costituzione e le leggi della Repubblica. Ma non era un uomo di sinistra?": se lo chiede Famiglia Cristiana, parlando del caso del figlio di Nichi Vendola in apertura del sito in un commento di Francesco Anfossi.

Sulla nascita del figlio di Nichi Vendola, dice la sua Vittorio Sgarbi, e lo fa con un post, pubblicato da “Libero Quotidiano” l’1 marzo 2016, di rara violenza su Facebook, nel quale, tra le altre, spiega che "dal culo non esce niente". Di seguito, il post di Sgarbi: “Non può essere, quello appena nato, il figlio di Vendola. Dal culo non esce niente. Vendola ha un marito ed è contemporaneamente padre. Due persone dello stesso sesso non generano. Ma di cosa stiamo parlando? I bambini devono essere concepiti, educati e evoluti sulla base di ciò che la natura consente. Di bambini bisognosi è pieno il mondo, e si possono aiutare in tanti modi. Quel bambino è una persona che si sono costruiti a tavolino, come un peluche. E' insopportabile”.

Qualche ora prima, sulla pagina Facebook del critico era apparso un altro post, che sintetizzava così il pensiero di Sgarbi: “I neonati si attaccano alle tette, non ai coglioni”.

Utero in affitto, Beppe Grillo: perché mi spaventa l’idea di un sentimento low cost. L’intervento del leader dei Cinque Stelle: «Nulla a che fare con l’omosessualità o l’eterosessualità, ma è la logica del “lo facciamo perché è possibile”». La lettera di Beppe Grillo dell’1 Marzo 2016 su “Il Corriere della Sera”. “Le questioni etiche nel periodo del low cost possono assumere degli aspetti paradossali, al limite del ridicolo... scusate: del tragico. Il fenomeno del low cost avvicina molti esseri umani a stati transitori di benessere immaginario quando, nella migliore delle ipotesi, quelle stesse persone stanno facendo da tristi tappabuchi, nelle sempre più disperse, e tante, basse stagioni di ogni cosa: il prezzo dell’albergo di lusso, quello di una vacanza romantica, quello della felicità, e quello dei diritti rende le idee delle persone sempre più confuse! Ed è curioso come il prezzo delle creature viventi possa diventare così basso, e trattabile, proprio quando è altissimo il pericolo di sconvolgimenti irreparabili dello stato sociale e morale di un popolo. Proprio le creature viventi, e tutto ciò che le garantisce in vita, mi sembra non abbiano più un valore percepito. Peggio vanno le cose e più sono le nullità che scorrono sugli schermi utilizzando le parole amore, felicità, dignità umana...come se anche queste stessero subendo una sorta di inflazione. Mentre confondiamo l’economia con la finanza ancora peggio ci comportiamo, anche nel nostro intimo, quando confondiamo quelli che adesso mi permetto di chiamare diritti intimi! Come la paternità, la maternità e l’amore. Sento utilizzare la parola amore in modo talmente pressappochista da provare un dolore, intenso, che nessuna forma di ironia può risolvere. È veramente possibile che si blateri di amore e diritti intimi pensando a Vendola proprio mentre stiamo dimenticando chi ha messo al mondo noi? Mi riferisco a quelli che chiamiamo anziani, quelli che stiamo dichiarando inutili senza neppure più arrossire! E allora: chi sono io per dire alle persone di rinunciare a delle opportunità che appaiono stupefacenti? E se è così: chi sarei io per rivendicare, al semplice scopo di salvarli, i diritti della persona a cominciare dalla sua dignità, per finire con il fatto che si tratta di una certa persona, di una tal coppia oppure di un operaio, di un poliziotto, un pensionato, un bambino in Siria dove ti uccidono i videogiochi dal cielo, insieme a tutti gli individui che compongono il tessuto interstiziale della società. Forse uccidere a distanza degli esseri umani provoca una gioia che io non ho alcun diritto di criticare. Se tutto è possibile, uccidere giocando è diventata una realtà prima che nasca la perversione giusta per gioirne. Quanto è lontano Nichi Vendola da quello che sta succedendo nel mondo reale per permettersi di comportarsi con una majorette che rotea strane mazze colorate guidando un corteo di pareri in svendita. C’è qualcosa del concetto di utero in affitto che mi spaventa. E non ha nulla a che fare con l’omosessualità oppure l’eterosessualità; mi spaventa la logica del «lo facciamo perché è possibile»: un po’ com’è diventato facile attaccare tutto alla bolletta della luce. Così, mi perdo in questi nuovi moti di provare dolore e manifestare gioia, spaventato dalla facilità con cui li modifichiamo. Terrorizzato dal contesto di assoluta disinformazione da cui sentiamo provenire quelle parole. Incredulo e confuso: nessuno vorrà spiegare perché stiamo vivendo nel mondo del precotto low cost delle idee, dei riferimenti morali e della gioia. Scandalizzarsi perché qualcuno trova buffo Vendola ma non dice nulla — oppure dimentica apposta — quello che sta succedendo a chi si suicida per un debito mi spaventa. Insieme a quelle definizioni strane: utero in affitto, soldato, sacrificio, insostenibilità, abbandono... Tutti rinchiusi e allontanati dalla vista mentre si chiacchiera pensando soltanto se ci si è sbiancati a sufficienza i denti da mostrare nell’ennesimo talk show”.

Nichi, vai a vivere in California dove non ci sono squadristi…scrive Emanuele Ricucci su “Il Giornale” il 29 febbraio 2016. “Non c’è volgarità degli squadristi della politica che possa turbare la grande felicità che la nascita di un bimbo provoca. Condivido con il mio compagno una scelta e un percorso che sono lontani anni luce dall’espressione “utero in affitto”. Questo bambino è figlio di una bellissima storia d’amore, la donna che lo ha portato in grembo e la sua famiglia sono parte della nostra vita. Quelli che insultano e bestemmiano nei bassifondi della politica e dei social network mi ricordano quel verso che dice: “ognuno dal proprio cuor l’altro misura” (anche se capisco che citare Dante non faccia audience)”. Queste le parole con cui Nichi ha ringraziato il suo pubblico. L’oscar come miglior comunista d’Europa, miglior alchimista, come non esempio in un ruolo da non protagonista e più brutta mammo d’Italia goes to Nichi. Ragazzi l’Oscar l’ha vinto lui. Sì, Di Caprio e Morricone, d’accordo. Uno lo sfottevano, l’altro è vecchio. L’Oscar lo ha vinto Nichi. Punto. Pensate sia facile assemblarsi un figlio? Un pezzo qui, un pezzo lì; la gravidanza da seguire, i ruoli di cui tenere conto – soprattutto a vent’anni da oggi -, le ecografie, i selfie su whatsapp con il pigiamino azzurro in mano – ci siamo quasi! -, i dottori da sentire, le mani da incrociare davanti al caminetto, i bagagli da preparare, le telefonate da fare… Uff! Che stress! Quasi, quasi conveniva avere la patatina per farlo in natura un figlio…Già si sente in casa il piccolo Tobia chiamare i genitori: “Mamma Nichi? Papà 135.000?” Un Oscar non facile per un film impossibile. Nichi, che lo ha vinto anche per la peggior interpretazione di un madre. Riassumendo la situazione che ha portato al riconoscimento più ambito per Nichi Vendola. L’ex governatore della Regione Puglia è diventato mammo/a/e/i/o/u di un bambino del quale il vero padre (o padre naturale o padre genetico o santodioaiutacitu) è Eddy Testa, il quasi quarantenne fidanzato di Vendola, la madre vera (o madre naturale o..etc) è una californiana e l’utero in prestito è di un’indonesiana. Uno spaccio folle di ovuli e spermatozoi, un cast incredibile, inscenato da un signore in lotta per la dittatura del proletariato da anni, già PCI, poi Rifondazione, poi capopopolo di SEL, ora in continua evoluzione a pugno chiuso, che per fare il mammo ha speso più di 100.000 Euro.  Un immenso gettito di umanità per un Nichi che rideva al telefono sui tumori dell’ILVA. E noi, poi, saremmo squadristi perché obbrobriosamente schifati da figuri e situazioni del genere? Fà una cosa Nichi, pigliati a Eddy, al (povero) piccolo Tobia, alla foto di Stalin, Lenin, Mao Tse Tung, Carlo Marx, Cip & Ciop, all’indonesiana, alla California, e vai dove più ti aggrada, magari lontano dall’Italia squadrista, bigotta, cafona e cattolica. È facile fare il mammo col vitalizio degli italiani. Ciao Nichi, insegna agli angeli come si governa la Puglia. And the Oscar goes to…

L’outlet dei bambini, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale” il 29 febbraio 2016. Ho provato a farmi un giro nel supermercato dei feti e ne sono uscito inorridito. Da qualche giorno non si parla d’altro: Nichi Vendola e il suo compagno Eddy sono diventati papà. Grazie a un utero in affitto. E detta così sembra una cosa quasi normale. A qualcuno fa senso, ad altri schifo. Ma ormai questa locuzione “utero in affitto” la abbiamo sentita ripetere così tante volte dalla nostra stupida politica che ci pare normale. Sembra uno dei tanti temi su cui si accapigliano in Parlamento per dare un senso alla loro esistenza o alla loro rendita politica. “Utero in affitto”. Beh pure gli appartamenti si prendono in affitto, anche le automobili. I motorini, i quad, persino i libri e gli smoking. Insomma io sentivo parlare di questo utero in affitto ma non pensavo a cosa volesse effettivamente dire. Era un “sovrappensiero”, come nella vecchia canzone dei Bluvertigo. Poi ho letto un trafiletto sul “Corriere della Sera” nel quale veniva spiegata alla perfezione la dinamica di questa pratica: il costo per i futuri genitori, lo stipendio della proprietaria dell’utero e della donatrice degli ovuli, nel caso ce ne fosse bisogno. E ho letto il nome della più famosa clinica che pratica questo tipo di interventi: Growing Generations. Ho digitato il nome su Google e mi sono fatto un giro di un paio d’ore in questa fabbrica di bambini. Solo così ho capito cosa è l’utero in affitto. Solo sfogliando il catalogo delle “egg donors”, le donatrici di ovuli, mi sono trovato faccia a faccia con quello che non può non sembrare un mercato di esseri umani. Sulla home page del sito scintillano i denti di una famiglia sorridente. Tutti felicissimi e belli. Biondi, mori, lattei, olivastri, con gli occhi chiari o scuri. Tutti i fenotipi. La mercanzia è tutta in vetrina e il magazzino offre tutte le varietà in commercio. Poi si inizia la navigazione: ci sono i menù e le offerte per gli aspiranti genitori, per le aspiranti madri surrogate e per le donatrici di ovuli. Tutto chiaro e preciso, come nelle migliori brochure commerciali. D’altronde qui si paga e si paga pure bene: sborsa tanti soldi chi vuole un nano scintillante e ne riceve altrettanto chi lo ospita durante la gestazione e chi fornisce gli ovuli. Il figlio è un bene di lusso. C’è un calcolatore che in base alle assicurazioni sanitarie e i contratti che stipuli computa immediatamente il costo dell’operazione. Come nei car configurator dei siti delle case automobilistiche: cerchi in lega, sedili in pelle, navigatore. Ma la configurazione del nascituro è appena iniziata. Nella clinica del futuro si può scegliere tutto, basta iscriversi per iniziare lo shopping. Si parte con la scelta del donatore di ovuli: razza (afroamericano, caucasico, asiatico ecc), peso, altezza, colore dei capelli e degli occhi. Si selezionano tutti gli optional. Pura eugenetica. Il sogno di Mengele. Dopo aver smarcato tutte le voci preferite si avvia la ricerca. E, come in un macabro Facebook degli ovuli, compaiono le immagini dei profili delle donatrici. È il social network dei cromosomi. E le donatrici ci tengono a far sfoggio delle loro ottime credenziali genetiche: book fotografico con prole al seguito per dimostrare di avere buoni lombi, video di auto presentazione e curriculum. Più ovuli hanno già dato è più sono affidabili. E più vengono pagate. Una specie di usato sicuro, di certificazione di garanzia. E fa un po’ effetto immaginare il leader di Sel che si mette a selezionare la razza, questa parolaccia che quelli come lui volevano strappare dai dizionari. La stessa filosofia vale per le madri surrogate, cioè le donne che ospiteranno ovuli e partoriranno i bambini. La loro scelta è ancora più complessa, perché durante i mesi di gestazione dovrà interagire con i futuri genitori. Il catalogo è ampio e stilato con minuzia di particolari. Tutta l’operazione (con ovuli e madre surrogata, come nel caso dell’ex governatore, altrimenti si può anche portare un ovulo da impiantare) costa sui 145mila dollari ai futuri genitori. Un servizio per coppie abbienti. Ma non state a preoccuparvi, per chi non ha subito tutta la liquidità il sito ricorda in continuazione che si possono finanziare sino a 100mila dollari con un tasso di interesse del 5 per cento. Un affarone. Alla concessionaria dei figli tutto è possibile. Per ora non fanno leasing ma magari prima o poi fanno anche un buy back, non si sa mai che poi il pargolo rompa i coglioni e i genitori lo vogliano riportare in clinica. Alla madre surrogata, che viene seguita passo dopo passo e stipula un minuzioso contratto legale, vanno almeno 40mila dollari. Alla donatrice 8mila dollari per la prima donazione e dalla seconda in poi 10mila. Tutto calcolato. Tutto stipulato. Tutto perfetto. Tutto normato e tutto incredibilmente anormale. Un meccanismo di ingegneria genetica perfettamente rodato. Ecco, è sfogliando questo catalogo di umanità in vendita che si capisce veramente cosa sono l’utero in affitto e la maternità surrogata, queste locuzioni si staccano dalla strumentalità della politica e assumono la tridimensionalità di una pratica che può cambiare il mondo. Sono le meraviglie della scienza? Ma ne siamo davvero certi? Lasciamo perdere Nichi Vendola e il suo compagno, mettiamo da parte anche il fatto che queste cliniche siano utilizzate principalmente, ma non esclusivamente, da coppie omosessuali. Perché il problema non è quello, non solo quello almeno. Il problema è capire se è giusto costruirsi un figlio “sartoriale” selezionando pure il colore dei capelli e sfruttando – con la consapevolezza altrui, ovviamente – il corpo di un’altra donna. Per soddisfare le proprie voglie, perché si è omosessuali o magari per non portarsi dietro nove mesi di pancia, oppure per non perdere il lavoro a causa della maternità, è giusto far nascere un bimbo perfetto nel ventre di una donna costretta a venderlo per fare soldi? Non è una questione di religione o di fede – che io non ho – è una questione di umanità. Perché è evidente che questo è un mercato e che, in quanto tale, risponde solo alle regole del mercato. Che sono tra le migliori in circolazione. Ma per comprare le scarpe o il ferro, non i bambini. E le donne. Una volta i più poveri erano proletari, che non avevano nulla se non la prole. Ora che i figli sono un bene di lusso si chiameranno uteritari? Ovulitari? Forse stiamo giocando troppo agli apprendisti stregoni, ai piccoli chimici senza accorgerci che siamo solo grandi cinici.

Così Vendola apre la via socialista alla fabbrica di bimbi, scrive Nicola Porro su “Il Giornale” l’1 marzo 2016. Basta dare uno sguardo ai siti che organizzano l’utero in affitto per capire la dimensione politica del neosocialismo. I soggetti coinvolti sono tre. Il donatore di ovuli (egg donator, in inglese fa più impressione), la proprietaria dell’utero e i genitori surrogati. Tutti e tre hanno un prezzo. Nel mercato degli ovuli si va dagli 8mila ai 10mila euro. La donna che dovrà tenerlo in grembo dai 35mila ai 50mila dollari. Per i genitori il costo supera i centomila dollari. Il sito growing generations propone finanziamenti fino a 100mila dollari, con tassi al 5,99%, per una durata massima fino a sette anni. Immaginiamo che, per il momento, non si possano chiedere ipoteche sui bambini. In questo supermercato si concretizza l’orribile sogno di una sinistra che ci vuole tutti «innaturalmente» uguali. C’è qualcosa che (solo) apparentemente non funziona se, a livello ideale, l’uso di questo supermercato viene condiviso dal pensiero di sinistra-egalitario ed è invece bandito dalla destra-mercatista. Verrebbe infatti da pensare che si tratta di una deformazione del modello capitalistico. Libertari, alla Murray Rothbard, hanno sempre pensato e scritto che gli esseri umani possano disporre come meglio credono delle proprie proprietà, compreso il corpo. In questo caso però le parole chiave non sono quelle dei libertari, ma principi di uguaglianza. Anzi ne sono la loro sublimazione. In un mondo, ritenuto a torto sempre più diseguale, la frontiera da abbattere è quella del diritto alla maternità-paternità. Perché due uomini o due donne non possono essere uguali ad una coppia tradizionale? L’alta marea della lotta alle diseguaglianze dunque si alza. Per i liberali resta ancora la parità di opportunità. Il neosocialismo confuta e aggira il concetto. Con l’utilizzo della tecnica (l’utero in affitto) le opportunità si allargano a tutti. Per il momento, e questa è la drammatica contraddizione di oggi, la tecnica è appannaggio solo delle coppie omo ed eterosessuali più ricche. Ma una volta sdoganato il principio e cioè riconosciuto il diritto universale ad avere un figlio, come un tempo si lottò per il diritto allo studio o alla salute, per quale dannato motivo restringerlo al censo? I liberali di ieri e di oggi combattono contro la folle idea di redistribuire il reddito per azzerare le diseguaglianze, quelli di domani dovranno occuparsi di frenare la tecnica affinché non ci renda tutti uguali.

Le unioni INcivili fanno dei brutti scherzi, scrive Fabrizio Boschi su “Il Giornale” l’1 marzo 2016. Il ripugnante caso del figlio di Nichi Vendola e Eddy Testa (nella foto) ha scatenato una serie infinita di obbrobri sotto forma di immagini e affermazioni da parte di tutti. Del resto una legge che di per sé è già un abominio non poteva che generare una serie di altri mostri. A cominciare dalla sua promotrice, Monica Cirinnà, moglie del chiacchieratissimo ex senatore dal 2001 al 2008 Esterino Montino, indagato per le spese pazze del Pd in Regione Lazio nello scandalo Fiorito. Quando si candidò a sindaco di Fiumicino e dovette rinunciare, con molta riottosità, al suo stipendio da senatore, nel 2013 garantì una candidatura sicura a Palazzo Madama alla moglie animalista convinta del Pd. Un senatore in famiglia fa sempre comodo. Questa donna (nella foto mentre si sbellica dalle risate e ne ha un gran motivo), rimasta nell’ombra per tre anni, da sempre riconosciuta solo per essere la moglie di Esterino, è venuta alla ribalta per aver legato il suo nome al disegno di legge sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso. “Un mostro giuridico, ben lungi dal soddisfare le aspettative di gay e lesbiche”, lo definisce l’esperta di diritto di famiglia Daniela Missaglia. Un’entità giuridica informe che svuota dall’interno quelle poche regole che reggevano il diritto di famiglia fino ad oggi. Una bandiera (arcobaleno) sventolabile da una sola parte minoritaria delle coppie di fatto: quella omosessuale. Per gli etero resta pressappoco tutto come prima. L’unica schifezza che per fortuna è stata bloccata in extremis ovvero l’adozione nella forma della stepchild adoption da parte di una coppia gay, è una vittoria di Pirro perché a colpi di sentenze la giurisprudenza la introdurrà – come sta già facendo – anche senza un dettato normativo e al riguardo la stessa Cirinnà va già dicendo di avere pronto un ddl ad hoc, facendo rientrare dalla finestra ciò che non è entrato dalla porta principale. Poi se uno vuole ed economicamente può, fa come Vendola e si fa fare un figlio da una donna indonesiana in Canada, comprandoselo per 10mila dollari come un cesto di insalata al mercato. Il massimo disgusto che ha fatto rivoltare lo stomaco persino alla vendoliana Laura Boldrini. Qualcuno si chiede per caso questo Tobia Antonio come potrà mai crescere? Di sicuro non se lo chiede Denis Verdini (nella foto ride con Riccardo Mazzoni), al quale dei gay non importa assolutamente nulla, come ha avuto modo lui stesso di dire, ma ha a cuore solo l’unione civile con il suo figlio (politico) prediletto, Matteo Renzi: “Io e lui siamo uniti dalla fiorentinità. Siamo franchi, diretti, un po’ alla Monicelli”, ha detto da Vespa. Sì, sicuramente entrambi dei fuoriclasse della supercazzola. E poi c’è chi come Licia Ronzulli, in tutto questo caos primitivo, mette una toppa che è peggiore del buco. “Si vendono e si affittano gli oggetti. No all’utero in affitto. No alla compravendita dei bambini. No allo sfruttamento delle madri in affitto. No al traffico delle madri in affitto”, scrive l’ex eurodeputata sui social. Il tema è di quelli seri ed è impossibile da non sottoscrivere il convincimento della dirigente di Forza Italia. Sotto la frase però la Ronzulli, forse pensando di dare più forza al suo spot, pubblica una sua foto con reggiseno sportivo da pilates, con le spalline abbassate, i capelli scarruffati, un maglione grigio aperto, le mani sui fianchi, la pancia nuda e addominali ben in vista con su scritto a pennarello “Not for sale. Not for rent” (nella foto) invitando i suoi “seguaci” a fare lo stesso. Un messaggio giusto, ma secondo me comunicato male. Una battaglia contro la mercificazione del corpo, mercificando il proprio non inizia sotto i migliori auspici. La Ronzulli, con questa immagine, esprime certamente un concetto condivisibile, ma con una foto di cattivo gusto rischia di sortire l’effetto opposto. Guai poi ad esprimere un parere contrario su Facebook. Ci ho provato ma la Ronzulli, prima ha risposto stizzita che non ha tempo da perdere con certe conversazioni, e poi ha cancellato i tre commenti che hanno osato criticarla. Si salvano, quindi, solo “Brava Licia!”, oppure “Sei bellissima!” ai quali lei risponde con un cuoricino o un bacino. A questo punto mi associo anch’io, visto che oggi è la giornata mondiale dei complimenti. Così non rischio di essere censurato di nuovo. Di cosa sono capaci queste unioni INcivili.

Ed ancora sulla pretesa che ai comunisti tutto gli sia dovuto...

Gli Usa: l'ex Pci voleva rovinare Berlusconi e tutte le sue aziende. Nel maggio '94 l'ambasciatore avvisò la presidenza Clinton: "Il Pds è deciso a distruggere il nuovo premier". Pochi mesi dopo l'agguato dei pm di Milano, scrive Stefano Zurlo, Lunedì 29/02/2016, su "Il Giornale". La sinistra vuole distruggere Silvio Berlusconi. I postcomunisti non accettano la discesa in campo del Cavaliere e hanno deciso di toglierlo di mezzo. Come un abusivo. Le carte della diplomazia Usa, pubblicate oggi per la prima volta dal Giornale, sono un documento straordinario, un'anticipazione di quel che sarebbe puntualmente successo di lì a pochi mesi: l'uscita di scena del premier, azzoppato dall'avviso di garanzia del Pool Mani pulite. L'ambasciatore Usa Reginald «Reg» Bartholomew aveva capito tutto e aveva avvisato Washington e l'amministrazione Clinton. I documenti trovati a Washington al Dipartimento di Stato da Andrea Spiri, professore della Luiss, confermano la previsione dell'accerchiamento e poi dell'attacco letale. È il 4 maggio 1994 quando Bartholomew invia a Washington un documento profetico, chiamato «Profilo del primo ministro incaricato Silvio Berlusconi». Il 4 maggio il governo deve ancora insediarsi, il Cavaliere entrerà a Palazzo Chigi solo il 10 maggio, ma il film è già scritto: il countdown è partito, il Pds non tollera l'idea che la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto sia stata battuta quando pensava di avere campo libero sulle macerie della Prima Repubblica. A dicembre, ben prima delle elezioni, Bartholomew aveva già incontrato Berlusconi e il Cavaliere gli aveva spiegato che «il suo primo obiettivo, quando ha deciso di entrare in politica, era sconfiggere la sinistra». Il problema è che la sinistra, che verrà presa in contropiede dal clamoroso successo di Forza Italia, ha deciso di far fuori la nascente anomalia in grado di scompaginare i piani di D'Alema e Occhetto. Berlusconi l'ha raccontato subito all'ambasciatore che però ha messo insieme altri indizi e non si fa nessuna illusione su quello che avverrà: «Berlusconi ha riferito, e i contatti giornalistici giurano sia vero, che gli uomini del Pds (e D'Alema in particolare) hanno apertamente fatto sapere che se venissero eletti distruggerebbero economicamente Berlusconi. È stato riferito che D'Alema avrebbe detto (e non l'ha mai smentito) che il suo grande desiderio era quello di vedere Berlusconi elemosinare nel parco. È stato anche riferito che altri esponenti Pds avrebbero detto che lo stesso Berlusconi farebbe bene a lasciare l'Italia in caso di loro vittoria perché l'avrebbero distrutto». Storie note, fra voci e suggestioni, rimbalzate per molti anni nell'arena del bipolarismo italiano. Ma certo, in quel fatale maggio di 22 anni fa, Bartholomew, scomparso nel 2012 a 76 anni, mette in fila gli elementi e prefigura il copione che puntualmente si svolgerà nelle settimane successive: il 10 maggio, solo sei giorni dopo, il Cavaliere giura ma la macchina bellica, per niente gioiosa, è già in moto. I postcomunisti troveranno una sponda decisiva nell'azione della magistratura che il 21 novembre uccide di fatto il governo inviando al premier un invito a comparire per corruzione, recapitato direttamente in edicola dal Corriere della sera. Per di più nelle stesse ore in cui Berlusconi è impegnato in una conferenza internazionale contro la criminalità a Napoli. L'effetto è devastante e si somma alle manovre di Palazzo del presidente Oscar Luigi Scalfaro, lo stesso di cui altri report americani, pubblicati ieri in esclusiva dal Giornale, documentano l'ostilità totale verso il Cavaliere. Un intruso da sloggiare prima possibile, come ha svelato agli americani una fonte autorevolissima: l'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga. «Cossiga - scriverà Bartholomew il 20 dicembre, quando ormai Berlusconi è sull'orlo delle dimissioni - ha detto di ritenere che Scalfaro farebbe qualunque cosa pur di evitare un ritorno di Berlusconi al governo». Ma il 4 maggio 1994 la breve avventura del Cavaliere deve ancora cominciare. Eppure, con alcuni distinguo e con la necessaria prudenza, l'amministrazione democratica sembra accogliere senza diffidenza l'uomo cresciuto lontano dal Palazzo: «Berlusconi è un uomo che si assume dei rischi... che si è mosso in maniera rapida per colmare il vuoto politico provocato da Tangentopoli». Del resto con straordinaria preveggenza in un altro report, datato addirittura 15 ottobre '92, l'ambasciatore Peter Secchia, a Roma prima di Bartholomew, già aveva battezzato il Cavaliere «come nuovo leader politico», con la benedizione del declinante Craxi. E aveva evidenziato la sua partecipazione a una cena organizzata dal segretario del Pli Renato Altissimo per creare un soggetto politico in grado di raccogliere l'eredità del pentapartito. «Il governo Berlusconi sembra cadere - scrive a dicembre Bartholomew - E poi? Se cade - nota con un affilato giudizio controcorrente - questo potrebbe rafforzare l'impressione che l'Italia stia scivolando indietro».

Da Scalfaro a Napolitano: le trame anti Cav del Colle nei rapporti segreti Usa. Ecco le carte choc della diplomazia americana che dimostrano il pressing del Quirinale dietro le cadute dei governi Berlusconi nel 1994 e nel 2011, scrive Stefano Zurlo, Domenica 28/02/2016, su "Il Giornale". Strategie e complotti. Washington e Silvio Berlusconi. Amministrazioni diverse, repubblicana e poi soprattutto democratica, ma grande attenzione ai volteggi del Cavaliere, alle convulsioni della politica italiana dominata da Berlusconi alle cospirazioni di Palazzo. Un monitoraggio fittissimo e a tratti invasivo lungo un ventennio. Alcune carte inedite, oggi pubblicate per la prima volta dal Giornale, documentano rapporti consolidati e preferenziali con alcune personalità, dubbi e oscillazioni dei presidenti a stelle e strisce e dei loro staff. Una mole di carte che Andrea Spiri, professore a contratto alla Luiss, ha scovato al Dipartimento di Stato di Washington, dopo la progressiva desecretazione dei file fra l'ottobre 2012 e il dicembre 2015. Gli americani mostrano di avere antenne molto sensibili nel nostro Paese e individuano subito, addirittura nell'ottobre '92, in piena tempesta Mani pulite, Silvio Berlusconi come possibile leader di un nuovo partito. Siamo molto prima della discesa in campo, a Washington sono gli ultimi mesi della presidenza di Bush padre, ma i riflettori si accendono subito su un futuro che ancora nessuno conosce. L'ambasciatore Peter Secchia invia un documento classificato come confidential: Le incertezze italiane. La soluzione è un nuovo partito politico? L'ambasciatore ha fatto indagini che riassume con concisione e pragmatismo: «Il segretario del Pli Altissimo ha organizzato una cena di lavoro segreta il 12 ottobre per proporre la formazione di un nuovo partito... La cena si è tenuta il 13 ottobre presso il Grand Hotel. Da quanto viene riferito il gruppo, di cui faceva parte il magnate dei media Berlusconi, così come Francesco Cossiga, ha deciso di chiedere allo stesso Cossiga di formare un nuovo partito... La partecipazione di Berlusconi è di speciale significato, per via della vicinanza di Craxi. La sua apparizione come un nuovo leader politico potrebbe avere la benedizione dello stesso Craxi. Comunque è anche la riprova che la potenza di Craxi, duramente colpito dagli scandali, continua a declinare». In ogni caso, «gli italiani - spiega - sono confusi e cercano il cambiamento». Una discontinuità che porterà a Palazzo Chigi nel '94 proprio Berlusconi. Due anni più tardi, a fine '94, il nuovo ambasciatore Reginald Bartholomew scrive a Washington e descrive con una certa preoccupazione l'agonia del primo esecutivo Berlusconi, minato dall'avviso di garanzia e dalla manovre del presidente Oscar Luigi Scalfaro. «Il governo Berlusconi - nota l'ambasciatore - sembra cadere. E poi? Se cade, questo potrebbe rafforzare l'impressione che l'Italia stia scivolando indietro verso la politica screditata che ha visto succedersi dalla fine della Seconda guerra mondiale 52 governi. Potrebbe inoltre consolidare la percezione che la politica operi essenzialmente in maniera indipendente e lontana dalla gente». Bartholomew, insomma, ha più di un dubbio sull'operazione in corso a Roma per sloggiare il Cavaliere. Ma non c'è niente da fare. Il 20 dicembre, due giorni prima delle dimissioni, Bartholomew invia una nota a Washington in cui spiega senza tanti giri di parole che il presidente Scalfaro l'ha giurata a Berlusconi e vuole cacciarlo da Palazzo Chigi. A svelargli gli intrighi è stato un testimone eccellente come Francesco Cossiga. «Cossiga - scrive l'ambasciatore rivolgendosi alo staff di Bill Clinton - ha sottolineato che uno dei fattori che stanno incidendo sulla crisi è la rottura irrecuperabile fra Scalfaro e Berlusconi. Cossiga ha riferito che Scalfaro si sentiva profondamente offeso dalle recenti batoste pubbliche ricevute dai berlusconiani, in particolare dal portavoce del governo Ferrara. Cossiga ha detto di ritenere che Scalfaro farebbe qualunque cosa pur di evitare un ritorno di Berlusconi al governo». Il destino è segnato. Di crisi in crisi si arriva fino all'attualità. E all'ultimo giro di valzer del Cavaliere a Palazzo Chigi. A novembre 2011, con lo spread impazzito e la coppia Merkel-Sarkozy che lo guarda con sorrisetti di scherno, Berlusconi getta la spugna. Il 12 novembre il sottosegretario alla crescita economica Robert Hormats invia una mail a Jacob Sullivan, capo dello staff del segretario di Stato Hillary Clinton. Hormats riprende il report spedito il 9 novembre dall'ambasciatore David Thorne: «Continuano i battibecchi politici, ma la direzione generale è fissata». Segue un misterioso omissis. Quindi Thorne riprende: «Sono anche intervenuti la Merkel e Sarkozy. Lo spread è sotto il picco, ma ancora molto alto. L'Italia sa quello che deve fare. David». «Spero - riprende un per niente galvanizzato Hormats - che Thorne abbia ragione, che l'Italia sappia quello che deve fare. Dovremmo vedere se Monti può farcela con gli insofferenti e se può portare dalla sua parte l'opinione pubblica. Egli è molto brillante, ma le sue capacità politiche e motivazionali andranno verificate». E infatti Monti si rivelerà un disastro.Intanto, Giorgio Napolitano, presunto regista del complotto anti Cav del 2011, annuncia che non risponderà alle domande su quel che successe in quelle settimane. Quel che è accaduto nel 2011 - confida all'Huffington Post - possono ricavarsi da molteplici miei interventi pubblici. Non ritengo ritornarci attraverso mie memorie che al pari dei miei predecessori non scriverò».

Quando De Benedetti voleva creare Forza Italia. Nel '91 l'Ingegnere preparava un partito, ma il Cavaliere gli guastò i piani, scrive Stefano Zurlo, Mercoledì 16/12/2015, su "Il Giornale". La «rivoluzione senza sangue». Fuor di metafora, un nuovo partito pronto a prendere il potere. Nella primavera del '91, dopo il crollo del Muro ma prima dell'incipit di Mani pulite, Carlo De Benedetti e Cesare Romiti, con la probabile benedizione dell'avvocato Agnelli, tramavano per rifondare lo scricchiolante edificio della politica italiana. E per consegnare alle teste d'uovo della vecchia sinistra azionista le chiavi di Palazzo Chigi. Dove si sarebbe insediato Carlo Azeglio Ciampi con la benedizione di schegge importanti del vecchio Pci e della sinistra democristiana. Non era una fiction ma un progetto avanzato che De Benedetti spiegò senza tanti giri di parole a Paolo Cirino Pomicino in quei mesi preinsurrezionali. E che l'ex ministro democristiano lascia balenare in un passaggio del suo ultimo libro, La repubblica delle giovani marmotte (Utet): «Gli ideologi del nuovo pensiero politico, De Benedetti e Romiti in prima linea, furono cosi umiliati nell'anno del Signore 1994, dalla vittoria di un dilettante - più-dilettante di quelli che avevano promosso la rivoluzione senza sangue, della quale De Benedetti mi aveva anticipato il disegno nella primavera del '91».Sì, è il paradosso che l'Italia visse in quegli anni: De Benedetti & soci avevano inventato una sorta di Forza Italia, naturalmente modellata sulle esigenze della sinistra giacobina e giustizialista, ma la creatura ancora in fasce fu uccisa dall'irruzione di Berlusconi e della sua Forza Italia che nel '94 sconfisse la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto. Dietro Occhetto c'erano De Benedetti e la borghesia dei salotti buoni, con forti agganci nella sinistra Dc e nel nascente Pds. Commenta oggi Cirino Pomicino: «Nella primavera del '91 mi incontrai con De Benedetti che mi disse: Stiamo creando un nuovo partito, vuoi fare il mio ministro? Io la presi sul ridere: Mi hai preceduto, sto lavorando a un nuovo soggetto imprenditoriale, vuoi fare il mio imprenditore? Pensavo sarebbe finita lì e invece venti-trenta giorni dopo ottenni altre informazioni e mi resi conto che il disegno era assai dettagliato». L'idea era quella di dare la leadership del Paese ai tecnici, espressione di quella borghesia. E di utilizzare il vecchio corpo del Partito comunista per dare spessore al progetto e garantirgli i numeri o se si preferisce, le truppe di sfondamento. Insomma, si puntava a mettere insieme democristiani e postcomunisti, impresa oggi realizzata nel Pd, ma la stanza dei bottoni sarebbe stata affidata ai tecnici, ai tecnocrati, agli eredi dell'azionismo. «Ma - prosegue Cirino Pomicino - molti fra gli autorevoli imprenditori responsabili dell'originario disegno per far saltare in aria il sistema dei partiti furono azzannati dalla bestia che avevano aizzato». Mani pulite entrò anche in quei salotti vellutati, lo stesso De Benedetti fu arrestato anche se per poche ore dai magistrati di Roma, il vuoto fu infine riempito con sorprendente tempismo dal più dilettante dei dilettanti, quel Silvio Berlusconi che alla fine sbaragliò la sinistra e bloccò il partito delle élite. La guerra fra l'Ingegnere e il Cavaliere sarebbe invece andata avanti fino ai nostri giorni. 

La lobby degli opinionisti: una falange armata del Pd. La conferma in uno studio: la maggioranza degli esperti di politica è riconducibile al partito. Il centrodestra scompare dai talk show. Uno sbilanciamento tutto italiano, scrive Paolo Bracalini, Mercoledì 24/02/2016, su "Il Giornale". È il segreto di Pulcinella, ma all'evidenza empirica stavolta si aggiunge una prova scientifica. La stragrande maggioranza degli esperti di politica italiani, tra autorevoli editorialisti con cattedra universitaria e giornalisti opinion maker, è dichiaratamente di sinistra. Di più, si riconosce proprio nel Partito democratico, altro che intellettuali indipendenti. La ricerca l'ha fatta Luigi Curini, professore associato di Scienza Politica all'Università degli Studi di Milano (la presenterà domattina al policy breakfast dell'Istituto Bruno Leoni di Milano, titolo: It's the ideology, stupid! Le preferenze ideologiche degli esperti di politica in Italia). Il metodo si basa sugli «expert surveys» usati a livello mondiale per ricavare la posizione ideologica politica degli esperti, chiedendo direttamente a loro. Il campione, assolutamente segreto nei nominativi, riguarda un centinaio tra docenti di scienze politiche italiani (molti dei quali poi firmano articoli su giornali o sono ospiti di talk show politici) e giornalisti. Il risultato ottenuto da Curini è schiacciante. La curva della distribuzione degli esperti sull'asse sinistra-destra, cioè da Sel a Forza Italia e Lega Nord, vede assiepati la quasi totalità dei nostri autorevoli opinionisti sulla verticale che conduce direttamente al simbolo del Pd, il loro partito di riferimento. Pochissimi, invece, si definiscono vicini all'area politica di centrodestra, da cui conviene stare molto alla larga se si vuol far carriera nelle università ed essere accolti nei giri giusti. Una delle evidenze più marcate, nota il professor Curini, è infatti «la perdurante scarsa popolarità che idee moderate, liberali o conservatrici (ovvero, e in termini se vogliamo più generali, di centrodestra) sembrano esercitare su chi insegna politica nelle aule dell'università o su chi ne scrive e ne discute sui giornali e media. A parte il 2008, e peraltro anche allora solo marginalmente, in tutti gli altri casi le preferenze degli esperti trovano sempre un unico picco collocato a sinistra della scala ideologica». Se in generale negli altri paesi si osserva un diffusa preferenza per la sinistra tra gli esperti di politica (evidente anche negli Usa con una netta prevalenza dell'ala liberal tra i docenti universitari), l'Italia supera tutti per militanza ideologica degli opinionisti supposti super partes. Nessun Paese, passando dal Giappone e Canada fino a Germania, Spagna, Portogallo e Gran Bretagna, può vantare un esercito di esperti di politica così spostati a sinistra. Ma la nuova ricerca, ancora in corso e coperta dal segreto scientifico, del professor Curini su un campione diverso, quello dei giornalisti italiani, promette risultati ancora più clamorosi. Naturalmente sempre con lo stesso segno politico: tutti ammassati nell'area del Pd, il partito renziano che si è sempre dimostrato molto riconoscente con gli amici (vedi l'occupazione della Rai). È interessante esaminare, poi, lo spostamento (si fa per dire) degli intellettuali e politologi italiani nel decennio che ha visto la trasformazione dei vecchi Ds nel nuovo Pd. Mentre infatti il loro partito di riferimento si muove leggermente da sinistra verso il centro-sinistra, casualmente anche loro - nelle rilevazioni compiute nel 2006, 2008 e 2013 - passano dal sentirsi di sinistra al centrosinistra. Per puro caso, quindi, si ritrovano a sostenere un partito - prima Ds, poi Pd - che rispecchia esattamente la loro nuova posizione politica. Che coincidenza miracolosa.

La supremazia rossa dalla politica fino al cimitero. Ogni morto ha la sua storia e merita il nostro massimo rispetto. Ma per i nostri media c’è qualche morto che vale di più, scrive Nicola Porro l’8 febbraio 2016 su “Il Giornale”. C’è poco da fare, passano gli anni, nel Pd arriva un cattolico come Matteo Renzi, eppure la supremazia culturale, intellettuale della sinistra non morirà mai. Rita Fossaceca era un medico molisano che lavorava in un ospedale a Novara. Ogni anno dedicava le sue vacanze a un orfanotrofio in Africa. Alla fine dell’anno scorso è stata barbaramente uccisa, con un machete, a due passi da Malindi. Rita era profondamente cattolica, era il segno della sua attività. Nessuno, o pochissimi, l’hanno ricordata. Un cattolico che muore tragicamente in Africa, interessa poco. Valeria Solesin è morta invece a un concerto, quello del Bataclan. Per lei funerali e media da prima pagina. Per Giulio Regeni, barbaramente torturato al Cairo, inchieste, prime pagine ovviamente, e cordoglio delle massime autorità dello Stato. Ogni morto ha la sua storia e merita il nostro massimo rispetto. Ma per i nostri media c’è qualche morto che vale di più. È orribile pensare che, in un’ipotetica e cinica scala dei valori, un «morto impegnato» valga più di un morto cattolico. Ma così è. E tutti appresso. La supremazia culturale della sinistra si manifesta clamorosamente nelle primarie di Milano. Vedete, si può parlare per ore dell’incredibile partecipazione cinese. Ma il punto è un altro. Tutta la Milano che conta è transitata in queste ore nelle sedi del Pd. Professionisti altrimenti riservati, signore della prima cerchia, banchieri, giornalisti, opinionisti, cantanti in fila per Sala o la Balzani. Gli stessi che si vergognerebbero di essere associati a qualunque altro ambiente politico, si fanno fotografare mentre certificano il fatto di essere non solo di sinistra, ma di aderire al programma del Pd. E, per di più, con un’alzata di spalle liquidano chi ricorda loro la brutta scena di una fila così taroccata. Lo possono fare, anche se in fila stanno con i cinesi: perché quello di sinistra è un marchio che funziona, che non ti sporca, non ti impegna. E ti fornisce quel formidabile passepartout che, se qualcuno la fa grossa, è pur sempre «un compagno che sbaglia». Signori, la sinistra funziona sempre. Prendete Brindisi. Arrestano un sindaco del Pd e tutti si affrettano a dire che si era autosospeso. Embè? Dove sono finiti gli indignati per il presunto scandalo di Quarto, dove il sindaco grillino semmai è stata vittima di un ricatto? Essere di sinistra, purtroppo, oggi in Italia aiuta ancora. È meglio che la «destra torni nelle fogne», come ha recentemente detto Ignazio Marino.

L’ostentazione ideologica in luoghi e tempi inopportuni. I comunisti di sinistra (con albori socialisti), spesso, ed i comunisti di destra (con albori di socialismo), molto meno, antepongono la loro religione anticlericale, ad ogni logica, ragione e norma di buon senso. I poveri liberali, presi dal proprio individualismo, scemano di fronte a tanto strabordante potere. I comunisti ostentano non il loro essere, ma la loro appartenenza ad una religione. Non hanno timore di mostrare il comunismo che è in loro, ignari o strafottendosene del fatto che fanno parte di un gruppo retrogrado e non a passo con il terzo millennio.

Contro l’estinzione dell’italianità. Un fiocco o nastro nero per gli emarginati, diseredati, gli ingiustamente condannati o detenuti, i tartassati e le vittime dei reati impuniti e comunque vittime di ingiustizie. Italiani dimenticati dal politicamente corretto e dalla politica oligarchica che li valuta meno di gay ed immigrati. Basta con il comunismo di destra (fascismo) ed il comunismo di sinistra (stalinismo) e con l’ostentazione fuori luogo della loro religione.

Sanremo 9-13 febbraio 2016, quanti cantanti espongono l'arcobaleno. Sul palco dell'Ariston tanti big e ospiti hanno voluto mostrare il proprio sostegno per i diritti delle coppie omosessuali. Con un nastro arcobaleno al braccio (o sul microfono o sulla chitarra), ecco tutti gli artisti che hanno esposto il simbolo nelle dirette di Rai Uno: Elton John, Pooh, Hozier, Valerio Scanu, Dolcenera, Rocco Hunt, Clementino, Francesca Michelin, Arisa, Michael Leonardi, Mahmood, Patty Pravo, Noemi, Enrico Ruggeri, Irene Fornaciari, Eros Ramazzotti, Laura Pausini, i Bluvertigo. Francesco Gabbani, Benji & Fede, Deborah Iurato e Giovanni Caccamo.

Dai partigiani sono nati i fascisti rossi. L'aggressione ad Angelo Panebianco ricorda che non c'è stata e ancora non c'è una chiara demarcazione fra i metodi di una certa sinistra e quelli che erano stati del fascismo, scrive Piero Ostellino, Giovedì 25/02/2016, su “Il Giornale”. L'aggressione da parte di facinorosi di estrema sinistra ad Angelo Panebianco, (il 23 febbraio 2016) impedito dai loro schiamazzi di tenere lezione, ricorda che non c'è stata e ancora non c'è una chiara demarcazione fra i metodi di una certa sinistra e quelli che erano stati del fascismo. Sono venuti al pettine i nodi non risolti nel 1945, quando gli italiani si illusero, e contrabbandarono l'illusione, che, avendo sostituito la camicia nera che aveva indossato fino a quel momento con quella rossa, la democrazia fosse automaticamente tornata in Italia. In realtà, la Resistenza aveva semplicemente sconfitto il fascismo, ma non aveva ancora instaurato la democrazia nel nome della quale la stessa Resistenza pure era stata combattuta, almeno da una sua parte, quella cattolica, liberale, repubblicana, socialista. Per creare le condizioni di un'autentica forma mentale democratica sarebbe stato necessario riflettere su ciò che era stato il fascismo, perché fosse durato tanto a lungo e quali fossero stati i fondamenti culturali di chi aveva combattuto nella Resistenza da una certa parte, quella comunista, pur meritoria. La mancata riflessione ha finito col rivelare una correlazione fra i metodi squadristi del fascismo e l'intolleranza della sinistra di matrice comunista, allergica alla libertà d'opinione altrui e convinta che in Europa Orientale l'occupazione militare sovietica avesse instaurato democrazie superiori e non semplici dittature. Il fatto che l'Urss avesse contribuito internazionalmente alla caduta del fascismo non ha fatto del suo sistema politico una forma di democrazia superiore a quella borghese. È, perciò, del tutto inutile prendersela ora con i quattro facinorosi che hanno aggredito il professore liberale, e condannarli moralmente e politicamente se non si riflette sull'esito della Resistenza e su ciò che ha significato la caduta del fascismo ad opera di una opposizione che propugnava la nascita anche in Italia di una democrazia popolare che del fascismo aveva la stessa natura totalitaria. La Resistenza non ha cancellato le responsabilità culturali e politiche di chi era stato fascista e, dopo la caduta del fascismo, si era rapidamente trasformato in un (falso) difensore delle libertà conquistate. È questo il pesante lascito culturale e politico della Resistenza sulla nostra giovane e imperfetta democrazia. La verità è che nel 1948 l'Italia è stata salvata dal voto delle donne, che hanno scelto in massa la Democrazia cristiana e i partiti ad essa alleati, allontanando lo spettro di una trasformazione del Paese in una democrazia (si fa per dire) di tipo sovietico per cui si era battuta la Resistenza comunista.

Quando l’amore diventa un nastrino, scrive l'11/02/2016 Nino Spirlì su "Il Giornale". Pensavo di aver visto, sentito e imparato tutto riguardo all’amore. Da quello materno a quello passionale di una puttana lautrecchiana, innamorata del sogno di riscatto. Dall’amore fraterno, al caldo delle pareti di casa, a quello corposo fra commilitoni in battaglia. Fino a quello scomposto dentro ai cessi delle stazioni o nelle umide saune per bugiardi solitari e soli. Ma l’amore a mezzo nastrino, esposto fra le canzoni del festival della canzone piddina, no. Quello non lo conoscevo ancora. E, con me, qualche milione di italiani. Tutto ci saremmo potuti aspettare, compresa la gag ironica di qualche comico strapagato coi dollaroni del canone, ma il gran pavese di bandierine eque e solidali attorcigliate ai microfoni, ai polsi, alle dita dei cantanti, ci ha colti alla sprovvista. Come dire, al ridicolo non c’è mai fine. Io, infatti, sarei sprofondato per la vergogna, solamente a pensare di diventare pennone umano di banali bandiere da gaypride. E su! Prima la rasentavamo, ora ne siamo impastati di scempiaggine e ipocrisia. Così vogliamo risolvere la nostra partecipazione ai “temi sociali”? Con un fiocchetto arcobaleno? O con una parolina buttata lì, fra il liso e il frusto, in una microintervista? Pessimo servizio alla causa. Pessimissimo, oserei azzardare. Sa tanto di “Mi piace” di feisbucchina abitudine. Un clic e via. Si partecipano così, ormai, auguri e condoglianze, dolori e gioie infinite. A Sanremo, lo stesso. Una treccia sciolta di nastrini da fioraia di sette colori, e il frocio è servito. Che pena! Sia gli artisti che i commentatori. Ma, soprattutto, che tristezza i ricchioncelli felici sui social. Che sono pronti a crocifiggere il prete come loro, ma battono le mani e zompettano sulle sedie quando scorgono un accenno di solidarietà alla causa gaya da parte del loro idolo canterino. Se, poi, alla pugna (che spesso non è così grande) partecipa anche l’attorello zigomato di fresco, Evviva! La guerra è vinta! Maddechè, commenterebbe il mio amichetto romano. Bastasse questa ennesima trovata da bancarellari per convincere zia Maria che la nipote lesbica non è “difettosa”! Il problema è che zia Maria morirà convinta che, quella volta che sua sorella scivolò, incinta, per le scale, sicuramente “dentro” qualcosa accadde, e nacque per quel qualcosa la nipotina a cui non piacciono i maschi. Difettosa, appunto. Per cambiarla, questa mentalità disinformata, dovremmo, noi “difettosi” evitare provocazioni e processioni col culo di fuori. Dovremmo viverla, noi per primi, serenamente, la nostra omosessualità. Svegliarci, noi per primi, sinceri, sereni. Fare colazione sereni, andare a lavorare sereni, al cinema, a teatro, al mercato, a scuola, in caserma, in ospedale… Sempre sereni. Parlare con i nostri genitori, i nostri fratelli, gli amici. Perché non siamo né migliori, né peggiori degli altri. Siamo come. Quando lo avremo capito noi, noi per primi, sarà tempo di famiglia. Ora, no. Troppi carri e poca umiltà. Troppo fard. Troppe paillettes. Troppe bugie. Troppo astio. Quasi odio. E silenzi assordanti fra le mura di casa. Mentre fuori è tutto un nastrino. Cretino.

Quanta ipocrisia su una riforma che non serve. Conosco coppie di omosessuali che convivono pacificamente e che non si sognerebbero mai di regolare in tal modo il loro rapporto, o addirittura di sposarsi, avendolo già regolato, grazie alla legislazione vigente, e/o con intese bilaterali, scrive Piero Ostellino, Giovedì 11/02/2016, su "Il Giornale". Mentre nel nostro Stato post-fascista e presovietico - ci sono decine di diritti umani disattesi dalla legislazione pubblica, il Parlamento, invece di porvi rimedio, perde tempo a trovare una forma giuridica che disciplini le unioni civili fra individui dello stesso sesso (che è, poi, la formula ipocrita con la quale la politica, quando non sa come cavarsela, utilizza un sinonimo per non usare il termine autentico nella circostanza matrimonio sarebbe troppo impegnativo). A che servano, poi, le unioni civili se non a produrre consenso a chi le ha proposte è difficile dire. Conosco coppie di omosessuali che convivono pacificamente e che non si sognerebbero mai di regolare in tal modo il loro rapporto, o addirittura di sposarsi, avendolo già regolato, grazie alla legislazione vigente, e/o con intese bilaterali. Che si sentisse la necessità di creare l'istituto giuridico delle unioni civili sarebbe difficile sostenerlo anche da parte di chi è omosessuale, e ciò non tanto per ragioni morali, che restano indiscutibili, e neppure per ragioni giuridiche, bensì, diciamo così, per ragioni di costume. Conosco coppie di omosessuali che non ne hanno mai avvertito l'esigenza e che, tanto meno pensano di sposarsi... convinte, come sono, che il matrimonio sia storicamente l'unione fra un maschio e una femmina...E, allora, che dire? Personalmente, penso che ognuno abbia il diritto di fare ciò che più gli piace, tenuto anche conto che una legislazione, in proposito, esiste già e nessuno se ne lamenta. Conosco coppie di omosessuali che convivono pacificamente e felicemente sotto la legislazione vigente e che non si sognerebbero mai di sposarsi facendo ridicolmente il verso al matrimonio fra individui di sesso diverso. Non ne faccio una questione morale o sociale, ci mancherebbe! anche se la famiglia è sociologicamente il primo nucleo attorno al quale, notoriamente, si è costituita la società civile... Ne faccio solo una questione di senso comune nella convinzione che, dopo tutto, ciascuno ha il diritto di fare ciò che più gli piace, senza che altri ci metta il naso.... La politica, che specula sui sentimenti del prossimo per guadagnare consensi, mi fa francamente schifo... E questo delle unioni civili a me pare ne sia è il caso... Si è usato il sinonimo di unione civile per non usare quello, più impegnativo, di matrimonio, anche se ci sono non pochi omosessuali che si sposerebbero e, quel che è esteticamente peggio, con lo stesso rito e le stesse procedure, di quello fra individui di sesso differente...Una cosa è certa: continuerò ad avere gli stessi rapporti di amicizia e di affetto nei confronti dei miei amici omosessuali, accoppiati o no che siano, anche se non aderiranno all'unione civile e non la celebreranno... cosa di cui, del resto, per parte loro, non mostrano affatto di avvertirne l'urgenza... Faccio pertanto, i miei sinceri auguri a quelli che vi aderiranno e celebreranno un'unione civile, anche se, in tal caso, sarebbe pleonastico aggiungervi il rituale «e figli maschi»... Non ne avranno per la contraddizione che non o consente - e neppure, credo, ne adotteranno (altro problema di cui si discute in questi giorni). Continuerò a frequentarli come prima...

E' mistero sul tweet pubblicato da Francesco Facchinetti sul suo profilo. Durante la prima serata del festival di Sanremo (9 febbraio 2016), il figlio del tastierista dei Pooh ha commentato la scelta di alcuni cantanti di presentarsi con un nastro colorato in mano a fovore delle Unioni civili, scrivendo: "Unica cosa che mi irrita è questo ostentare il sostenere i diritti delle coppie GAY. Non ho nulla contro la cosa ma sembra veramente forzato". E sul social network è subito scoppiata la polemica. Anche Alessandro Gassmann ha replicato: "Non si tratta di ostentare, ma di riconoscere, con i doveri, anche i diritti di TUTTI. Irritato?". Il tweet dell'ex presentatore di X Factor è stato poi cancellato e lo stesso Facchinetti ha dato la colpa a non si sa chi: non è stato lui né le persone che lavorano per lui. E sempre attraverso un tweet ha fatto sapere che ha intenzione di indagare. Ma questo non ha fatto altro che alimentare ancora di più la polemica.

Il Festival di Sanremo 2016 è alla sua seconda serata e continuano gli artisti che si stanno esibendo sul palco del Teatro Ariston mostrando i nastrini arcobaleno a favore delle unioni civili. Nella prima serata del Festival cantanti come Arisa, Noemi, Enrico Ruggeri e Irene Fornaciari, sono saliti sul palco con un nastrino color arcobaleno, a sostegno delle unioni civili. Noemi ha deciso di schierarsi a favore dei diritti dei gay abbellendo l’asta del suo microfono con tantissimi lunghi nastrini colorati. A dar loro manforte è intervenuta Laura Pausini, invitata come super ospite. Nella seconda serata, invece, i primi big in gara a presentarsi con gli ormai famosi nastrini sono stati Dolcenera, Patty Pravo, Valerio Scanu e Francesca Michielin. Anche il super ospite della seconda serata Eros Ramazzotti, ha cantato i suoi maggiori successi con il nastrino arcobaleno.

L’Italietta dei nastri arcobaleno si ritrova sul palco dell’Ariston. Davanti alla tv nell’inutile attesa di frasi shock di Elton John La kermesse canora diventa sponsor del decreto Cirinnà, scrive Pietro De Leo su “Il Tempo” l’11 febbraio 2016. Guardando Sanremo, vien da chiedersi se sarebbe definibile musica The roastbeef of Old England, vecchia canzone popolare inglese che esalta il vitello arrosto, perchè rende i soldati «valorosi» e «nobilita i cuori». In quelle strofe del ‘700 si ammonisce a non cedere alle raffinatezze culinarie » delle effemminate Italia, Francia e Spagna». No, questa non è musica, chiaro. C’è «effemminate» nel testo, e mai potrebbe trovar albergo nel circone politicamente corretto, questi giorni costretto a camminare sul ciglio della par condicio ideologica in casa di Mamma Rai. Al massimo, mette giù un piedino, per bagnarsi nel gayo oceano, ossequiando il dogma dell’essere al passo coi tempi. E allora ecco i nastrini arcobaleno, portati sul palco per testimoniare l’assenso dell’areopago vip al Ddl Cirinnà. Ecco una giornata consumarsi nell’attesa di di Elton John all’Ariston manco fosse il lancio dello Sputnik. Ci sarà o no il marito? Dirà «datemi un utero in affitto e solleverò il mondo?» Tutta l’Italia videodipendente diventa una immenso salone di parrucchiera, dove si «prevede», si sparla, si duella a colpi di luoghi comuni. Poi, Elton John arriva, dice una cosa scontata, cioè che mai avrebbe pensato di diventare padre, del suo compagno di vita neanche l’ombra. Coitus interruptus. Come le frasette buttata là dalla Pausini sulla necessità di rispettare i diversi (perché c’è qualcuno di mentalmente sano, forse, che vorrebbe sterminarli?), o come qualche battutina dell’ottima Virginia Raffaele, conduttore morale del Festival. E lo spottino sulla famiglia «fondamentale, qualsiasi essa sia», lanciato da Ramazzotti. Anche lui, ieri, con il nastro arcobaleno («questa cosa è importante», ha detto). Feticcio di un impegno fatto coi gadget e non con gli argomenti, una strizzatina d’occhio senza esagerare. Ma se davvero una questione è importante, allora bisogna viverla fino in fondo. Essere di rottura, prendersi responsabilità. Come gli ubriaconi inglesi che cantavano del vitello arrosto. Però, se questo è il campo da gioco, sfidiamo ad alzare la posta. E invitiamo qualche cantante a presentarsi con un nastro nero. Perché? Per il lutto della delle nostre libertà ed essenza. Per i ragazzi che abbiamo perduto all’estero, tipo Valeria Solesin e Giulio Regeni. Oppure per Paolo e Barbara, 40 anni lui e 46 lei, che lunedì l’hanno fatta finita con il gas di scarico della macchina nel mantovano perché sfiancati dai problemi economici. Nero per le ragazze di Colonia, prede carnali nella mattanza islamica di Capodanno. Banale, scontato? Forse, ma almeno guardiamo alle ferite profonde. Perciò, ora vediamo se qualcuno ha il coraggio di portar su questo nastro nero. Se ciò dovesse accadere, poi, tenetevi pure la vostra saga arcobaleno dagli istinti propagandistici mal inibiti, che tanto si è capito dove volete andare a parare. Anzi, l’anno prossimo fate presentare il Festival direttamente da Vladimir Luxuria, che ha già spiegato come si truccherebbe meglio di Gabriel Garko (di sicuro sarebbe intellettualmente molto più vivace). Andate avanti con questo trionfo di giacchette attillate, con questo tripudio di botox gommoso su volti maschili ben piallati. Non è roba per noi.

Un Sanremo arcobaleno tra coccarde e tweet politici. Il Festival della canzone italiana è diventato teatro di diverbi via Twitter tra i politici. Più che delle canzoni si è parlato di unioni civili tra nastrini arcobaleno che svolazzavano sul microfono della metà dei cantanti e difese e accuse al ddl Cirinnà, scrive Micol Treves il 10 Febbraio 2016 su “Il Foglio”. Dopo la pioggia: l’arcobaleno. Coloratissimo. Artistico. Nubifragio sulla città dei fiori per il primo giorno di kermesse, fino a sera. Quando si placa la tempesta, comincia la festa. E coccarde coloratissime sfilano sul proscenio, illuminate dai riflettori, appese ai microfoni di alcuni artisti (Noemi, Stadio, Fornaciari, Bluvertigo, Ruggeri). Cinque su dieci: i numeri danno manforte alla polemica che da ore aleggia su questa 66esima edizione del festival. Su Twitter parte il can can: l’hashtag? #Sanremoarcobaleno. Piomba solidarietà ai cantanti temerari. Conti non commenta. La politica, sì: “Dopo nastri arcobaleno esporre il Tricolore per le foibe”, cinguetta Gasparri”. E ancora il leader della Lega, Salvini, sull’ospitata di Elton John voluta da Rai Uno: “Strapagarlo per esaltare le adozioni gay è una vergogna. Ma è il festival della canzone o un comizio politico?”. Ecco. Pronta la risposta della senatrice Cirinnà: “Sanremo è lo specchio della società italiana, per questo la solidarietà degli artisti nei confronti di un provvedimento tanto atteso non mi sorprende. E' un qualcosa che probabilmente ci racconta che il Paese reale è più avanti della politica. Se la cosa può toccare il dibattito parlamentare? Può aiutare i colleghi più scettici a capire che là fuori c'è un mondo a colori, variegato. Che le convinzioni personali vanno sì difese ma senza perdere di vista il fatto che, come legislatori, siamo chiamati a dare risposte. A tutti. In special modo a chi vive ancora fuori dalla tutela delle leggi”. A buttare acqua sul fuoco, come sempre, come da manuale, è il direttore di rete, Giancarlo Leone: “Ognuno è libero di portarsi le coccarde che vuole. I cantanti non devono neanche informarci. L’iniziativa è loro”. Così, questa mattina in conferenza stampa. Libertà di coscienza. Ma l’iniziativa, da dove arriva? Da gay.it, ovviamente. E da Andrea Pinna, vincitore in pectore di Pechino Express. Le coccarde incriminate sono passate di mano in mano, fino al retro palco dove, si vocifera, il team di Noemi abbia contribuito a farle avere agli artisti. Un successone. “Esibirmi con la coccarda mi è sembrato un modo sorridente, un segnale affettuoso su un tema sul quale mi sembra che si dibatta abbastanza”, ha spiegato Enrico Ruggeri. “Sono contento di avere partecipato a questa iniziativa. Solo in 5 su 10 hanno aderito? Credo perché gli altri non l’hanno intercettata”. E ancora, a proposito di stepchild adoption: “Per adesso non ho un’opinione precisa a riguardo. Per il resto non si parla di diritti ma di logica, non c’è neanche da discutere”. E a chi sostiene che questo sia, ormai, un festival molto (forse troppo, a questo punto) Lgbt, risponde Carlo Conti: “Spero che resti il festival della canzone italiana, ma siamo nel 2016, uno dei temi è anche questo. Il nostro è un evento dove si raccontano tante sfaccettature della società. Noi lasciamo libertà”. Vedremo.

Parla Veneziani: "A Sanremo Povia processato e il monarca dei gay Elton John esaltato", scrive Adriano Scianca il 10 febbraio 2016. "Sanremo si adegua sempre al politicamente corretto. Povia fu processato pubblicamente. Quest'anno, poi, c'era Elton John, che è il monarca del regno dell'omosessualità...". Marcello Veneziani non ha visto la prima puntata del Festival di Sanremo, ma sulla kermesse e sui messaggi ideologici lanciati sembra essersi fatto lo stesso un'idea. E a IntelligoNews dice: "Non è più democrazia, ma dittatura del proprio tempo".

Veneziani, ha visto Sanremo? 

«No, assolutamente no». 

Avrà letto, tuttavia, che quest'anno, fra Elton John e i nastri arcobaleno, c'è stato un tema che ha dominato la prima serata del Festival... 

«In realtà Sanremo si adegua sempre al politicamente corretto, anche in passato c'erano stati dei casi simili. Del resto quando ci fu qualcuno, come Povia, che tentò di proporre una canzone che affrontava l'omosessualità da un altro punto di vista, fu processato pubblicamente. Quest'anno, poi, c'era Elton John, che è il monarca del regno dell'omosessualità, quindi...».

Non crede che sia un po' assurdo prendere il miliardario Elton John come esempio di tipica famiglia gay felice?

«Esattamente. Si prendono sempre casi estremi, o per drammaticità, o per situazioni opposte e non paragonabili con la quotidianità. Di fatto sono modelli non esportabili».

Intanto si va avanti con il ddl Cirinnà. Per il Parlamento è una priorità. La maggioranza degli italiani, tuttavia, la pensa diversamente. È la solita scissione tra Paese legale e Paese reale? 

«Cessato l'appello al popolo, resta l'appello alla modernità. O all'Europa. Si cerca sempre una nuova fonte di legittimità. Non è più democrazia, ma è dittatura del proprio tempo». 

Ha seguito il dibattito di qualche giorno fa fra pediatri e psichiatri sull'opportunità di affidare figli a coppie omosessuali?

«Era un dibattito sul filo tra scienza ed esperienza. Del resto l'impressione è che molti degli studi su questo argomento siano falsificati, escludendo i dati che vanno in una direzione non voluta. Mi sembra assurdo che nessuno sin qui si sia posto il problema di sapere se questa cosa possa portare dei danni ai bambini. Si dice che basta “essere felici”. Nessuno si chiede se sia felice il bambino, però». 

Cosa risponde a chi dice che a un bambino basta l'amore per essere felice? 

«È una motivazione psicolabile. Con l'amore si può giustificare tutto, del resto...».

Ha notato come sul tema delle unioni civili si usi sempre la metafora spaziale già tipica dei marxisti, quella della linea retta in cui c'è chi sta più “avanti” e chi più “indietro” rispetto al senso della storia? 

«Devo dire che questo è l'argomento più forte in favore delle unioni civili, questo determinismo storico per cui ogni opposizione contro lo spirito del tempo è inutile. L'idea di tradizione funziona esattamene al contrario, o quanto meno si basa sulla continuità e non implica che qualsiasi passo avanti sia un progresso, sia pure per finire nell'abisso. L'idea che esistano solo un “avanti” e un “indietro” va contro la multidirezionalità della storia. È l'unico lascito dell'ideologia progressista che è rimasto in piedi». 

Con la differenza che una volta al termine della linea retta c'era la società senza classi, oggi c'è la società senza sessi... 

«O anche la non-società, ovvero una costellazione di casi individuali che se ne vanno per conto proprio. Ed è paradossale che partendo da una seppur vaga ispirazione socialista si sia finiti alle idee della Tatcher secondo cui “la società non esiste”...».

Ma quello arcobaleno è un simbolo cristiano (cooptato poi dal mondo Lgbt), scrive “Papa Boys” il 10 febbraio 2016. Ieri è andata in onda la prima serata del Festival di Sanremo, ci si aspettava il solito spot Lgbt (come accaduto l’anno scorso) ed invece le proteste preventive hanno funzionato. Ovviamente l’egemonia omosex che domina, questo ed altri Paesi occidentali, non poteva rinunciare completamente ad un’occasione così ghiotta per imporsi con prepotenza, sono così apparsi i nastri arcobaleno legati al microfono dei cantanti. Una manifestazione, sicuramente puerile, ma comunque accettabile se pensiamo che il concreto rischio era la promozione plateale dell’utero in affitto da parte di Elton John noto per aver egoisticamente privato due bambini dell’amore materno. Eppure, pochi sanno che l’arcobaleno è da sempre un simbolo cristiano. Lo ha spiegato recentemente padre John Paul Wauck, professore dell’Università Santa Croce di Roma, commentando la scelta della Santa Sede di colorare con l’arcobaleno l’albero di Natale in piazza San Pietro: i colori dell’arcobaleno hanno «un significato biblico: è il segno dell’alleanza di Dio con l’umanità e con tutto il creato». Soltanto negli anni ’90 venne cooptato dal mondo Lgbt, ma è sempre stato importante nel mondo giudaico-cristiano con collegamenti soprattutto per la festa di Natale: «Come segno celeste dell’amore di Dio per l’umanità, l’arcobaleno è un precursore della stella di Betlemme, che annuncia la nascita di Gesù Cristo, il Messia, che è venuto a portare la pace sulla terra. Dal tempo di Noè, Dio aveva preparato un’alleanza di pace e ogni arcobaleno era un promemoria continuo di essa, che si sarebbe compiuta e realizzata in Gesù». E’ stato spiegato che il brano biblico più famoso in cui si fa riferimento all’arcobaleno è il capitolo 9 del libro della Genesi, a conclusione della narrazione del diluvio. A partire dal v. 8 si descrive la stipulazione di un’alleanza tra Dio, da una parte, e Noè, i suoi figli, i loro discendenti (quindi l’umanità intera nella prospettiva del racconto biblico) e tutti gli animali, dall’altra: «Io stabilisco la mia alleanza con voi: non sarà più distrutta alcuna carne (cioè ogni essere vivente, uomo o animale) dalle acque del diluvio, né il diluvio devasterà più la terra» (Gen 9,11). Nei successivi vv. 12-16 si insiste sul «segno» di quest’alleanza che è l’«arco sulle nubi», ovvero l’arcobaleno. E’ possibile, comunque, che la descrizione dell’arcobaleno come «segno dell’alleanza» riprenda tradizioni o racconti o convinzioni popolari al riguardo. Un simbolo di pace e di promessa per la cultura cristiana, cooptato prima dai movimenti pacifisti degli anni ’60 e poi dal movimento gay. Non è la prima volta che accade, anche il tema dell’ecologia è un antico valore prettamente cristiano, sensibilità nata nel Medioevo e poi ideologizzata da radicali, malthusiani e neo-ambientalisti. Così come quello della povertà, valore prettamente cristiano poi “saccheggiato” dal marxismo, che sopra vi ha costruito una demagogica e mortifera ideologia. Lo ha spiegato Papa Francesco: «Ho sentito, due mesi fa, che una persona ha detto, per questo parlare dei poveri, per questa preferenza: “Questo Papa è comunista”. No! Questa è una bandiera del Vangelo, non del comunismo: del Vangelo! Ma la povertà senza ideologia, la povertà». E ancora: «Io dico solo che i comunisti ci hanno derubato la bandiera. La bandiera dei poveri è cristiana. La povertà è al centro del Vangelo. I poveri sono al centro del Vangelo. I comunisti dicono che tutto questo è comunista. Sì, come no, venti secoli dopo. Allora quando parlano si potrebbe dire loro: ma voi siete cristiani».

Un Festival arcobaleno, ma per le foibe un solo minuto. Da due giorni le unioni gay tengono banco a Sanremo. Ma Conti dedica solo una frase al Giorno del Ricordo, scrive Chiara Sarra, Mercoledì 10/02/2016 su “Il Giornale”. Nastri e bracciali arcobaleno, ospiti che non mancano di parlare del loro concetto di famiglia, battute e appelli vari. Mentre dentro e fuori dal Parlamento tiene banco il ddl Cirinnà, il Festival di Sanremo si è trasformato quest'anno in un lungo spot a favore delle unioni civili e della cosiddetta stepchild adoption, la norma che permette di adottare il figlio del partner. Eppure nel giorno della ricordo ci si aspettava che almeno uno degli intermezzi fosse dedicato a ricordare i morti delle foibe. Soprattutto dopo che da più parti era arrivato l'appello a portare sul palco dell'Ariston oltre alla bandiera arcobaleno anche il Tricolore, simbolo di una strage e un gesto di unità nazionale. Un appello che a quanto pare non è stato accolto, visto che Carlo Conti ha dedicato all'evento nemmeno un minuto e si è limitato a una frase striminzita prima di annunciare Elio e Le Storie Tese. "Ricordiamo per non dimenticare", ha detto il conduttore di Sanremo. A pensar male si direbbe che gli autori si fossero totalmente dimenticati della ricorrenza e che abbiamo buttato lì una frase solo per far contenti i vari Gasparri & Co. Anche se Giorgia Meloni ringrazia su Twitter: "Grazie Carlo #Conti per aver parlato a #Sanremo2016 del #GiornodelRicordo e aver onorato la memoria dei martiri delle # foibe e dell'esodo".

Ma ci pensa il comunistissimo “L’Espresso” a buttarla in “caciara”. "Camerati, attenti". Così i neofascisti sfruttano il giorno del ricordo. Il 10 febbraio si celebrano le vittime delle foibe: le voragini dell'Istria dove tra il 1943 e il 1947 sono stati gettati quasi diecimila italiani per mano dei partigiani jugoslavi. Oggi quella tragedia, ignorata per decenni, è motivo di identità per l’estrema destra del terzo millennio di Casa Pound e Forza Nuova, scrive Michele Sasso il 10 febbraio 2016 su "L'Espresso". Corteo in ricordo dei martiri delle Foibe organizzato da Casapound a Torino nel 2015Il 10 febbraio, che dal 2004 è il giorno del ricordo della tragedia e dell'esilio dei profughi istriani, è una data che divide. Ignorato per decenni, trascurato dai programmi scolastici, il dramma delle foibe è oggi ricordato, oltre che da iniziative istituzionali, da gesti che scaldano i cuori all’estrema destra. Il giorno della «memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati» è stato voluto nel 2004 dall’ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, accogliendo la proposta di legge di Alleanza nazionale con la volontà di «chiudere definitivamente una pagina di dolore, con un atto di civile memoria dello Stato italiano». Un capitolo tragico e scomodo, un gesto riparatorio fatto da chi come Ciampi nel 1943 rifiutò di aderire alla Repubblica sociale italiana per raggiungere gli alleati che risalivano la Penisola. Dal dopoguerra il nome “foiba” perde il significato di fenomeno naturale per diventare sinonimo di strage. Le foibe sono cavità carsiche di origine naturale con un ingresso a strapiombo. È in quelle voragini dell'Istria che fra il 1943 e il 1947 sono stati gettati, vivi e morti, moltissimi istriani di lingua e cultura italiana. Si stima che le vittime possano essere quasi diecimila italiani. La prima ondata di violenza esplode subito dopo la firma dell'armistizio dell’8 settembre 1943: in Istria e in Dalmazia i partigiani slavi si vendicano contro i fascisti e gli italiani non comunisti. Torturano, massacrano, affamano e poi gettano nelle foibe circa un migliaio di persone. Vengono considerati “nemici del popolo” e quindi sacrificabili. Il massacro si ripete nella primavera del 1945, quando la Jugoslavia occupa Trieste, Gorizia e l’Istria. Le truppe del Maresciallo Tito si scatenano contro gli italiani. A cadere dentro le foibe sono fascisti, cattolici, liberaldemocratici, socialisti, uomini di chiesa, donne, anziani e bambini. Una pulizia etnica per spargere terrore. Graziano Udovisi, l'unica vittima del terrore titino che riuscì ad uscire da una foiba vivo dopo immense torture e 24 ore sotto terra, raccontò la sua storia nel libro-testimonianza “Sopravvissuto alle foibe”. E' morto nel 2010, a 84 anni. Una carneficina che testimonia l'odio politico-ideologico e la pulizia etnica voluta dal maresciallo Tito per eliminare i non comunisti. La persecuzione prosegue fino alla primavera del 1947, fino a quando, cioè, viene fissato il confine fra la neonata Repubblica e la Jugoslavia. Ma il dramma degli istriani e dei dalmati non finisce. Nel febbraio del 1947 Roma ratifica il trattato di pace che pone fine alla Seconda guerra mondiale: l’Istria e la Dalmazia vengono cedute. Con quella firma trecentocinquantamila persone si trasformano in esuli. Scappano dal terrore, non hanno nulla, sono bocche da sfamare che non trovano in patria una grande accoglienza. La sinistra italiana li ignora: non suscita solidarietà chi sta fuggendo da un paese comunista alleato di Mosca, in cui si è realizzato il sogno del socialismo reale. La vicinanza ideologica con Tito è, del resto, la ragione per cui il Partito comunista non affronta il dramma, appena concluso, degli infoibati. Ma non è solo il Pci del leader Palmiro Togliatti a lasciar cadere l'argomento nel disinteresse. Come ricorda lo storico Giovanni Sabbatucci: «La stessa classe dirigente democristiana considera i profughi dalmati cittadini di “serie B” e non approfondisce la tragedia delle foibe. I neofascisti, d'altra parte, non si mostrano particolarmente propensi a raccontare cosa avvenne alla fine della seconda guerra mondiale nei territori istriani. Fra il 1943 e il 1945 quelle terre sono state sotto l'occupazione nazista, in pratica sono state annesse al Reich tedesco». Un silenzio intorno a questo dramma, che fa tutt’uno con la sconfitta italiana. Nel 1991 si alza il velo: quando i triestini si mobilitano contro il passaggio delle unità corazzate dell’esercito federale jugoslavo che dalla Slovenia devono tornare verso la Serbia, sfruttando il porto giuliano. E riaprendo ferite e ricordi ancora vivi di chi ha avuto fratelli, amici e concittadini finiti nelle foibe per mano di quello stesse divise. «Il silenzio intorno alle foibe è durato troppo a lungo e ha dato l’occasione per una forte polemica e allo stesso tempo creando terreno fertile ad una strumentalizzazione», sottolinea Simona Colarizi, docente di storia contemporanea alla Sapienza di Roma: «Da anni l’estrema destra sta cercando una legittimazione del fascismo di Salò, inseguendo il falso mito di italiani brava gente, ma non va dimenticato che la politica di “fascistizzazione” di quei territori del Friuli Venezia Giulia è stata brutale con una reazione altrettanto brutale. Il che non giustifica assolutamente le fobie». Il nazionalismo, la colpa di essere italiani, l’odio per chi si è visto espulso dalla propria terra e non ha avuto nessun appoggio politico. Dimenticando che i morti non sono né “neri” né “rossi”. Né fascisti né comunisti. Un equivoco e un uso pubblico della storia che distorce la storia stessa. Con vittime e colpevoli che cambiano secondo i punti di vista e il colore politico. Così il ricordo delle foibe diventa occasione di divisioni, strumentalizzazioni, adunate in stile Norimberga per cercare colpevoli e vinti. Con una voglia di tornare protagonisti. Si radunano e si schierano con un ordine perentorio: «Camerati, attenti». In prima fila nella corsa a commemorare ci sono i fascisti del terzo millennio di Casa Pound che spiegano così il loro 10 febbraio: «Colpevoli di essere italiani. E per questo assassinati e poi dimenticati, ignorati, cancellati dalla storia: questi sono i martiri delle foibe. Ma l'identità di un popolo e di una nazione nata in trincea non si cancella col sangue, né con le censure sui libri di storia. Per questo tricolori alla mano, saremo nelle piazze e nelle strade di tutta Italia, a ricordare le vittime di quel genocidio e il sacrificio degli esuli istriani e giuliano-dalmati costretti a lasciare le loro case dalla violenza comunista». In questa settimana sono in calendario decine di cortei, fiaccolate, spettacoli teatrali, in grandi città e piccoli centri dal nord al sud del paese. Leit motiv è l’annuncio “Io non scordo”. Da Varese dove tutte le sigle del mondo dell’estrema destra sfilano da tre anni per le vie del centro fino al Trentino Alto Adige, L’Aquila, Lamezia Terme e Siracusa. Con passeggiate commemorative, cortei, fiori sulle lapidi. A Roma Forza Nuova di Roberto Fiore e prevede «omaggio al monumento, conferenza, cena e recital “Foibe, 15.000 fantasmi”. Prima della celebrazione a Trento è sparita la lapide in memoria delle vittime. Il presidente del Trentino, Ugo Rossi ha così stigmatizzato l’accaduto: «Un gesto vile e odioso, tanto più grave considerando che è avvenuto a ridosso del Giorno del ricordo, solennità nazionale istituita per rinnovare la memoria di una tragedia immane. Se l'intento è quello di alimentare divisioni e strumentalizzare la storia per bassi fini, possiamo affermare con certezza che fallirà».

Le Foibe ancora dimenticate (questa volta in un cassetto). Scontro sulla data di inaugurazione della stele: i documenti chiave sono fermi da novembre scorso, scrive Maria Sorbi, Giovedì 11/02/2016, su "Il Giornale". Il sindaco Giuliano Pisapia non si è presentato alla cerimonia per commemorare le vittime delle Foibe. E fin qui nulla di nuovo: non è la prima volta che il sindaco dà forfait e delega a un rappresentante del Comune. Lui che, quando era deputato di Rifondazione Comunista, votò contro la proposta di istituire un giorno per ricordare la strage istriana. La polemica di quest'anno ruota attorno a una questione burocratica, che riguarda il monumento da erigere in piazza Repubblica in memoria di chi subì la violenza dell'eccidio. A quanto pare il documento per decidere la data dell'inaugurazione dell'opera (che, in teoria, era prevista per quest'anno) sarebbe stato dimenticato in un cassetto. Chiuso da mesi. A spiegarlo, durante la cerimonia, è stata l'assessore Carmela Rozza che ha svelato il mistero che si cela intorno alla finora mancata realizzazione del monumento richiesto dal comitato provinciale di Milano dell'associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia nell'ormai lontano giugno 2013. Ebbene, di fatto l'assessore Rozza ha dichiarato pubblicamente che la pratica è ferma in Consiglio di Zona 2. «A seguito di un immediato accesso agli atti dichiara Roberta Capotosti, capogruppo di Sovranità in Consiglio di Zona 2 - ho appreso con stupore che la richiesta di un parere al Consiglio di Zona 2 da parte del Comune giace nei cassetti del presidente del Consiglio di Zona e della sua maggioranza dal 23 novembre scorso e che, fino ad ora, si sono tutti ben guardati dal tirarla fuori e metterne a parte non solo il consiglio tutto, ma nemmeno i capigruppo». «Spiace accertare - conclude Capotosti - che a settant'anni di distanza da quei crimini efferati, e dopo un silenzio assordante che ci ha accompagnati fino al 2004, quando è stata finalmente riconosciuta la ricorrenza, ci sia ancora qualcuno che provi ad insabbiare una pagina vergognosa della storia di questo paese e faccia di tutto per cancellare la memoria e rendere onore ai tanti italiani morti o costretti ad abbandonare le proprie terre, le proprie abitazioni ed i propri averi, negando loro, ancora oggi, perfino la possibilità di farsi, a spese proprie, un monumento a perenne ricordo». «Non si capisce perché abbiano aspettato tanto - commenta Riccardo De Corato, Fratelli d'Italia - e soprattutto perché il Comune non abbia fatto scattare il silenzio/assenso che di prassi avviene dopo un mese». Un tentennare che mette allo scoperto il poco interesse della giunta arancione per la ricorrenza, resa ufficiale solo dal 2004 e fino a poco tempo fa celata anche dagli indici dei libri di scuola. «Comunque, dopo il parere della prossima settimana, non ci saranno più scuse - sostiene De Corato - e la stele dovrà trovare posto in piazza della Repubblica in tempi brevissimi, non facciano slittare l'inaugurazione a dopo le elezioni. Noi non molliamo». In Consiglio regionale invece le Foibe sono stata celebrate in un clima nient'affatto polemico ma commosso: sono state raccolte le testimonianze dirette di alcuni sopravvissuti e sono stati consegnati i premi di un concorso scolastico promosso dallo stessa Regione.

Settant'anni di omertà, ora spunta un'altra foiba. Lo rivela un documento "dimenticato" negli archivi del Ministero degli Esteri. Nella fossa in provincia di Udine 200-800 corpi, sembra vittime di partigiani rossi, scrive Fausto Biloslavo, Giovedì 11/02/2016, su "Il Giornale". Una nuova foiba sembra tornare alla luce dagli orrori del passato, il giorno del Ricordo del dramma degli esuli istriani, fiumani e dalmati. La fossa comune non si troverebbe nell'ex Jugoslavia, ma in provincia di Udine. Le Foibe scordate dentro un cassetto. I responsabili del massacro, nascosto per 70 anni, sarebbero i partigiani comunisti della divisione Garibaldi-Natisone, che nel 1945 erano agli ordini del IX Corpus jugoslavo del maresciallo Tito. Le vittime nella fossa comune sarebbero fra 200 ed 800. I carabinieri sono stati informati. Ieri, Giorno del ricordo dell'esodo e delle foibe, Luca Urizio, presidente della Lega nazionale di Gorizia, ha reso pubblico un documento «dimenticato» negli archivi del Ministero degli Esteri, che rivela il punto esatto della strage ancora da confermare. Il 30 ottobre 1945 arrivò a Roma un rapporto dell'Ufficio informazioni, gruppo speciale. «La foiba e la fossa comune esistente nella zona di Rosazzo (provincia di Udine, ndr) è ubicata precisamente nella zona chiamata ... (il nome del posto è cancellato per mantenere il riserbo)». L'informativa fa parte delle notizie segrete «Ermete» e riporta che «secondo quanto afferma la popolazione dovrebbero essere sepolti da 200 a 800 cadaveri facilmente individuabili perché interrati a poca profondità». L'Ufficio informazioni indica anche i presunti mandanti: «Il responsabile di detto massacro della popolazione è ritenuto il comandante della divisione Garibaldi-Natisone Sasso coadiuvato dal commissario politico Vanni». L'informativa segreta è rimasta sepolta in archivio fino allo scorso anno, quando l'ha trovata Urizio, che a Roma voleva fare luce sui deportati dei titini da Gorizia nel 1945. «Sasso» è il nome di battaglia di Mario Fantini e «Vanni» quello di Giovanni Padoan, noti fazzoletti rossi della Resistenza passati a miglior vita. Nel documento si indica anche un testimone: «Per avere chiarimenti e indicazioni necessarie per la identificazione occorre interrogare un certo Dante Donato ex comandante Osovano da Premariacco». I partigiani della brigata Osoppo erano stati massacrati dai garibaldini a Porzus nel febbraio 1945 perché si opponevano all'espansionismo titino. «La fossa non è lontana da Bosco di Romagno dove vennero trucidati parte degli osovani - rivela Urizio -. I carabinieri hanno chiesto di non rivelare la località esatta. Sopra i corpi potrebbero esserci delle armi abbandonate». Un altro documento recuperato a Roma del prefetto di Udine, Vittadini, l'11 giugno 1945, conferma che ai garibaldini «sarebbero stati anche di recente consegnati mitra russi con forte munizionamento e con l'ordine di tenersi pronti nel caso che da parte di Tito venisse ordinata un'azione di forza». Urizio ipotizza con il Giornale che «nella fossa comune potrebbero esserci civili e militari sia italiani che tedeschi. Un paese intero era a conoscenza della strage, reato che non va in prescrizione. Spero che dopo 70 anni cada finalmente il velo d'omertà». Agli inizi degli anni Novanta, dopo mezzo secolo di silenzio, i carabinieri avrebbero cominciato a ricevere vaghe informazioni sul massacro, ma la fossa non è mai stata trovata. Sembra che esista anche una confessione postuma di chi sapeva o ha partecipato alla strage. La Lega nazionale, che storicamente si batte per l'italianità, chiede di fare piena luce. Dagli archivi ministeriali romani sono saltate fuori anche le liste con nomi, cognomi e date di sparizione dei deportati dai partigiani titini nel 1945 a guerra finita. «Gli elenchi allegati si riferiscono a n. 1203 persone scomparse di Gorizia () Si ignora se dette persone siano state deportate in Jugoslavia dai partigiani di Tito o uccise e gettate nelle foibe» riporta un documento del 1° ottobre '45 dello Stato maggiore dell'esercito. «Li stiamo confrontando con le liste di quelli che sono rientrati - spiega Urizio -. A Gorizia non sono tornati in 750-800. L'obiettivo è trovare dove sono finiti per permettere ai familiari di pregare o porgere un fiore». A Gorizia esiste già un monumento dedicato a 665 scomparsi. L'iniziativa bipartisan è stata sostenuta dal comune isontino e dal senatore dem Alessandro Maran. Fra i documenti recuperati a Roma colpisce la lettera del Cln di Gradisca d'Isonzo al presidente del Consiglio, Alcide de Gasperi, del 7 giugno 1946. «L'unione italo-slava di questa zona, che si autodefinisce antifascista non è in sostanza che la continuazione del fascismo in funzione panslavista», scrive G. Francolini seguito da altre firme. «Questi signori, che amano auto definirsi il popolo non rappresentano che se stessi e quella piccola frazione eterogenea la cui unica forza di coesione si manifesta nell'odio contro il popolo italiano».

«Così sabotano il mio film sulla strage più feroce commessa dai partigiani», scrive "Il Giornale" Domenica 11/11/2012. Della maestra elementare, Corinna Doardo, 39 anni, vedova di un sarto, che aveva insegnato a leggere e a scrivere a uno stuolo di bambini, ha scritto Giampaolo Pansa ne Il sangue dei vinti: «Andarono a prenderla a casa, la portarono dentro il municipio e la raparono a zero. La punizione sembrava finita lì e invece il peggio doveva ancora venire. Le misero dei fiori in mano e una coroncina di fiori sulla testa ormai pelata e la costrinsero a camminare per la via centrale di Codevigo, fra un mare di gente che la scherniva e la insultava. Alla fine di questo tormento, la spinsero in un viottolo fra i campi. E la uccisero, qualcuno dice con una raffica di mitra, altri pestandola a morte sulla testa con i calci dei fucili». Del figlio del podestà, Ludovico Bubola, detto Mario, ha riferito Antonio Serena ne I giorni di Caino: «I barbari venuti a liberare il Veneto cominciano a segargli il collo con del filo spinato, finché la vittima sviene. Allora provvedono a farlo rinvenire gettandogli in faccia dei secchi d'acqua fredda. Ma il martire non cede e grida ancora la sua fede in faccia ai carnefici. Allora provvedono a tagliargli la lingua che gli viene poi infilata nel taschino della giacca. Quindi, quando la vittima ormai agonizza, gli recidono i testicoli e glieli mettono in bocca. Verrà poi sepolto in un campo d'erba medica nei pressi, sotto pochi centimetri di terra». Di Farinacci Fontana, che aveva appena 18 anni ed era infantilmente orgoglioso della sua fede nel Duce, compendiata fin dalla nascita in quell'assurdo nome di battesimo mutuato dal cognome di un gerarca fascista, vorrebbe parlare il regista Antonello Belluco ne Il segreto. Ma un conto è leggere certe cose sui libri degli storici revisionisti, un altro conto è guardarle al cinema, e Il segreto è appunto un film. Che nessuno deve vedere, anzi che non si deve nemmeno girare, perché è ambientato sullo sfondo dell'eccidio di Codevigo, il più cruento, insieme con quello della cartiera di Mignagola nel Trevigiano, compiuto dai partigiani in un'unica località a guerra già finita, a Liberazione già avvenuta, ad armi già deposte, in un arco temporale che va dal 29 aprile al 15 maggio, forse anche dopo, nessuno può dirlo con precisione. Così come nessuno ha mai stabilito la contabilità esatta della mattanza: c'è chi parla di 136 vittime, chi di 168 e chi di 365, come i giorni di quell'atroce 1945.

Secondo il cardiologo Luigi Masiero i giustiziati furono non meno di 600, ma il calcolo potrebbe essere inficiato dal fatto che il medico era stato, come quasi tutti, camicia nera. Un documento dell'arcidiocesi di Ravenna-Cervia ipotizza addirittura la cifra di 900 morti. Don Umberto Zavattiero, a quel tempo prevosto di Codevigo, annota nel chronicon parrocchiale: «30 aprile. Previo giudizio sommario fu uccisa la maestra Corinna Doardo. Nella prima quindicina di maggio vi fu nelle ore notturne una strage di fascisti importati da fuori, particolarmente da Ravenna. Vi furono circa 130 morti. Venivano seppelliti dagli stessi partigiani di qua e di là per i campi, come le zucche. Altri cadaveri provenienti da altri paesi furono visti passare per il fiume e andare al mare». In questa macabra ridda, diventa una certezza un titolo a tre colonne uscito sul Gazzettino soltanto 17 anni dopo, il 28 marzo 1962: «Esumate un centinaio di salme e raccolte in un piccolo ossario». È la prima cappellina sulla sinistra, nel cimitero di questo paese della Bassa padovana. Mezzo secolo fa vi furono tumulati i resti di 114 dei fascisti trucidati. Un'ottantina di loro hanno un volto negli ovali di ceramica. Tanti cognomi scolpiti sulla lapide e una postilla finale: «N. 12 ignoti». Belluco è un padovano di 56 anni, laureato in scienze politiche. Ha lavorato in Rai dal 1983 come programmista e regista per Radio 2 e Rai 3, prima a Venezia e poi a Roma. «Sono entrato grazie a un'unica referenza: l'aver vinto il premio Cento città, indetto dalla casa discografica Rca, che l'anno prima era andato al dj Claudio Cecchetto. In mensa mi chiedevano: “Tu da chi sei raccomandato?”. Tutti avevano un padrino». Nel 1987 lo convoca Antonio Bruni, dirigente della Tv di Stato: «Qua dentro, senza un partito alle spalle, non puoi far carriera. Meglio se ti cerchi un lavoro fuori». Belluco ascolta il consiglio. Si mette a girare spot e filmati per Lotto, Safilo, Acqua Vera, Lavazza, Pubblicità Progresso. Produce audiovisivi per Il Messaggero di Sant'Antonio, documentari, inchieste (sull'ecstasy, sul sequestro di Giuseppe Soffiantini, sul regista Sam Peckinpah). Nel 2006 l'esordio nel cinema con Antonio, guerriero di Dio interpretato da Jordi Mollà, Arnoldo Foà e Mattia Sbragia. La Buena Vista (Walt Disney Company) si offre di lanciare il film, ma il produttore preferisce l'italiana 01 Distribution (Rai Cinema). «Risultato: programmazione pessima. E pensare che in quattro sale di Padova aveva fatto gli stessi incassi del Codice da Vinci». Nel 2011 la sua docufiction Giorgione da Castelfranco, sulle tracce del genio viene qualificata dal ministero per i Beni culturali come film d'essai insieme con Habemus Papam di Nanni Moretti. Nello stesso anno cominciano le riprese de Il segreto, con tanto di marchio della Warner Bros sulla colonna sonora, giacché Belluco sa maneggiare tanto la pellicola quanto il pentagramma, come dimostra il Sanctus scritto a quattro mani con l'amico Pino Donaggio e cantato da Antonella Ruggiero nei titoli di coda di Antonio, guerriero di Dio. Il regista aveva già girato un quarto d'ora, dei 105 minuti previsti dal copione ambientato sullo sfondo dell'eccidio di Codevigo, quando gli capita fra capo e collo una catena di sventure difficilmente attribuibili al caso e tutte senza spiegazione: il produttore rinuncia, i contributi ministeriali e regionali vanno in fumo, le banche ritirano i finanziamenti, i collezionisti che avevano messo a disposizione materiale bellico e costumi d'epoca si defilano, la Ruggiero si rifiuta d'interpretare il tema musicale del Segreto, gli avvocati inviano diffide. «Finché un giorno Angelo Tabaro, segretario generale per la Cultura della Regione Veneto, me l'ha confessato chiaro e tondo: “Ho ricevuto telefonate dall'Anpi e dai partiti di sinistra. Non vogliono che esca questo film”».

Perché ha deciso di occuparsi dell'eccidio di Codevigo?

«Non certo per ricavarne un'opera ideologica. Nel 2010 il sindaco del paese, Gerardo Fontana, eletto con una lista civica di sinistra, mi sottopone in lettura due pagine riguardanti questa terribile storia. Sento che c'è materia su cui lavorare. Il tema non mi è indifferente: sono figlio di profughi istriani, i miei nonni e mia madre vivevano a Villa del Nevoso e scamparono alle foibe grazie a un ex repubblichino che faceva il doppio gioco per i partigiani di Tito. Butto giù una sceneggiatura e la invio a Fontana. Lui mi telefona: “Mi hai commosso”. Decidiamo di lavorare insieme al soggetto, che toccò da vicino la sua famiglia».

Ebbe qualche parente assassinato?

«Farinacci Fontana, 18 anni. Era suo cugino. Il padre Silvio, capo delle Brigate nere di Codevigo, si salvò consegnandosi ai carabinieri di Piove di Sacco. Il ragazzo, che non aveva fatto nulla di male, preferì restare in paese. Nonostante fosse stato interrogato dagli inglesi e rilasciato per la sua innocuità, finì giustiziato su ordine di un capo partigiano che faceva seviziare i prigionieri e poi li giudicava alla maniera dell'imperatore Nerone nel circo: pollice verso, morte; pollice in alto, vita. Come recita un proverbio africano, quando gli elefanti combattono, è sempre l'erba a rimanere schiacciata. Farinacci è il personaggio reale di una storia che nel Segreto è basata sulla fantasia. Di lui s'innamora Italia Martin, 15 anni. Ma Farinacci ha occhi solo per Ada, una giovane istriana. Un giorno Italia lo scopre mentre fa l'amore con Ada e per vendetta lo denuncia ai brigatisti».

Quelli sono esistiti davvero, però.

«Sì, la 28ª Brigata Garibaldi “Mario Gordini” arrivò a Codevigo il 29 aprile 1945 agli ordini di Arrigo Boldrini, detto Bulow, inquadrata nell'VIII Armata angloamericana del generale Richard McCreery. Vestiva divise inglesi, col basco fregiato di coccarda tricolore. All'epoca Bulow aveva 30 anni. L'ex parlamentare Serena nel libro I giorni di Caino scrive che Boldrini era un comunista con alle spalle un passato di capomanipolo nell'81º Battaglione “Camicie nere” di Ravenna, sua città natale. Finita la guerra, sarà deputato del Pci per sei legislature, vicepresidente della Camera e presidente dell'Anpi, l'Associazione nazionale partigiani d'Italia. Decorato dagli inglesi con medaglia d'oro al valor militare. Ma nel mio film di Bulow non parlo. Il comandante brigatista ha un nome di battaglia diverso: Ramon».

Al massimo evoca Per un pugno di dollari: «Al cuore, Ramon».

«Boldrini-Bulow s'è sempre difeso sostenendo che in quei giorni si muoveva fra Padova, Bologna, Milano, Venezia e Adria e mai ordinò le brutali uccisioni. Fatto sta che i partigiani venuti da Ravenna rastrellarono un po' in tutto il Veneto appartenenti alle disciolte formazioni della Repubblica sociale italiana e li portarono a Codevigo. Il bilancio dei processi sommari non si discosta molto da quello dell'eccidio delle Fosse Ardeatine. Solo che qui non ci sono un Herbert Kappler e un Erich Priebke che ammazzano con un colpo alla nuca 15 ostaggi in più rispetto all'ordine di rappresaglia. Dunque chi ha la responsabilità dei morti di Codevigo? Si sono forse uccisi da soli?».

Gino Minorello aveva 23 anni ed era l'organista della chiesa di Codevigo. Che cosa potrà aver mai fatto di male per meritare la morte?

«Gottardo Minato, che era il custode del cimitero, ha testimoniato che fu preso assieme a Edoardo Broccadello, detto Fiore, e a Primo Manfrin. Li misero sul ciglio della fossa. Poi diedero una fisarmonica all'organista, ordinandogli: “Suona una marcetta”. Mentre Minorello suonava, spararono a tutti e tre».

Per quale motivo la strage avvenne proprio in questo luogo?

«Siamo a meno di 5 chilometri in linea d'aria dall'Adriatico, in un territorio bagnato da quattro fiumi, Brenta, Bacchiglione, Nuovissimo e Fiumicello, sulle cui rive i prigionieri venivano spogliati, fucilati e gettati in acqua. Il mare doveva diventare la loro tomba, quando non li aspettava una fossa comune. Alcune vittime furono inchiodate vive sui tavolacci che si usavano per “far su” il maiale, come diciamo dalle nostre parti. Della maestra Doardo, forse colpevole di eccessiva severità nell'insegnare le tabelline al figlio zuccone di qualche comunista, restò integro solo un orecchio, come attestato nel referto del dottor Enrico Vidale, che esaminò le salme recuperate».

Mi racconti delle traversie del Segreto.

«Nel 2011 mi rivolgo a Sergio Pelone. Ha prodotto film di successo, come Gorbaciof, e molte opere di Marco Bellocchio, da L'ora di religione a Il regista di matrimoni».

Un produttore di sinistra.

«Maoista, a detta di Sandro Cecca, un mio amico regista. Tutti mi dissuadevano: “Figurarsi se Pelone ti produce Il segreto”. Vado nel suo ufficio a Roma e, in effetti, alle pareti noto varie scritte in cinese: massime di Mao Tse-tung, suppongo. “L'opera mi piace, può diventare un capolavoro”, mi incoraggia Pelone. Propone di chiedere i finanziamenti al ministero per i Beni culturali e alla Film commission della Regione Veneto. A quel punto diventa il capocordata. A Roma su 66 richieste di contributi ne vengono accolte solo 8. Il primo classificato è Alessandro Gassman, che becca 200.000 euro. Il cognome conta. Noi veniamo rimandati alla sessione successiva. A Venezia otteniamo 50.000 euro, un niente. Pelone firma ugualmente l'inizio delle riprese, che comincio a mie spese. Ma a marzo mi comunica che esce dal progetto perché non c'è il budget. Così ci fa perdere i finanziamenti del ministero e della Regione. E pensare che la scenografa Virginia Vianello, nipote di Raimondo, mia grande amica, mi aveva già presentato a Cinecittà Luce, che era pronta a distribuirmi il film».

Il progetto è stato azzoppato.

«E non solo finanziariamente. Dennis Dellai, regista vicentino di Così eravamo e Terre rosse, lungometraggi sulla Resistenza, che aveva promesso di mettermi a disposizione armi, automezzi e divise della seconda guerra mondiale, mi manda i costumi per girare le prime scene, però all'improvviso cambia idea. La nostra producer, Maria Raffaella Lucietto, parla con Davide Viero, aiuto regista di Dellai ed esperto di materiale bellico, il quale balbetta che tiene famiglia e che non vuole mettersi contro l'Anpi e i partigiani. Da quel momento i quattro o cinque collezionisti del Veneto ci chiudono le porte in faccia. “A Belluco non si deve dare niente”, è il passaparola».

Chi altro ha cambiato idea?

«Due del settore produzione se ne sono appena andati. Siccome realizzano audiovisivi per conto di enti pubblici, non volevano inimicarsi uno dei loro committenti».

Sia meno vago: quale committente?

«Flavio Zanonato, il sindaco di Padova. Ex Pci, oggi Partito democratico».

Non starà peccando di complottismo?

«Complottismo? Da Antonveneta mi avevano comunicato che erano disponibili 10.000 euro nell'ambito dei progetti culturali. Peccato che la fondazione bancaria sia presieduta da Massimo Carraro, già parlamentare europeo dei Democratici di sinistra, grande amico di Zanonato. Mai visti i fondi. Altri ci sono stati negati, sempre per motivi ideologici, dalle casse rurali».

Ha finito con le defezioni?

«Le racconto solo l'ultima, quella che mi ha ferito di più. Ingaggio un finalista di X Factor perché mi scriva il tema musicale del Segreto con una tonalità adatta ad Antonella Ruggiero. Spedisco testo, spartito e cover alla solista genovese. Mi scrive Roberto Colombo, il marito: “Veramente un brano interessante. Ad Antonella piace l'idea di poterlo interpretare”. Poi mi chiede: “Ci puoi mandare anche una rapida descrizione del contenuto del film?”. Mando. A quel punto ci comunica che sua moglie “ha pensato di non sentirsi a proprio agio nello sposare le tematiche della sceneggiatura”».

Tematiche politicamente scabrose.

«Le stesse che hanno indotto l'avvocato Emilio Ricci, patrocinante in Cassazione con studio a Roma, a inviarmi una raccomandata con ricevuta di ritorno in cui mi notifica che il suo assistito Carlo Boldrini, figlio ed erede di Arrigo Boldrini, venuto a conoscenza della mia intenzione di “girare un film sulle tragiche vicende relative alle stragi accadute a Codevigo nella primavera del 1945, ha evidente interesse a conoscere i contenuti della trama e dell'opera, in considerazione della complessità degli accadimenti di quel periodo e delle diverse interpretazioni-storico politiche che si sono susseguite”. Motivo per cui pretendeva una copia della sceneggiatura».

Stando allo Zingarelli, si tratterebbe di un tentativo di censura preventiva.

«L'invito perentorio mi è stato rinnovato dopo cinque mesi con una seconda raccomandata, identica alla prima. Ovviamente non gli ho spedito nulla».

È un fatto che le vicende di Codevigo furono al centro di 24 procedimenti penali riguardanti 108 omicidi, che videro imputati quattro combattenti della 28ª Brigata Garibaldi. Tutti assolti.

«Non è un film processuale. A me interessa di più capire come reagirono i bambini o perché nessuno degli abitanti di Codevigo si oppose a quella spaventosa carneficina. Perciò non comprendo da quale timore sia mosso il figlio di Boldrini, visto che nel mio film la figura del comandante Bulow, suo padre, non compare proprio».

Ha trovato un nuovo produttore per il suo film?

«Mi ero rivolto a Rai Cinema. La risposta mi è arrivata per e-mail da Carlo Brancaleoni, che dirige la struttura Produzione film di esordio e sperimentali: “Le devo purtroppo comunicare che non abbiamo ritenuto la sceneggiatura coerente con la nostra linea editoriale. Il senso narrativo essenziale, la storia d'amore dei due amanti stritolati dai meccanismi della guerra, non trova conforto, a nostro avviso, nel sottofondo storico che intende descrivere e raccontare”. Questa del “sottofondo storico” è da incorniciare. Forse la Rai trova conforto solo nei copioni che prevedono qualche milione di morti».

Dunque il produttore non l'ha trovato.

«No. Però avevo parlato con un amico del regista Dellai, il vicentino Bruno Benetti, imprenditore della Itigroup di Villaverla, che con la One art finanzia anche film statunitensi. Il suo consulente è Marco Müller, già direttore artistico della Mostra del cinema di Venezia, oggi al Festival di Roma. Un giorno dell'anno scorso Benetti mi chiama: “Müller ha letto la sceneggiatura, è rimasto impressionato. Darà l'internazionalizzazione al Segreto”. Passa qualche tempo e l'industriale telefona alla producer Lucietto: “Io non investo neanche 100 euro su un certo tipo di film”».

Adesso come se la caverà?

«Ho un po' di tempo davanti. Prima di fine aprile le riprese non possono ricominciare per motivi meteorologici, visto che l'eccidio fu commesso in primavera. Abbiamo ridotto le spese all'osso. Direttore della fotografia, scenografa e montaggista hanno accettato d'essere pagati a caratura, cioè in percentuale sui soldi che entrano in cassa. Se non entrano, lavorano gratis. C'è chi s'è offerto di noleggiarmi la macchina da presa Alexa per 1.000 euro a settimana: di norma ce ne vogliono 1.500 al giorno. L'investimento iniziale è davvero minimo: 120.000 euro. Mi rifiuto di credere che non vi sia un produttore indipendente, una casa cinematografica, una rete televisiva o anche solo un mecenate che non sia interessato a un film da cui potrebbe fra l'altro ricavare qualche soddisfazione economica».

E se non trova il mecenate?

«Il segreto uscirà comunque, questo è sicuro. Sto ricevendo attestazioni di stima commoventi. L'imprenditore Franco Luxardo, quello del maraschino, esule dalmata nipote di Pietro Luxardo, che col fratello Nicolò e la moglie di questi fu affogato nel mare di Zara dai partigiani titini, ci ha promesso 1.000 euro; a titolo personale, ha voluto precisare, perché non è riuscito a convincere nemmeno il consiglio d'amministrazione della sua azienda a compromettersi con i morti di Codevigo. Gli iscritti all'associazione Comunichiamo italiano, che ha sede a Padova, hanno deciso di autotassarsi. Se proprio non potrò entrare nel circuito normale, mi affiderò a Internet: sul sito Eriadorfilm.it si può fin d'ora prenotare il Dvd del film in edizione speciale, abbinato al libro Il segreto. Ormai ho fatto mio l'impegno dell'Amleto di William Shakespeare: parlerò anche se l'inferno stesso si spalancasse per ordinarmi di tacere».

Ma lei ha simpatia per il fascismo?

«Non vedo come potrei, essendo nato nel 1956. Giorgio Almirante sosteneva che solo chi ha vissuto sotto il Duce può ancora definirsi fascista, perché il fascismo è un'esperienza storica conclusa. Forse pensano che sia fascista perché avevo preparato la sceneggiatura di un film, Questo bacio a tutto il mondo, sulle prime due vittime delle Brigate rosse, Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci, un appuntato in congedo dei carabinieri e un agente di commercio che furono assassinati il 17 giugno 1974 nella sede di Padova del Msi-Dn, in via Zabarella. Anche in quell'occasione dalla Rai ricevetti la stessa risposta pervenutami per Il segreto: sceneggiatura non coerente con la nostra linea editoriale».

È di destra, allora?

«Sono un cattolico che crede nella dottrina sociale della Chiesa, nella difesa degli ultimi. Ho una buona cultura marxista, quanto basta per capire che non potrei mai essere marxista».

Dove s'è formato la cultura marxista?

«All'Università di Padova ho avuto Toni Negri come insegnante di dottrine dello Stato. Mi ha tenuto sotto esame per un'ora abbondante. Voto: 28. Più di Renato Brunetta, che in economia politica del lavoro mi ha dato 25».

Perché i registi sono tutti di sinistra?

«Perché la cinematografia è un potere politico fondamentale che è stato attribuito alla sinistra fin dalla nascita della Repubblica. Nella spartizione per aree d'influenza, Dc e Psi si sono tenuti il governo, gli enti pubblici, le banche e i consigli d'amministrazione; al Pci sono andati la scuola, la cultura e l'informazione. È sempre stato così e sempre sarà così. Non c'è regime, violenza, pallottola che salga infinitamente sulla Cattedra della Verità. Quando crollerà l'ultimo muro dell'ipocrisia umana, si apriranno le porte agli eserciti senza bandiere e ogni segreto sarà perdonato».

Come mai ha messo questo esergo al copione?

«È caduto il Muro di Berlino, ma non quello di Codevigo. Abbiamo bisogno di verità, dobbiamo abbattere il Muro del silenzio. Italia Martin, la protagonista del Segreto, è la giovane Italia di ieri. Oggi che quest'Italia è diventata vecchia, io mi preoccupo per sua nipote, condannata a portarsi in dote le acredini di allora anche nella Terza, nella Quarta, nella Quinta Repubblica, senza speranza».

Pansa nel mirino dei "baroni rossi". La battaglia di retroguardia degli accademici contro una nuova lettura della storia d'Italia, scrive Giampaolo Pansa, Giovedì 11/02/2016, su "Il Giornale". Più interessanti, anche se scontati, furono gli anatemi che mi arrivarono da un manipolo di intellettuali, quasi sempre docenti di storia in diverse università italiane. Il più accanito si rivelò Angelo d'Orsi, ordinario di Storia del pensiero politico a Torino. All'inizio del 2004 pubblicò sulla rivista «MicroMega» una lunga requisitoria contro il revisionismo. Scritta in uno stile da burocrate sovietico e in un pessimo italiano, evocava a mio disdoro, «la protettiva ombra del berlusconismo e dei suoi immediati pressi». Il suo stralunato atto d'accusa merita di essere ricordato per una singolare schedatura che lo accompagnava: la lista nominativa di signori che non dovevano permettersi di pubblicare ricerche storiche. Queste lingue da tagliare erano diciotto, compresa la mia. Tra loro c'erano intellettuali stimati come Sergio Romano, Francesco Perfetti, Ernesto Galli della Loggia, Giovanni Belardelli, Giovanni Sabbatucci. E giornalisti come Paolo Mieli, Pierluigi Battista, Giuliano Ferrara, Silvio Bertoldi, Gianni Oliva, Antonio Spinosa, Arrigo Petacco, Antonio Socci, Renzo Foa. «E l'elenco potrebbe continuare» minacciava d'Orsi, «arrivando sino alla più sgangherata frontiera della battaglia per la libertà di stampa». Eppure la faccenda non si concluse lì. Il direttore di «MicroMega», Paolo Flores d'Arcais, andò in orgasmo per la lista d'Orsi e decise di sfruttarla per guadagnare qualche lettore alla sua rivista quasi clandestina. La domenica 8 febbraio 2004 decise di trasferire una parte dell'elenco in un'inserzione pubblicitaria sul paginone culturale della «Repubblica». Una gogna stampata su 646 mila copie. Con un titolo di quelli furenti: Basta con i falsi storici. La manipolazione permanente della verità da parte dei vari... Seguivano i nomi di dieci loschi figuri, compreso il sottoscritto. Un altro gendarme della memoria molto solerte nel pestaggio verbale del Pansa si dimostrò di nuovo un docente di Storia dell'Università di Torino, Giovanni De Luna. Lui aveva a disposizione un quotidiano importante, «La Stampa». Nel 2003 era diretta da Marcello Sorgi, un collega che non digeriva i libri del sottoscritto, ma senza avere il coraggio di dirmelo affrontandomi in modo diretto. Sul «TuttoLibri» del 25 ottobre 2003, De Luna mi dedicò una lunga stroncatura intitolata Pansa, il sangue dei vinti visto con gli occhiali della Repubblica sociale italiana. Il titolo mi inorgoglì. L'accusa era quella che, tanti anni prima, nel 1952, era stata scagliata dall'«Unità» contro un libro del grande Beppe Fenoglio. Colpevole di vedere la guerra partigiana «dall'altra sponda», ossia dal versante dei fascisti. Al professor De Luna dovevo stare sui santissimi. Infatti quando venne intervistato dalla solita Simonetta Fiori di «Repubblica», disse che ero «straordinario nell'intercettare lo spirito del tempo». In parole povere un furbastro che fiutava il vento nuovo berlusconiano a cui accodarsi. Ma devo dedicarmi a un altro docente che mi prese di mira. Un big, così sembra, della ricerca storica: Sergio Luzzatto. Anche Luzzatto, genovese, quarant'anni giusti all'uscita del Sangue dei vinti, insegnava Storia all'Università di Torino. Ma rispetto agli altri gendarmi era un tipo avventuroso che aspirava alla notorietà. Scriveva i pezzi di polemica come un qualunque giornalista pittoresco. Nel dicembre 2002 aveva accettato di presentare a Genova I figli dell'Aquila e quel pomeriggio non mi sembrò che il Pansa gli facesse ribrezzo. Invece Il sangue dei vinti gli suscitò un disgusto profondo. Lo manifestò tutto nell'ottobre 2004. Una sera Giuliano Ferrara e Ritanna Armeni lo invitarono a Otto e mezzo, il loro talk show sulla Sette, a illustrare un suo pamphlet appena uscito, dedicato alla crisi dell'antifascismo. Accanto a lui c'ero io che avevo pubblicato in quei giorni Prigionieri del silenzio. La vicinanza, penso poco gradita a Luzzatto, mi trasformò nel suo bersaglio. Un ruolo che in fondo mi piaceva, poiché ero sempre attratto dalla rissa culturale, chiamiamola così. Tuttavia io ero soltanto un misero rappresentante di una categoria da aborrire: l'intellighenzia occidentale che, a sentir lui, aveva rinunciato a riflettere sul ruolo storico della violenza come levatrice di progresso. Quella sera Luzzatto mi sembrò un esemplare perfetto del signor Ghigliottina, nostalgico dei tagliatori di teste della Rivoluzione francese. E in quei panni mostrò di essere implacabile. Sostenne che la moralità della Resistenza consisteva anche nella determinazione degli antifascisti di rifondare l'Italia a costo di spargere molto sangue. Il signor Ghigliottina si rivelò pirotecnico. Sostenne che era sbagliato impregnarsi di buonismo. Spiegò: «Per questo non accetto il pansismo. Ossia la rugiadosa sensibilità di chi si scandalizza e quindi equipara una certa violenza partigiana, che pure Giampaolo Pansa ha avuto il merito di documentare, con quella fascista». Lo ascoltai sorridendo. A me Luzzatto sembrò un uomo delle caverne che esca dal suo antro con la clava e si scateni contro mezzo mondo. Intervistato da Dario Fertilio del «Corriere della Sera», aggiunsi: «Se è vero che l'antifascismo è in crisi, senza volerlo Luzzatto gli spara un colpo alla nuca».

I partigiani ora ammettono la vergogna di esodo e foibe. Il coordinatore dell'Anpi veneto riconosce che molti perseguitati italiani non erano fascisti ma oppositori del nuovo regime comunista e illiberale, scrive Fausto Biloslavo, Domenica 01/12/2013, su "Il Giornale". Si scusa con gli esuli in fuga dall'Istria, da Fiume e dalla Dalmazia per l'accoglienza in patria con sputi e minacce dei comunisti italiani. Ammette gli errori della facile equazione profugo istriano uguale fascista e della simpatia per i partigiani jugoslavi che non fece vedere il vero volto dittatoriale di Tito. Riconosce all'esodo la dignità politica della ricerca di libertà. Maurizio Angelini, coordinatore dell'Associazione nazionale partigiani in Veneto, lo ha detto a chiare lettere venerdì a Padova, almeno per metà del suo intervento. Il resto riguarda le solite e note colpe del fascismo reo di aver provocato l'odio delle foibe. L'incontro pubblico è stato organizzato dall'Associazione Venezia Giulia e Dalmazia con l'Anpi, che solo da poco sta rompendo il ghiaccio nel mondo degli esuli. Molti, da una parte e dall'altra, bollano il dialogo come «vergognoso». Angelini ha esordito nella sala del comune di Padova, di fronte a un pubblico di esuli, ammettendo che da parte dei partigiani «vi è stata per lunghissimi anni una forte simpatia per il movimento partigiano jugoslavo». Tutto veniva giustificato dalla lotta antifascista, compresa «l'eliminazione violenta di alcune centinaia di persone in Istria - le cosiddette foibe istriane del settembre 1943; l'uccisione di parecchie migliaia di persone nella primavera del 1945 - alcune giustiziate sommariamente e precipitate nelle foibe, soprattutto nel Carso triestino, altre - la maggioranza - morte di stenti e/o di morte violenta in alcuni campi di concentramento jugoslavi soprattutto della Slovenia». Angelini ammette, parlando dei veri disegni di Tito, che «abbiamo colpevolmente ignorato la natura autoritaria e illiberale della società che si intendeva edificare; abbiamo colpevolmente accettato l'equazione anticomunismo = fascismo e ascritto solo alla categoria della resa dei conti contro il fascismo ogni forma di violenza perpetrata contro chiunque si opponeva all'annessione di Trieste, di Fiume e dell'Istria alla Jugoslavia». Parole forti, forse le prime così nette per un erede dei partigiani, poco propensi al mea culpa. «Noi antifascisti di sinistra - sottolinea Angelini - non abbiamo per anni riconosciuto che fra le motivazioni dell'esodo di massa delle popolazioni di lingua italiana nelle aree istriane e giuliane ci fosse anche il rifiuto fondato di un regime illiberale, autoritario, di controlli polizieschi sulle opinioni religiose e politiche spinti alle prevaricazioni e alle persecuzioni». Il rappresentante dei partigiani ammette gli errori e sostiene che va fatto di più: «Dobbiamo riconoscere dignità politica all'esodo per quella componente di ricerca di libertà che in esso è stata indubbiamente presente». Gli esuli hanno sempre denunciato, a lungo inascoltati, la vergognosa accoglienza in Italia da parte di comunisti e partigiani con sputi e minacce. Per il coordinatore veneto dell'Anpi «questi ricordi a noi di sinistra fanno male: ma gli episodi ci sono stati e, per quello che ci compete, dobbiamo chiedere scusa per quella viltà e per quella volgarità». Fra il pubblico c'è anche «una mula di Parenzo» di 102 anni, che non voleva mancare. Il titolo dell'incontro non lascia dubbi: «Ci chiamavano fascisti, ci chiamavano comunisti, siamo italiani e crediamo nella Costituzione». Italia Giacca, presidente locale dell'Anvgd, l'ha fortemente voluto e aggiunge: «Ci guardavamo in cagnesco, poi abbiamo parlato e adesso ci stringiamo la mano». Adriana Ivanov, esule da Zara quando aveva un anno, sottolinea che gli opposti nazionalismi sono stati aizzati prima del fascismo, ai tempi dell'impero asburgico. Mario Grassi, vicepresidente dell'Anvgd, ricorda le foibe, ma nessuno osa parlare di pulizia etnica. Sergio Basilisco, esule da Pola iscritto all'Anpi, sembra colto dalla sindrome di Stoccolma quando si dilunga su una citazione di Boris Pahor, scrittore ultra nazionalista sloveno poco amato dagli esuli e sulle vessazioni vere o presunte subite dagli slavi. Con un comunicato inviato al Giornale, Renzo de' Vidovich, storico esponente degli esuli dalmati, esprime «perplessità di fronte alle “prove di dialogo” con l'Anpi» che farebbero parte di «un tentativo del Pd di Piero Fassino di inserire i partigiani nel Giorno del ricordo dell'esodo». L'ex generale, Luciano Mania, esule fiumano, è il primo fra il pubblico di Padova a intervenire. E ricorda come «solo due anni fa a un convegno dell'Anpi sono stato insultato per un quarto d'ora perché avevo osato proporre l'intitolazione di una piazza a Norma Cossetto», una martire delle foibe. In sala tutti sembrano apprezzare «il disgelo» con i partigiani, ma la strada da percorrere è ancora lunga e insidiosa.

Smaila: “In Italia, due pesi e due misure. Delle Foibe non interessa a nessuno”, scrive il 17/02/2016 Marco Fornasir su “Il Giornale”. «Sei libero domenica 7 febbraio? Mi piacerebbe averti con me a Verona per le celebrazioni del Giorno del Ricordo. Parlerà mia mamma». Il tono di Smaila, sempre un po’ scherzoso, aveva qualcosa di perentorio e ho risposto subito di sì. E’ stata una buona scelta, ho avuto l’occasione di stare con lui in auto un paio d’ore, il tempo di andare a Verona da Milano e ritorno, e ho avuto modo di parlarci a lungo, soprattutto toccando il tema della sua fiumanità, i ricordi legati a Fiume, quella che, per lui nato a Verona, è la sua seconda città. Una chiacchierata in dialetto (io sono di Gorizia) e Smaila ha tenuto a sottolineare che a casa si è sempre parlato dialetto fiumano (i veri fiumani dicono ja per dire sì, retaggio dell’Austria-Ungheria, mentre i croati dicono da), era un modo per rimanere con le radici in Istria e per potersi intendere con i rimasti, i parenti che non se la sono sentita di abbandonare case, beni e attività per venire a vivere in Italia. Ognuno aveva le sue buone ragioni, ma per lungo tempo i rimasti sono stati visti dagli esuli come dei traditori. Oggi il tema dei rimasti è molto vivo e le associazioni degli esuli hanno riallacciato buoni contatti con le Comunità Italiane delle varie città dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia. Come si viene a scoprire poco a poco, Fiume, pur facendo parte dell’Istria, è proprio sul confine tra Istria e Dalmazia e i fiumani si sono sempre sentiti, e lo sono veramente, un’altra cosa rispetto all’Istria e alla Dalmazia. Fiume era il porto più importante dell’Adriatico, più di Trieste, ed era di fatto lo sbocco al mare dell’Ungheria. Un’importante linea ferroviaria collegava direttamente Fiume a Budapest e qui vivevano molte famiglie ungheresi importanti, proprietarie delle più belle ville di Abbazia. Fiume, come ricorda Smaila, era una vera città colta, evoluta, multi-etnica e multi-culturale nel vero senso della parola. Grazie all’amministrazione austro-ungarica, l’integrazione non era forzata e naturalmente ogni gruppo etnico aveva le sue chiese e seguiva i propri ritmi e le proprie tradizioni, il tutto con un’armonia che oggi, in pieno periodo di globalizzazione, è veramente difficile vedere. Passato l’impero austro-ungarico, a Fiume venne il periodo di d’Annunzio e dei suoi legionari, che sbloccarono la questione fiumana con un atto di forza, facendo di Fiume una città completamente libera (e qualcuno aggiunge anche dissoluta…). Poi arrivò il governo italiano, i fascisti con l’italianizzazione forzata dei cognomi, poi i tedeschi con l’occupazione di quasi due anni, poi i partigiani titini e infine la Federazione Jugoslava. Tutti questi cambiamenti avvennero in meno di trent’anni. La famiglia Smaila, dopo l’esodo, si stabilì in un primo tempo a Lucca e successivamente a Verona, dove, nel 1950, nacque Umberto. Si erano ambientati bene a Verona, ma il cuore batteva forte per Fiume e, già nel 1952, la famiglia Smaila cominciò a passare il confine per andare a trovare i parenti rimasti: genitori, sorelle, fratelli, zii e cugini. I primi anni in treno e dal 1956 con una fiammante Fiat 600, un’auto rivoluzionaria per l’epoca. A quel tempo non c’era l’autostrada e il viaggio era lungo e impegnativo. Soprattutto il passaggio al confine era qualcosa di traumatico, con il controllo certosino di tutto il bagaglio trasportato. Molti esuli avevano chiuso con l’Istria, non volevano più tornare a vedere com’erano diventate quelle terre da sempre considerate italiane. Molti invece, soprattutto spinti dalla presenza dei parenti rimasti, compivano annuali pellegrinaggi nelle loro terre d’origine. Su come avvenivano questi viaggi da Verona a Fiume in 600, Umberto Smaila ha fatto un pezzo di cabaret durante la manifestazione di Verona, intrecciando ricordi e battute, ma al tempo stesso presentando concetti e sentimenti che sono quelli comuni a tutti gli esuli dal confine orientali, per intenderci quelli che hanno pagato interamente il debito di guerra di tutta l’Italia nei confronti della Jugoslavia, 125 milioni di dollari del tempo. Non sono mai stati risarciti dallo Stato italiano (si calcola che finora lo Stato ha restituito loro al massimo il 5%). «Comunque fin dall’adolescenza avevo capito in cosa consisteva il paradiso socialista incarnato nella Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia» spiega Umberto. «C’erano code dappertutto, in particolare per i generi alimentari. Spesso, quando arrivava il tuo turno, la merce era finita e tornavi a casa con poco o niente. Per questo quando partivamo per le vacanze estive, rigorosamente a Fiume, portavamo un bel po’ di roba, dalla pasta al caffè, dal formaggio grana all’olio di oliva. Molti prodotti non esistevano nei negozi e per i nostri parenti il nostro arrivo era una festa. Le vacanze a Fiume erano caratterizzate da un’ottima cucina» ricorda ancora Smaila. «La nonna Anna (mamma di mio papà Guerrino, aveva fatto le scuole ungheresi e parlava correttamente il magiaro) a 90 anni si faceva tutta la via Monte Grappa per andare al mercato a prendere il pesce fresco per me. La nostra via era ripida e io ancora oggi mi chiedo come faceva a quell’età a percorrerla senza sforzo apparente. La famiglia di mia madre, Giuseppina detta Mery Nacinovich, aveva uno stabile con trattoria sottostante (confiscato tutto dai titini) in via Trieste, dove alla zia Nina avevano lasciato in uso un piccolo appartamento. Qualche volta andavo a dormire da lei e sentivo giù nei giardinetti suonare la fisarmonica con ballate popolari». Riguardo alla cucina, Umberto Smaila ha ricordi affettuosi, limpidi e dettagliati. «Tutte le mie zie facevano a gara per farmi mangiare e penso sempre ai molti piatti prelibati che mi preparavano: le paprike impinide (d’inverno capuzzi impinidi), brodetto di seppie con polenta e un risotto con scampi e sugo di pomodoro, veramente eccezionale. La zia Ninetta era la specialista in goulasch. Gli anni passavano e mangiare mi piaceva sempre. Quando diventai più indipendente, alla fine della vacanza mi recavo da solo in una griglieria, a Susak (un sobborgo di Fiume) e mi ordinavo una doppia razione di rasnici e di civapcici, investendo in un colpo solo i 500 dinari che avevo messo da parte. Era il mio modo di salutare le mie terre». La memoria di Umberto non smette di offrire racconti e aneddoti legati alle sue solide radici istriane. «Finita la prima liceo classico, i miei genitori mi regalarono una Lambretta e per un po’ di tempo d’estate andavo a Fiume in Lambretta, seguendo la 1100 del papà (un’auto più grande e comoda che aveva sostituito la mitica 600). Con quello scooter mi sono divertito alla grande, di sera con mio cugino coprivamo i 10 km che separano Fiume da Abbazia per andare a ballare e al ritorno faceva così freddo che ci lacrimavano gli occhi. Ricordo che una volta mi ero portato a Fiume una fonovaligia Europhon con un filo elettrico di 100 metri, avevo installato il tutto a casa di un’amica e dall’ultimo piano mettevamo le canzoni dei Beatles e ballavamo nei giardinetti sotto casa. Per Fiume era una cosa mai vista prima. Fascino e potenza della cultura occidentale, negli anni 1964/1966 si sentivano solo musiche dei Beatles e tutti volevano vestire i jeans, che compravano negli empori di Trieste. Io stesso portavo ai miei cugini jeans ogni volta che arrivavo a Fiume. Nonostante il regime di Tito non vedesse di buon occhio questa apertura, l’esigenza dei giovani locali di sentirsi uguali ai ragazzi che vivevano all’Ovest era un fiume in piena che non si poteva più contenere. Insieme a mio cugino Paolo ci davamo un gran daffare per movimentare l’estate dei nostri coetanei fiumani. Di giorno si andava con il trolleybus a Cantrida, dove al Bagno Riviera avevamo a disposizione dei trampolini per i tuffi. Il bagno era quello frequentato dai rimasti, mentre i croati frequentavano un altro stabilimento. Lì si parlava italiano, cioè dialetto fiuman». Nel fluire dei ricordi di Umberto Smaila, siamo nel frattempo arrivati a Verona dove ha inizio la celebrazione del Giorno del Ricordo. La mamma di Umberto è fresca di parrucchiere e un po’ agitata per quello che dirà dal palco ai suoi concittadini veronesi, molti dei quali di origine fiumana. La mamma è personaggio di spicco a Verona e viene sempre intervistata come testimone vivente della tragedia del confine orientale. Presto darà alle stampe le sue memorie di fiumana e di esule. «Mia mamma – commenta Smaila – è sempre stata legata al tricolore, ai valori italiani. Mio papà era più legato a Fiume e al movimento autonomista di Riccardo Zanella, che voleva lo Stato Libero di Fiume. Infatti mia mamma ha sempre detto mi son italiana, mentre mio papà diceva mi son fiuman. Io come la penso? Sono orgoglioso di essere di quelle terre e di avere entrambi i genitori fiumani». La celebrazione volge al termine e si riprende la strada di casa. La conversazione prosegue toccando anche la politica. «Io ero critico col regime jugoslavo, ma vivevo un momento spensierato della mia vita e non volevo essere causa di discussioni in famiglia, quando eravamo a Fiume. Lì si evitava di discutere di politica, si parlava più che altro di famiglia e di ricordi. Invece i figli di mio zio Mario fra di loro avevano accese discussioni per motivi politici, io mi tenevo volutamente fuori da quel contesto, mi limitavo a osservare. E’ incredibile come la guerra ha cambiato i destini di una famiglia: io avevo tre zii, cognati di mia madre, che hanno avuto tre cognomi diversi. Il primo, lo zio Romano Bradicich, partì in camicia nera alla conquista dell’Abissinia e si fece ben 11 anni di prigionia sotto gli inglesi, ha vissuto anche lui a Verona. Suo fratello Anselmo era andato a fare il comandante delle navi da crociera a Genova e aveva cambiato il cognome in Bradini, non volendo avere più niente a che fare con le terre natìe. L’ultimo fratello, un comunista in buona fede, era andato partigiano, era rimasto in Jugoslavia e il suo cognome era Bradicic, alla croata. Ci sarebbe da fare un film su una storia così». Siamo quasi a Milano e la nostra conversazione arriva al dunque. «Guarda, la nostra storia non interessa a nessuno in Italia. Negli ultimi tempi, grazie al Giorno del Ricordo e alle altre iniziative che sono sorte (penso allo spettacolo Magazzino 18 di Simone Cristicchi che ha aperto gli occhi ad almeno un milione di persone) si è incominciato a fare un po’ di luce sulla tragedia degli esuli e sull’orrore delle foibe. In Italia c’è una visione camaleontica della storia, basti pensare alla lapide che c’è alla stazione di Bologna per ricordare il passaggio del treno dei profughi dall’Istria, quando attivisti comunisti buttarono sui binari i panini e il latte per i bambini preparato da organizzazioni caritatevoli. Su quella lapide c’è scritto che ci furono incomprensioni. Finchè quella parte politica che ha sempre visto i profughi come fascisti, per il solo torto di aver voltato le spalle al paradiso comunista di Tito, non capirà di avere completamente sbagliato le sue considerazioni, non si potranno fare passi in avanti. E quella lapide è lo specchio di come stanno le cose. Si celebra l’epopea partigiana come ricetta salvifica per l’Italia, dimenticando un po’ troppo spesso che senza l’aiuto americano non si sarebbero potuti cogliere i risultati raggiunti. Qui tutti hanno la memoria corta, se si pensa che fino a poco tempo fa era una prassi quella di bruciare bandiere americane in certe manifestazioni di piazza; fortunatamente ora questi episodi sono più rari ma bisogna continuare a restringere sempre più gli spazi a certi inutili e idioti estremismi. Per i nostri morti sono sempre stati utilizzati due pesi e due misure, gli infoibati ammazzati dai comunisti titini non hanno mai avuto la stessa considerazione di cui hanno goduto gli ebrei ammazzati dai nazisti nei campi di concentramento. Per questioni di real-politik, comunisti e democristiani hanno fatto a gara nel tentativo di seppellire tutta la vicenda delle terre perdute in Istria e Dalmazia, escludendo questa parte di storia italiana dai libri di storia delle scuole, facendone divieto di parlarne in pubblico. Gli unici che parlarono di quelle vicende furono i partiti di destra, che spesso lo fecero per ottenere dei vantaggi elettorali, con questo però dando poi ragione a chi sosteneva che gli esuli e i profughi erano tutti fascisti. E’ come un cane che si morde la coda, sembra che non ne verremo mai fuori, ma la Giornata del Ricordo, le testimonianze sempre più diffuse e i passi compiuti finalmente da certi politici verso la verità storica tengono accesa la mia speranza e quella di tanti esuli di essere considerati perseguitati alla pari con gli altri. Coloro che lasciarono quelle terre per me sono degli eroi, soprattutto per quanto hanno subito dopo il rientro in Italia e sono italiani due volte, la prima per nascita e la seconda per scelta».

Vivere sotto perenne giudizio. Ognuno di noi, durante la sua esistenza, perennemente, è sempre sottoposto al giudizio degli altri ed a questo deve essere conforme. In famiglia i genitori hanno l’obbligo di educare ed istruire i figli secondo canone generale. A scuola si insegna subdolamente la dottrina di Stato: quella laicista e di sinistra. Nei concorsi pubblici o negli esami di Stato si è sottoposti al giudizio di canoni di Stato attraverso commissari divenuti vincitori o abilitati in virtù del trucco. Nei rapporti confessionali ci si deve attenere al dettato religioso interpretato. Viviamo tra il martello del clericalismo e l’incudine dell’anticlericalismo. In questa democrazia menzoniera non c’è spazio per la libertà.

ANTICLERICALISMO e la Chiesa in Italia. Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia. Volume I - Dalle Origini All'Unità Nazionale. Voce pubblicata il 14/01/2015. Autore: Antonio Trampus. L’espressione anticlericalismo indica generalmente un complesso di idee e di atteggiamenti opposti polemicamente alle posizioni del clero cattolico espresse attraverso il clericalismo e il confessionalismo. L’aggettivo anticlericale, nel senso proprio di chi è ostile al clero, inizia a comparire nella lingua italiana alla metà del XIX secolo, divenendo poi di uso più comune negli anni sessanta e ottanta attraverso periodici come L’anticlericale. Giornale settimanale pubblicato dalla lega popolare anticlericale di Milano (1883) e il saggio di C. Lupano, La gran questione del nostro secolo: clericalismo e anticlericalismo (1889). In questo contesto il clericalismo era identificato nel governo temporale della Chiesa in Italia e l’anticlericalismo, quindi, rappresentava la sintesi delle posizioni di coloro che combattevano questo potere e si battevano per l’unità d’Italia attraverso la scomparsa dello Stato pontificio e con Roma capitale. In senso più ampio, l’espressione anticlericalismo nella cultura contemporanea italiana ha finito per indicare retrospettivamente ogni atteggiamento critico nei confronti del clero cattolico e ogni sua tendenza a estendere la sua influenza nell’ambito della società civile e dello Stato, sin dal tardo Medioevo e dalla prima età moderna. Vi vengono riassunte, quindi, tutte le tendenze razionaliste confluite nella cultura libertina di fine Seicento e in quella illuministica del Settecento. Emblematico e precorritore delle idee anticlericali appaiono, in questo senso, gli orientamenti deisti da chi, come Voltaire, sosteneva la necessità di un credo morale, di una religione naturale e di una concezione di Dio che rifiutava tanto le Chiese organizzate, quanto il loro arbitrio sui temi della superstizione e della tolleranza nonché la corruzione e la cupidigia dell’ordine sacerdotale di Antico Regime. Si tratta di atteggiamenti presenti anche in una parte della cultura illuministica italiana e in particolare negli scritti di Carlantonio Pilati e nei suoi atteggiamenti, vicini al panteismo, espressi in Di una riforma d’Italia, ossia dei mezzi di riformare i più cattivi costumi e le più perniciose leggi d’Italia (1767), ove si rinviene un intero capitolo dedicato alla necessità di impedire al clero di abusare del suo potere a danno dello Stato e dei suoi cittadini. Un diverso tipo di anticlericalismo è stato poi individuato storiograficamente nelle posizioni di quanti, in età moderna e dall’interno della Chiesa cattolica, si fecero portatori di esigenze di rinnovamento e di riforma che riportassero il cristianesimo ai suoi valori originari, recuperando i caratteri di umiltà e di carità propri del ministero ecclesiale e rivendicando l’immagine di una Chiesa semplice e povera, come sostenuto anche dai giansenisti. Le origini politiche dell’anticlericalismo risalgono invece alla rivoluzione francese, quando per la prima volta venne costruito un ordinamento statale laico, divenuto nell’Ottocento un modello per quanti si trovarono a combattere l’alleanza fra il trono e l’altare e la coalizione militare rappresentata dalla Santa Alleanza. In questo contesto l’anticlericalismo incontrò le istanze del laicismo e divenne strumento di lotta politica anche attraverso l’esperienza della Carboneria e della massoneria, soprattutto dopo la vicenda della Repubblica romana del 1848-49 e il rafforzamento dell’opposizione antipapale. Nel Regno di Sardegna, nell’agosto 1848, venne soppresso l’ordine dei Gesuiti e tutti i collegi vennero destinati ad usi militari, con una decisione ben presto imitata da altri Stati italiani. Posizioni anticlericali e antitemporaliste si ritrovano in scrittori come Giovanni Battista Niccolini, Francesco Domenico Guerrazzi e Giuseppe La Farina e nella dimensione filosofica e spirituale di Giuseppe Mazzini. Con le leggi Siccardi (1850, 1855) vennero poi aboliti i privilegi del clero nel Regno di Sardegna, tra cui il foro ecclesiastico, il diritto di asilo e la manomorta fino a che, nel 1855, si giunse su iniziativa di Cavour all’abolizione di tutti gli ordini religiosi privi di utilità sociale e al conferimento dei loro beni nella Cassa ecclesiastica. Le cosiddette leggi eversive degli anni 1866-1867 stabilirono infine incameramento nel Demanio dello Stato di tutti i beni appartenenti agli enti soppressi, fra cui le congregazioni religiose, e la soppressione di tutti gli enti secolari ritenuti superflui per la vita religiosa con eccezione dei seminari, delle cattedrali, delle parrocchie e dei canonicati. Con la questione romana l’anticlericalismo divenne un orientamento condiviso da differenti correnti politiche, sia liberali e moderate, sia democratiche, incrociando anche istanze provenienti dalla massoneria. In particolare, la polemica venne assumendo caratteri di radicalità concentrandosi sul potere temporale dei papi, sul clero regolare (specie i Gesuiti, ricostituiti con la Restaurazione) e sul controllo della scuola da parte del clero, almeno fino alla promulgazione delle leggi volute dalla Destra storica. Si tratta di atteggiamenti ripresi e resi popolari anche da Giuseppe Garibaldi attraverso le sue invocazioni a “liberare l’Italia dalla piaga dei preti” e dalla curia vaticana considerata il “governo di Satana”. Si comprendono perciò anche le posizioni assunte dalla massoneria italiana, attraversi il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, che nel 1886 poteva considerare il clericalismo come “destituito dal nerbo principale delle sue forze” e ormai finito “nell’agonia”. L’anticlericalismo trovò poi significativo spazio nel movimento fascista delle origini e venne sostenuto da esponenti della cultura futurista tra cui Filippo Tommaso Marinetti che all’adunata nazionale dei fasci a Firenze del 9 ottobre 1919 auspicò lo “svaticanamento d’Italia”. Si tratta di posizioni sostanzialmente abbondante dal partito fascista in coincidenza con le trattative che portarono alla nascita dei Patti lateranensi (1929). Nel secondo dopoguerra l’anticlericalismo nella vita politica italiana venne espresso attraverso il Partito Comunista Italiano e il Partito Socialista e, soprattutto, attraverso il Partito radicale sorto nel 1955 con l’obiettivo principale di promuovere la laicità dello Stato italiano e una revisione dei Patti Lateranensi in accordo, dal 1973, con la Lega italiana per l’abrogazione del Concordato (LIAC). In questo quadro, e come parziale successo degli orientamenti anticlericali, viene posta anche la revisione dei Patti Lateranensi, avvenuta nel 1984, che ha portato ad abbondare la concezione del cattolicesimo come religione di Stato e ha reso facoltativo l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche.

Al clericalismo si contrappone politicamente il laicismo e ideologicamente l'anticlericalismo.

Il Clericalismo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La parola clericalismo indica un agire in senso politico che mira alla salvaguardia e al raggiungimento degli interessi del Clero e, conseguentemente, si concretizza nel tentativo di indebolire la laicità di uno Stato attraverso il diretto intervento nella sfera politica e amministrativa da parte di sostenitori anche non appartenenti al Clero, o talvolta non credenti.

Il clericalismo nel mondo. Furono chiamati «clericali» nella metà del XIX secolo, in Francia e in Belgio, quei cattolici impegnati in politica ed organizzati in movimenti o partiti che si richiamavano esplicitamente alla loro confessione religiosa. I "clericali" francesi che erano stati tra i maggiori sostenitori dell'imperatore Napoleone III, influenzarono pesantemente la sua politica estera, in specie per i rapporti con il Regno d'Italia e per il problema di Roma capitale. L'invasione della Repubblica Romana e la restaurazione di papa Pio IX (1849), il fallito tentativo di instaurare un impero cattolico in Messico (1862-67), l'episodio di Mentana sempre a difesa di papa Pio IX (1867), sono gli esempi più rilevanti della subordinazione politica al Clero durante il regime di Luigi Napoleone che a garanzia dell'inviolabilità della Roma papale aveva stabilito nella città un presidio militare francese ritirato solo dopo la Convenzione di settembre nel 1864. Gli stessi eccidi della "settimana di sangue" seguiti all'instaurazione della Comune parigina (1871) con l'uccisione dell'arcivescovo di Parigi Georges Darboy possono essere considerati come effetti del duro scontro in Francia tra clericali e anticlericali socialisti. L'affaire Dreyfus (1894) la cui accusa era sostenuta anche dai clericalisti antisemiti, organizzati nello squadrismo dell'Action française, era il segno che, alla fine dell'Ottocento, in Francia era forte la presenza di una Chiesa conservatrice contrapposta ad intellettuali laici, progressisti e in parte massoni. Il termine si diffuse poi in Spagna ed in Italia, meno in Germania e per nulla in Inghilterra, segno di una situazione tipica di aree cattoliche dove possono nascere contrasti tra Clero e società civile. Durante la Guerra civile spagnola i clericali di tutta Europa si schierarono apertamente con Francisco Franco, di cui appoggiarono il regime dittatoriale dopo la vittoria. Unica voce cattolica apertamente contraria fu quella di Jacques Maritain. Durante la seconda guerra mondiale il clericalismo supportò i regimi di Jozef Tisoin Slovacchia e di Ante Pavelić in Croazia. Quest'ultimo si salvò dal processo dopo la guerra grazie alla fuga in Spagna agevolata dal Vaticano. Entrambi i regimi furono ferocemente antisemiti.

Il clericalismo in Italia. Cavour, fin dal 1850 si era messo in luce pronunziando un discorso in difesa delle leggi Siccardi che abolivano il diritto d'asilo e il foro ecclesiastico ancora in vigore dall'età medioevale nel Regno di Sardegna. Formato nel 1852 il "grande ministero" con Urbano Rattazzi, si era proposto di modernizzare il Piemonte laicizzando lo Stato ma dovette scontrarsi nel 1855 con i clericali piemontesi guidati dal vescovo di Casale e senatore, Luigi Nazari di Calabiana contrario alla soppressione degli ordini contemplativi al punto da causare una crisi politica che provocò le dimissioni del primo ministro. Ritornato al governo dovette affrontare un nuovo contrasto con i clericali, questa volta sostenuti dal re Vittorio Emanuele II, per l'introduzione del matrimonio civile in Piemonte che sarà attuato diversi anni dopo. Lo stesso Nazari di Calabiana, nominato arcivescovo di Milano, dopo l'unità d'Italia, nel 1864, si distinguerà per le sue polemiche contro gli intransigenti antiliberali. Fin dal 1857 era comparso sul giornale torinese l'Armonia diretto dal giornalista don Giacomo Margotti l'esortazione diretta ai cattolici: «Né eletti. Né elettori». Non meraviglia quindi che, sebbene lo Stato italiano dichiarasse di rinunciare a ogni controllo giurisdizionalistico, tuttavia i tentativi di regolare i rapporti con la Chiesa secondo la formula cavouriana di «Libera Chiesa in libero Stato», effettuati dallo stesso Cavour tramite il suo collaboratore Diomede Pantaleoni, e in seguito dai primi governanti della Destra storica, fallissero per l'intransigenza del rappresentante papale. Non ancora intransigenti ma cattolici di stretta osservanza, tra il 1861 e il 1878 i credenti italiani si appartano dalla vita nazionale e si esprimono in giornali dal tono estremamente polemico. «Lentamente s'instaura quel costume, che durerà decenni e decenni, fino alla prima guerra europea per cui il cattolico politico ha associazioni professionali, circoli, scuole cui inviare i figli, esclusivamente suoi, forma una società chiusa e riduce gli incontri con persone che non dividano la sua fede al minimo possibile » La data di nascita in Italia del clericalismo coincide con l'emanazione del Sillabo (1864) di papa Pio IX (1846-1878) che, considerandosi "prigioniero dello stato italiano", condannava ogni aspetto del liberalismo e del modernismo dando vita così al movimento degli «intransigenti» cattolici che rifiutavano di riconoscere il nuovo Regno d'Italia. La Chiesa tuttavia, sente la difficoltà di non avere nel Parlamento del Regno d'Italia suoi rappresentanti ed emana una disposizione nel 1866 che consente l'elezione di deputati cattolici purché nel formulare il giuramento allo Stato essi aggiungano, alla presenza di almeno due testimoni, la formula: «salvis legibus divinis et ecclesiasticis» ("salvo quanto dispongono le leggi divine e della Chiesa"). La Camera ritenne nullo il giuramento e da quel momento la voce dei deputati cattolici fu quasi assente dalle aule parlamentari. Questa chiusura della Chiesa influì negativamente sulla politica italiana post-unitaria, acuendo il forte anticlericalismo di gran parte dei politici italiani del tempo. L’allontamento definitivo dei cattolici dalla partecipazione diretta alla vita politica dello Stato italiano si ebbe quando il 30 gennaio 1870 la Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari espresse il parere che non fosse conveniente (non expedit) per i cattolici italiani partecipare alle elezioni politiche. Inoltre il Concilio Vaticano Primo iniziato nel dicembre del 1869, che si caratterizzava principalmente per la definizione del dogma dell'infallibilità del Papa quando parla ex cathedra in materia di fede e di morale (18 giugno 1870), rendeva ancora più accentuata la durezza delle posizioni del Clero nei confronti di chi cercasse con esso un compromesso. Ben 55 vescovi "antinfallibilisti", prima della approvazione del dogma si allontanarono dal Concilio che, interrotto dalla presa di Roma, non fu più ripreso. Il 13 maggio 1871 lo Stato italiano emana un originale atto di accordo internazionale unilaterale: la Legge delle Guarentigie (Legge delle Garanzie) voluta dal Parlamento per regolare i rapporti con la Santa Sede dopo la presa di Roma (20 settembre 1870). Respinta da papa Pio IX con l'enciclica Ubi nos e mai accettata dalla Santa Sede, rimase tuttavia in vigore sino alla Conciliazione del 1929. Su questa linea si costituì in seguito l'Opera dei congressi (1874) che può essere considerata come la nascita di un vero e proprio partito cattolico italiano. L'organizzazione rivendicava la rappresentanza del "paese reale" contro lo Stato liberale e si assumeva il compito di coordinare tutte le attività cattoliche di tipo sociale, cooperativistico, scolastico, giornalistico. Dopo la morte di papa Pio IX nel 1878, e l'assunzione al trono papale di papa Leone XIII (1878-1903) che mostrava dall'inizio del suo pontificato attenzione ai problemi sociali, al mondo del lavoro e dei suoi conflitti (vedi Rerum Novarum), sembrava potersi sperare in un'attenuazione dello scontro tra Chiesa e Stato. In un'enciclica del 1885 si raccomandava infatti ai cattolici europei di partecipare alla vita politica dei propri stati per non rimanere esclusi dalle decisioni dei loro governi, ma con la limitazione che questa adesione alla politica attiva «in qualche luogo…non convenga affatto (nequaquam expediat) per ragioni grandissime e giustissime». Ciò che era consentito per i paesi cattolici europei non lo era per l'Italia. Nel 1886 una circolare del Sant'Uffizio recitava così: «A togliere ogni equivoco, udito il parere degli Eminentissimi signori Cardinali inquisitori generali miei colleghi, ho ordinato che si dichiari il Non expedit contenere un divieto (prohibitionem importat) Card. Monaco.» All'interno del partito clericale italiano stava intanto nascendo una corrente che rifletteva l'azione sociale della Chiesa specie nelle campagne dove si organizzavano società cattoliche di mutuo soccorso, cooperative di consumo contadine, sindacati bianchi. Era la nuova corrente della Democrazia Cristiana che chiedeva che la sua azione sociale trovasse legittima rappresentanza e valido riconoscimento nel parlamento italiano. Senza politici che la difendessero l'organizzazione sociale cattolica non poteva sperare di sostenersi. Per questi obiettivi si batterono don Romolo Murri e il sociologo ed economista Giuseppe Toniolo subito osteggiati dai cattolici veneti, dai gesuiti e dalla Curia romana. Se prima non si risolveva il problema del rapporto Chiesa-Stato, sostenevano gli intransigenti, non si poteva affrontare la questione sociale e politica. Per i democristiani risorgeva il muro del non expedit che però sembrava potesse incrinarsi con l'avvento del nuovo papa Pio X (1903-1914), uomo di costumi semplici e popolari. Ma nel 1903 compariva invece sull'Osservatore Romano una nota ufficiale così redatta: «Siamo autorizzati a smentire le voci messe di questi giorni in giro dalla stampa cittadina e dagli altri giornali riguardo all'abolizione del Non expedit, essendo esse assolutamente prive di fondamento.» Nel 1904 Pio X decise di sciogliere l'Opera dei Congressi dove i "sovversivi" di Romolo Murri avevano acquistato la maggioranza. Il Murri sarà sospeso a divinis nel1907 e diventerà deputato nelle file dei radicali. Un altro sacerdote don Luigi Sturzo, che si era distinto in Sicilia per la sua azione sociale, obbedì all'ingiunzione pontificia in attesa di tempi migliori. Nello stesso anno la corrente moderata del clericalismo organizzata nell'Unione Elettorale Cattolica realizzò accordi prelettorali con candidati liberali moderati in maggioranza giolittiani. Giovanni Giolitti in difficoltà dopo lo sciopero generale degli anarco sindacalisti socialisti aveva infatti deciso di ricorrere alle elezioni convinto che la parte moderata del paese avrebbe punito l'ala massimalista dei socialisti. E in quest'occasione stipulò un accordo per cui i candidati liberali avrebbero avuto il voto dei cattolici, ma si sarebbero impegnati a non appoggiare leggi che contrastassero l'interesse del Clero. Il compromesso era sintetizzato dalla formula: «deputati cattolici no, cattolici deputati sì.» Lo stesso papa Pio X si mostrava favorevole in quanto tra i due mali: accordo con i liberali e la nascita di un partito cattolico democratico, che avrebbe portato a divisioni nella Chiesa, preferiva quello per lui minore. Non così la pensavano i cattolici democratici, che parlarono di «prostituzione di un voto.» Giolitti e i socialisti riformisti di Filippo Turati conseguirono una chiara vittoria elettorale, ma l'ingresso dei cattolici aveva prodotto un'accentuazione in senso conservatrice della politica italiana, quando lo stesso partito liberale avrebbe dovuto invece uscire dal suo moderatismo che non soddisfaceva più le classi contrapposte che si andavano viepiù estremizzando. Le difficoltà di governo con i socialisti, dopo l'impresa coloniale in Libia, spinsero Giolitti a ricercare un nuovo accordo con i cattolici con il Patto Gentiloni del 1912. Vincenzo Ottorino Gentiloni (1865-1916) propose ai candidati del "Partito Liberale" se avessero voluto il sostegno dei votanti cattolici di sottoscrivere i seguenti sette punti programmatici:

difesa delle congregazioni religiose,

difesa della scuola privata,

difesa dell'istruzione religiosa nelle scuole pubbliche,

difesa dell'unità della famiglia,

difesa del "diritto di parità alle organizzazioni economiche e sociali, indipendentemente dai principi sociali e religiosi ai quali esse s'ispirino",

salvaguardia di una migliore applicazione dei principi di giustizia nei rapporti sociali,

conservazione e rinvigorimento “delle forze economiche e morali del paese”, per un incremento dell'influenza italiana in campo internazionale.

Alle Elezioni politiche italiane del 1913, le prime in Italia a suffragio universale maschile, il Partito Liberale ottenne una schiacciante vittoria con il 51 % dei voti e 260 eletti e di questi ben 228 avevano sottoscritto i sette punti programmatici desiderati dai cattolici. Dopo il sanguinoso intervallo della guerra mondiale, dove il cattolicesimo schierato con i neutralisti aveva apertamente espresso con papa Benedetto XV (1914-1922) la sua condanna per l'"inutile strage", nella crisi degli anni 1919 – 1922 dapprima l'Unione nazionale di Carlo Ottavio Cornaggia Medici (1919), poi il Centro Nazionale Italiano di Paolo Mattei-Gentili (1924) ed Egilberto Martire, provocarono scissioni nel Partito Popolare Italiano fondato da Don Sturzo nel 1919. Il partito che nello stesso anno aveva ottenuto un buon successo alle elezioni, nasceva minato al suo interno per la eterogeneità delle posizioni, e all'esterno per la diffidenza di Pio XI (1922-1939) e della gerarchia. Era quindi inevitabile quella scissione nel 1923 che portò una parte del partito all'opposizione al fascismo mentre l'altra, i clericofascisti, s'illudevano, collaborando con il regime, di condizionarlo. Inizialmente benvisti da Mussolini, i clericofascisti vennero ben presto emarginati sia dal fascismo che dalla stessa Chiesa, salvo la concessione di un qualche ruolo diplomatico per la soluzione della questione romana con i Patti Lateranensi del 1929. Con i Patti Lateranensi sembrò acquietarsi lo scontro tra Chiesa e Stato rappresentato dal regime fascista che colse un vasto consenso popolare dalla pacificazione con la chiesa cattolica. Ma la matrice anarchica e socialista di Mussolini rendeva poco affidabile quella politica di «buon vicinato» che i cattolici si auguravano. I primi dissensi emersero nel 1931 quando il fascismo chiese la chiusura dell'Azione Cattolica, rilanciata invece da papa Pio XI come forza organizzata di presenza nella società. L'alleanza di Mussolini con la Germania nazista e pagana, l'emanazione delle leggi razziali del 1938 resero sempre più difficili i rapporti con il regime fascista. Eletto nel 1939 a pochi mesi dallo scoppio della seconda guerra mondiale, papa Pio XII (1939-1958) passò da una dichiarata neutralità ad una adesione sempre più accentuata alle potenze occidentali e ad una condanna sempre più esplicita dei fascismi e della Russia sovietica, pur rinunciando a clamorosi atti di denuncia. Finita la guerra, per il referendum istituzionale del 2 giugno 1946, la Chiesa appoggiava apertamente la causa monarchica trasformando l'alternativa tra monarchia e repubblica in quella tra cristianesimo e comunismo. Il 1º giugno 1946, il giorno precedente il referendum, lo stesso papa Pio XII, rivolse un appello agli Italiani: senza accennare esplicitamente alla monarchia o repubblica invitò i votanti perché scegliessero tra il materialismo e il cristianesimo, tra i sostenitori e i nemici della civiltà cristiana. Considerato che nella campagna elettorale il fronte repubblicano annoverava in prima linea i partiti marxisti materialisti, sarebbe stato difficile fraintendere il senso di questo appello papale. Nel secondo dopoguerra Pio XII promosse un piano di grande mobilitazione dei cattolici riformando l'Azione Cattolica e sostenendo l'azione mediatica del "Movimento per un mondo migliore " di padre Riccardo Lombardi e di Luigi Gedda, cattolico intransigente, fondatore alla vigilia delle elezioni del 1948 dei Comitati Civici a sostegno della Democrazia Cristiana contro il Partito Comunista Italiano. Gli iscritti al PCI furono scomunicati da Pio XII nel 1949. Suoi i ripetuti tentativi di dirigere la politica italiana come attestano lettere del Pontefice, timoroso per l'elezione (1952) di un sindaco comunista a Roma, dirette al Presidente del consiglio Alcide De Gasperi per indurlo a formare un'alleanza politica in funzione anticomunista con il Movimento Sociale Italiano. De Gasperi si batté invece, nei limiti delle sue convinzioni cattoliche e delle opportunità politiche, per l'aconfessionalità dello Stato contenendo le spinte clericali della destra cattolica e dell'Azione Cattolica di Luigi Gedda. Il pontificato di Giovanni XXIII (1958-1963) segnò una svolta nelle posizioni del Clero rispetto alla politica in Italia, e lo stesso Concilio Vaticano II fu espressione di questo nuovo spirito di "aggiornamento" che animava la Chiesa cattolica. In quegli anni la formazione di un governo di centro-sinistra non venne infatti ostacolata dalle gerarchie ecclesiastiche. Anche il pontificato di papa Paolo VI (1963-1978) fu improntato ad uno spirito innovatore, sebbene per alcuni aspetti venissero tenute in considerazione istanze conservatrici che già avevano animato il dibattito nel Concilio. Paolo VI riformò la Curia romana introducendovi prelati da tutto il mondo, volle la riforma liturgica, introdusse la collegialità episcopale con il Sinodo dei vescovi; interrompendo una lunga tradizione, compì alcuni viaggi all'estero, trasformò il Sant'Uffizio, abolì l'Indice dei libri proibiti. Durante il suo pontificato, L'Azione Cattolica guidata da Vittorio Bachelet compì la "scelta religiosa", che segnava la fine del collateralismo dell'associazione alla politica della Democrazia Cristiana. Contemporaneamente, però, l'Azione Cattolica smise di essere l'unica associazione laicale in Italia: in un periodo di fioritura di diversi movimenti ecclesiali, nel 1969 viene fondata da don Luigi Giussani Comunione e Liberazione, caratterizzata da un forte senso di appartenenza reciproca e da una religiosità neointransigente e di impegno sociale (Compagnia delle Opere) e di influsso sulla vita politica. La contrapposizione tra lo stile associativo dell'Azione Cattolica e quello di Comunione e Liberazione avrebbe segnato per i decenni a venire l'associazionismo cattolico del Paese. Nel corso del pontificato di Paolo VI fu introdotto in Italia l'istituto del divorzio (1970) fortemente contrastato dai cattolici, che promossero il successivo referendum abrogativo del 1974 ma ne risultarono sconfitti; nel 1978 fu anche approvata, nonostante le ripetute condanne del Clero, l'interruzione volontaria di gravidanza. Anche in questo caso, il successivo ricorso al referendum non sortì gli effetti sperati dai promotori di parte cattolica. Nello stesso 1978, l'elezione di Giovanni Paolo II, primo papa non italiano dopo molti secoli, determina il progressivo attenuarsi dell'attenzione del pontefice alle vicende politiche dell'Italia, sebbene dal 1985 la Conferenza Episcopale Italiana, sotto la guida del card. Camillo Ruini rivolgesse attenzioni crescenti alla politica e alla società italiane. La fine della Guerra Fredda in campo internazionale (1989-1991) e gli avvenimenti di Tangentopoli (1992) mutarono in pochi anni il panorama politico italiano. La stessa Democrazia Cristiana fu sciolta nel 1993: venne così meno il punto di riferimento dei cattolici nella vita politica italiana. Negli anni successivi, pertanto, il Clero avviò un atteggiamento di dialogo con partiti politici sia conservatori sia progressisti, influenzando significativamente entrambi gli schieramenti. Secondo gli osservatori più critici, tale atteggiamento ha assunto talvolta modi vicini a quelli propri dei gruppi di pressione. In ambiente cattolico il termine "clericale" designa la posizione di coloro che tendono a ridurre al minimo la partecipazione attiva dei laici all'esercizio spirituale del Clero. Ma al di là dei termini del dibattito politico e religioso, per cui si preferisce parlare di "teodem" e "teocon" contrapposti a "laicisti", sembra essere in atto uno scontro tra clericali e anticlericali, considerati, come portatori di un'ideologia relativista, materialista, con l'obiettivo di cancellare o ridurre il ruolo della religione nella vita sociale. Dal punto di vista dei laici, tuttavia, questo scontro si manifesta come un tentativo della Chiesa di imporre, attraverso una strategia di comunicazione e di lobbying, i suoi valori anche a coloro che professano fedi diverse o non credono affatto. Costoro comunque, nell'interpretazione della Chiesa, condividono gli universali principii umani che vanno salvaguardati al di là delle proprie convinzioni religiose o laiche. La contrapposizione non verte più, come in un lontano passato, sulla partecipazione o meno dei cattolici alla vita politica, ma su temi sociali di rilevanza etica, riguardo ai quali, secondo gli esponenti del clericalismo, i cattolici devono battersi per difenderne gli aspetti umani e cristiani. Una questione oggi dibattuta è sul significato da attribuire al termine "ingerenza". La gerarchia cattolica rivendica alla Chiesa, depositaria della tradizione apostolica, il diritto-dovere, secondo la sua funzione, di guidare i fedeli, e di predicare i principi morali, che i cattolici devono seguire. I sostenitori dell'ingerenza del Clero nella vita politica e morale dei cittadini rifiutano l'accusa di clericalismo ed anzi accusano di "laicismo" (ritengono infatti che si possa distinguere fino alla contrapposizione tra laicità e laicismo) chi sostiene posizioni opposte. Cosicché, quando, ad esempio, la gerarchia ecclesiastica si pronuncia sulla fecondazione medicalmente assistita e sulla ricerca scientifica sulle cellule staminali, afferma di farlo da posizioni "laiche" poiché difende il valore della vita (che del resto non è negato neppure dai laici) ritenendolo un valore non solo cristiano, ma umano. Per questo essa giudica legittimo avvalersi di cattolici impegnati nella vita politica, che sostengano non solo le posizioni della Chiesa cattolica, ma anche i principi laici della dignità umana. D'altra parte i laici, non solo rivendicano il diritto di legiferare su questi temi connessi a valori etici, ma obiettano di voler lasciare libera scelta ai cittadini, in nome della loro libertà di coscienza, se aderire o meno alle opportunità che offre la legge. Secondo questa posizione, il Clero non ha l'obbligo di astenersi, secondo la sua missione, da tutti quei pronunciamenti che abbiano significato religioso e morale ma da quelli che vogliano incidere sulle decisioni politiche; il che appare al Clero stesso una negazione della propria libertà di parola e di espressione. In questo senso gli esponenti più propriamente laici sottolineano che lo Stato italiano è costituzionalmente uno Stato non confessionale, come afferma chiaramente il combinato disposto degli art.7 e 8 della Costituzione. Sui rapporti tra Stato e Clero può servire a chiarire il problema quanto ha lasciato scritto nel febbraio 2001 Pietro Scoppola, storico, docente e politico italiano, uno dei principali esponenti italiani del cattolicesimo democratico. «La Chiesa sembra porsi di fronte allo Stato e alle forze politiche italiane come un altro Stato e un'altra forza politica; l'immagine stessa della Chiesa risulta appiattita sulle logiche dello scambio, impoverita di ogni slancio profetico, lontana dal compito di offrire a una società inquieta e per tanti aspetti lacerata, motivi di fiducia, di speranza, di coesione. Le responsabilità del laicato cattolico sono del tutto ignorate. La sorpresa e il disorientamento sono forti per tutti i cattolici che hanno assorbito la lezione del Concilio Vaticano II su una Chiesa popolo di Dio nella quale il ruolo della gerarchia non cancella ma anzi è al servizio di un laicato che ha proprie e specifiche responsabilità. Tra queste vi è proprio quella di tradurre nel concreto della vita politica e della legislazione di uno Stato democratico esigenze e valori di cui la coscienza cattolica è portatrice. È legittimo e doveroso per tutti i cittadini, e perciò anche per i cattolici, contribuire a far sì che le leggi dello Stato siano ispirate ai propri convincimenti ma questo diritto dovere non è la stessa cosa che esigere una piena identità tra i propri valori e la legge. È in questa complessa dinamica che si esprime la responsabilità dei cattolici nella vita politica. Urgente si è fatta l'esigenza della formazione del laicato cattolico alle responsabilità della democrazia. Perché mai l'Italia e i cattolici italiani debbono sempre esser trattati come "il giardino della Chiesa"?» Compromesso storico è il nome con cui si indica in Italia la tendenza al riavvicinamento tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano osservata negli anni settanta. Questo possibile sviluppo politico fu chiamato anche con il nome di terza fase in ambito democristiano, mentre i comunisti preferivano la definizione alternativa democratica. Questa politica in ogni caso non portò mai il Partito Comunista a partecipare al governo in una grande coalizione ai sensi del cosiddetto consociativismo. La proposta dal neo-segretario del Partito Comunista Italiano Enrico Berlinguer alla Democrazia Cristiana per una proficua collaborazione di governo (aperta anche alle altre forze democratiche) doveva interrompere così la cosiddetta conventio ad excludendum del secondo partito italiano dal governo. In tal modo, si voleva anche mettere al riparo la democrazia italiana da pericoli di involuzione autoritaria e dalla strategia della tensione che insanguinava il paese dal 1969. Berlinguer si vedeva peraltro sempre più deciso a sottolineare l'indipendenza dei comunisti italiani dall'Unione Sovietica e di rendere quindi il suo partito una forza della società occidentale. Il compromesso venne lanciato da Berlinguer con quattro articoli su Rinascita a commento del golpe cileno che aveva portato le forze reazionarie in collaborazione con gli USA a rovesciare il governo del socialista Salvador Allende (11 settembre 1973). La politica del compromesso storico fu vista negativamente dal Partito Socialista Italiano e da diversi suoi esponenti, in particolare Bettino Craxi e Riccardo Lombardi, che vedevano in questo disegno un chiaro tentativo di marginalizzare il PSI e di allontanare definitivamente l'idea di un'alternativa di sinistra che portasse il PCI al governo, tuttavia con la guida dei socialisti. La scelta di Berlinguer, fondamentalmente legata alla politica di eurocomunismo, era un esempio di politica reale che non riscontrò i favori dell'area di sinistra del suo partito. Il compromesso trovò una sponda nell'area di sinistra della DC che aveva come riferimento il presidente del partito Aldo Moro e il segretario Benigno Zaccagnini, ma non ebbe mai l'avallo dall'ala destra della DC, rappresentata da Giulio Andreotti. Lo stesso Andreotti in un'intervista dichiarò: "secondo me, il compromesso storico è il frutto di una profonda confusione ideologica, culturale, programmatica, storica. E, all'atto pratico, risulterebbe la somma di due guai: il clericalismo e il collettivismo comunista.". Un compromesso minimo si raggiunse mediante l'appoggio esterno assicurato dal PCI al governo monocolore di Solidarietà Nazionale, costituito da Giulio Andreotti nel 1976. L'incontro comunque problematico fra PCI e DC spingerà l'estrema sinistra a boicottare il PCI e porterà i terroristi delle Brigate Rosse a rapire (e in seguito a uccidere) Aldo Moro proprio nel giorno del primo dibattito sulla fiducia al nuovo governo Andreotti IV (16 marzo 1978). Caduto quest'ultimo governo per il ritiro del PCI, e senza il prezioso aiuto di Moro, la DC archiviò definitivamente la linea della terza fase col XIV congresso del febbraio 1980, quando prevarrà con il 57,7% l'alleanza tra dorotei, fanfaniani, Proposta e Forze nuove che approvò il cosiddetto «preambolo» al documento finale che escludeva alleanze con il PCI. L'opposizione, composta dall'area Zaccagnini e dagli andreottiani, ottenne il 42,3%. Berlinguer e il PCI tenteranno ancora di riproporre il compromesso storico alla nuova DC di Flaminio Piccoli, ma vanamente. Del resto, la resistenza interna al partito Comunista sarebbe rimasta notevole. Con quella che Macaluso definisce la seconda svolta di Salerno, il 28 novembre 1980, Berlinguer annunciò dopo otto anni di voler abbandonare la linea del compromesso storico per abbracciare quella dell'«alternativa democratica». Ciò significa che l'obiettivo diventava quello di ricercare governi di solidarietà nazionale che escludessero la DC. Decisivo per il mutamento tattico fu il terremoto in Irpinia della sera del 23 novembre precedente e la conseguente denuncia del pessimo modo di operare dello Stato da parte del presidente della Repubblica Sandro Pertini in diretta tv il 26 novembre. Oltre al fatto storico, Moro era un teorico del valore del compromesso in politica, della ricerca dell'accordo e della mediazione. Il compromesso in politica non viene inteso come un atto moralmente negativo e riprovevole, al contrario è il compito principale di chi viene eletto. La politica non deve essere personalizzata, luogo di affermazione del singolo e del suo programma elettorale, sebbene questi abbia avuto la maggioranza delle preferenze alle elezioni. Se in democrazia la maggioranza vince, persegue un fine democratico il compromesso che mette d'accordo la maggior parte dei partiti e dei singoli rappresentanti eletti dal popolo, e ciò resta un dovere anche per chi beneficia di una vasta maggioranza elettorale e parlamentare, laddove l'accordo sia compatibile e non tradisca le attese e il programma dell'elettorato.

Anticlericalismo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. L'anticlericalismo (nella sua accezione più comune) è una corrente di pensiero laicista, sviluppatasi soprattutto in riferimento alla Chiesa cattolica, che si oppone al clericalismo, ossia all'ingerenza degli ecclesiastici e della loro dottrina, nella vita e negli affari dello Stato e della politica in generale. In quanto "tendenza", non convogliata in un manifesto o in qualche movimento principale, l'anticlericalismo ha subito una serie di evoluzioni storiche e si è sviluppato in molteplici sfaccettature, tanto che è difficile darne una definizione condivisa. Per alcuni esso è l'opposizione allo sconfinamento del clero in qualsiasi ambito diverso dalla pura spiritualità (quindi economia, politica, interessi materiali). Questa forma di pensiero si colloca ideologicamente sia nell'ambito del liberalismo, sia delle sinistre radicali ma anche in alcuni partiti socialisti democratici, ed in Italia, storicamente, nei partiti che traggono origine dal pensiero mazziniano (in particolare, il Partito d'Azione ed il Partito Repubblicano Italiano), nel Partito Socialista Italiano e nel Partito Radicale. Dal punto di vista ideologico e filosofico, talvolta l'anticlericalismo si sviluppa parallelamente a quello della non credenza. L'anticlericalismo esplicito o velato da quella che Torquato Accetto chiamava la «dissimulazione onesta» è tanto più diffuso quanto più il clero, in particolare nei suoi vertici cardinalizi e vescovili, tende a sovrintendere alla vita e all'organizzazione politico-civile dello Stato. In Europa, l'anticlericalismo si è sviluppato lungo parte della storia cristiana ed ha avuto come precursori figure di cristiani come Erasmo da Rotterdam, Immanuel Kant, Paolo Sarpi, Gottfried Arnold e Thomas Woolston, che considerava quale vero unico autentico miracolo di Gesù la cacciata dei mercanti dal Tempio. L'anticlericalismo italiano (tra i primi esponenti sono oggi annoverati personaggi come Marsilio da Padova, Niccolò Machiavelli, Francesco Guicciardini, il Platina e Giordano Bruno), giungerà ad avere i suoi primi "martiri" nella prima metà del settecento con Pietro Giannone, morto in carcere a Torino, e Alberto Radicati di Passerano, morto esule all'Aia. Vanno poi ricordati gli illuministi francesi - tra i quali Voltaire e Diderot - che si opposero a ogni forma di clericalismo. Elementi anticlericali, secondo alcuni, sono presenti nella prima fase della Riforma luterana che abolisce gli ordini regolari, non riconosce né il sacramento dell'ordine, né l'obbligo del celibato ecclesiastico, proclamando il sacerdozio universale di ogni cristiano che ha la sua guida nella sola Sacra Scrittura. In particolare, gli anabattisti riconoscevano Cristo come unico capo della Chiesa, e negavano il valore della gerarchia e del magistero, affidandosi all'insieme dei credenti e dalla loro quotidiana imitazione dell'esempio di Cristo. La Controriforma inaugurata dal Concilio di Trento è stata anche una risposta a tali istanze antigerarchiche presenti, sia pure con grandi diversità e con differenti gradi di intensità, nel mondo protestante e, per Paesi come l'Italia, la Spagna, il Portogallo, l'Austria, la Baviera, la Polonia, la Croazia, l'America Latina un'istanza di rinnovata clericalizzazione non solo della vita religiosa, ma anche nella vita socio-politica, in particolare attraverso il controllo della formazione scolastica e del costume femminile. Nel Settecento si diffonde l'anticurialismo, una tendenza giuridica che si ergeva a difesa dello Stato assolutista contro i privilegi della Chiesa e particolarmente contro le prerogative del Tribunale dell'Inquisizione, che sottraeva allo Stato parte del suo ruolo nell'amministrazione della giustizia. L'origine dell'anticurialismo risale alla seconda metà del Cinquecento, quando a Napoli il viceré spagnolo Pedro Afán de Ribera, che pure represse duramente i valdesi in Calabria, si oppose alla pubblicazione dei decreti del Concilio di Trento e all'istituzione dell'Inquisizione spagnola nel Regno di Napoli. Nel Settecento l'anticurialismo assume l'aspetto di una corrente filosofica e giuridica con autori come il sacerdote salernitano Antonio Genovesi, il cavese Costantino Grimaldi, autore delle Considerazioni intorno alle rendite ecclesiastiche del Regno di Napoli (Napoli, 1708) e delle Discussioni istoriche teologiche e filosofiche (Lucca, 1725) e il foggiano Pietro Giannone, che a Ginevra, patria del calvinismo, già inviso alla Chiesa per la sua opera storica, compose un altro lavoro dal forte sapore anticlericale Il Triregno. Del regno terreno, Del regno celeste, Del regno papale, che sarà pubblicato postumo solo nel 1895. Nel 1730 Alberto Radicati di Passerano, esule a Londra, pubblicò un opuscolo anticlericale, sotto il titolo A Comical and True Account of the Modern Cannibal's Religion, in cui rigetta il cattolicesimo e ne dipinge una mordace caricatura, sulla scorta degli autori illuministi francesi. Nel 1732 pubblicò la Dissertazione filosofica sulla morte, un'opera in cui rivendicava il diritto al suicidio e all'eutanasia. In tutto il secolo si rafforza anche l'antigesuitismo, un movimento di ostilità contro la Compagnia di Gesù, un istituto religioso simbolo della fedeltà al papa, che si riteneva protagonista di ingerenze clericali in politica e nella scienza. Mentre l'aspirazione illuministica alla libertà diveniva il marchio del secolo, la presenza dei gesuiti si faceva via via inaccettabile, tanto che furono espulsi da tutti gli Stati cattolici, a cominciare dal Portogallo (1750). Il primo Stato italiano ad espellere i Gesuiti fu il regno di Napoli (1767), seguito dal ducato di Parma e Piacenza. Nel 1773 papa Clemente XIV con il breve Dominus ac Redemptor decise la definitiva soppressione della Compagnia di Gesù. Nella seconda metà del XVIII secolo l'infante Filippo I di Parma e il suo ministro Guillaume du Tillot adottarono nel ducato di Parma e Piacenza una politica anticlericale, che poneva pesanti limitazioni nella capacità della Chiesa di acquisire e possedere beni immobili e di ereditare. Addirittura gli ecclesiastici furono esclusi della successione ereditaria delle loro famiglie. Ai vescovi furono proibiti impiegati che non fossero laici e fu loro sottratta la giurisdizione sugli ospedali e sulle opere pie. Con Ferdinando di Borbone non cessarono le vessazioni del clero e papa Clemente XIII fece affiggere un breve di protesta (Monitorium), che suscitò tali reazioni che in breve tempo quasi tutti gli Stati d'Europa presero posizione contro il Papa. A Napoli la tendenza anticuriale è rappresentata in politica dal primo ministro Bernardo Tanucci. Con il concordato del 1741, la Santa Sede aveva concesso larghi privilegi ai monarchi napoletani che erano sempre stati vicini al papato, non prima di lunghe trattative condotte dall'arcivescovo di Taranto Celestino Galiani, che agiva come ministro plenipotenziario del Regno di Napoli ed era egli stesso un uomo di cultura, fiancheggiatore delle tendenze anticuriali. Il Tanucci volle applicare il Concordato in una chiave di imposizione di una politica ecclesiastica statale (regalismo), che andava a infrangere la tradizionale armonia tra il potere civile e quello religioso. Sulla scorta delle rivendicazioni gallicane già applicate in Francia, le entrate di episcopati e abbazie vacanti affluirono alla corona, conventi e monasteri superflui vennero soppressi, le decime abolite e nuove acquisizioni di proprietà da parte delle istituzioni ecclesiastiche tramite la manomorta vietate. La pubblicazione delle bolle papali necessitava della previa autorizzazione reale (il cosiddetto exequatur). Anche le nomine vescovili nel Regno caddero, seppure non direttamente ma solo tramite raccomandazioni, grazie anche all'abilità politica del Tanucci, nelle mani del sovrano. Il Re era soggetto soltanto a Dio, gli appelli a Roma erano proibiti a meno che non vi fosse stato l'assenso del re, il matrimonio venne dichiarato un contratto civile. Papa Clemente XIII reagì con la scomunica, al che Tanucci rispose occupando le enclave pontificie nel territorio napoletano di Benevento e Pontecorvo, che saranno restituite alla Santa Sede solo dopo la soppressione della Compagnia di Gesù. Le proteste dei vescovi contro i nuovi insegnamenti nelle scuole a seguito dell'espulsione dei Gesuiti vennero liquidate come non valide. Uno degli ultimi atti di Tanucci fu l'abolizione della chinea (1776), il tributo annuale che i re di Napoli versavano al papa come segno del loro vassallaggio sin dal tempo di Carlo I d'Angiò. Tuttavia, le proteste popolari costrinsero a ritirare il provvedimento di Tanucci e la chinea fu regolarmente corrisposta fino al 1787. Durante il periodo napoleonico, molti dei regni italiani furono trasformati in stati satelliti della Francia e i loro sovrani vennero deposti; lo stesso papa Pio VII fu deportato in Francia. Proclamando a gran voce i principî della Rivoluzione francese, si abolirono i privilegi tanto del clero che della nobiltà. In realtà la rivoluzione fu, a livello locale, spesso condotta da ecclesiastici e nobili subalterni, che talora colsero l'occasione di tentare in tal modo di ottenere una promozione sociale loro preclusa secondo il precedente ordine tradizionale socio-politico. Le autorità napoleoniche appoggiarono all'interno della Chiesa cattolica le posizioni dei gallicani e dei giansenisti contro quelle degli ultramontani. Furono aboliti ed espropriati gli ordini contemplativi, mentre i beni della Chiesa furono a vario titolo espropriati per finanziare lo Stato. Per la prima volta si mise in discussione l'egemonia sociale del clero a favore delle autorità civili. L'anticlericalismo italiano ebbe notevole sviluppo nella lotta al potere temporale del papa, che costituiva oggettivo impedimento all'unificazione sotto la monarchia sabauda ed alla modernizzazione del Paese. Papa Pio VII, rientrato in Italia, tornò a segregare gli ebrei nel ghetto di Roma, dove resteranno fino alla liberazione nel 1870. Papa Gregorio XVI (1831-1846) bollava il treno come "opera di Satana", mentre il suo segretario di Stato, il cardinal Luigi Lambruschini (1776-1854), osteggiava l'illuminazione a gas e instaurava nello Stato pontificio un regime di arbitrio poliziesco, censura e inquisizione. In questo clima, anche tra gli stessi cattolici liberali italiani presero corpo posizioni di stampo anticlericale; ad esempio, una violenta polemica oppose il padre del cattolicesimo liberale italiano, Vincenzo Gioberti (1801-1852), ai gesuiti e ai cattolici reazionari. Giuseppe Garibaldi, l'eroe nazionale italiano, fu il più celebre degli anticlericali del Risorgimento e definì la Chiesa cattolica una «setta contagiosa e perversa», mentre rivolse a papa Pio IX l'epiteto di "metro cubo di letame". La formazione dello Stato nazionale del 1861 fu preceduta e accompagnata dal tentativo di una riforma religiosa di ispirazione cristiana protestante, sul modello della Chiesa nazionale d'Inghilterra, appoggiata dalle chiese valdesi, memori delle persecuzioni, che, nei propositi di alcuni esponenti delle classi dirigenti piemontesi, si proponeva l'ambizioso obiettivo di sradicare dal cuore del popolo la fede cattolica: la cosiddetta Chiesa Libera Evangelica Italiana. San Leonardo Murialdo scrisse: «Gesù Cristo è bandito dalle leggi, dai monumenti, dalle case, dalle scuole, dalle officine; perseguitato nei discorsi, nei libri, nei giornali, nel papa, nei suoi sacerdoti». Alla Camera, il deputato Filippo Abignente si augurava «che la religione cattolica sia distrutta d'un colpo». Un altro deputato, Ferdinando Petruccelli della Gattina, giornalista e patriota durante le insurrezioni del 1848 nel Regno delle Due Sicilie si riprometteva di eliminare con il potere temporale anche il potere spirituale della Chiesa. Il 20 luglio 1862, espresse senza giri di parole la sua avversione contro il Cattolicesimo: «Noi dobbiamo combattere la preponderanza cattolica nel mondo, comunque, con tutti i modi. Noi vediamo, che questo Cattolicismo è uno strumento di dissidio, di sventura, e dobbiamo distruggerlo.... La base granitica della fortuna politica d'Italia deve essere la guerra contro il Cattolicismo su tutta la superficie del mondo». Dopo la presa di Roma, Petruccelli della Gattina promosse l'abolizione della Legge delle Guarentigie e, durante una seduta alla Camera, gridò: «Il principio generale della rivoluzione Italiana è stato l'abolizione del Papato!». Egli voleva fare del sacerdote «un uomo e un cittadino», dargli «la libertà individuale nei limiti dello Stato» e il «diritto d'invocare la protezione della legge comune», il che significava l'abolizione del foro ecclesiastico. Il giornalista fu anche autore di una controversa opera, Memorie di Giuda, in cui l'apostolo viene raffigurato come un rivoluzionario che combatte l'oppressione romana. Il romanzo suscitò un enorme scandalo e trovò problemi di distribuzione, e La Civiltà Cattolica, il maggiore organo di stampa pontificio, lo etichettò «libraccio infame» e l'autore «sporco romanziere». Secondo il laico Giovanni Spadolini, Cavour volle «fissare e delimitare le competenze specifiche della Chiesa nel suo magistero ecclesiastico, escludendola dalla società civile, dal mondo della politica, dall'istruzione, dalla scienza, dove il dominio incondizionato sarebbe stato quello dello Stato e dello Stato soltanto». Tale tentativo prese avvio nel Regno di Sardegna, con la legge del 25 agosto 1848 n. 777 che espelleva tutti i gesuiti stranieri, ne sopprimeva l'ordine e ne incamerava tutti i collegi, convertendoli ad uso militare. Negli anni seguenti i gesuiti furono nell'occhio del ciclone in tutta Italia e dopo il 1848 (durante il quale alcune residenze gesuite furono assaltate da folle inferocite), saranno soppressi in tutti gli Stati italiani (escluso lo Stato pontificio). La legge del 1848 e le analoghe successive saranno caratterizzate da ostilità verso la Chiesa cattolica che, nella visione dei politici di ispirazione liberale (sovente aderenti alla Massoneria), costituiva un freno al progresso civile, ritenendo che la religione non fosse altro che superstizione, mentre la verità andava ricercata avvalendosi del metodo scientifico. Si trattava di un aperto contrasto con la realtà italiana - e soprattutto piemontese - del primo Ottocento, in cui per assenza d'intervento dello Stato era la Chiesa ad organizzare e finanziare scuole, istituzioni sociali e ospedali. Non di rado docenti e scienziati erano essi stessi ecclesiastici. Secondo la studiosa cattolica Angela Pellicciari «la nuova identità che i grandi del mondo progettano per la nazione culla dell'universalismo romano e poi cristiano è anticattolica, mentre la storia, la cultura e la popolazione sono tutte cattoliche.» A partire dal 1850, furono promulgate le leggi Siccardi (n. 1013 del 9 aprile 1850, n. 1037 del 5 giugno 1850, e n. 878 del 29 maggio 1855), che abolirono tre grandi privilegi di stampo feudale di cui il clero godeva nel Regno di Sardegna: il foro ecclesiastico, un tribunale che sottraeva alla giustizia dello Stato gli uomini di Chiesa oltre che per le cause civili anche per i reati comuni (compresi quelli di sangue), il diritto di asilo, ovvero l'impunità giuridica di chi si fosse macchiato di qualsiasi delitto e fosse poi andato a chiedere rifugio nelle chiese, nei conventi e nei monasteri, e la manomorta, ovvero la non assoggettabilità a tassazione delle proprietà immobiliari degli enti ecclesiastici (stante la loro inalienabilità, e quindi l'esenzione da qualsiasi imposta sui trasferimenti di proprietà). Inoltre, tali provvedimenti normativi disposero il divieto per gli enti morali (e quindi anche per la Chiesa e gli enti ecclesiastici) di acquisire la proprietà di beni immobili senza l'autorizzazione governativa. L'arcivescovo di Torino Luigi Fransoni venne processato e condannato ad un mese di carcere dopo aver invitato il clero a disobbedire a tali provvedimenti. Fu del 29 maggio 1855 la legge che abolì tutti gli ordini religiosi (tra i quali agostiniani, carmelitani, certosini, cistercensi, cappuccini, domenicani, benedettini) privi di utilità sociale, ovvero che «non attendessero alla predicazione, all'educazione, o all'assistenza degli infermi», e ne espropriò tutti i conventi (334 case), sfrattando 3733 uomini e 1756 donne. I beni di questi ordini soppressi furono conferiti alla Cassa ecclesiastica, una persona giuridica distinta ed autonoma dallo Stato. L'iter di approvazione della legge, proposta dal primo ministro Cavour, fu contrastato da re Vittorio Emanuele II e da un'opposizione parlamentare agitata dal senatore Luigi Nazari di Calabiana, vescovo di Casale Monferrato, che determinarono le temporanee dimissioni dello stesso Cavour. Con l'avvento del Regno d'Italia avvenuto nel 1861, il Governo adottò nei confronti della Chiesa (che contrastava l'affermarsi di "compiti di benessere" dello Stato a favore dei cittadini) una politica limitativa, in particolare rispetto agli enti ecclesiastici tramite le cosiddette Leggi eversive:

La Legge n. 3036 del 7 luglio 1866 con cui fu negato il riconoscimento (e di conseguenza la capacità patrimoniale) a tutti gli ordini, le corporazioni, e le congregazioni religiose regolari, ai conservatori ed i ritiri che comportassero vita in comune ed avessero carattere ecclesiastico. I beni di proprietà di tali enti soppressi furono incamerati dal demanio statale, e contemporaneamente venne sancito l'obbligo di iscrizione nel libro del debito pubblico di una rendita del 5% a favore del fondo per il culto (in sostituzione della precedente cassa ecclesiastica del Regno di Sardegna). Venne inoltre sancita l'incapacità per ogni ente morale ecclesiastico di possedere immobili, fatte salve le parrocchie.

La Legge n. 3848 del 15 agosto 1867 previde la soppressione di tutti gli enti secolari ritenuti superflui dallo Stato per la vita religiosa del Paese. Da tale provvedimento restarono esclusi seminari, cattedrali, parrocchie, canonicati, fabbricerie e gli ordinariati. Nel tentativo di colmare i gravi disavanzi causati dalla terza guerra d'indipendenza, nel 1866 il primo ministro Giovanni Lanza estese l'esproprio dei beni ecclesiastici a tutto il territorio nazionale e, con la legge del 19 giugno 1873 anche a Roma, la nuova capitale. Negli anni Settanta del XIX secolo il ministro dell'istruzione Cesare Correnti abolì le facoltà teologiche, sottrasse gli educandati femminili siciliani al controllo dei vescovi e infine tentò la soppressione dei direttori spirituali nei ginnasi, ma in seguito alle proteste della Destra dovette rassegnare le dimissioni il 17 maggio 1872. Il tentativo mazziniano di instaurare la Repubblica Romana (febbraio-luglio 1849) fu accompagnato da assassinii di sacerdoti, saccheggi di chiese e requisizioni forzose. Nei pochi mesi di vita della Repubblica, Roma passò dalla condizione di stato tra i più arretrati d'Europa a banco di prova delle nuove idee liberali che allora si diffondevano nel continente, fondando la sua vita politica e civile su principi - quali, in primis, il suffragio universale maschile, la libertà di culto e l'abolizione della pena di morte (facendo seguito, in questo caso, all'esempio del Granducato di Toscana che aveva definitivamente abolito la pena capitale nel 1786) e - che sarebbero diventate realtà in Europa solo circa un secolo dopo. Nella difesa di Roma dall'esercito francese, che accorse a sostenere lo Stato pontificio insieme alle armate austriache, borboniche e spagnole, persero la vita numerosi padri della patria tra cui Goffredo Mameli. Tra i politici di maggior spicco in questa fase storica emerge la figura di Camillo Benso Conte di Cavour, che nel 1861, poco dopo la proclamazione dell'Unita d'Italia, formulò, inascoltato, il principio della «Libera Chiesa in libero Stato», tentando con questa principio di regolare la convivenza tra Chiesa e Stato. Nel 1869 quando venne convocato il Concilio Vaticano I, a Napoli si riunì un anticoncilio di liberi pensatori, soprattutto massoni, organizzato dal deputato Giuseppe Ricciardi. Il Concilio Vaticano I fu poi interrotto dalla presa di Roma e non più convocato. Negli anni seguenti Roma divenne teatro di numerosi episodi di anticlericalismo, soprattutto in occasione di manifestazioni pubbliche: «fra il 1870 e il 1881 si possono contare oltre trenta casi gravi di intolleranza, di provocazione, talora scontri fisici». Per lungo tempo il Papa, rifugiatosi in Vaticano, impose ai cattolici di non partecipare alla vita pubblica del Regno d'Italia con un pronunciamento conosciuto come non expedit. Nel 1850 dopo l'approvazione delle leggi Siccardi nel Regno di Sardegna l'arcivescovo di Torino Luigi Fransoni fu arrestato per un mese e poi mandato, nelle stesso anno, in esilio a Lione per la sua ferma opposizione alle leggi anticlericali. Dopo l'Unità, circa la metà delle diocesi italiane resterà vacante, per il rifiuto del Governo di concedere il necessario 'placet' o 'exequatur' ai vescovi. Nel 1864 ben 43 vescovi erano in esilio, 20 in carcere, 16 erano stati espulsi e altri 16 morti per le vessazioni subite. A metà degli anni sessanta di 227 sedi vescovili, 108 erano vacanti. I motivi di questi arresti erano spesso arbitrari: il cardinale Corsi, arcivescovo di Pisa, fu arrestato il 13 maggio 1860 per non aver voluto cantare il "Te Deum" per Vittorio Emanuele II. Nel luglio dello stesso anno il vescovo di Piacenza Antonio Ranza e dieci canonici furono condannati dal tribunale a quattordici mesi di reclusione per antipatriottismo. Si trattò di una condanna politica, perché il vescovo si era allontanato dalla città in occasione della visita del re e non aveva celebrato la festa dello Statuto. Nelle province meridionali, dopo la spedizione di Garibaldi con vari pretesti furono arrestati e processati 66 vescovi. Durante i quattro anni successivi subirono la stessa sorte anche nove cardinali. Il problema delle sedi vacanti si avviò verso la soluzione nell'ottobre del 1871, quando furono nominati 41 nuovi vescovi. Altri 61 saranno nominati negli anni successivi. Tuttavia, nel 1875 Minghetti annunciava ancora alla Camera che delle 94 domande di exequatur presentate per la nomina di nuovi vescovi, soltanto 28 erano state accettate dal Governo. Dopo l'Unità d'Italia si verificarono episodi di intolleranza anticlericale come l'assalto al Congresso cattolico di Bologna del 9 ottobre 1876 e i tumulti in occasione della traslazione della salma di Pio IX il 13 luglio 1881. Nel 1889, l'erezione del monumento a Giordano Bruno in Campo de' Fiori avvenne in un contesto di violenta lotta politica in cui si confrontarono le posizioni più oltranziste delle fazioni anticlericali e clericali. L'opera fu realizzata dallo scultore Ettore Ferrari, che più tardi divenne gran maestro del Grande Oriente d'Italia. Fra i promotori non mancarono toni di sfida al Pontefice, che minacciava di lasciare Roma per rifugiarsi in Austria, e il monumento divenne uno dei simboli dell'anticlericalismo. Francesco Crispi ottenne dal re Umberto I un decreto di destituzione nei confronti del sindaco di Roma Leopoldo Torlonia, che aveva fatto una visita ufficiale al cardinale vicario Lucido Maria Parocchi, portando un messaggio per papa Leone XIII. Nello stesso periodo a Roma la Massoneria metteva in scena sotto i Palazzi apostolici banchetti nei venerdì di Quaresima, per dileggiare il digiuno cristiano. Gli episodi di violenza continueranno anche nella prima parte del XX secolo: fra questi l'assalto alla processione del Corpus Domini a Fabriano, avvenuto il 21 giugno 1911, condotto da socialisti e anticlericali, terminò in un clamoroso processo. Il principale esponente dell'anticlericalismo in ambito accademico e culturale fu il poeta e poi docente di letteratura italiana Giosuè Carducci. Pubblicò nel 1860 nella raccolta Juvenilia la poesia Voce dei preti: «Ahi giorno sovra gli altri infame e tristo, Quando vessil di servitù la Croce. E campion di tiranni apparve Cristo!» (Giosuè Carducci, Voce dei preti), e nel 1863 l'Inno a Satana, che poi ristamperà nel 1868 in occasione del Concilio Vaticano I. L'anticlericalismo accademico derivò in larga parte dall'adesione di molti docenti al positivismo e allo scientismo. All'università di Torino il positivismo fece la sua comparsa negli anni sessanta del XIX secolo presso la facoltà di medicina, dove insegnava l'olandese Jacob Moleschott. Cesare Lombroso, fondatore dell'antropologia criminale, Salvatore Cognetti de Martiis, professore di economia politica garibaldino, e Arturo Graf, docente di letteratura italiana, furono celebri esponenti di teorie anticlericali. Il darwinismo ebbe come centri di diffusione Torino, Pavia e Firenze. Anche l'associazionismo studentesco risentì della polemica anticlericale e costituì un anello di quella che poteva apparire una «koinè positivista e anticlericale largamente condivisa nel mondo accademico». Nel 1871 i professori dell'Università di Roma furono chiamati a pronunziare il giuramento di fedeltà al re e allo Statuto. I professori della facoltà di teologia furono esentati dal giuramento, ma in maggioranza si rifiutarono di riprendere l'insegnamento in un ambiente ora ostile. Papa Pio IX li ricevette in udienza dicendo loro: «L'Università, quale ora è divenuta, non è più degna delle vostre dottrine e di voi, e voi stessi vi contaminereste varcando quelle soglie, entro le quali si insegnano errori così perniciosi». Appelli analoghi furono rivolti agli studenti e fu dato vita ad un tentativo di un'università alternativa. Quando però il tentativo fallì, agli studenti fu concesso di frequentare le università statali, ammonendoli però ad evitare l'influsso dei cattivi maestri. All'Università di Catania fu professore di letteratura italiana Mario Rapisardi, spirito anticlericale e garibaldino, che considerava le religioni come intralcio al progresso scientifico e morale. Il ritiro dei docenti della facoltà di teologia diede occasione allo Stato di sopprimere le facoltà di teologia con la legge Scialoja-Correnti del 26 gennaio 1873, determinando la scomparsa degli studi ecclesiastici dalle università di Stato. Al di fuori dell'ambito strettamente accademico, ebbe straordinario successo la letteratura di Edmondo De Amicis, che proponeva con il libro Cuore un codice di morale laica e quella di poeti come Antonio Ghislanzoni, librettista di Giuseppe Verdi, Felice Cavallotti, che fu anche un celebre politico e deputato, e Olindo Guerrini, che nel 1899 fu condannato e poi assolto in appello per diffamazione del vescovo di Faenza. Cavalli di battaglia dell'anticlericalismo divennero in questo periodo una ricostruzione storica in stile illuminista, a volte arbitraria, del Medioevo (i secoli bui), la leggenda della Papessa Giovanna, la classificazione della storia delle Crociate come guerra di religione, e della lotta alle eresie in generale e dell'Inquisizione in particolare come fenomeni dell'intolleranza cristiana (vedi Leggenda nera dell'Inquisizione). L'anticlericalismo non restò confinato alle classi dirigenti, ma trovò eco anche nelle società operaie e di mutuo soccorso di fine ottocento, prevalentemente di ispirazione socialista. Secondo questa ideologia, Gesù Cristo era stato il "primo socialista", ma il suo insegnamento era stato corrotto dalla Chiesa ("dai preti") per tornaconto. Un esempio emblematico di questa ideologia fu La predica di Natale del 24 dicembre 1897 di Camillo Prampolini. Diffuse erano anche le rappresentazioni teatrali di spettacoli anticlericali: ad esempio nel 1851 a Vercelli erano in scena due commedie, intitolate "Gli orrori dell'Inquisizione" e "Il diavolo e i Gesuiti". A Roma il primo carnevale dopo Porta Pia fu organizzato dall'associazione anticlericale "Il Pasquino", che propose numerose parodie. Un enorme dito di cartapesta fu fatto sfilare per le vie di Roma: era il "dito di Dio", una formula tipica con cui la stampa cattolica commentava sventure e disgrazie. L'anticlericalismo trovò eco anche in polemiche giornalistiche, che spesso vedevano confrontarsi giornali di tendenze opposte. A Torino la Gazzetta del Popolo diretta dall'anticlericale Felice Govean, che fu anche gran maestro del Grande Oriente d'Italia, battagliava contro l'Armonia cattolica, diretta da Giacomo Margotti. Le vendite vedevano primeggiare il foglio anticlericale, che distribuiva 10 000 copie contro le 2 000 del concorrente. Il Partito Nazionale Fascista, guidato da Benito Mussolini, fortemente anticlericale e ateo in gioventù, presentava inizialmente, influenzato anche dal futurismo, un programma di "svaticanizzazione" dell'Italia, con progetti di sequestri di beni ed abolizione di privilegi. Ma Mussolini, dopo essere diventato duce dell'Italia fascista, resosi conto del gran peso sociale e culturale che la Chiesa cattolica rivestiva nel Paese, cambiò i suoi propositi iniziali e volle concordare un'intesa con la Chiesa al fine di consolidare e accrescere il proprio potere, ancora instabile, ed ottenere un più ampio consenso di popolo. Tuttavia il capo del fascismo intimamente rimaneva un ateo anticlericale, come testimoniano la sua nota avversione a farsi fotografare accanto a religiosi e la conseguente censura di tutti i ritratti in cui era presente qualche prelato o simile e la confidenza che Dino Grandi fece a Indro Montanelli nella quale raccontava come Mussolini, appena uscito dal palazzo Laterano in cui l'11 febbraio 1929 aveva appena firmato il concordato, bestemmiò pesantemente per sottolineare la sua personale avversione alla Chiesa cattolica e ai preti. L'accordo con la Segreteria di Stato vaticana per la stipula dei Patti Lateranensi, formalmente siglati nel1929 avvenne grazie ad un atteggiamento, nonostante le differenti visuali, diplomaticamente dialogante tra le parti. In cambio il dittatore impose una compressione dello spazio di intervento dell'Azione Cattolica, unica organizzazione giovanile non fascista che sopravvisse durante il regime. Con quest'accordo ci furono alcuni membri del clero, a vari livelli, che diedero la loro adesione, come cittadini italiani, al fascismo. Nello stesso Partito Popolare Italiano, una parte dei membri aderì al governo fascista ante-dittatura, contro il parere di don Luigi Sturzo. Il partito subì una forte crisi che fu determinante per l'ascesa del PNF. Ci furono così aspetti, come nel regime franchista spagnolo, di cosiddetto clericofascismo. Alla caduta del fascismo, mentre i gerarchi e i rappresentanti della monarchia fuggivano, le autorità ecclesiastiche rimasero al loro posto, svolgendo, a volte in collaborazione con il CLN, opere caritatevoli e assistenziali a vantaggio della popolazione, esercitando nel contempo un ruolo civile e sociale. Questo interesse degli ecclesiastici per le questioni politiche ed economiche si scontrava sia con la cultura liberale, che riduceva il problema religioso alla sfera individuale, sia con la cultura marxista, che annoverava le religioni fra le forze reazionarie. Se la Chiesa pretendeva di offrire alla società i valori fondamentali su cui costruire la democrazia, marxisti e liberali consideravano un'indebita ingerenza ogni intervento della Chiesa nell'ambito sociale e politico. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, l'anticlericalismo ebbe le sue espressioni, seppur in forma minoritaria ed incostante, nel Partito Comunista Italiano, nel Partito Repubblicano Italiano e nel Partito Socialista per divenire centrale nell'attività del Partito Radicale a partire dagli anni settanta, in contrapposizione alla Democrazia Cristiana e all'influenza vaticana nella politica italiana. Uno dei punti principali di contrasto fu la scure censoria che si abbatté sulle migliori opere cinematografiche italiane del dopoguerra, accusati di offesa alla morale o vilipendio della religione cattolica, partendo da La dolce vita di Federico Fellini, a La ricotta di Pier Paolo Pasolini, fino a Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci. Gli anticlericali sostennero che questi furono solo alcuni esempi tra i tanti di come la morale cattolica influenzasse ed imponesse il proprio punto di vista anche in materia di arte e spettacolo. Si impegnò in una lunga filmografia anticlericale il regista Luigi Magni, che diresse Nell'anno del Signore (1969), In nome del Papa Re (1977) e In nome del popolo sovrano (1990), una trilogia ambientata nella Roma papalina del Risorgimento. Il fronte laico riuscì ad ottenere l'istituzione del divorzio (1970, confermato dopo il referendum abrogativo del 1974) e la legalizzazione dell'aborto (1978). Nel 1984 il presidente del Consiglio socialista Bettino Craxi attuò una revisione dei Patti Lateranensi, rimuovendo la prerogativa di «Religione di Stato» in precedenza accordata alla Chiesa cattolica. Venne mantenuto, seppur rendendolo facoltativo, l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, affidato a insegnanti pagati dallo Stato ma nominati dalla Curia, e l'esenzione dal pagamento delle imposte sugli immobili di proprietà della Chiesa cattolica in cui vengono svolte attività "che non abbiano natura esclusivamente commerciale". Contestualmente venne introdotta la destinazione dell'otto per mille del gettito IRPEF dei contribuenti a 7 confessioni religiose, tra cui la Chiesa cattolica. L'otto per mille viene destinato alle varie confessioni in proporzione delle scelte espresse dai soli contribuenti che forniscono un'indicazione al riguardo. La quota del reddito dei contribuenti che non ha espresso alcuna scelta viene, in altre parole, ripartita tra le confessioni religiose che hanno siglato l'intesa con lo stato italiano in misura pari alla percentuale delle scelte espresse. Per esempio, nel 2000 il 35% degli italiani si espresse a favore della Chiesa cattolica, il 5% circa a favore dello Stato o di altre religioni, e il 60% non espresse alcuna scelta. Di conseguenza, l'87% del gettito è stato devoluto alla Conferenza Episcopale Italiana. Dal 1984 gli anticlericali italiani, inizialmente dell'area anarchica e libertaria, in seguito anche i socialisti, i radicali, i liberali e i comunisti si diedero appuntamento per discutere dei maggiori temi politici di confronto e scontro con il Vaticano, ai Meeting anticlericali di Fano presso i quali, nel 1986, venne fondata anche l'Associazione per lo Sbattezzo. Oggi è contestato, da taluni, in una società sempre più secolarizzata, l'intervento della Chiesa cattolica, mediante indicazioni di comportamento ai fedeli e indicazioni di voto ai parlamentari cattolici, sull'azione legislativa e regolamentare dello Stato. Si ricorda la presa di posizione del cardinale Camillo Ruini nel referendum sulla procreazione assistita del 2005, rivolte in particolare contro l'utilizzo delle cellule staminali embrionali, e quelle di vari esponenti e prelati cattolici contro le unioni civili, l'eutanasia e il testamento biologico, oltre che la controversia sull'esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche italiane. Dalla parte della Chiesa invece si rivendica un diritto alla parola e un dovere morale nella guida del cristiano su questioni etiche.

Anticlericalismo in Francia. «La civiltà non raggiungerà la perfezione finché l'ultima pietra dell'ultima chiesa non sarà caduta sull'ultimo prete.» (Émile Zola). Voltaire, illuminista e anticlericale, autore del motto Écrasez l'Infâme ("schiacciate l'infame"), con cui incitò alla lotta contro la Chiesa e il fanatismo religioso. A partire dall'Illuminismo, si sviluppò in Francia una forte corrente anticlericale, che ebbe la sua piena espressione in alcune leggi varate durante la Rivoluzione Francese, come la costituzione civile del clero, l'obbligo di sposarsi o abbandonare i voti per i preti, la trasformazione delle chiese in templi della Ragione, il calendario rivoluzionario francese e il culto dell'Essere Supremo, l'introduzione del matrimonio civile e del divorzio. Anche Napoleone varò una politica di separazione tra Stato e Chiesa.

In un contesto politico anticlericale, il 7 dicembre 1830 i redattori de L'Avenir, giornale cattolico liberale, riassumono le loro rivendicazioni: chiedono libertà di coscienza, separazione tra Stato e Chiesa, libertà d'insegnamento, di stampa, d'associazione, decentramento amministrativo ed estensione del diritto elettorale. L'anticlericalismo è un tema di particolare rilevanza nel contesto storico della Terza Repubblica e nelle divergenze che ne derivarono con la Chiesa cattolica. Gli eccidi della "settimana di sangue" seguiti all'instaurazione della Comune parigina(1871) con l'uccisione dell'arcivescovo di Parigi Georges Darboy, possono essere considerati come gli effetti del duro scontro in Francia tra clericali e anticlericali socialisti. Tuttavia, prima del 1905, la Chiesa godeva di un trattamento preferenziale da parte dello stato francese (insieme alle minoranze ebraiche, luterane e calviniste). Nel corso dell'Ottocento, sacerdoti insegnavano nelle scuole pubbliche tutte le materie, religione compresa. E inoltre la Chiesa fu implicata in attacchi antisemiti come nell'Affare Dreyfus. Di conseguenza molti appartenenti alla sinistra chiesero la separazione tra Chiesa e Stato e l'imposizione di una reale laicità. Si noti che la divisione tra "clericali" e "anticlericali" non aderisce esattamente alle categorie di "credenti" e "non credenti" poiché alcuni cattolici, come Victor Hugo, pensavano che la Chiesa non dovesse intervenire nella vita politica, mentre non credenti come Charles Maurras favorivano il potere temporale della Chiesa perché ritenevano fosse essenziale per la coesione del Paese e per i loro obiettivi politici (vedi anche reazionario). Dal punto di vista culturale non mancavano rappresentazioni anticlericali nei teatri, come la commedia Pourquoi elles vont à l'église di Nelly Roussel. In definitiva, la separazione del 1905 tra Stato e Chiesa innescò aspre polemiche e forti controversie, la maggioranza delle scuole cattoliche e delle fondazioni educative venne chiusa e molti ordini religiosi furono sciolti. Papa Pio X reagì con tre diverse encicliche di condanna: la Vehementer Nos dell'11 febbraio 1906, la Gravissimo Officii Munere del 10 agosto dello stesso anno e l'Une Fois Encore del 6 gennaio 1907.

Anticlericalismo in Messico. In seguito alla rivoluzione del 1860, il presidente Benito Juárez, appoggiato dal governo statunitense, varò un decreto per la nazionalizzazione delle proprietà ecclesiastiche, separando Chiesa e Stato e sopprimendo gli ordini religiosi. All'inizio degli anni dieci del XX secolo, i Costituzionalisti di Venustiano Carranza denunciarono l'ingerenza clericale nella politica messicana. Protestavano di non perseguitare il Cattolicesimo, ma di voler ridurre l'influenza politica della Chiesa. Tuttavia, la campagna dei Costituzionalisti non sfociò immediatamente in un nessun'azione formale. Il movimento dei Costituzionalisti rappresentava gli interessi degli Stati Uniti d'America e delle sue lobby massoniche. Successivamente Álvaro Obregón e i Costituzionalisti intrapresero delle misure volte a ridurre la profonda influenza politica della Chiesa cattolica. Il 19 maggio 1914, le forze di Obregón condannarono il vescovo Andrés Segura e altri uomini di Chiesa a 8 anni di carcere per la loro presunta partecipazione ad una ribellione. Durante il periodo in cui Obregón ebbe il controllo di Città del Messico (febbraio 1915), impose alla Chiesa il pagamento di 500.000 pesos per alleviare le sofferenze dei poveri. Venustiano Carranza assunse la presidenza il 1º maggio 1915. Carranza e i suoi seguaci ritenevano che il clero sobillasse il popolo contro di lui attraverso la propaganda. Divennero sempre più frequenti le violenze, tollerate dalle autorità, nei confronti dei cattolici: nel 1915 vennero assassinati ben 160 sacerdoti. Subito dopo che Carranza ebbe il totale controllo del Messico, emanò una nuova Costituzione con l'intento di ridurre il potere politico della Chiesa.

La Costituzione del 1917. Nella Costituzione Messicana furono introdotti articoli anticlericali:

L'articolo 3 rese obbligatoria l'istruzione laica nelle scuole messicane.

L'articolo 5 mise fuori legge i voti religiosi e gli ordini religiosi.

L'articolo 24 proibì il culto fuori dagli edifici ecclesiastici.

Con l'articolo 27 alle istituzioni religiose fu negato il diritto di acquisire, detenere o amministrare beni immobili e tutti i beni ecclesiastici, compresi quelli di scuole e ospedali, furono dichiarati proprietà nazionale.

Con l'articolo 130 il clero fu privato del diritto di voto e del diritto di commentare questioni politiche.

Il governo messicano fu estremamente pervicace nel suo intento di eliminare l'esistenza legale della Chiesa cattolica in Messico. La costituzione ebbe il risultato di acuire il conflitto fra Chiesa e Stato. Per otto anni questi provvedimenti non furono rigorosamente messi in atto dal governo messicano. Intanto le violenze continuavano. Nel 1921 un attentatore tentò di distruggere il più importante simbolo del cristianesimo messicano: il mantello con l'immagine della Madonna di Guadalupe, conservato nell'omonimo santuario. La bomba, nascosta in un mazzo di fiori deposto vicino all'altare, produsse gravi danni alla basilica. Questa politica ebbe termine nel giugno del 1926, quando il Presidente del Messico Plutarco Elías Calles (che affermava che "la Chiesa è la sola causa di tutte le sventure del Messico"), emanò un decreto noto come “Legge Calles”, con cui metteva in atto l'articolo 130 della Costituzione. La Chiesa era urtata dalla rapidità della decisione di Calles e in particolare dall'articolo 19, che prevedeva la registrazione obbligatoria del clero, perché permetteva al governo di immischiarsi negli affari religiosi. La Chiesa cattolica prese quindi posizione contro il governo. I cattolici messicani, di concerto con il Vaticano, risposero inizialmente con iniziative di protesta non violente, tra le quali il boicottaggio di tutti i prodotti di fabbricazione statale (ad esempio il consumo di tabacchi crollò del 74%) e la presentazione di una petizione che raccolse 2 milioni di firme (su 15 milioni di abitanti). Il governo non diede alcuna risposta e la Chiesa decise infine un estremo gesto simbolico: la sospensione totale del culto pubblico. A partire dal 1º agosto 1926, in tutto il Messico non si sarebbe più celebrata la Messa né i sacramenti, se non clandestinamente. Il 18 novembre papa Pio XI denunciò la persecuzione dei cattolici messicani con l'enciclica Iniquis Afflictisque. Lo scontento degenerò in aperte violenze quando oltre 5.000 Cristeros diedero inizio ad una ribellione armata. Il governo messicano e i cattolici ingaggiarono un sanguinoso conflitto che durerà per tre anni. Nel 1927 si formò un vero e proprio esercito ribelle, forte di ventimila uomini, che in seguito aumentarono fino a cinquantamila, al comando del generale Enrique Gorostieta Velarde. All'esercito si affiancavano le "brigate Santa Giovanna d'Arco", formazioni paramilitari femminili che giunsero a contare 25000 membri, tra cui anche giovani di soli 14 anni. Tra il 1927 e il 1929 tutti i tentativi di schiacciare la ribellione fallirono; gli insorti anzi presero il controllo di vaste zone nel sud del paese. La Chiesa messicana e il Vaticano, tuttavia, non diedero mai il loro aperto sostegno alla ribellione (il che non impedì al governo di giustiziare anche numerosi sacerdoti che non ne facevano parte), e agirono per giungere ad una soluzione pacifica. Il 21 giugno 1929 furono così firmati gli Arreglos ("accordi"), che prevedevano l'immediato cessate il fuoco e il disarmo degli insorti. I termini dell'accordo, mediati (o piuttosto imposti) dall'ambasciatore degli Stati Uniti, erano però estremamente sfavorevoli alla Chiesa: in pratica tutte le leggi anticattoliche rimanevano in vigore. Questo periodo di anticlericalismo messicano ha ispirato a Graham Greene la scrittura del romanzo Il potere e la gloria.

Anticlericalismo in Portogallo. Nel 1750 il Portogallo fu il primo paese ad espellere i gesuiti.

Una prima ondata di anticlericalismo si verificò nel 1834 sotto il regno di Pietro IV, quando il ministro Joaquim António de Aguiar decretò la soppressione degli ordini religiosi. Parallelamente, alcune delle più note scuole religiose del Portogallo furono obbligate a cessare l'attività. In questo periodo lo scrittore e politico Almeida Garrett pubblicò la commedia anticlericale A sobrinha do Marquês (1848). La caduta della monarchia a seguito della Rivoluzione repubblicana del 1910 causò un'ulteriore ondata di anticlericalismo. La rivoluzione colpì in primo luogo la Chiesa cattolica: vennero saccheggiate le chiese, vennero attaccati i conventi. Furono presi di mira anche i religiosi. Il nuovo governo inaugurò una politica anticlericale. Il 10 ottobre il nuovo governo repubblicano decretò che tutti i conventi, tutti i monasteri e tutte le istituzioni religiose fossero soppresse: tutti i religiosi venivano espulsi dalla repubblica e i loro beni confiscati. I gesuiti furono costretti a rinunciare alla cittadinanza portoghese. Seguirono, in rapida successione, una serie di leggi anticattoliche: il 3 novembre venne legalizzato il divorzio. In seguito passarono leggi che legittimavano i figli nati fuori dal matrimonio, che autorizzavano la cremazione, che secolarizzavano i cimiteri, che sopprimevano l'insegnamento religioso a scuola e che proibivano di indossare l'abito talare. Inoltre al suono delle campane e ai periodi di adorazione furono poste alcune restrizioni e la celebrazione delle feste popolari fu soppressa. Il governo interferì anche nei seminari, riservandosi il diritto di nominare i professori e determinare i programmi. Questa lunga serie di leggi culminò nella legge di separazione fra Chiesa e Stato che fu approvata il 20 aprile 1911. Il 24 maggio dello stesso anno papa Pio X deplorò la legge portoghese con l'enciclica Iamdudum.

Anticlericalismo in Spagna. Già tra il XV ed il XVI secolo si nota nella letteratura e nel teatro spagnolo la presenza di opere, o parti di esse, di contenuto anticlericale, spesso generate dall'ammirazione per Erasmo da Rotterdam. Si nota quindi Alfonso de Valdés, con la sua Discorso de Latancio y del Arcediano, dove si compiace di descrivere la corruzione della Roma papale punita con il sacco di Roma; a causa del controllo esercitato dal Sant'Uffizio, si trovano tracce di anticlericalismo celato, come nella commedia di Luis Belmonte Bermúdez, El diablo predicador, o negli aforismi perduti di Miguel Cejudo. In seguito alla prima guerra carlista del 1836, il nuovo regime chiuse i maggiori conventi e monasteri della Spagna. In questo contesto, il radicale Alejandro Lerrouxsi caratterizzava per un'oratoria violenta e incendiaria. Dal punto di vista economico la Chiesa cattolica in Spagna fu pesantemente colpita dalle leggi di esproprio e confisca dei beni ecclesiastici, che si susseguirono dal 1798 al 1924: il più famoso di questi provvedimenti è noto con il nome di Desamortización di Mendizábal del1835. Circa un secolo dopo, instaurata la Seconda repubblica e approvata la Costituzione del 1931, proseguì la legislazione anticlericale, inaugurata il 24 gennaio 1932con lo scioglimento in Spagna della Compagnia di Gesù e l'esilio della maggioranza dei gesuiti. Il 17 maggio 1933, il governo varò la controversa Legge sulle Confessioni e Congregazioni Religiose (Ley de Confesiones y Congregaciones Religiosas), approvata dal parlamento il 2 giugno 1933, e regolamentata mediante un decreto del 27 luglio[54]. La legge confermava la proibizione costituzionale dell'insegnamento per gli ordini religiosi, mentre si dichiararono di proprietà pubblica i monasteri e le chiese. La legge fu un duro colpo al sistema scolastico (le scuole gestite dagli ordini religiosi contavano 350.000 alunni) in un Paese dove il 40% della popolazione era analfabeta. Reagì contro la legge papa Pio XI, con l'enciclica Dilectissima Nobis del 3 giugno 1933. Durante la guerra civile spagnola del 1936, molti appartenenti all'armata Repubblicana erano volontari anarchici e comunisti fortemente anticlericali e provenienti da varie parti del mondo. Nel corso dei loro assalti, (in risposta all'atteggiamento del clero, che con toni da crociata si era schierato dalla parte dell'insurrezione antirepubblicana di Francisco Franco e che denunciava spesso gli anarchici alle autorità, condannandoli a morte certa) parecchi edifici di culto e monasteri vennero bruciati e saccheggiati. Al termine del conflitto, la stima delle vittime religiose ascende a più di 6.000 religiosi trucidati, tra cui 259 clarisse, 226 francescani, 155 agostiniani, 132 domenicani e 114 gesuiti. Gli episodi raccapriccianti non furono isolati: stupri di suore, fucilazioni rituali di statue di santi, preti cosparsi di benzina e arsi, taglio di orecchie e genitali "papisti" e persino corride con sacerdoti al posto di tori[55]. La stragrande maggioranza della Chiesa cattolica salutò la vittoria di Franco, militarmente sostenuto da Hitler e Mussolini, come un provvidenziale intervento divino nella storia di Spagna. Nonostante la guerra fosse stata per Hitler nient'altro che il banco di prova della tragedia che stava preparando per l'Europa, papa Pio XII nel suo radiomessaggio del 16 aprile 1939, Con immensa gioia, parlò di una vera e propria vittoria "contro i nemici di Gesù Cristo". La Chiesa cattolica, sotto il papato di Giovanni Paolo II, tra il 1987 ed il 2001 ha riconosciuto e canonizzato 471 martiri della guerra civile spagnola; altri 498 sono stati poi beatificati nel 2007 da Benedetto XVI. Recentemente, anche il premier Zapatero è stato avvicinato all'anticlericalismo per le sue politiche laiche.

Anticlericalismo negli Stati Uniti. L'anticlericalismo statunitense (o meglio l'anticattolicesimo) degli anni cinquanta del secolo XIX trovò espressione nel Know Nothing: un movimento xenofobo ("nativista"), che traeva forza dalle paure popolari che il paese potesse essere sopraffatto dall'immigrazione massiccia dei cattolici irlandesi, ritenuti ostili ai "valori americani" e controllati dal papa. Sebbene i cattolici asserissero di essere politicamente indipendenti dal clero, i protestanti accusavano papa Pio IX di aver posto fine alla Repubblica Romana e di essere un nemico della libertà, della democrazia e del protestantesimo. Questi rilievi fomentarono teorie di cospirazione che attribuivano a Pio IX il disegno di soggiogare gli Stati Uniti mediante un'immigrazione continua di cattolici controllati da vescovi irlandesi obbedienti e personalmente selezionati dal Pontefice. Un'eco di anticlericalismo è presente nelle elezioni presidenziali del 1928, in cui il Partito Democratico candidò il governatore dello stato di New York Al Smith, (il primo cattolico candidato alla presidenza da un grande partito), che fu attaccato come "papista". L'elettorato temeva che "se Al Smith fosse eletto presidente, gli Stati Uniti sarebbero governati dal Vaticano". L'anticlericalismo ha trovato anche esponenti laici, non legati al protestantesimo e all'opposizione agli immigrati, in epoca recente: ad esempio il giornalista anglo-americano Christopher Hitchens, accusato spesso di anticattolicesimo, ateo e antislamista; i laici americani riprendono le posizioni del presidente Thomas Jefferson che fu uno dei più forti sostenitori di uno stato non legato alla religione all'epoca della nascita degli Stati Uniti. Uno dei cavalli di battaglia più recenti degli anticlericali statunitensi è la lotta contro l'ingerenza evangelicista nella politica interna nonché la critica contro il clero cattolico per loscandalo pedofilia che ha coinvolto molte diocesi americane.

Anticlericalismo nella Germania nazista. La propaganda nazista ebbe tratti anticlericali. Ad esempio Himmler, capo supremo delle SS e della Gestapo, riprende alcuni motivi cari all'anticlericalismo: la depravazione e perversione del clero, la svalorizzazione della donna, la corruzione della grandezza di Roma: «Sono assolutamente convinto che tutto il clero e il cristianesimo cercano soltanto di stabilire un'associazione erotica maschile e a mantenere questo bolscevismo che esiste da duemila anni. Conosco molto bene la storia del cristianesimo a Roma, e ciò mi permette di giustificare la mia opinione. Sono convinto che gli imperatori romani, che hanno sterminato i primi cristiani, hanno agito esattamente come noi con i comunisti. A quell'epoca i cristiani erano la peggior feccia delle grandi città, i peggiori ebrei, i peggiori bolscevichi che vi possiate immaginare. Il bolscevismo di quell'epoca ha avuto il coraggio di crescere sul cadavere di Roma. Il clero di quella Chiesa cristiana che, più tardi, ha sottomesso la Chiesa ariana dopo lotte infinite, cerca, dal IV o V secolo, di ottenere il celibato dei preti. [...]dimostreremo che la Chiesa, sia a livello dei dirigenti che a quello dei preti, costituisce nella maggior parte un'associazione erotica di uomini che terrorizza l'umanità da 1.800 anni, che esige che questa umanità le fornisca una grandissima quantità di vittime e che, nel passato, si è dimostrata sadica e perversa. Posso soltanto citare i processi alle streghe e agli eretici.» (Testo del discorso segreto tenuto da Heinrich Himmler il 17-18 febbraio 1937 ai generali delle SS in relazione ai "pericoli razziali e biologici dell'omosessualità. Ciononostante, il Partito del Centro Cattolico di Germania, guidato da Franz von Papen, aveva appoggiato l'ascesa del nazismo in Germania e, nel gennaio 1933, la nomina di Hitler a Cancelliere, di cui von Papen divenne vice-Cancelliere. Nel marzo dello stesso anno, il partito di von Papen votò la concessione dei pieni poteri a Hitler in cambio di privilegi che sarebbero stati concessi alla Chiesa nel Concordato con la Germania nazista, che venne firmato nel 4 mesi più tardi dal cardinale Pacelli (futuro papa Pio XII). Hitler stesso aveva dichiarato più volte ai suoi collaboratori la sua ostilità verso la Chiesa: "Ho conquistato lo Stato a dispetto della maledizione gettata su di noi dalle due confessioni, quella cattolica e quella protestante. (13 dicembre 1941) I preti oggi ci insultano e ci combattono, si pensi per esempio alla collusione tra la Chiesa e gli assassini di Heydrich. Mi è facile immaginare come il vescovo von Galen sappia perfettamente che a guerra finita regolerò fino al centesimo i miei conti con lui... (4 luglio 1942) - I preti sono aborti in sottana, un brulichio di cimici nere, dei rettili: la Chiesa cattolica stessa non ha che un desiderio: la nostra rovina- La dottrina nazionalsocialista è integralmente antiebraica, cioè anticomunista ed anticristiana. (Notte tra il 29 e il 30 novembre 1944) - schiaccerò la chiesa come un rospo " e aveva mostrato con fatti concreti il suo anticlericalismo, violando continuamente il Reichskonkordat. Oltre a far togliere i crocefissi dalle aule scolastiche e pubbliche, nella sola Germania più di un terzo del clero secolare e un quinto circa del clero regolare, ossia più di 8000 sacerdoti furono sottoposti a misure coercitive (prigione, arresti illegali, campi rieducativi), 110 morirono nei campi di concentramento, 59 furono giustiziati, assassinati o perirono in seguito ai maltrattamenti ricevuti.

Anticlericalismo in Argentina. Durante il primo periodo peronista, ci furono alcuni atteggiamenti e leggi anticlericali. Inizialmente i rapporti tra il governo di Juan Domingo Perón e di sua moglie Evita e le gerarchie ecclesiastiche furono buoni, e il peronismo non era affatto antireligioso, ma si incrinarono quando Perón legalizzò l'aborto e facilitò il divorzio, introducendo leggi che ostacolavano l'istruzione religiosa. Il governo di Juan Domingo Perón in un primo momento fu legato alle Forze Armate, e l'esercito e la Chiesa erano all'epoca considerati il baluardo contro le ideologie socialiste e comuniste. La Chiesa, inoltre, sosteneva la dottrina politica della "giustizia sociale", e condivideva con il peronismo l'idea che fosse compito dello Stato mediare nei conflitti di classe e livellare le disuguaglianze sociali. Ci furono, tuttavia, settori della Chiesa cattolica, già reduce dai provvedimenti antiecclesiastici del Messico di Calles un ventennio prima, che accusavano il peronismo di statalismo per l'eccessiva interferenza del governo nazionale nella vita privata e in contesti che non gli competevano. Il motivo della critica era dovuto anche al fatto che spesso lo Stato invadeva le sfere tradizionalmente di competenza della Chiesa nel momento in cui si interessava, ad esempio, dei piani di assistenza e della pubblica educazione. Le alte gerarchie ecclesiali argentine erano rimaste alleate dell'oligarchia, nonostante la Costituzione del 1949 trattasse con moltissimo riguardo il cattolicesimo, facendone religione di Stato nell'articolo 2, e affermasse che il Presidente dovesse essere un cattolico. Nel 1946 il Senato approvò una legge che riaffermava e confermava tutti i decreti stabiliti dalla giunta militare del precedente governo dittatoriale. Tra questi decreti c'era anche la legge sull'istruzione religiosa obbligatoria varata nel 1943. Questa legge era stata duramente discussa alla Camera dei Deputati, ed era passata solo grazie al voto dei peronisti. Gli argomenti che apportarono a favore della legge furono nazionalistici ed antiliberali: si sottolineò il legame esistente tra l'identità della nazione e il profondo cattolicesimo della Spagna, e si enfatizzò il ruolo che la religione avrebbe avuto nella formazione delle coscienze e della società. Questa riaffermazione della legge sull'educazione religiosa, tuttavia, limitò i poteri della Chiesa dando ragione a coloro che all'interno della stessa Chiesa tacciavano il peronismo di statalismo: i programmi scolastici e i contenuti dei libri di testo erano responsabilità dello Stato, il quale avrebbe potuto consultare le autorità ecclesiastiche qualora ce ne fosse stato bisogno; le altre materie scolastiche continuarono ad essere insegnate secondo lo spirito della Legge 1420 del 1884, e quindi continuarono a seguire la tradizione laicista dello stile di formazione argentino; l'educazione scolastica divenne un mezzo di propaganda per il culto della personalità del Presidente e di sua moglie Eva; nel giugno 1950, infine, Perón nominò Armando Méndez San Martín, un massone anticattolico, Ministro della Pubblica Istruzione, cominciando a guardare la Chiesa con sospetto. Durante il suo secondo mandato Perón non condivise l'aspirazione della Chiesa di promuovere partiti politici cattolici. Infine, alcune leggi peroniste provocarono malumori tra i vescovi: nel 1954 il governo soppresse l'educazione religiosa nelle scuole, tentò di legalizzare la prostituzione, di far passare una legge sul divorzio, e di promuovere un emendamento costituzionale per separare completamente Stato e Chiesa. Perón, poi, accusò pubblicamente il clero di sabotaggio. Il 14 giugno1955, durante la festa del Corpus Domini, i vescovi Manuel Tato e Ramón Novoa fecero discorsi antigovernativi. Fu il punto di rottura: durante quella stessa notte gruppi di peronisti attaccarono e bruciarono alcune chiese di Buenos Aires. Perón divenne apertamente anticlericale e, due giorni dopo questi fatti, venne scomunicato da papa Pio XII. Perón venne deposto nel 1955, ma tornò al potere nel 1973. Alla sua morte (1974) il potere passò alla terza moglie Isabelita Perón, che venne deposta a sua volta da un golpe militare. La dittatura di Jorge Rafael Videla, sosteneva la religione come mezzo di controllo sociale, anche se vi furono molti preti e religiosi che finirono nel numero dei desaparecidos. Con il ritorno della democrazia, ci sono stati alcuni contrasti fra la Chiesa e il governo di Néstor e Cristina Fernández de Kirchner.

Campagna elettorale per la Costituzione dell'Ecuador. In occasione del referendum costituzionale del settembre 2008, la Chiesa cattolica ha preso posizione guidando il fronte del no e ha invitato gli elettori a votare contro la proposta dell'Assemblea costituente ecuadoriana perché, a giudizio dei vescovi, la nuova Costituzione non avrebbe tutelato il diritto alla vita del concepito, lasciando intravedere il diritto per le donne all'aborto. La nuova Costituzione ecuadoriana, all'articolo 66.3.a, tutela infatti l'integrità fisica, psichica, morale e sessuale di ogni persona, senza specificare, come avrebbe voluto la Chiesa, un primato del concepito sulla madre. L'articolo 66.9 garantisce il diritto di decidere sulla propria sessualità e orientamento sessuale. L'articolo 66.10 garantisce il diritto di decidere quanti figli generare e quando. Secondo i vescovi gli articoli sarebbero vaghi e generici e permetterebbero l'introduzione del diritto all'interruzione di gravidanza e del matrimonio omosessuale. Il governo di Rafael Correa ha reagito fermamente alle critiche avanzate dai vescovi cattolici, invitando gli elettori a non farsi catechizzare dai preti, accusati, senza mezzi termini, di mentire e di esercitare indebite ingerenze nella politica nazionale. Il presidente del Tribunale supremo elettorale, Jorge Acosta, ha invitato pubblicamente la Conferenza Episcopale Ecuadoriana a registrarsi come soggetto politico per continuare la sua «campagna di catechesi costituzionale», accusandola al contempo di non aver rispettato le norme giuridiche e di non aver nominato un tesoriere per il finanziamento della campagna stessa. L'episcopato cattolico ha invocato il diritto di esprimere la propria opinione richiamandosi alla Dichiarazione universale dei diritti umani e ha protestato per gli epiteti offensivi rivolti a vescovi e sacerdoti nella campagna del governo, costata milioni di dollari. Anche il Centro Latinoamericano dei Diritti Umani ha espresso la sua preoccupazione per gli attacchi verbali del presidente Correa contro la Conferenza Episcopale. Gli elettori ecuadoriani hanno poi, nel referendum, approvato la Costituzione con un'ampia maggioranza di circa il 64% contro circa il 29%. Durante la visita ad limina a papa Benedetto XVI nell'ottobre del 2008, i vescovi ecuadoriani hanno espresso disappunto per i rapporti con il governo ecuadoriano, giudicato anticlericale.

Anticlericalismo negli Stati comunisti. Molti governi comunisti, che praticavano l'ateismo di Stato, sono stati violentemente anticlericali, abolendo le festività religiose, imponendo il solo insegnamento dell'ateismo nelle scuole, chiudendo chiese, monasteri, scuole ed istituti religiosi. Il culto privato rimase ufficialmente consentito, tranne nell'Albania, che imponeva l'ateismo anche nella propria Costituzione. A Cuba le manifestazioni religiose pubbliche sono state rese legali solo nel 1993. In alcuni stati fortemente cattolici, come la Polonia, la Chiesa era tollerata fino a quando restava in ambito religioso e non interferiva o criticava il governo comunista. In Russia, poi Unione Sovietica, nel marzo del 1922 viene decisa la requisizione degli oggetti di culto preziosi appartenenti al clero, ufficialmente allo scopo di rimediare agli effetti della carestie che si erano accompagnate durante la guerra. Tuttavia, molti ritengono che tale provvedimento fosse in realtà finalizzato a provocare la reazione degli ecclesiastici (che consideravano i paramenti liturgici sacri), per poterli perseguitare "con ragione". Infatti si ebbero circa un migliaio di episodi di "resistenza", a seguito dei quali i Tribunali rivoluzionari comminarono la pena di morte a 28 vescovi e 1215 preti e la pena detentiva a circa 100 vescovi e diecimila preti. In tutto, durante tale "iniziativa", vennero uccisi circa ottomila membri del clero. In dicembre viene organizzata una campagna pubblica per irridere il Natale; simili manifestazioni si avranno l'anno seguente anche in occasione della Pasqua e della festa ebraica del Yom Kippur. Migliaia di monaci e sacerdoti sono stati condannati a morte o ai lavori forzati nei gulag durante il regime di Stalin. La separazione tra Stato e Chiesa venne decisa nel territorio dell'URSS il 23 gennaio 1918 dai soviet, poco dopo la fine della Rivoluzione russa. Lo Stato divenne laico e ufficiosamente ateo, sostenendo l'ateismo di Stato, anche se ciò non venne mai sancito esplicitamente nelle Costituzioni, che si limitavano a nominare la religione solo affermando la divisione netta tra Chiesa e Stato e la libertà di culto e coscienza; l'ateismo di stato venne attuato in forma di politica governativa anticlericale e antireligiosa, dal punto di vista pratico e culturale, tramite leggi ordinarie e propaganda. La religiosità venne ridotta a semplice scelta privata, secondo l'ideologia di Lenin e del marxismo, da considerare lecita ma da scoraggiare, al di fuori della sfera personale. La chiesa ortodossa russa fu costretta a rinunciare a tutti i privilegi, come l'esenzione dalle tasse e dal servizio militare per i sacerdoti e i monaci, e per un certo periodo perseguitata. Con la Costituzione sovietica del 1918, emanata per la Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa e poi estesa alle altre repubbliche federate, venne permesso di svolgere formalmente "propaganda religiosa e non-religiosa", anche se svolgere attiva propaganda di religione o di idee ritenute "superstizioni" in luogo o edificio pubblico (come la propaganda religiosa nelle scuole, l'esposizione di immagini religiose nei luoghi di lavoro, le processioni, ecc.) poteva essere sanzionato con multe o lavori forzati fino a 6 mesi. Coloro i quali non svolgevano lavori socialmente utili (non solo ecclesiastici, ma anche ex agenti zaristi, privati, ad eccezione di artigiani e contadini dei colchoz, ecc.) venivano esclusi dal voto e non pagati, restrizione poi eliminata nel 1936. Quindi questi ultimi, una volta esaurite le risorse di cui erano dotati, dovettero svolgere un altro lavoro per sostentarsi, secondo il principio "chi non lavora non mangia". Venne introdotto il matrimonio civile e negata validità legale a quello religioso, vennero distrutte alcune chiese che occupavano suolo pubblico, altre vennero convertite in uffici e musei pubblici e vennero inoltre abolite tutte le feste religiose come ad esempio il Natale o lo Yom Kippur ebraico. Con Stalin il processo antireligioso dello Stato fu completato. La costituzione sovietica del 1924 non conteneva esplicitamente norme sulla religione, in quanto era stata votata come integrazione per sancire la nascita dell'unione federale delle repubbliche come Unione sovietica, mentre per quanto riguarda i diritti e doveri dei cittadini, restò in vigore la relativa parte della costituzione del 1918. Infine, solo in alcune località remote venne concesso di svolgere cerimonie religiose. Secondo fonti ortodosse, nel 1917 erano attive circa 80.000 chiese, mentre è stato calcolato che erano circa 20.000 nel 1954 e 10.000 nel 1965. La Costituzione sovietica del 1936 sancì la libertà di culto privato, e autorizzò solo la propaganda antireligiosa, ribadendo nuovamente la netta divisione tra Chiesa e Stato. Restarono valide le normative penali del 1922 contro le "superstizioni religiose" diffuse in pubblico. Nel 1927 venne approvato l'articolo del codice penale che sanciva, tra l'altro, che svolgere propaganda religiosa in tempo di guerra o crisi, se considerato fatto con lo scopo preciso di abbattere il regime comunista o danneggiare direttamente o indirettamente lo Stato, poteva essere punito anche con la pena di morte. Durante la seconda guerra mondiale, nel1943, Stalin diede una tregua alla campagna antireligiosa e chiese al patriarca Sergio I di Mosca (in seguito a un incontro avvenuto tra i due) di supportare moralmente i soldati al fronte contro i nazisti. Nello stesso periodo Sergio I rientrò a Mosca e morì nel 1944. Stalin concederà poi alla Chiesa ortodossa la possibilità di celebrare funzioni religiose, ma solo all'interno delle chiese autorizzate e nel privato. Con Nikita Khruščёv riprendono le misure più restrittive verso la Chiesa, e si riprende la propaganda attiva dell'ateismo di Stato dopo la tregua iniziata nel 1943 e durata sino al 1954. Soltanto negli anni ottanta, dopo la continuazione della politica antireligiosa dei governi Breznev, Andropov e Cernenko, vi fu una nuova tregua nella lotta attiva contro la religione, a partire dall'ascesa al potere diMichail Gorbačëv. La situazione di tolleranza pratica perdurò fino al 1990, quando Gorbačëv permise la libera propaganda religiosa e instaurò la libertà di culto in via ufficiale, al posto dell'ateismo di stato. Istituì inoltre l'Istituto per l'ateismo scientifico di Leningrado, che durò fino allo scioglimento dell'URSS, nel 1991. Nell'Unione Sovietica vennero introdotti il divorzio (1º dicembre 1917) e l'aborto nel 1920 (reso molto più difficile da Stalin nel 1935, poi reintrodotto nel 1955) e negata la validità del matrimonio religioso (dicembre 1917). Anche in Cina l'anticlericalismo ha comportato la soppressione (spesso anche fisica) del clero di varie religioni, compreso anche il monachesimo buddista del Tibet. La libertà religiosa ufficialmente è assicurata, anche se in realtà alcuni movimenti sono perseguitati e la stessa Chiesa cattolica e la nomina dei suoi vescovi sono subordinate all'avallo del Partito Comunista Cinese.

Anticlericalismo negli stati islamici. Influenzati dall'occidente anche alcuni Paesi islamici, principalmente la Turchia negli anni venti e l'Iran negli anni sessanta, vararono provvedimenti anticlericali contro il clero musulmano. «Per quasi cinquecento anni, queste regole e teorie di un vecchio arabo e le interpretazioni di generazioni di religiosi pigri e buoni a nulla hanno deciso il diritto civile e penale della Turchia. Loro hanno deciso quale forma dovesse avere la Costituzione, i dettagli della vita di ciascun turco, cosa dovesse mangiare, l’ora della sveglia e del riposo, la forma dei suoi vestiti, la routine della moglie che ha partorito i suoi figli, cosa ha imparato a scuola, i suoi costumi, i suoi pensieri e anche le sue abitudini più intime. L’Islam, questa teologia di un arabo immorale, è una cosa morta. Forse poteva andare bene alle tribù del deserto, ma non è adatto a uno stato moderno e progressista. La rivelazione di Dio! Non c’è alcun Dio! Ci sono solo le catene con cui preti e cattivi governanti inchiodano al suolo le persone. Un governante che abbisogna della religione è un debole. E nessun debole dovrebbe mai governare.» Mustafa Kemal Atatürk, militare e politico membro del movimento dei Giovani Turchi e della Massoneria, prese il potere nel 1923. Egli era anticlericale e in favore di un forte nazionalismo, il suo modello di riferimento trovava radici nell'Illuminismo. Aveva l'ambizione di creare una moderna forma di civiltà turca. Durante tutto il periodo e anche oltre, l'esercito rimase il pilastro della nazione e la scuola fu riformata in modo da essere laica, gratuita e obbligatoria. La nuova capitale fu posta ad Ankara, scelta a scapito di Istanbul (due volte capitale imperiale: Impero Romano d'Oriente ed Impero Ottomano). La lingua fu riformata nello stile e nell'alfabeto: l'alfabeto ottomano di origine araba venne sostituito dall'alfabeto latino nel 1928. Nello stesso periodo la storia venne riscritta per dare radici alla nazione, e legarla all'occidente. Kemal, la cui ideologia è detta kemalismo, introdusse il cognome al posto del patronimico arabo: a lui il parlamento assegnò il cognome Atatürk, cioè "padre dei turchi". Usanze islamiche, come portare la barba, i baffi alla turca o i copricapi arabi come il fez furono scoraggiate o vietate (ai militari fu proibito di portare i baffi e tuttora devono essere sbarbati). Dalla rivoluzione del 1908, i diritti delle donne uscirono rinforzati. Nel 1919, sotto l'influsso dei militari, furono adottate misure per cambiare lo status delle donne: la parità con gli uomini fu riconosciuta nel codice civile, il matrimonio civile reso obbligatorio per chi volesse sposarsi, fu introdotto il divieto di poligamia, vietati il ripudio (divorzio unilaterale maschile) e l'uso del velo islamico nei luoghi pubblici (possibilità resa nuovamente lecita solo nel 2011), legalizzata la produzione e la vendita delle bevande alcoliche, resa obbligatoria l'iscrizione a scuola per le bambine, incentivata l'assunzione di donne in vari posti di lavoro e così dicendo. Nel 1934 fu riconosciuto alle donne il diritto di votare e nel 1935 furono elette delle donne al parlamento turco. La Turchia kemalista era risolutamente laica. Il califfato fu abolito il 3 marzo 1924. Questo gesto fu considerato come un sacrilegio da parte del mondo arabo-musulmano. Nel 1928, primo paese del mondo musulmano, l'Islam non era più la religione di Stato e, nel 1937, il secolarismo venne sancito nella Costituzione. Fu adottato il calendario gregoriano, e la domenica divenne il giorno settimanale di riposo. Proseguendo la secolarizzazione delle leggi cominciata nel 1839 dalleTanzimat (riforme) dell'Impero Ottomano, il regime kemalista adottò nel 1926, un codice civile sulla base del codice svizzero, un codice penale sulla base del codice italiano e un codice commerciale basato sul Codice tedesco. Furono abolite le pene corporali previste dalla legge islamica, i reati di apostasia e adulterio. L'anticlericalismo del regime era pronunciato, ma lo spiritualismo musulmano non fu mai completamente abbandonato. L'Islam e le altre religioni, compreso il cristianesimo, erano inoltre controllate attraverso l'Organo per la Direzione degli Affari Religiosi, creato nel 1924. Sotto l'influsso del kemalismo anche dopo la morte del leader continuarono le riforme: fu depenalizzata l'omosessualità, anche se i gay turchi vengono tuttora discriminati, non potendo, ad esempio, far parte dell'esercito. In tempi recenti l'avvento al potere di un partito islamico moderato, anche se non ha abolito lo Stato laico, ha incrementato tuttavia la rinascita di movimenti e sentimenti "islamisti". Nel 2008 i militari, guardiani del secolarismo secondo la visione di Atatürk hanno tentato un colpo di Stato, fallito, in difesa della laicità e contro il governo eletto di Recep Tayyip Erdoğan. Mohammad Reza Pahlavi, scià di Persia, varò la cosiddetta rivoluzione bianca, che modernizzò il Paese in senso occidentale; benché egli, a differenza di Atatürk, fosse un fervente praticante musulmano (nonché formalmente capo supremo dell'Islam sciita duodecimano), era fortemente e violentemente avverso al clero e all'influenza dei mullah. Reza proibì, ad esempio, l'uso del velo in luoghi pubblici e perseguitò il clero che si opponeva alle riforme occidentalizzanti, uccidendo, imprigionando o esiliando i mullah e gli imam, compreso l'Ayatollah Khomeini inviato in esilio nel 1964. Lo scià modernizzò il paese con la forza, ma vietò ogni tipo di opposizione alla sua monarchia. Furono resi legali il gioco d'azzardo, la prostituzione, le bevande alcoliche, istituito il suffragio femminile e il matrimonio civile. Tra il fronte di rivolta alle riforme pahlavidi, soprattutto per la loro impronta giurisdizionalista, si schierò soprattutto il clero sciita perché veniva privato dei benefici assolutisti, nonché gruppi religiosi che si erano opposti alla sua riforma agraria e sociale, che venivano espropriati di molti beni di manomorta, controllati dalle gerarchie religiose. Tuttavia, la sua posizione ambivalente nei confronti della religiosità iraniana, della quale era virtualmente anche il capo (incarnando un modello cesaropapistico), lo poneva in difficoltà impedendogli di prendere provvedimenti drastici onde evitare lo scontento aperto e manifesto delle masse popolari. Alla rivoluzione iraniana, nel 1979, Khomeini prese il potere e lo scià dovette fuggire. I religiosi instaurarono un regime clericale ed islamista, la repubblica islamica, che cancellò le riforme del periodo Pahlavi e perseguitò anche la sinistra che aveva contribuito a combattere l'autocrazia dello scià.

Anticlericalismo oggi in Italia. Il potere temporale dei papi ha cessato di esistere, ad esclusione ovviamente del diritto a legiferare e governare nei limiti territoriali della Città del Vaticano, ma rimangono tuttora fortemente contestati, da parte di alcuni ambienti laici, la ripetuta attività di pressione, diretta e indiretta, esercitata dalla Chiesa, in nome dei propri valori e delle proprie finalità, nella società e nella politica, anche attraverso la ramificata presenza delle sue organizzazioni all'interno di partiti, associazioni, enti pubblici e privati. L'anticlericalismo rimane presente in varie forme in alcuni giornali satirici come il settimanale parigino Le Canard enchaîné, e nel dibattito politico e culturale di vari stati, come reazione all'influsso esercitato dalla chiesa sui partiti politici che dichiarano di richiamarsi ai valori cristiani e sui governi degli stati a maggioranza cattolica. Oggi l'anticlericalismo in Italia si esplica nelle tensioni della attualità politica; l'etica e la morale sono ancora terreno vivo e fertile dello scontro tra parti, tra Stato e Chiesa, tra comunità scientifiche. Tra le questioni dibattute sono sicuramente al vertice la libertà di ricerca scientifica, in particolare sulle cellule staminali embrionali, la procreazione medicalmente assistita sia eterologa che omologa, l'eutanasia e la terapia del dolore, le unioni civili, la legalizzazione dell'aborto, la contraccezione e la pillola RU486. L'anticlericalismo contemporaneo spesso focalizza l'attenzione sugli aspetti più arretrati che ritiene presenti, sia pure con diversi livelli di gravità, in diverse religioni, come l'Islam quali, ad esempio, la condizione di subalternità della donna. In questo senso, si potrebbe ritenere come anticlericale la recente legge varata in Francia che vieta l'uso del velo e dei simboli religiosi all'interno delle aule scolastiche. La possibilità che, su invito del rettore, papa Benedetto XVI potesse inaugurare l'anno accademico all'università la Sapienza di Roma, il 17 gennaio 2008, è stata contestata fortemente da alcuni gruppi studenteschi e da 67 professori, in particolare di materie scientifiche. Richiamandosi ad una lettera aperta di Marcello Cini al rettore apparsa su il manifesto, i contestatori ritenevano inopportuna la visita del papa sulla base di una citazione del Pontefice, risalente ad un suo discorso del1990 tenuto a Parma. L'allora cardinale Ratzinger aveva citato il filosofo Feyerabend: «La Chiesa dell'epoca di Galileo si attenne alla ragione più che lo stesso Galileo, e prese in considerazione anche le conseguenze etiche e sociali della dottrina galileiana. La sua sentenza contro Galileo fu razionale e giusta, e solo per motivi di opportunità politica se ne può legittimare la revisione». Questa citazione costituiva, secondo i 67 professori (tra cui il presidente del CNR), una minaccia alla laicità della scienza. La contestazione portò all'annullamento della visita del Papa, che preferì declinare l'invito del rettore, in quanto non era condiviso da tutta l'università.

Alla testa dei cattocomunisti ci stanno i comunisti, con i cattolici che fanno da prestanome, pronti ad essere sfrattati quando necessario, scrive Diego Gabutti il 28 ottobre 2015 su “Italia Oggi”. Vittima prima del libro Cuore e della retorica risorgimentale, poi del fascismo, quindi del clericalismo e del comunismo, infine del giustizialismo e del berlusconismo, mai che sull'Italia brilli una buona stella, come sa bene Massimo Teodori. Radicale storico, uno dei rari intellettuali laici e liberali in un paese di bacchettoni, devoti soltanto a ubbìe ideologiche e a idee fisse religiose, Teodori continua la sua esplorazione dell'Italia sotto sortilegio illiberale (e luogo di catastrofi culturali) con il suo ultimo libro, Il vizietto cattocomunista (Marsilio 2015, pp. 176, 14,00 euro, ebook 9,99 euro). È la storia lunga settant'anni «del connubio tra eredi del Pci e della sinistra democristiana» che ha per capolinea il partito democratico di Matteo Renzi. Teodori ripercorre nel suo libro tutta la vicenda: la guerra di Togliatti contro Benedetto Croce e gli altri nemici del Concordato con la Chiesa, il congresso della gioventù comunista in cui un Enrico Berlinguer poco più che ventenne invitava le giovani militanti a prendere esempio (in fatto di morale sessuale) da Santa Maria Goretti, gl'innumerevoli tentativi d'arruffianarsi la sinistra cattolica, le titubanze in tema d'aborto e di divorzio, l'epoca in cui Berlinguer (sempre lui) predicava il compromesso storico tra comunisti e democristiani contro le derive (non sembra vero, visto il pulpito) clericali e autoritarie, l'odio per il laicismo craxiano, la guerra contro il consumismo e l'elogio dell'austerità, l'invenzione della «questione morale», poi la crisi del comunismo internazionale e la caduta dell'Urss. Arrivano i giorni di Tangentopoli, Craxi se ne va in esilio come Trotzky, i laici si raccolgono intorno al nascente partito di plastica, sparisce la Dc, il Pci cambia nome. In questa generale rovina una sola forza ideologicamente e politicamente attiva porta a casa la pelle: il cattocomunismo, con i suoi ingombri religiosi e i suoi pregiudizi ideologici. Alla testa dei cattocomunisti ci sono i comunisti e i cattolici (tra cui lo stesso Romano Prodi) fanno più che altro da prestanome (come gli «utili idioti» d'un tempo, che potevano essere sfrattati senza preavviso da ogni incarico). Poi Matteo Renzi chiede banco, come a baccarat. Sono i cattolici, non appena il suo astro comincia a salire, a distribuire le carte: la sinistra mesozoica e stalinista, nata con Togliatti nel 1944, viene rottamata di prepotenza. Finiscono tra i rottami anche i cattolici di sinistra troppo compromessi con la Ditta post comunista. Che la storia dei cattocomunisti prosegua oltre, è naturalmente possibile, specie in un paese sventurato come il nostro, che per i mostri della ragion politica ha sempre avuto un debole. Ma il partito renziano, dopo tanti esperimenti falliti, sembra un esperimento finalmente riuscito, diversamente dall'alleanza più o meno organica «tra forze popolari e cattoliche» vagheggiata da Palmiro Togliatti nei primi giorni della repubblica, o dal «compromesso storico» berlingueriano, dalla «solidarietà nazionale» e dall'Ulivo prodiano. Duri tanto o poco, sempre più «catto» e sempre meno «comunista», il partito democratico a guida renziana ha messo definitivamente in crisi la ragion sociale del cattocomunismo. È probabile che già al prossimo passaggio elettorale resti soltanto l'ala cattolica e che i comunisti lascino la scena una volta per tutte. Può darsi, come si diceva, che la storia finisca qui, col trionfo dei cattolici dossettiani d'antan, non si sa se più populisti o più clericali, di cui Renzi è insieme l'erede e la caricatura. E già questo sarebbe un pessimo finale di partita. Ma c'è il rischio che, finita questa storia, ne cominci un'altra, più minacciosa ancora. Se ne intravedono i primi segni nel gesto da Papa Re col quale Francesco I prima ha congedato il sindaco Marino dal Campidoglio e poi ha chiesto scusa ai romani per la sua sindacatura. Stanno tornando i clericali, e i loro «utili idioti» sono i talk show sempre più devoti e i comici televisivi che abbracciano la teologia della liberazione.

Il libro di Massimo Teodori: "Il vizietto cattocomunista. La vera anomalia italiana". Si svelano qui le ambiguità di settant’anni di egemonie cattoliche e comuniste che - combinate nel «vizietto cattocomunista» - hanno reso l’Italia una democrazia anomala. Nei grandi Paesi europei l’alternarsi al potere di conservatori e riformatori ha prodotto l’espansione del benessere e delle libertà. In Italia, invece, la sinistra comunista e postcomunista, confluita con i democristiani nel Partito democratico, è rimasta estranea al riformismo socialista di stampo europeo e ha guardato con ostilità alla laicità dello Stato, con effetti negativi sui diritti civili e la giustizia sociale. L’anomalia cattocomunista italiana è destinata a continuare all’infinito? Con il rigore dello storico e lo spirito critico del laico, Massimo Teodori mette in luce l’intreccio perverso tra il conservatorismo burocratico comunista e il rapace «attaccamento alla roba» dei clericali: dalla versione di Palmiro Togliatti, che votando il Concordato pensava di giocare il Vaticano e ne fu giocato, al fatale moralismo di Enrico Berlinguer, attratto dal mondo cattolico, fi no ai postdemocristiani d’oggi, Matteo Renzi e Sergio Mattarella, assurti al massimo potere con il benestare dei postcomunisti. «Se è vero che Renzi ha rimosso le scorie veterocomuniste - scrive Teodori - è altrettanto incontestabile che non ha tagliato i ponti con il cattocomunismo, la vera palla al piede del riformismo italiano insediato al centro del Partito democratico».

Ora ci impongono lo Stato (diet)etico. "Repubblica" rilancia l'appello "liberal" a mangiare vegano, per essere coerenti coi principi di giustizia anche verso gli animali. Un animalismo caricaturale che cela un'ideologia anti-umanista e totalitaria. Il prossimo passo sarà la dieta di Stato? Scrive Corrado Ocone su “L’Intraprendente" del 27 gennaio 2016. Un virus si aggira per il mondo culturale americano. È contagioso e pericoloso perché causa seri danni all’organismo vitale. Dai sintomi che lo accompagnano potremmo definirlo come la “chiusura della mente occidentale”. Ed è pericoloso perché si annida nel settore dominante delle accademie, del giornalismo, dell’editoria e di certo mondo giornalistico: il pensiero liberal. L’ultima manifestazione è davvero stupefacente: ce ne ha dato notizia, con un certo compiacimento, l’antropologo Marino Niola sulle pagine di Repubblica. Essa si è appalesata sulla rivista onlinecultural-chic “Salon” sotto forma di un appello lanciato agli intellettuali dal medico e psichiatria Steve Stankevicius. In esso, gli sciagurati, che sicuramente come la monaca di Monza risponderanno, sono chiamati a dare finalmente coerenza al loro pensiero a farsi tutti vegani in nome dei “diritti degli animali”. Siete per i diritti di tutti, indifferentemente e a prescindere da quello che essi sono e fanno, fossero pure dei delinquenti? Volete eliminare la sofferenza dal mondo e farci vivere in un eden ovattato di sicura e rassicurante felicità, casomai sotto il manto protettivo di uno Stato e di un welfare che ci accompagni “dalla culla alla bara” in nome di astratti “principi di giustizia”? Bene, dice Stankevicius, non potete non estendere anche agli animali questa etica utilitaristica e, in quanto tale, direi, profondamente immorale. In questo modo di ragionare, che aveva avuto come capostipite qualche decennio fa un sopravvalutato filosofo di Princeton, Peter Singer, vediamo all’opera, quasi in modo paradigmatico, tutte le contraddizioni e tutti i vizi del pensiero liberal. Le contraddizioni, sol che si pensi che quasi sempre coloro che vorrebbero equiparare le bestie agli uomini, in nome dell’astrattissimo concetto di “vita organica” o “sensibile”, sono gli stessi che negano all’embrionela vita in nome del diritto della donna ad abortire (e poi perché fermarsi al mondo vegetale: non sono anche le verdure, seppur a uno stadio minimo, forme di vita?). Ma anche i vizi del pensiero liberal, sia teorici che pratici. I primi sono riconducibili a quello che già Hegel chiamava “intelletto astratto”, incapace di vedere il senso ultimo delle cose del mondo, che è storico e umano. I secondi riconducibili invece all’intolleranza di chi non si limita a fare una personale e legittima scelta dietetica ma, ammantandola di valori etici, vuole imporla agli altri apostrofando come immorale qualsiasi altro regime alimentare. Statene certi: il passo successivo sarà l’imposizione per legge della “dieta giusta”, la “dieta di Stato” (secondo i dettami socialisti dello Stato etico rimodellato come Stato dietetico). Ancora più preoccupante è poi il fatto che al fondo di questo acritico animalismo ci sia un’ideologia ecologista e quindi antiumanista che, sconfessando il valore ultimo della nostra civiltà cristiano-liberale, cioè appunto l’uomo nella sua singolarità e libertà, vuole mettere in discussione lo stesso sistema di sviluppo e civiltà che chiamiamo Occidente. Una civiltà, quella occidentale, che è umanistica perché profondamente cristiana, checché ne possa dire un Papa tendenzialmente succube dei tempicome il Francesco che, ad esempio, fa proiettare bestie di ogni tipo sul cupolone. E che è altresì umanistica perché profondamente liberale, cioè ponente l’individuo al centro di ogni etica e ontologia. Il buon Niola, cercando un supporto alla tesi animalistica, non si accorge di citare per lo più eresie cristiane fondate sul pericoloso concetto di “purificazione” (in uno spettro che va dalla gnosi ai catari) o pensatori profondamente illiberali come Rousseau. D’altronde, e non sembri una esagerazione dirlo qui perché ha una sua logica e coerenza, sembra che anche Hitler amasse gli animali e fosse rigorosamente vegetariano. Tutto si tiene e tutto coopera affinché noi si gridi forte, prima di tutto ai cosiddetti “intellettuali”, di lasciarci vivere e mangiare come meglio ci aggrada. La scelta vegana? No, grazie.

Perseguitato fino alla morte per la lapide "repubblichina". Un monumento in ricordo dell'eccidio di Saccol sul terreno di un ottantenne scatena i partigiani e la sinistra. L'anziano preso di mira ha avuto un infarto, scrive Fausto Biloslavo, Venerdì 05/02/2016, su "Il Giornale". I morti degli sconfitti, quelli di serie B, non hanno mai pace. Soprattutto se credevano nella Repubblica sociale italiana, comprese donne e civili, trucidati senza processo dai partigiani. Prima si scatena la levata di scudi ideologica. Se non basta entrano in gioco burocratiche norme anti abusivismo, applicate da un vigile troppo zelante, che in questo caso coincidono, stranamente, con il politicamente corretto. Alla fine la lapide che ricordava 23 civili e militari della Rsi ammazzati dai partigiani viene tolta. E di mezzo va a finire anche l'ultra ottantenne, testimone della strage e proprietario del terreno dove era stata posta la lapide. Antonio Zanetton è morto in ospedale lo scorso mercoledì. Negli ultimi mesi si sentiva ossessionato dalle intimazioni dei vigili di rimuovere la lapide per gli sconfitti considerata abuso edilizio. «Un volgare pretesto. Prima ci hanno provato con la campagna denigratoria sui media. Poi è arrivata l'azione intimidatoria dei vigili, ma noi quella lapide la rimetteremo al suo posto» spiega a il Giornale, Elena Donazzan, assessore regionale in Veneto, presente all'inaugurazione lo scorso settembre. E aggiunge: «La burocrazia è stata usata come un'arma. Non sapevo che il proprietario del terreno fosse morto, ma per una persona anziana subire denunce e pressioni dei vigili può aver peggiorato le condizioni di salute». La storia ha inizio a Valdobbiadene (nel Trevigiano), a guerra finita, nella notte fra il 4 e 5 maggio del 1945, quando una cinquantina di prigionieri, in gran parte della X Mas, che si erano arresi, vengono passati brutalmente per le armi dai partigiani «rossi». Lo scorso settembre la sezione Piave dei paracadutisti d'Italia inaugura una lapide a Saccol grazie all'interessamento dell'ex senatore di An, Antonio Serena, e di Luciano Sonego nel mirino della sinistra, che li bolla come «pseudo storici» nostalgici. «A 100 metri da qui il 5 maggio 1945 partigiani della Mazzini rinchiusero in una galleria fatta poi esplodere 23 civili e militari R.S.I. - In loro memoria i familiari posero - 2015» era inciso sul marmo. Prima della cerimonia si alzano gli scudi antifascisti dei partigiani dell'Anpi e della Cgil di Treviso. La senatrice Pd, Laura Puppato, emette un comunicato-sentenza: «No a raduni fascisti! (...) è un pretesto per rivisitare la storia». All'inaugurazione è presente Donazzan e pure l'assessore di Valdobbiadene, Tommaso Razzolini, anche se il Comune non concede il patrocinio. Antonio Zanetton, classe 1930, che ospita sul suo terreno la lapide, è un testimone della strage. La storia sembra essere finita, ma in ottobre un vigile troppo zelante del Comune bussa alla porta di Zanetton con un verbale di abuso edilizio. La colpa è l'«installazione di una lapide in pietra (...) in zona sottoposta a vincolo ambientale e paesaggistico». Il sindaco, Luciano Fragonese, scende in campo e ribadisce: «Non strumentalizzate la vicenda. Davanti ad un abuso i vigili non possono far finta di non vedere». L'assessore regionale Donazzan tuona con il Giornale: «Il presunto abuso è un grimaldello burocratico che nasconde una stortura ideologica». L'ex senatore Serena sostiene che «sono state messe delle lapidi dei partigiani senza permessi particolari. Il Comune con la presenza dava il via libera e all'inaugurazione di Soccol c'era un assessore. Poi si è messo di mezzo il vigile troppo zelante». Personaggio che ne ha già combinate parecchie per motivi non ideologici e alla fine è stato rimosso. «Prima però l'anziano proprietario ha subito un vero e proprio stalking. Era ossessionato da questa storia. Per questo faremo un esposto in procura» spiega Serena. Il Comune intima di pagare una sanzione di 2.000 euro per farla finita, ma gli organizzatori vogliono andare davanti ad un giudice. «Ogni volta che arrivavano i vigili Zanetton mi chiamava palesando il suo disagio. Preoccupazione continua, il riposo notturno oramai un dormiveglia e la sua famiglia accusava il colpo di queste denunce dal sapore intimidatorio» racconta Sonego, uno degli organizzatori del ricordo. Zanetton, impaurito e cardiopatico, vuole disfarsi della grana, ma in gennaio finisce in ospedale. Il poveretto muore mercoledì scorso, il giorno dell'ultimatum del Comune, che ha portato alla rimozione della lapide «abusiva». In una maniera o nell'altra missione compiuta: Nessun ricordo per i morti degli sconfitti.

Servello, il Famedio e l'odio che non passa. L'Associazione partigiani contesta la decisione del Comune di ricordarlo tra i milanesi illustri, scrive Giannino della Frattina, Sabato 17/10/2015, su "Il Giornale". Si leggeva ieri su Repubblica un ampio resoconto dell'ennesima fatwa dell'Anpi. L'Associazione nazionale partigiani che ancora una volta si scaglia indignata contro l'ennesimo attentato all'Italia democratica e repubblicana. E soprattutto alla Milano medaglia d'oro allea Resistenza. «È un errore onorare Servello al Famedio» recitava il titolo grande, citando le parole del presidente Roberto Cenati dopo la decisone del Comune di ricordare il politico missino al Cimitero Monumentale. «Sarebbe il primo uomo di destra a cui viene riservato questo onore», sottolinea il vice presidente del consiglio comunale Riccardo De Corato, la cui proposta è stata accettata dalla commissione formata dall'ufficio di presidenza e dagli assessori Franco D'Alfonso e Filippo Del Corno. Un sì unanime e bipartisan. «Forse - aggiunge De Corato - a infastidire è che a deciderlo sia stata proprio un'amministrazione di sinistra». Proprio così. Perché per l'Anpi il reato di leso antifascismo è ancora una volta il desiderio di ricordare un defunto. Il sangue di un vinto arrivato per sua fortuna (e benedizione del destino) a trovare una morte serena nel suo letto, alla veneranda età di 93 anni. Mica da pericoloso eversivo. Appassionato di calcio e grande interista, fu nel consiglio di amministrazione dell'Inter di Helenio Herrera e Angelo Moratti. Dal 1958 in parlamento per il Msi, dal 1996 senatore e capogruppo di Alleanza nazionale alla Bicamerale, traghettò la destra nell'universo berlusconiano. Il 28 febbraio 2006 la comunicazione che non si sarebbe ricandidato. Gianfranco Fini lo ringraziò e il giorno della morte, il ferragosto del 2014, lo ricorderà come «uomo generoso e leale, ci mancherà la sua coerenza e la sua onestà». Ma non solo. Perché nel 2006 il Comune gli assegnò l'Ambrogino d'oro, la massima onorificenza della città. E lo stesso anno Servello fu nominato Grand'ufficiale della Repubblica. Eppure, secondo l'Associazione partigiani, il suo nome non deve essere scolpito nel marmo del Famedio, lì dove viene onorato il ricordo dei milanesi illustri. «Non rinnegò mai il Fascismo», la sentenza inappellabile dei partigiani che gli imputano anche l'organizzazione della manifestazione del 12 aprile 1973, finita negli scontri nei quali venne ucciso l'agente Antonio Marino. Peccato che da quei fatti i vertici milanesi del Msi furono assolti da una sentenza del tribunale. Il resto è vecchio armamentario di una sinistra che vive solo di logoro antifascismo. Un furore ideologico che impedisce di concedere quell'onore delle armi che già la storia ha concesso a chi a Fascismo ormai già morto e sepolto ha dedicato la vita a un impegno fedele all'interno delle istituzioni repubblicane. In un partito, per giunta, rimasto in piedi di fronte alle spranghe dei compagni sotto cui cadde col cranio sfondato il diciottenne del Fronte della gioventù Sergio Ramelli o alle pallottole che uccisero l'avvocato e consigliere provinciale del Msi Enrico Pedenovi. Ma anche agli assalti altrettanto temibili dei tribunali che portarono in carcere tanti giovani innocenti. «Senza di lui - ricordò un commosso Ignazio La Russa il giorno della morte - non avremmo resistito a Milano agli anni della ingiusta criminalizzazione e alla violenza rossa». Pagine della storia d'Italia che l'Anpi vorrebbe stracciare. L'Anpi, un'associazione nella quale ormai se non altro per ragioni anagrafiche, i veri partigiani sono oggi rimasti ben pochi. E che si guarda bene dal ricordare l'adesione al comunismo di Giorgio Napolitano a cui è stato riservato addirittura l'onore di diventare presidente della Repubblica. E, dunque, di tutti gli italiani. Avesse vinto la sua parte (e quella dei partigiani rossi dell'Anpi), a Roma sarebbero arrivati i carri armati russi. E difficilmente avremmo avuto una Repubblica.

La giornalista de L'Espresso: "I fascisti vanno solo menati". Beatrice Dondi, vicecaposervizio all'Espresso online e blogger dell'Huffington Post scrive un tweet al vetriolo durante le manifestazioni pro famiglia gay: "Nessuna tolleranza coi fascisti: vanno menati", scrive Giuseppe De Lorenzo, Martedì 26/01/2016. La democrazia a modo mio. A modo de L'Espresso e famiglia: o la pensi come loro, oppure meriti solo di essere menato. Il 23 gennaio scorso, mentre le (piccole) piazze italiane erano "invase" dai manifestanti favorevoli al ddl Cirinnà e alla famiglia omosessuale, Beatrice Dondi, giornalista dell'Espresso e blogger dell'Huffington Post, con un passato a Repubblica, ha lanciato in rete un tweet di profondo spirito democratico (si fa per dire). "A me i miei genitori tradizionali hanno insegnato il rispetto e la tolleranza. Tranne che con fascisti. Che vanno menati. #svegliatitalia". "Svegliati Italia" era ed è il motto dei favorevoli alle unioni omo. "Svegliati Italia", tira fuori il manganello e vai a menare i fascisti. Il tweet della Dondi è l'esempio lampante del concetto di tolleranza tramandato in generazioni di famiglie dalla sinistra radical chic. Rimane ancora da capire è a chi si riferisse la bionda giornalista. Se ad inesistenti balilla da "libro e moschetto, fascista perfetto", oppure a tutti coloro i quali credono che il ddl Cirinnà sia un obbrobrio legislativo e un errore politico. A chi crede nel diritto dei bambini ad avere un padre ed una madre, a non essere comprato attraverso la pratica dell'utero in affitto. A chi rivendica il diritto di manifestare al circo Massimo senza essere etichettati come omofobi e fascisti. I lettori mi scusino per l'eccessiva ripetizione del termine "diritto". Solo che, come dice Beatrice Dondi, la libertà a sinistra non è un principio universale. È solo radical chic. Se la pensi come loro sei democratico, altrimenti prima ti etichettano come fascista e poi ti menano. Sperando anche in una medaglia al valore. Perché in fondo il principio valido è sempre (ancora) quello: uccidere un fascista non è reato. E il bello è che la definizione di fascista la danno loro. Così possono decidere a chi affibbiare la "patente democratica" e chi lasciare senza. A me i miei genitori tradizionali hanno insegnato il rispetto e la tolleranza. Tranne che con fascisti. Che vanno menati.  

Testo La Democrazia (prosa) di Giorgio Gaber.

"Dopo anni di riflessione sulle molteplici possibilità che ha uno Stato di organizzarsi, sono arrivato alla conclusione che la democrazia è il sistema, più democratico che ci sia. Dunque c'è, la democrazia, la dittatura, e basta. Solo due. Credevo di più. La dittatura in Italia c’è stata, e chi l'ha vista sa cos'è, gli altri si devono accontentare di aver visto solo la democrazia. Io da quando mi ricordo, sono sempre stato democratico, non per scelta, per nascita. Come uno che appena nasce è cattolico apostolico romano. Cattolico pazienza, apostolico non so cosa vuol dire, ma anche romano... Comunque diciamo, come si fa oggi, a non essere democratici?  Sul vocabolario c'è scritto che democrazia, è parola che deriva dal greco, e significa “potere al popolo”. L'espressione è poetica e suggestiva. Ma in che senso potere al popolo? Come si fa? Questo sul vocabolario non c'è scritto. Però si sa che dal 1945, dopo il famoso ventennio, il popolo italiano ha acquistato finalmente il diritto al voto. E' nata così la famosa democrazia rappresentativa, che dopo alcune geniali modifiche, fa sì che tu deleghi un partito, che sceglie una coalizione, che sceglie un candidato, che tu non sai chi è, e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni. E che se lo incontri, ti dice giustamente: "Lei non sa chi sono io". Questo è il potere del popolo. Ma non è solo questo. Ci sono delle forme ancora più partecipative. Il referendum per esempio, è una pratica di democrazia diretta, non tanto pratica, attraverso la quale tutti possono esprimere il loro parere su tutto. Solo che se mia nonna deve decidere sulla “variante di valico Barberino Roncobilaccio”, ha effettivamente qualche difficoltà. Anche perché è di Venezia. Per fortuna deve dire solo sì se vuol dire no, e no se vuol dire sì. In ogni caso ha il 50% di probabilità di azzeccarla. Ma il referendum ha più che altro un valore folcloristico simbolico. Perché dopo avere discusso a lungo sul significato politico dei risultati, tutto resta come prima, e chi se ne frega. Un altro vantaggio che la democrazia offre a mia nonna, cioè al popolo, è la libertà di stampa. Nei regimi totalitari si chiama propaganda, e tu non puoi mai sapere la verità; in democrazia si chiama informazione, che per maggiore chiarezza ha il pregio di essere pluralista. Sappiamo tutto… sappiamo tutto ma anche il contrario di tutto, pensa che bello! Sappiamo che l’Italia va benissimo, ma che va anche malissimo. Sappiamo che l’inflazione è al tre, al quattro, al sei ma anche al dieci percento, pensa che abbondanza! Sappiamo che i disoccupati sono il 12%, non si sa bene di cosa, e che possono aumentare o diminuire a piacere, a seconda di chi lo dice. Sappiamo dati, numeri, statistiche. Alla fine se io voglio sapere quanti abitanti ci sono in Italia, vado sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio e li conto: chi va al sud, chi va al nord. Altro che ISTAT! Un’altra caratteristica della democrazia è che si basa esclusivamente sui numeri, come il gioco del Lotto, anche se meno casuale, ma più redditizio. Più è largo il consenso del popolo, più la democrazia, o chi per lei, ci guadagna. Quello del popolo è sempre stato un grosso problema per chi governa: se ti dà il suo consenso, vuol dire che ha capito, che è consapevole e anche intelligente; se no è scemo. Comunque l’importante è coinvolgere più gente possibile. Intendiamoci: la democrazia non è nemica della qualità, è la qualità che è nemica della democrazia. Mettiamo come paradosso che un politico sia un uomo di qualità. Mettiamo anche che si voglia mantenere a livelli alti. Quanti lo potranno seguire? Pochi. Pochi, ma buoni. Eeh no, in democrazia ci vogliono i numeri, e che numeri! Bisogna allargare il consenso, bisogna scendere alla portata di tutti, bisogna adeguarsi! E un’adeguatina oggi e un’adeguatina domani, e l’uomo di qualità ci prende gusto e… tac! Un’abbassatina. Poi c’è un altro che si abbassa più di lui e… tac tac! Un’altra abbassatina. Ogni giorno si abbassa di cinque centimetri. E così, quando saremo tutti scemi allo stesso modo, la democrazia sarà perfetta! Un’altra caratteristica fondamentale della democrazia, è che si basa sul gioco delle maggioranze e delle minoranze. Se dalle urne viene fuori il 51 vinci, se viene fuori il 49 perdi. Ecco, dipende tutto dai numeri. Come al gioco del lotto, con la differenza che al gioco del lotto il popolo qualche volta vince, in democrazia mai. E se viene fuori il 50 e il 50? Ecco, questa è una caratteristica della nostra democrazia. È cominciato tutto nel 1948, se si fanno bene i conti, tra la destra, DC liberali monarchici missini eccetera eccetera, e la sinistra, comunisti socialisti socialdemocratici eccetera eccetera, viene fuori un bel pareggio. Poi da allora è sempre stato così, per anni. No adesso che c’entra, adesso è tutto diverso, eh è chiaro, è successo un mezzo terremoto, le formazioni politiche hanno nomi e leader diversi. Bè adesso non c’è più il 50% a destra e il 50% a sinistra. C’è il 50% al centrodestra e il 50% al centrosinistra. Oppure, il 50 virgola talmente poco, che basta che a uno gli venga la diarrea che cade il governo. Non c’è niente da fare, sembra proprio che gli italiani non vogliano essere governati, non si fidano. Hanno paura che se vincono troppo quelli di là, viene fuori una dittatura di sinistra. Se vincono troppo quegli altri, viene fuori una dittatura di destra. La dittatura di centro invece? Quella gli va bene. Auguri auguri auguri.

Gaber e la democrazia, scrive Fabio Balocco il 20 marzo 2012 su "Il Fatto Quotidiano". Non mi piace l’Italia di oggi, credo lo si sia capito ampiamente. Non mi piace questo sistema elettorale, ma soprattutto non mi piacciono questi partiti. Non mi piacciono le lobbies a cui i partiti rispondono. Che poi sono sempre le stesse e mi hanno davvero stufato. Che palle! Mi piacciono invece le minoranze, mi piace la democrazia diretta, ma soprattutto mi piace che ci si esponga in prima persona, che la democrazia la facciamo tu, io, voi, noi, che venga su dal basso e non calata dall’alto. Mi piacciono gli ideali, gli impegni, mi piace che il cambiamento cominci dai cittadini. C’era un cantante, sì, proprio un cantante che queste cose le cantava chiare. Un cantante scomodo, a cui oggi non dedicano le vie o le piazze, che non è stato santificato dopo morto. Questo cantante era Giorgio Gaber. Per la carità, mi piaceva De André, lo adoravo, ma lui cantava altre cose. Gaber mi infondeva di più l’urgenza di incazzarmi, e la voglia di scendere in strada e possibilmente condividere con gli altri le stesse idee. Ecco, a Gaber volevo dedicare questo post e volevo ringraziarlo per quello che cantò.

La donna e l’intolleranza: della cultura di sinistra, scrive Remo Bassini l'8 marzo 2012 su "Il Fatto Quotidiano". La donna, da onorare e rispettare, si sa, è una barzelletta. Giorni fa parlavo con una mia amica psicologa dei danni che la televisione fa, mostrando strafiche al popolo di sesso maschile che guarda il piccolo schermo con la moglie accanto che strafica, ogni giorno che passa, lo è sempre meno. La psicologa mi fa: E non sai i danni che fa la televisione alle donne che sono state operate al seno e che magari sono gonfie… Una mi ha detto: Mi sento spazzatura. La tv spazzatura fa sentire spazzatura chi non dovrebbe, bene. Ma c’è un altro male per alcune donne: l’intolleranza. Della stessa sinistra bacchettona, a volte delle femministe. Una vita fa. Lavoro in fabbrica, io. Dopo il diploma così ho voluto. E sono iscritto al sindacato. Alla Cisl di Carniti. E faccio il sindacalista metalmeccanico in quelle che allora si chiamavano Commissioni interne. Un giorno c’è un’assemblea. Parla un sindacalista a tempo pieno. Forse è meglio non fare uno sciopero con un picchetto davanti alla fabbrica, dice. Poi spiega: I rapporti di forza sono cambiati, non sono più a nostro favore. La donna che mi sta accanto mi sussurra all’orecchio: Cosa vuol dire rapporti di forza? Giorni dopo sollevo la questione al sindacato. Dico che, almeno con gli operai e con le operaie, bisogna usare un linguaggio semplice. Mi risposero in malo modo. Chi non vuole essere tagliato dal mondo, chi non vuole essere sopraffatto deve attrezzarsi a capire. Ricordo perfettamente: era mattino. Sarei andato a lavorare il pomeriggio, turno dalle 14 alle 22. Lavoro, più viaggio, più darsi una ripulita – perché il grasso della fabbrica ti entra dentro la pelle e devi sfregare, sfregare – fa in tutto nove ore. Anche più. Io sono fortunato, perché per esempio non prendo l’autobus, che ci mette una vita. Ho tempo, io, per leggere il giornale al mattino, guardare un film, poi, quando torno a casa. La signora che mi stava accanto no. Al mattino doveva badare al figlio più piccolo, fare la spesa, tenere pulita la casa. Poi andare a prendere a scuola il figlio che frequentava le elementari. Poi preparare da mangiare per tutta la famiglia. Poi, correre in fabbrica. Poi tornare, mettere a letto i figli, azionare la lavatrice perché i bimbi si sporcano, tanto, e il marito pure: lavora in fabbrica pure lui. Verso le undici di sera, facciamo undici e mezzo la signora, stando alla burocrazia sindacale, avrebbe dovuto accendere l’abat jour e mettersi a leggere, preferibilmente l’Unità, e spegnere tutto il resto: la televisione ed eventuali bollenti spiriti del consorte. Altrimenti non si cresce, non si cresce. La sinistra non ammette l’ignoranza. Ma le mondine del vercellese che, nel 1906, presero botte dai carabinieri a cavallo quando si coricavano sui binari per impedire che arrivassero i treni con le crumire cosa leggevano? E i socialisti che le guidavano come parlavano? A proposito di cultura e politica.

La polizia: Casa Pound «tutela i deboli». Giustizia. Violenti solo se provocati dalla «sinistra radicale», secondo l’informativa del Ministero dell’Interno al Tribunale civile di Roma. «Organizza manifestazioni nel rispetto delle leggi e senza turbative dell’ordine pubblico», scrive Eleonora Martini il 2 febbraio 2016 su “Il Manifesto”. Leggere un rapporto della Polizia di Stato sull’organizzazione di estrema destra Casa Pound Italia, è davvero istruttivo. Anche se, comprensibilmente, ha destato molte reazioni di sconcerto l’informativa con la quale la Direzione centrale della Polizia di prevenzione (ex Ucigos) descrive vita e attività dell’organizzazione, capeggiata da Gianluca Iannone, ai magistrati del tribunale civile di Roma che ne hanno fatto richiesta per dirimere una causa intentata dalla figlia di Ezra Pound sull’uso del nome del padre. Secondo il documento trasmesso l’11 aprile 2015 dal ministero dell’Interno, che porta in calce la firma del direttore centrale dell’ufficio, il prefetto Mario Papa, il «sodalizio» che dichiaratamente sostiene «una rivalutazione degli aspetti innovativi e di promozione sociale del ventennio» «organizza con regolarità, sull’intero territorio nazionale, iniziative propagandistiche e manifestazioni nel rispetto della normativa vigente e senza dar luogo a illegalità e turbative dell’ordine pubblico». La Polizia non nega l’uso («spesso») della violenza da parte di alcuni militanti dell’associazione, soprattutto quando infiltrati «nel mondo delle tifoserie ultras calcistiche», ma solo «nei confronti di esponenti di opposta ideologia, anche fuori degli stadi». D’altronde vengono provocati, sembra affermare il report quando spiega in ultima analisi che «la sinistra radicale, in special modo gli ambienti autonomi e quelli anarco-insurrezionalisti, sotto la spinta del cosiddetto “antifascismo militante”, non riconoscono a Casa Pound e alle altre organizzazioni politiche di estrema destra il diritto “all’agibilità politica” sull’assunto che debba impedirsi ai “fascisti” la fruibilità di ogni spazio cittadino, con il conseguente frequente ripetersi di episodi di contrapposizione caratterizzati da contenuti di violenza». Dimentica però, la Polizia di Stato, che nel 2013 anche l’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano, commentando l’inchiesta «lame» della procura di Napoli aperta dopo diverse aggressioni, che coinvolse alcuni esponenti di Casa Pound, si interrogava «con sgomento sia sul circolare, tra giovani e giovanissimi, di una miserabile paccottiglia ideologica apertamente neonazista, sia sul fondersi di violenze di diversa matrice, da quella del fanatismo calcistico a quella del razzismo ancora una volta innanzitutto antiebraico». Se lo ricorda invece Fabio Lavagno, deputato del Partito democratico, che ha depositato ieri un’interrogazione al governo e sta «raccogliendo le firme necessarie per un’interpellanza parlamentare in modo che il ministro dell’Interno possa riferire in aula a Montecitorio su questa inquietante vicenda». «Va bene che il movimento di estrema destra cerchi forme di legittimazione e visibilità continuamente, non da ultime l’adesione al Family day e le manifestazioni comuni con la Lega di Salvini — scrive il deputato in una nota — vedere però che questa descrizione stia nero su bianco in una nota della Polizia al ministero dell’Interno risulta piuttosto inquietante». Soprattutto quando, aggiunge Lavagno, «si descrive CasaPound come un’organizzazione di bravi ragazzi molto disciplinati, con un’abile strategia linguistica che tende ad eufemizzare i passaggi più scomodi e la natura violenta di cui, come si è visto, è costellata la storia di CasaPound, quasi esclusivamente all’ambito sportivo, luogo tra gli altri di proselitismo all’interno delle tifoserie ultras». Per la Polizia di Stato, infatti, Casa Pound ha come «impegno primario» la «tutela delle fasce deboli» ma rivolge la propria attenzione anche «alla lotta del precariato ed alla difesa dell’occupazione attraverso l’appoggio ai lavoratori impegnati in vertenze occupazionali e le proteste contro la privatizzazione delle aziende pubbliche». E oltre alle «numerose iniziative» intraprese «sotto l’aspetto meramente aggregativo e ludico», CasaPound ha trovato anche il modo di dedicarsi a «tematiche in passato predominio esclusivo della contrapposta area politica» come «il «sovraffollamento delle carceri o la promozione di campagne animaliste». Ecco, il tribunale di Roma ora potrà serenamente giudicare se l’immagine e il nome di Ezra Pound siano stati lesi dall’uso che ne ha fatto l’organizzazione, come sostiene la figlia del poeta.

La polizia promuove CasaPound: "Violenti per colpa della sinistra". Una nota del Viminale fa chiarezza sul movimento di estrema destra: "Manifestazioni sempre nella legalità. Se sono violenti è colpa della sinistra", scrive Claudio Cartaldo, Martedì 02/02/2016, su "Il Giornale". L'informativa del ministero dell'Interno parla chiaro: tra i movimenti di estrema destra e quelli di estrema sinistra non c'è storia. La nota in cui è contenuta la "bastonata" ad antagonisti e centri sociali in favore di CasaPound è contenuta in una informativa inviata dal Viminale al tribunale di Roma, dove è in corso una causa tra la figlia del poeta Ezra Pound e im movimento politico. La famiglia del poeta aveva chiesto di realizzare un documento per descrivere la natura di CasaPound. Relazione inviata l'11 aprile 2015 e firmata dal prefetto Mario Papa. La descrizione che fa la polizia parla di uno "stile di militanza fattivo e dinamico ma rigoroso nelle rispetto delle gerarchie interne" con l’obiettivo "di sostenere una rivalutazione degli aspetti innovativi e di promozione sociale del ventennio". I principi che lo guidano, si legge, sono "la tutela delle fasce deboli attraverso la richiesta alle amministrazioni locali di assegnazione di immobili alle famiglie indigenti, l’occupazione di immobili in disuso, la segnalazione dello stato di degrado di strutture pubbliche per sollecitare la riqualificazione e la promozione del progetto 'Mutuo Sociale'". E ancora "l'attenzione del sodalizio è stata rivolta anche alla lotta al precariato ed alla difesa dell'occupazione attraverso l'appoggio ai lavoratori impegnati in vertenze occupazionali e le proteste contro le privatizzazioni delle aziende pubbliche". Non mancano tematiche una volta di sinistra, come "il sovraffollamento delle carceri, o la promozione di campagne animaliste contro la vivisezione e l’utilizzo di animali in spettacoli circensi". Degno di nota anche il collegamento con la Lega Nord di Matteo Salvini, "di cui si condividono le istanze di sicurezza e l’opposizione alle politiche immigratorie" - attraverso la creazione del cartello elettorale denominato "Sovranità"". Per quanto riguarda la violenza e le manifestazioni, il riconoscimento della polizia è chiaro. "Il sodalizio organizza con regolarità, sull’intero territorio nazionale, iniziative propagandistiche e manifestazioni nel rispetto della normativa vigente - scrive il Viminale - e senza dar luogo ad illegalità e turbative dell’ordine pubblico". "All’interno del movimento militano elementi inclini all’uso della violenza, intesa come strumento ordinario di confronto e di affermazione politica oltre che quale metodo per risolvere controversie di qualsiasi natura", ma sono reazioni provocate dalla sinistra radicale che "sotto la spinta del cosiddetto 'antifascismo militante' non riconosce il diritto alla agibilità politica". Meglio CasaPound, quindi, dei centri sociali e antagonismi vari. Che se non provocassero, permetterebbero ai movimenti di destra di manifestare nel rispetto delle regole. La relazione della polizia ha lasciato senza parole, ovviamente, parlamentari di Sel e del Pd. Il deputato pd Fabio Lavagno si è detto indignato: "Va bene che il movimento di estrema destra cerca forme di legittimazione e visibilità continuamente, non da ultime l’adesione al Family day e le manifestazioni comuni con la Lega di Salvini, vedere però che questa descrizione sta nero su bianco in una nota della polizia al Ministero dell’interno risulta piuttosto inquietante".

Il Viminale loda le battaglie di CasaPound. E la sinistra impazzisce. Il Viminale sbaglia ad assolvere CasaPound. Dovrebbe, piuttosto, sciogliere l’organizzazione «in applicazione delle leggi Scelba e Mancino». Parole e musica di Fabio Lavagno, deputato del Pd, e di...scrive il 2 febbraio 2016 “Il Tempo”. Il Viminale sbaglia ad assolvere CasaPound. Dovrebbe, piuttosto, sciogliere l’organizzazione «in applicazione delle leggi Scelba e Mancino». Parole e musica di Fabio Lavagno, deputato del Pd, e di Gianluca Peciola, esponente di Sel. Ma perché quest’improvviso rilancio di accuse da parte della sinistra nei confronti di Casapound? Tutto nasce un paio di giorni fa, quando il sito internet «Insorgenze.net» ha svelato l’esistenza di un’informativa del Viminale sull’attività dell’associazione guidata da Gianluca Iannone in cui, nei confronti di CasaPound, vengono utilizzati toni assolutori. L’informativa della Direzione centrale della Polizia di prevenzione, protocollata N.224/SIG. DIV 2/Sez.2/4333, è frutto di una richiesta della giudice Bianchini del tribunale di Roma. La Bianchini, dovendo esprimersi sulla causa intentata da Mary Pound, figlia di Ezra Pound, contro l’organizzazione che richiama il nome del padre, ha chiesto al ministero dell’Interno di acquisire informazioni sulla stessa organizzazione. Nell’informativa, datata 11 aprile 2015, si descrive un gruppo di associati con «uno stile di militanza fattivo e dinamico ma rigoroso nelle rispetto delle gerarchie interne» sospinti dal dichiarato obiettivo «di sostenere una rivalutazione degli aspetti innovativi e di promozione sociale del ventennio». «Il risultato - continua la nota - è stato conseguito anche attraverso l’organizzazione di convegni e dibattiti cui sono frequentemente intervenuti esponenti politici, della cultura e del giornalismo anche di diverso orientamento politico». «L’impegno primario» di CasaPound, secondo il Viminale, è volto alla «tutela delle fasce deboli attraverso la richiesta alle amministrazioni locali di assegnazione di immobili alle famiglie indigenti, l’occupazione di immobili in disuso, la segnalazione dello stato di degrado di strutture pubbliche per sollecitare la riqualificazione e la promozione del progetto "Mutuo Sociale"». Parole che proprio non sono andate giù agli esponenti di sinistra. «Ho depositato un’interrogazione al Governo e sto raccogliendo le firme necessarie per un’interpellanza parlamentare in modo che il Alfano possa riferire a Montecitorio su questa inquietante vicenda» ha annunciato Lavagno. Peciola, dal canto suo, ha ribadito che «le organizzazioni politiche che si richiamano al fascismo devono essere sciolte in applicazione delle Leggi Scelba e Mancino».

“CasaPound attiva nel sociale, centri sociali violenti”. La verità viene a galla, scrive l'1 febbraio 2016 Giuliano Lebelli su “Primato Nazionale”. L’acqua bagna, il fuoco brucia e l’antifascismo militante, avendo lo scopo dichiarato di conculcare violentemente i diritti politici altrui, genera reazioni anche muscolari da parte di chi non ci sta a subire i soprusi. Sono alcune delle verità elementari di fronte a cui è impossibile non convenire. Ma poiché viviamo in un eterno 1984, la verità più evidente sembra anche la più scandalosa. È il caso dell’informativa del ministero dell’Interno inviata al tribunale di Roma dopo richiesta del giudice incaricato della causa mossa dalla figlia di Ezra Pound a CasaPound, nella speranza di ridare il monopolio del nome del padre agli eredi politici di chi lo mise in una gabbia da zoo. Il magistrato, dovendo decidere se l’utilizzo di tale nome da parte del movimento oltraggiasse la memoria del poeta statunitense, ha chiesto al Viminale una nota su Cpi per vederci più chiaro. Nota che, tuttavia, non ha ricalcato le “inchieste” del gruppo L’Espresso su CasaPound, dato che in un aula di tribunale gli accostamenti suggestivi non valgono (non varrebbero neanche nel giornalismo, se è per questo), ma si è limitata a elencare i fatti. Apriti cielo. Il tam tam è nato sui siti dell’estremismo di sinistra per poi rimbalzare persino su Repubblica. Indegno, inaudito, inaccettabile: su Cpi esiste una sola verità ed è quella scritta su immortali tavole della legge da professionisti specchiati e noti pacifisti come Saverio Ferrari e luminari simili. Deragliare da quella versione non si può. Ma cosa dice il rapporto dello scandalo? Che CasaPound si è sempre contraddistinta per “lo stile di militanza fattivo e dinamico ma rigoroso nelle rispetto delle gerarchie interne” e che ha l’obiettivo “di sostenere una rivalutazione degli aspetti innovativi e di promozione sociale del ventennio”. E non è chiaro, fin qui, cosa ci sarebbe da contestare. Andiamo avanti: fra gli obbiettivi politici di Cpi, si scrive, c’è “la tutela delle fasce deboli attraverso la richiesta alle amministrazioni locali di assegnazione di immobili alle famiglie indigenti, l’occupazione di immobili in disuso, la segnalazione dello stato di degrado di strutture pubbliche per sollecitare la riqualificazione e la promozione del progetto ‘Mutuo Sociale'”. E poi, “l’attenzione del sodalizio è stata rivolta anche alla lotta al precariato ed alla difesa dell’occupazione attraverso l’appoggio ai lavoratori impegnati in vertenze occupazionali e le proteste contro le privatizzazioni delle aziende pubbliche”. Di nuovo, basta essere minimamente informati sulle attività del movimento per sapere che questa è una mera descrizione della realtà. E l’eterna accusa circa l’uso della violenza? Il Viminale scrive che “il sodalizio organizza con regolarità, sull’intero territorio nazionale, iniziative propagandistiche e manifestazioni nel rispetto della normativa vigente e senza dar luogo ad illegalità e turbative dell’ordine pubblico”. Per smentire questa frase basterebbe ricordare qualche manifestazione di Cpi terminata con vetrine sfasciate e macchine in fiamme, ma, sfortunatamente per Repubblica, non ce ne sono. Si sottolinea anche il ruolo provocatorio della sinistra estrema che, “sotto la spinta del cosiddetto ‘antifascismo militante’ non riconosce il diritto alla agibilità politica” a CasaPound. È forse questo che fa indignare? Ma la negazione dell’agibilità politica di Cpi è esattamente il tema identitario dichiarato che cementa le frange dell’estrema sinistra. L’unico modo per smentire il ministero potrebbe essere quello di dichiarare finalmente che Cpi ha diritto di fare politica. In caso contrario, e in presenza di comportamenti conseguenti, Cpi questo diritto è solita prenderselo da sé.

La sinistra intollerante, scrive Caino Mediatico il 31 marzo 2011 su “The Front Page”. Angela Azzaro è una giornalista di sinistra, abbastanza radicale. Scrive su Gli Altri, sta con la Fiom e non con Marchione per dirne una. Vorrebbe una sinistra di sinistra e non “sinistra” né sinistrata. Si è fatta le ossa con la Liberazione di Bertinotti e con Sansonetti. Ha creduto al post comunismo in senso libertario e liberal, alla non violenza, alla lotta di liberazione sessuale del femminismo. E’ quello che si capisce dai suoi articoli e dai suoi post su Facebook. Ma la rivista de sinistra alfabeta2 le censura un pezzo perché troppo filoberlusconiano. I suoi ex colleghi “fedeli alla linea” su Facebook la definiscono uno scarto. In un bel pezzo sul Foglio, Angela racconta di questa strana definizione e delle tante critiche che fioccano per le sue posizioni antimoraliste (sulla prostituzione) e garantiste, soprattutto per la carenza di antiberlusconismo DOCG. I giudici della “NormaSinistra”, come li definisce, sono anche enti certificatori dell’antiberlusconismo, che è la norma non transitoria n.1 della loro “costituzione materiale”; la inseguono magari nascosti dietro nickname, nelle presentazioni e ai party (rigorosamente casti) ove milita la sinistra capitolina. Dall’articolo del Foglio viene fuori un quadretto della sinistra per bene delizioso. L’antropologia del compagno nel giusto (un regista al buffet) che la deride o la insulta, ma alza la voce e si indigna se lei risponde per le rime. Ho idea che tra i danni (involontari?) del berlusconismo vero e presunto ci sia un peggioramento netto del Dna della sinistra mutante. Una vera e propria regressione antropologica. Come quelle famiglie sperdute nella campagna americana, che perso il lavoro, la speranza, cominciano a riprodursi tra loro e sfornano serial killer. Non aprite quella porta! I comunisti delle origini si occupavano sì di stigmatizzare l’incerto, il dubbioso, il dialogante. Che fosse socialdemocratico, estremista infantile o semplicemente riformista era relegato nella categoria del dissidente e doveva essere isolato, per emendarlo, criticarlo e rieducarlo. Tardivamente si accolse l’idea che potessero scontrarsi diverse idee, ma entro certi limiti, superati i quali c’era la scissione. Oppure la organizzazione in correnti dove presto tornava a prevalere, atomizzata, la lotta all’altro, ma per ragioni più pratiche. Anche se atrocemente divisi, paradossalmente il dissidente e il consenziente puntavano a convincere l’avversario, ad insinuare nel suo elettorato sottili e crescenti contraddizioni. Oggi no. La lotta al berlusconismo ha cancellato tutto ciò nel pragmatico Bersani e nel poetico Vendola, nel tattico D’Alema e nello pseudoecumenico Veltroni. Via Berlusconi senza se e senza ma, bando a ciò che gli somiglia: la tv commerciale, la gnocca, i consumi, Drive In. Chi si estranea dalla lotta è pagato, o è triste o è la vera ragione delle sconfitte della sinistra ieri, oggi e per omnia saecula saeculorum, amen. Per non dire dei newcomers, giudici in politica, questurini, giornalisti repubblichini, intellettuali imbolsiti vecchi e nuovi: quelli incitano al linciaggio. Tutti come Travaglio all’insegna del nemico interno che è peggio di quello esterno. Ogni dubbio puzza di intelligenza con il nemico. Taci il nemico ti ascolta. La compagna che sbaglia, la Azzaro non manca nelle sue esternazioni di auto-ironia e appare su Facebook con una parrucca viola. Loro invece hanno icone variegate e altisonanti: Garibaldi, Saviano, la Costituzione, Napolitano, a seconda delle convenienze. Non è che li disegniamo così: è che sono diventati più cattivi. Vogliono vincere non convincere, schizzano veleno nei post, indignazione contro gli adulteri e gli adulterati. Vedono la pagliuzza e non la trave. E vogliono disegnare il bersaglio sulla schiena di quelle/i che si definiscono compagni/e come Angela Azzaro o Piero Sansonetti perché ripescando libertà di pensiero e spirito contestario dal loro rimosso di ex rivoluzionari in pantofole rischiano di metterli in mutande. Persino nei cocktail delle terrazze parioline non tollerano alter ego dissidenti.

Con una sinistra così intollerante una cultura condivisa non è possibile, scrive Giuliano Cazzola l'11 Agosto 2009 su “L’Occidentale”. La società della comunicazione è una specie di animale feroce che divora le notizie. Sono sufficienti pochi giorni perché quanto appariva in prima pagina sui maggiori quotidiani finisca presto nel dimenticatoio. Nessuno parla più, infatti, dell’ultima in ordine di tempo aggressione ad un ministro della Repubblica, davanti alla stazione di Bologna, il 2 agosto scorso. Si vuole forse attendere un altro anno per ragionare non solo sul da farsi in questo caso, ma anche per riflettere sul clima d’intolleranza di cui è protagonista la sinistra? Quando una nazione è talmente divisa da non ritrovarsi insieme a festeggiare le ricorrenze della sua storia è bene prenderne atto e trarne le conseguenze. Le vittime della strage del 2 agosto 1980 non sono state colpite perché avevano in tasca delle tessere di partito. Peraltro i partiti di allora oggi non esistono più: o sono scomparsi o hanno cambiato tante volte identità che hanno fatto perdere le proprie tracce. Erano persone comuni che attendevano in una sala d’aspetto di seconda classe, alla Stazione Centrale di Bologna, i treni che li avrebbero portati a destinazione. Probabilmente – se il destino non li avesse fatti trovare in quel luogo alle 10,25 di quel giorno maledetto – oggi voterebbero più o meno come gli altri italiani. E tanti di loro, nel 2008, avrebbero contribuito alla vittoria del centro-destra. Ecco perché quei gruppi di attivisti di sinistra - che domenica in Piazza Medaglie d’Oro hanno contestato un ministro della compagine di Berlusconi (ovvero del Governo legittimo di questo Paese)  - non hanno alcun diritto di impadronirsi della memoria di quei poveri martiri e di decidere – loro – chi abbia o meno la possibilità di parlare, soprattutto quando il rappresentante del Governo era su quel palco, insieme alle altre Istituzioni, per rispondere ad un preciso invito dell’Associazione dei familiari delle vittime. Se nella cerimonia del 2 agosto la piazza concede il diritto di parola soltanto ad esponenti e ministri dei partiti di sinistra, mentre quelli di centro destra devono essere lì solo per sottoporsi alla gogna, qualunque sia la loro storia, qualunque cosa dicano o facciano; se i cittadini che partecipano ai riti di quel giorno hanno come principale obiettivo quello di contestare pesantemente e di offendere volgarmente una personalità che ha il solo torto di essere un avversario politico (in quanto tale meritevole non solo di critiche, ma di odio irriducibile, di disprezzo e beffa), non resta allora che prenderne dolorosamente atto soltanto in un modo: nel trentennale della strage, l’anno prossimo, vi lasceremo la piazza, la cerimonia, le bandiere e gli striscioni, i comizi, i fischi e le pernacchie. Quei caduti, quei nostri caduti, quei morti di noi tutti, il centro destra li commemorerà per conto suo. Con proprie iniziative, sicuri che nell’Aldilà nessuno protesterà. Perché – come afferma il grande Totò nella poesia A livella – i morti sono gente seria, le gazzarre polemiche le lasciano tutte a vivi.  E’ inaccettabile che delle forze di minoranza (alcune delle quali tanto ignorate dagli italiani da non fare più parte delle assemblee elettive) si arroghino il diritto di rilasciare patenti di legittimità costituzionale, appropriandosi con violenza delle piazze, quando viene il momento di ritrovarsi insieme per rinsaldare le radici comuni di un popolo. E’ vero: una componente costitutiva del Pdl non faceva parte dell’arco costituzionale che ha consentito al Pci di essere un protagonista della vita politica del dopoguerra anche quando i suoi parlamentari si alzavano in Aula inneggiando all’Armata Rossa mentre massacrava i patrioti ungheresi. Ma An ha reciso con chiarezza e da tempo il cordone ombelicale con il fascismo. Dal canto suo l’elettorato di Forza Italia è più o meno lo stesso di quei partiti democratici che hanno garantito all’Italia di rimuovere le macerie della guerra, di crescere come un grande Paese civile e di sviluppare la propria economia. Mai come adesso l’Italia potrebbe ritrovarsi intorno a valori comuni, consentendo così alle forze nazionali di contrastare, con l’esempio e l’azione politica bipartisan, i processi separatisti che covano sotto la cenere. Ma se la logica continuerà ad essere quella della discriminazione, della <cittadinanza imperfetta>, dell’accusa perenne di usurpare il potere, è ora di ribadire chiaro e forte che il centro destra non si sottoporrà più all’esame di idoneità da parte di tanti <cattivi maestri> prepotenti e intolleranti. Vogliono tenersi anche il 25 Aprile? Si accomodino. Noi faremo approvare una leggina con la quale proclameremo <Festa della Libertà> il 18 aprile, in ricordo di quella radiosa giornata del 1948, quando, sotto la guida della Dc, l’Italia collocò le sue istituzioni nel campo della democrazia.

La democrazia secondo la sinistra, scrive il 17 dicembre 2015 Indianalakota. “Mettere fuorilegge la Destra”. Questa è la democrazia secondo la sinistra! Sindacati, Anpi e partiti di sinistra si rivolgono al Quirinale con una petizione scritta a Mattarella per mettere fuorilegge qualsiasi cosa non sia di sinistra, cioè associazioni come: Casa Pound, Forza Nuova, Lealtà e Azione e tutte le altre che non sventolano bandierine rosse distruggendo intere città ogni volta che manifestano. Come fanno, invece, questi poveri deficienti che berciano: “Il fascismo è un crimine, non un’opinione come altre: quelle organizzazioni di estrema destra vanno messe fuorilegge”. Invece il comunismo è libertà e pace, vero cari i miei ignorantoni? Quei milioni di morti causati dal comunismo e affini non contano per voi? Ricordo ai poveri idioti che innanzitutto il fascismo non esiste più da un’ottantina d’anni e che la legge, creata ad hoc, punisce solo chi cerca di ricostituire il partito fascista, non l’ideologia! Quella non si può nè punire nè vietare perchè la nostra cara Costituzione permette a chiunque libertà di pensiero e di opinione anche quella di riunirsi in associazioni. Anche a voi comunisti che esistete ancora e osate sventolare una bandiera con falce e martello alla faccia dei milioni di morti del comunismo! Siete così sfigati che volete tappare la bocca a chiunque non la pensi come voialtri pecoroni belanti (con tutte le mie scuse alle pecore per l’infelice paragone con questi senza palle qui). Provateci pure! Vediamo quante persone firmeranno la vostra petizione contro la libertà di pensiero e di opinione degli altri! Poi noi faremo la nostra per eliminare voi! Associazioni, centri sociali di stupidi ragazzotti ignoranti che non conoscono la storia e che ogni volta che manifestano non sono capaci di fare altro che casino e distruggere col passamontagna in testa e qualche arma in mano. Oltre che occupare abusivamente case ed edifici, ubriacarsi e drogarsi. Da quel che so vi gode molto la gente, bravi! I sindacati (ma esistono ancora?) la loro bella figurina di merda l’hanno già fatta da tempo…..L’Anpi…..ma esistono ancora questi vecchietti??? Vogliamo ricordare anche i loro crimini durante la guerra oppure non contano perchè hanno vinto? Se è vero che avete combattuto per la libertà, siate coerenti! La “democrazia”, per essere tale, prevede la diversità di opinioni. Non solo la vostra! A quando una petizione per eliminare anche Lega, Fratelli d’Italia, Forza Italia ecc.? Paura di perdere le elezioni e di trovare gente con le palle che vi fa lavorare e rispettare le leggi invece di andare in giro a bighellonare e dire cazzate? Chi non conosce Casa Pound sappia che è un’associazione che difende ideali come la famiglia, la patria, gli animali e l’ambiente. Tantissime le loro manifestazioni contro la vivisezione, i circhi e gli zoo. E per i diritti degli italiani. Voi invece cosa propagandate? IL NULLA! Al massimo la liberalizzazione delle droghe (eh sì perchè quelle meritano libertà) per rincoglionirvi ancora di più, le famiglie gender alla faccia dei diritti dei bambini, e l’invasione degli extracomunitari senza controllo. Perchè voi sapete solo andare contro gli altri, soprattutto contro gli italiani e la Nazione. Perfino io qui sui social ho subito discriminazioni e insulti perchè non sono di sinistra ma di destra! E essere di destra non significa affatto essere fascisti o nazisti, cercate di capirlo per bene, anche se fa molto comodo insultare e discriminare le persone perchè non la pensano come voi: certa gente non è in grado di ascoltare le opinioni altrui e di rispettarle, meglio gli insulti facili. Sei di destra? Allora sei fascista, nazista, klu klux klanista….Anche qui su WordPress ho visto diverse persone smettere di seguirmi perchè sono di destra. E so che ne perderò ancora dopo questo articolo. Paura del confronto? Io non sono qui per compiacere nessuno: ho le mie idee e le mie opinioni, condivisibili o meno, e sono abituata a dire quello che penso. Nella vita reale ho diversi amici di sinistra, non cretini come quelli dei centri sociali, con cui condivido certe cose e su altre mi scontro in piena democrazia e rispetto. Infatti siamo amici da anni! Io ogni modo io sto con Casa Pound!!!! Non certo con chi cerca di tappare la bocca agli altri.

Maurizio Belpietro su “Panorama”: Pericolosa l'intolleranza di sinistra. C'è una cultura di odio, una violenza che per ora è verbale, ma che non è detto resti tale. Punta alla demolizione di chi la pensa diversamente: nemici di cui sbarazzarsi. Giampaolo Pansa si occupa sul Riformista dell'intolleranza che «troppa gente di sinistra» nutre nei confronti di chi non la pensa in un certo modo. Ha tratto spunto da un paio di lettere inviate al Giornale da persone che lamentano d'essere state insultate in treno e in autobus per il solo fatto di avere tra le mani una copia del quotidiano milanese. Il frasario usato contro di loro va da «fai schifo!» a «sei un servo di Berlusconi». Pansa, nel commentare le due lettere, riferisce di un episodio analogo di cui è stata vittima una sua lettrice, assalita a male parole perché, mentre era in attesa di un treno, leggeva il libro La grande bugia, documentata denuncia dei falsi storici e dei crimini commessi in nome della lotta di liberazione. Naturalmente la madre degli imbecilli è sempre incinta e si potrebbe concludere che i due lettori del Giornale e la signora sono stati sfortunati e hanno avuto il guaio d'incappare in compagni di viaggio maleducati e fanatici. Ma Pansa, che fu cronista del Corriere della sera negli anni in cui «la sinistra menava e sparava», parole sue, «e Montanelli era ritenuto un fascista insieme ai suoi lettori», non minimizza. Anzi, siccome il diavolo si nasconde nei dettagli, spiega che scruta l'orizzonte con qualche timore. Le aggressioni, gli insulti, le intolleranze sono il sintomo, il dettaglio per citare Giampaolo, che segnala una malattia più estesa, un settarismo strisciante che tracima e che rischia di bruciarci tutti. C'è infatti una parte di sinistra che non si limita a contestare le idee che non le piacciono, ma assale chi ne è portatore o, semplicemente, lettore. E non si tratta di pochi scalmanati. Dietro c'è una cultura di odio, una violenza che per ora è verbale, ma che non è detto resti tale. È una cultura da vecchi stalinisti, che punta alla demolizione, all'annientamento di chi la pensa diversamente. Colpisce con furia, senza rispetto degli avversari, che vede come nemici di cui sbarazzarsi. Per questa cultura chi manifesta opinioni dissonanti non ha dignità né onore, non ha diritto di parola, fa schifo e basta. Non è un uomo, ma un servo. Forse qualcuno penserà che io enfatizzi pochi episodi, ma, siccome tocco con mano da tempo questo sentimento di rancore, posso assicurare che nelle mie parole non c'è esagerazione: mi limito a riportare le opinioni che si trovano online e a sintetizzare gli insulti e le minacce. A differenza di Pansa, però non penso che il clima di intolleranza sia bipartisan. Non ho notizia di lettori della Repubblica o dell'Unità presi a male parole da qualche energumeno. E nemmeno di ingiurie contro chi appartiene a uno schieramento di sinistra. Ho provato a chiedere ad Antonio Padellaro, che del quotidiano che fu comunista è stato direttore, se gli è mai capitato di ricevere lettere di persone che segnalavano lo stesso trattamento riservato ai lettori del Giornale e se a lui stesso fossero arrivate offese, e la risposta è stata no. La stessa domanda l'ho rivolta ad altri giornalisti ritenuti di sinistra. La risposta è stata ancora no. Non voglio dire che a destra siano tutti angioletti, sempre pronti a comprendere le ragioni altrui. No, anche lì ci sono comportamenti esecrabili. Ma penso che l'intolleranza sia patrimonio della sinistra. Di più: che faccia parte del suo dna. E credo che chi si candida a diventare leader di un partito democratico per definizione non possa ignorare questo tema. Dario Franceschini, Pier Luigi Bersani e Ignazio Marino diano un segnale di civismo nei confronti di quegli italiani che sono la maggioranza del Paese. Evitino di considerarli tutti servi sciocchi di Silvio Berlusconi e impediscano che siano vittime dell'odio coltivato a sinistra. Sarebbe il miglior inizio per chi ambisce a governare l'Italia e a riunificarla.

Lo studio americano: a sinistra i più ottusi e intolleranti, scrive Gianni Candotto, il 18 novembre 2013 su “Quelsi”. Il bestseller “the Righteous mind” di Johnatan Haidt, docente universitario di psicologia sociale in molte università americane, di dichiarate tendenze liberal, ovvero di sinistra, scopre quello che Guareschi già diceva tanti anni fa: le persone di sinistra sono di solito più ottuse, estremiste, chiuse e intolleranti. Guareschi li disegnava con tre narici, violenti e pronti a cambiare idea appena arrivava il “Contrordine compagni!” dei capi del partito rosso, Haidt invece fa uno studio approfondito iniziato nel 2004 e conclusosi dopo migliaia di esperimenti con la pubblicazione del suo bestseller nel 2012. Certo Haidt dice di averlo pubblicato, non a caso è di sinistra, con lo scopo di aiutare la sinistra americana a non essere troppo chiusa e autoreferenziale e migliorare il partito democratico perché non sottovaluti la componente emotiva dell’elettorato. Un altro scopo dichiarato del suo lavoro era capire come mai la destra prendesse più voti della sinistra tra gli operai, fatto che nella mentalità progressista dell’autore rappresentava un paradosso. Una delle parti intuitivamente più semplici da capire di questo studio è il sondaggio proposto a 2000 americani che si definivano liberal (in Italia sarebbero a sinistra del PD) sui valori e le convinzioni dei conservatori: ne è venuto fuori un quadro paradossale dove le persone di sinistra avevano una visione caricaturale di quelli di destra visti come dei bruti, ignoranti, razzisti, omofobi. Lo stesso sondaggio fatto al contrario mostrava come i conservatori fossero estremamente più tolleranti e aperti a capire le opinioni degli altri. In poche parole molto più democratici. L’esperimento intuitivamente funzionerebbe anche in Italia. Il professor Haidt in questo vede la difficoltà dei liberal di capire i sentimenti dei conservatori, perché si è accorto che alcuni valori naturali che fanno parte della mente umana, come autorità, famiglia e senso del sacro vengono identificati con razzismo, omofobia e fondamentalismo religioso dai liberal, in particolari quelli più accesi. Gli stessi liberal riescono a concepire solo tre fattori che sono radicati nella mente umana, cioè la salute, la libertà e l’equità, sui sei che secondo gli studi di Haidt compongono l’intelletto politico dell’individuo. Mentre però per i conservatori libertà, salute ed equità sono valori accettati anche se declinati in maniera differente, per i liberal gli altri tre sono valori rifiutati tanto che al solo nominarli hanno reazioni pavloviane di rigetto. Questa in sostanza la dimostrazione pratica della mancanza di elasticità mentale e apertura delle persone di sinistra. L’autore poi si sposta sulla pratica quotidiana sostenendo che internet ha peggiorato la mentalità degli estremisti, portandoli a leggere solo siti di informazione che si adattano alla propria mentalità. Se lo studio è intuitivamente plausibile, le soluzioni che propone tuttavia lasciano alquanto perplessi (è dopotutto un liberal anche lui), come quella di invitare le famiglie dei parlamentari a vivere a Washington perché imparino a scambiarsi opinioni tra famiglie di destra e di sinistra. In Italia tale studio è stato tradotto con un titolo molto fuorviante: “Menti tribali: perché le brave persone si dividono su politica e religione”. Senza leggere gli studi dei liberal americani, è sufficiente rivedersi le vignette di Guareschi.

Come la macchina dell’intolleranza di sinistra ha messo all’angolo la castigatrice delle censure liberal, Kirsten Powers, scrive Mattia Ferraresi il 14 Maggio 2015 su “Il Foglio”. Che la sinistra si scagli con intenzioni intolleranti contro un libro che descrive l’intolleranza della sinistra è la perfetta chiusura del cerchio. Il nuovo libro di Kirsten Powers, “The Silencing: How the Left Is Killing Free Speech”, non era ancora sugli scaffali quando i commentatori liberal hanno preso ad attaccarlo, provando involontariamente la verità del suo contenuto. Powers ha compilato una rassegna di boicottaggi, licenziamenti, disinviti di università a personaggi non allineati alla cultura liberal prevalente, dall’ex ceo di Mozilla, Brendan Eich, cacciato per una donazione perfettamente legale a sostegno della campagna per il matrimonio tradizionale, fino a Christin Hoff Sommers, femminista non convenzionale che regolarmente vede sfumare inviti delle università per le proteste preventive di professori e studenti liberal. Aveva così tanti esempi per illustrare la guerra da sinistra contro la libertà di espressione che ha dovuto sacrificare un paio di capitoli. Obama bastona la sinistra non allineata sul libero scambio “Quello che mi ha colpito – ha spiegato Powers – è che la sinistra illiberale mi ricorda i fanatici religiosi, ma di una religione secolarizzata. La persona religiosa media ha il proprio credo, ma non cerca di licenziare chi la pensa diversamente. Solo i fanatici lo fanno. Per loro non è sufficiente credere, non riescono a tollerare che altri non credano in quello in cui credono loro. Devono dimostrare che sono moralmente superiori alle persone con le quali sono in disaccordo”. William Buckley diceva già una vita fa che “i liberal vogliono sentire altri punti di vista rispetto al loro, ma sono scioccati quando scoprono che esistono altri punti di vista”. Ai liberal questa rappresentazione non è piaciuta. Si badi bene: non sono gli esempi di intolleranza elencati nel libro a essere sotto attacco, quanto l’autrice, secondo un classico schema di attacco incentrato sulla delegittimazione dell’autore invece che sulla confutazione delle sue tesi. Esempio: per smontare le accuse di usare i fondi in modo improprio e illegale contenute in un’inchiesta, il team di Hillary Clinton non si prende la briga di rispondere punto su punto, ma si limita a screditare l’autore, mettendolo nella schiera degli urlatori della destra zoticona, confinandolo nel girone dei cospiratori che ancora insistono a dire che Obama è un musulmano nato in Kenya, o forse una lucertola gigante venuta dallo spazio. Allo stesso modo Oliver Willis di Media Matters, osservatorio progressista dei media, bolla Powers come una “impiegata da Fox News, anti choice che scrive per la Heritage Foundation”, e ne conclude: “Sì, continuate a dirmi che è una democratica”. Chi lavora in un osservatorio dei media sa che è più efficace presentarla come una controfigura ideologica di Sarah Palin invece di entrare nel merito, magari ricordando che Powers ha iniziato la sua carriera nell’Amministrazione Clinton e sosteneva il matrimonio gay quando Hillary era contraria. Era ed è ancora pro life, ma non anti choice. Poi si è convertita al cristianesimo, ma è tuttora a favore del matrimonio omosessuale, e si definisce una liberal nonostante le rappresentazioni distorte della sinistra che concede libertà di parola soltanto a chi esprime concetti con cui è d’accordo. 

In tempi di Bassissimo Impero, può accadere che i nostalgici della maxitangente Enimont denuncino la malcapitata Guidi, per sputtanamento sentimentalistico delle “gesta epiche” di Tangentopoli, scrive Antonella Grippo l’11 aprile 2016 su “Il Giornale”. Gli appetiti economici di un fidanzato mandrillo non ti consegneranno alla posterità. Anche se a sfrattarti è il PD di renziano conio. Il partito in questione, del resto, sconta una certa inattendibilità, quale gendarme dell’etica pubblica, nonostante i suoi trascorsi simil-giustizialisti. Agli albori degli anni ’90 infatti, la mattanza giudiziaria di Mani Pulite risparmiò le “anime belle” del postcomunismo (PDS), tradizionalmente immuni al virus della mazzetta e dei finanziamenti illegali. La grande stampa italiana, all’epoca, s’incaricò di certificarne l’immacolatezza. Ai più avveduti non sfuggì il fatto che gli eredi del partito di Gramsci, in realtà, avevano già ceduto in “comodato d’uso” la titolarità della lotta politica alle Procure. Abdicandovi. Una sorta di masochistica e mortificante diserzione dall’agire politico in prima linea. Di più. La cosiddetta “rivoluzione giudiziaria” si configurò come la variante vicaria della palingenesi berlingueriana. La medesima nomenklatura, lungo tutto il ventennio successivo, darà in subappalto ai Pubblici Ministeri l’opposizione a Silvio Berlusconi. Una vera e propria goduria a beneficio degli amanti dell’iconografia patibolare. L’ossequio alla bulimia puritana della base. Insomma: il primato della politica dilaniato dalle fauci del basic instinct delle masse sanguinarie. Da Togliatti a Javert, perfida creatura manettara di Victor Hugo, il passo fu breve. L’epopea di Renzi sembra contraddire la tendenza del recente passato. La magistratura, nella percezione del nerboruto leader, acquisisce, sin dai primordi, un ruolo inedito: quello di foglia di fico e di prestanome del Palazzo, che non è propriamente abitato da francescani con le pezze al culo. Matteo, in tempi altamente sospetti, coltiva, infatti, il culto di Cantone e di Gratteri, indicandoli, addirittura, come possibili Ministri, allo scopo di rastrellare facili consensi, in nome di un’improbabile catarsi. Contestualmente, dopo aver trombato Lupi, a quanti reclamano le dimissioni dei sottosegretari indagati risponde: “Non mi faccio dettare la linea dagli inquirenti.” E cita Montesquieu. Intanto, in un ineffabile gioco delle tre carte,” impiega” le icone togate, quali garanti della virtù di Stato. Altro che separazione dei poteri! Siamo al meticciato dei medesimi. Come se non bastasse, il Nostro, nel mezzo della bufera Guidi e similari, attacca la Procura di Potenza, rea, a suo dire, di non aver mai quagliato. Come dire: se non vai a sentenza, sei uno sfigato. Poi brandisce un’arma spuntata contro l’uso perverso delle intercettazioni, salvo ritirarsi in buon ordine subito dopo. Il sospetto di un’operazione quantomeno schizofrenica non può dirsi fugato. L’orizzonte, allo stato, appare nebuloso: non è verosimile ritenere interdetta la migrazione delle prerogative della Politica nella direzione dei Palazzi di Giustizia. Nonostante il gradasso. Ad ogni buon conto, Renzi, potrebbe chiamare in correità ideologica Benedetto Croce, che, nel merito, sentenziava: “La petulante richiesta che si fa dell’onestà nella vita politica non è altro che una volgare manifestazione dell’inintelligenza (mancanza di intelligenza) circa le cose della Politica.”  Tradotto: gli innocenti non sempre hanno la stoffa degli statisti. Con buona pace di Davigo. Ma questa è un’altra storia. Complicatissima. Cuperlo e le min(on)oranze funebri del Pd non capirebbero.

Qualche dubbio sul caso Matei. Condannata per "l'omicidio dell'ombrello", che sconvolse l'opinione pubblica, era uscita per buona condotta. Ora ci torna. Grazie all'opinione pubblica, scrive il 13 aprile 2016 su "Panorama" Maurizio Tortorella. Mi rendo conto che non è facile per un giornalista scrivere a favore di una donna condannata per omicidio: è così anche se l'omicidio non è volontario, ma preterintenzionale, cioè è causato da un atto che non intende causare la morte, ma va oltre le intenzioni dell'omicida. Non è per nulla facile nemmeno fare il giudice, e mi rendo conto anche di questo. Ma credo che nella storia di Doina Matei qualcuno debba pur dire che la giustizia italiana non può decidere in base alle urla di piazza, alla negatività dell'opinione pubblica, allo strepito di un social network. Non è questa la giustizia: se esistono regole, vano rispettate prescindendo dalla piazza, dall'opinione pubblica. La storia. Dorina Matei è la 20enne che nell'aprile 2007, nella metropolitana di Roma, aveva duramente litigato con una povera ragazza, la coetanea Vanessa Russo. Nella colluttazione seguita al litigio, Matei aveva ucciso Russo colpendola all'occhio con la punta dell’ombrello. Aveva anche tentato di fuggire con un’amica, ma era stata arrestata pochi giorni dopo, vicino a Macerata. Matei era stata ovviamente processata e alla fine era stata condannata definitivamente a 16 anni di carcere. Dopo quasi nove anni scontati in prigione, grazie alla buona condotta aveva da poco aveva ottenuto da un giudice una misura alternativa al carcere per i quasi otto che le restavano da scontare. Il suo errore è stato pensare di poter usare uno di quei permessi per andare a Venezia. Per fare un bagno al Lido. E per sorridere davanti a un obiettivo. Le sue foto, postate su Facebook, sono state pubblicate alcuni giorni fa dai giornali. E subito i social network si sono riempiti di ovvia indignazione. I giornali si sono riempiti di facile indignazione. I bar sport si sono messi a urlare di indignata indignazione. Si sono mossi anche i pesi massimi del giornalismo. Massimo Gramellini, sulla Stampa, ha scritto: "Nove anni di carcere per un omicidio rappresentano la vergogna del legislatore italiano (...). Oggi però la questione sono le foto di felicità diffuse dall’assassina. Doina Matei ha tutto il diritto di essere contenta, visto che la legge glielo consente. Ma ha diritto di mostrare la sua contentezza al mondo, e quindi anche ai parenti della vittima, attraverso un social network?". Francamente, io non so rispondere a questa domanda. È una questione complessa, che attiene alla coscienza, alla sensibilità. E mi rendo conto della pena e della infinita sofferenza che hanno provato e continuano a provare i familiari della ragazza uccisa nove anni fa. Ma non credo che nulla di tutto questo sia pertinente con la questione di giustizia che il caso oggi incarna. Perché Dorina Matei, dopo il can-can che ho appena descritto, è stata riportata in cella, perché le è stata sospesa la semilibertà. E allora, mi spiace, ma io continuo a pensare che di certo Dorina Matei sia stata condannata giustamente per quel che ha fatto, però oggi penso anche che, se alla base di tutto c'è la protesta dell'opinione pubblica, riportare in carcere Doina Matei non sia un atto di giustizia. Un giudice stabilisce che, anche se sei un'omicida, dopo 9 anni di carcere hai diritto alla semilibertà? Immagino lo faccia in base alle norme, alle leggi, rispettando procedure e calcoli. Userà anche il buon senso. Insomma, farà correttamente il suo lavoro. Questo credo perché ho fiducia nella giustizia. Ma allora quel giudice non torna sulle sue decisioni perché l'opinione pubblica si rivolta contro un sorriso in una fotografia, come fanno pensare le cronache. Forse per la condannata era previsto il divieto a sorridere finché non avesse finito di scontare la pena, o la proibizione di pubblicare una foto su Facebook. Ma se è così, questa è una prescrizione che può essere scritta solo in un detestabile "Codice della giustizia a furor di popolo", non nel Codice penale o nel Codice di procedura penale di uno Stato di diritto. Doina Matei è certamente colpevole del delitto che le è stato ascrittto. Aveva ovviamente cercato di chiedere scusa ai genitori di Vanessa Russo: “Ho invocato il loro perdono, non ho avuto risposta. Tocca a me, ora, piegarmi a quel silenzio”. La morale ipocrita di questa vicenda è che, in quel silenzio, non avrebbe però mai dovuto sorridere, come scrive oggi la penna che meglio di ogni altra incarna l'opinione pubblica. Ecco la colpa, nuova ed estrema, di Doina Matei. Dice giustamente Beniamino Migliucci, presidente dell'Unione delle camere penali: "Non conosco le motivazioni del giudice di Venezia, ma posso dire che una foto sorridente postata su un social non è un motivo sufficiente per sospendere il regime di semilibertà". Prosegue Migliucci: "Forse i giudici l'hanno ritenuto un comportamento inopportuno. Forse le foto sono state scattate nell'orario lavorativo. Forse hanno risentito della pressione dei media". Se il motivo è il terzo, allora esiste un caso Matei che qualcuno, forse un ministro della Giustizia, dovrebbe affrontare con coraggio. Una volta tanto senza piegarsi al populismo giudiziario.

Il valore liberale trascurato dei «Promessi Sposi», scrive Nicola Porro, Domenica 10/04/2016, su "Il Giornale". Esiste un testo, che abbiamo letto tutti, che avrebbe dovuto formare qualche generazione di italiani allo spirito liberale. Sono I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. Recentemente lo ha ricordato Alberto Mingardi, ma il primo a scoprirne la sua portata liberale fu Luigi Einaudi che in una delle sue Prediche Inutili sottolineò: «Manzoni scrisse pagine stupende sui pregiudizi popolari intorno alla scarsità ed all'abbondanza del frumento e della farina, agli incettatori ed ai fornai; ché ogni volta che il discorso cade oggi sul rincaro dei viveri, sui prezzi al minuto e all'ingrosso, sulle malefatte degli accaparratori e degli speculatori, si leggono sui fogli quotidiani e si ripetono nei comizi gli stessi luoghi comuni che l'ironia manzoniana aveva bollato; e cadono le braccia». Il capitolo a cui ci riferiamo è il 12esimo, quello della «Carestia». In una Milano affamata il popolo dà l'assalto ai forni e il governatore Ferrer e i magistrati commettono un errore economico dietro l'altro. Manzoni racconta quel clima favolosamente e nelle prime pagine del capitolo, prima dell'arrivo di un Renzo spaesato ma di buon senso («Chi fa il pane, se fanno a pezzi i forni?», si chiede), racconta il paradosso, così attuale, di chi voglia controllare la formazione dei prezzi. Il prezzo, ci spiegheranno poi Milton Friedman e soci, non è altro che una magnifica, per la sua sinteticità, informazione. Non far funzionare bene il meccanismo di rialzo e ribasso dei prezzi, mina l'essenza di un mercato, racconta una storia non vera. E che prima o poi porterà ad uno scoppio. Ma ritorniamo ai Promessi sposi. È un crescendo. Prima la cultura del sospetto: Dopo un rincaro «nasce un'opinione ne' molti, che non ne sia cagione la scarsezza si suppone tutt'a un tratto che ci sia grano abbastanza». I prezzi non riflettono, per un collettivista, la scarsità di un bene, quanto la decisione di pochi nel determinarli. Se ci pensate è alla base delle differenza tra un'economia di mercato ed una di Stato. Meglio, molto meglio di un manuale di economia, l'economista Manzoni ci spiega come funziona il meccanismo dei prezzi e con una scrittura piatta e ironica avrebbe dovuto far capire a milioni di studenti che non è attraverso il controllo dei prezzi che si combattono improvvisi rincari di un bene. Anzi al contrario. Fissare un tetto ai prezzi, controllarli centralmente, porta all'effetto esattamente contrario: nessun incentivo a produrre di più il bene scarso e tanto meno interesse da parte di eventuali esportatori di supplire al deficit che si è formato. Per questo Einaudi nella predica inutile (Un libro per seminaristi e studenti) dice: «Forse la sola prosa da cui sia possibile, con l'aiuto di un insegnante non del tutto fuori dalla vita di oggi, trarre qualche immediata applicazione economica, è il capitolo sulla carestia nei Promessi sposi».

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.

Staino e il manuale per compagni incazzati. Con il romanzo a fumetti "Alla ricerca della pecora Fassina", Bobo si imbatte nell'ultima grande tragedia della Gauche nostrana, dove Renzi è incollato allo smartphone, Cuperlo è un attore shakespeariano e Cofferati viene alle mani con Veltroni. Dedicato a "un pubblico adulto di sinistra", scrive Maurizio Di Fazio il 13 aprile 2016 su "L'Espresso". “Istruzioni per l’uso: la lettura è consigliata a un pubblico adulto di sinistra accompagnato da figli o conoscenti giovani, che possano tenerlo per mano nelle scene più crude in cui l’Autore affonda le mani nella carne viva delle contraddizioni ideologiche”. L’Autore è uno che di guerre fratricide ed epico-comiche interne al Pci prima, e al Pds, Ds e partito democratico poi, se ne intende benissimo, visto che le disegna e racconta in controluce biografica dal 1979, anno di nascita di Bobo, alter ego suo e di più di una generazione. Torna in libreria (per Giunti) Sergio Staino, tra i giganti della satira politica non soltanto italiana. Una statura che conferma in questo suo nuovo e ricco romanzo a fumetti, nonostante giusto pochi mesi fa Sergio/Bobo avesse confessato di essere ormai semicieco: si intitola “Alla ricerca della pecora Fassina” e ha per sottotitolo “Manuale per compagni incazzati, stanchi, smarriti ma sempre compagni”. Con la passione di sempre, engagé ma dissacrante, Staino eleva a memento artistico l’ultima grande cronaca di una tragedia annunciata in seno alla Gauche tricolore: lo strappo di Civati e Fassina e la nascita di ulteriori movimenti alla sinistra del Pd. Un distacco che matura all’ombra del Renzismo (“malattia infantile del Dalemismo”) e di un segretario-premier multitasking, “sempre incollato al suo smartphone dal quale controlla e dirige tutto e tutti, sorvolando su ogni difficoltà e dissenso con il suo ormai proverbiale “Ce ne faremo una ragione” scrive nella prefazione Ellekappa. Nel libro, Matteo Renzi salta da un impegno (e da una promessa) all’altro, con ogni mezzo di trasporto possibile; e tra lui, superdigitale e post-Agesci e dallo sguardo affilato e l’analogico e vetero-romantico ed ex berlingueriano Bobo è tumulto continuo. Anche in senso fisico. Con un sottofondo tuttavia di sentimenti indefiniti condivisi. Sono finiti i tempi del centralismo democratico, il web 2.0 dà l’illusione di avere rivoluzionato ogni dialettica tra base e classe dirigente e il meta-internettiano Bobo chiede dal vivo (e a gran voce) al suo segretario, con strattoni e imprecazioni se necessario, di farsi guida magnanima per i suoi più alti quadri e di non abbandonare a se stessa, quindi, la pecorella smarrita Fassina. Come nella parabola evangelica del buon pastore, che lasciò novantanove pecore nel deserto per andare alla ricerca dell’unica perduta. Bobo il tesserato e militante esemplare, libero e critico ma rispettoso delle regole e delle sintesi di partito, né con l’ortodossia genuflessa né con la fronda autolesionista, si imbarca in quest’operazione improba: riportare all’ovile la fuggiasca “pecora Fassina, una pecora focosa, ma generosa”. Sanare l’ennesima ferita inferta al giovane corpo del partito democratico, posseduto da vecchi e purulenti demoni di scissione. E lo fa eleggendo a compagno di viaggio, nel girone infernale delle polemiche, tale marlonbrando, un piccolo Virgilio Rom, pure qui rovesciando i canoni della vulgata che ci attanaglia. Quello che ne vien fuori è un affresco picaresco, corale e pittoresco del nostro paesaggio politico progressista, su cui continua però a soffiare imperterrita la speranza di Staino. Meglio parlarsi apertamente e prendersi per i fondelli che covare sordi rancori, suscettibili di divorzi brucianti e repentini. E mentre cerca Fassina Bobo si imbatte, in ordine sparso, in Gianni Cuperlo a teatro nei panni di un attore scespiriano; in Romano Prodi ed Eugenio Scalfari che dispensano saggi consigli nel deserto; in Walter Veltroni in balia dei suoi aneliti cinematografici; in Sergio Cofferati con cui viene alle mani; in Fabrizio Barca, Matteo Orfini, Pier Luigi Bersani e un manipolo di seguaci delle teorie complottiste di Giulietto Chiesa. E poi l’incontro-choc con Denis Verdini, che cerca di irretirlo dichiarandosi anch’egli “comunista”, forte della sua fede massonica di stampo “socialista mazziniano”. E tanto altro che non vi sveliamo. La lettura è sconsolante, ma appassiona, e tra le strisce prendono forma alcuni pensieri fermi nella testa di Bobo/Staino, uomo e artista idealista ma pragmatico. Ha senso scimmiottare i vari Tsipras, Podemos e Corbyn, o si rischiano solo sarabande di fallimenti? Esistono delle alternative credibili e auspicabili a Renzi? “Siamo stati contro la Cina e a favore dell’Albania. Poi contro Natta e di nuovo a favore di Berlinguer. Poi contro Occhetto e a favore di D’Alema. Poi contro Veltroni e a favore di D’Alema. Poi contro Prodi e a favore di D’Alema. Poi contro D’Alema e a favore di un qualsiasi giovane purché degli ex Ds. Ora sei contro Renzi, ok. Ma a favore di chi? Dimmelo! Che ci vengo anch’io” grida Bobo a un certo punto all’anziano compagno Molotov. “A favore di chi? Se lo sapessi non sarei qui” gli risponde il gagliardo marxista-leninista. “Ti piace Civati?”. “Quel fighetto milanese? Mai”. “Cofferati?”. “Dopo Bologna basta, non mi fido”. “Fassina?”. “Uno che ha fatto il sottosegretario con Monti? Mai”. “Allora tornare a D’Alema?”. “Ma se sono loro ad averci condotto qui!”. Per il compagno Molotov, Renzi è un po’ il male assoluto e piuttosto se ne andrebbe con i grillini. Per Bobo e Sergio Staino questo no, questo mai. Chiunque ne sia pro tempore il leader, il partito c’è già ed è quello democratico. E con Molotov sono botte.

La morte di Gianroberto Casaleggio e l’ipocrisia della politica. Ora tutti salutano il fondatore del Movimento come un innovatore che ha modernizzato la vita pubblica. Compresi quelli che fino a pochi giorni fa lo definivano il fondatore di una setta pericolosa per la democrazia, scrive Paolo Fantauzzi il 12 aprile 2016 su "L'Espresso". Ma Gianroberto Casaleggio era un pericolo per la democrazia, fondatore di “una setta”, anzi di “un’associazione violenta e antidemocratica” segnata dal “fanatismo” o il “genio comunicativo” e l’“innovatore visionario” che ha invogliato la partecipazione dei cittadini, come viene pianto oggi? È la domanda che viene da porsi a leggere il profluvio di dichiarazioni con cui tanti politici hanno commentato la morte del fondatore del Movimento cinque stelle. Affermazioni, si badi bene, fatte spesso proprio da quanti maggiormente lo hanno attaccato sul piano personale, in un imbarbarimento del discorso pubblico che a tratti pare aver superato perfino i toni usati quando Silvio Berlusconi sedeva a Palazzo Chigi. Fanno così un certo effetto le parole con cui il capogruppo Pd alla Camera, Ettore Rosato, ha definito Casaleggio “un avversario politico che abbiamo sempre rispettato”. Proprio lui che, durante il voto per il Quirinale nel 2013, accusava i vertici del Movimento di aver usato il nome della giornalista Milena Gabanelli fra i candidati per il Colle “per dare lustro ad una demagogia che calpesta i diritti e la trasparenza”. Oppure il vicesegretario Lorenzo Guerini, che pochi mesi fa lo paragonava al “lato oscuro della forza”, autore di una autentica “dittatura”. O ancora il già dalemiano, già montiano e adesso renziano Andrea Romano, che commentando l’idea di una multa per gli eletti che non rispettano il programma nelle settimane scorse ha affermato che “Casaleggio avrebbe fatto fucilare Churchill” perché era stato prima conservatore e poi liberale. Perché se è vero che i grillini hanno spesso sconfinato a sproposito nei toni e nell’offesa personale da quando sono entrati in Parlamento, i democratici e tutti gli altri partiti non sono stati da meno. Al contrario, sembrano aver dato vita a una continua gara al rialzo. Con cadute di stile come quella della senatrice Pina Maturani che nei giorni scorsi, alla notizia del passo indietro di Casaleggio a favore del figlio Davide a causa della malattia, ha ironizzato sul “passaggio dinastico da impero Carolingio”, con tanto di immaginata “incoronazione nella notte di Natale”. Oppure frasi come quelle di Beppe Fioroni, che oggi saluta l’uomo “intelligente, timido e arguto” e due anni fa, parlando dell’apocalittico video Gaia, si diceva convinto che “non c'è niente da ridere ma da preoccuparsi”. Tutto legittimo ovviamente, ma a quale versione bisogna prestar fede? E c’è pure la deputata Pd Enza Bruno Bossio, che afferma di piangere “un amico” e che pure in passato non ha esitato a definirlo né più né meno che “un venditore di pentole”. Conseguenze inevitabili della propaganda martellante e della politica urlata, si dirà. Che però non scalfiscono la leggerezza di espressioni pronunciate da chi ricopre pur sempre un ruolo istituzionale, fosse anche per convenienza più che convinzione. Vedi l’esponente leghista che appena un mese fa paragonava Casaleggio a Jim Jones, il predicatore americano fondatore del Tempio del popolo che indusse i suoi adepti a un suicidio di massa a fine anni ’70. O Fratelli d’Italia, che oggi ne riconosce il ruolo di “innovatore” ma il cui coordinatore Guido Crosetto appena un paio d’anni fa definiva il Movimento “una setta antidemocratica che mina le basi di convivenza civile della Nazione”. Parole in libertà, insomma, in cui è possibile affermare (e quindi far credere vero) tutto e il suo contrario. Può così perfino accadere che dai verdiniani adesso venga riconosciuta a Casaleggio “l’onestà del progetto”, che però quando si tradusse nella affollata partecipazione alla marcia Perugia-Assisi fu bollato assai poco rispettosamente come “un corteo funebre”. Una corsa alla quale non si è sottratto nemmeno Corrado Passera, già pacato ministro montiano e oggi descamisado leader di Italia unica: tre mesi fa bollava Casaleggio come antidemocratico, oggi saluta il contributo dato col Movimento “ai meccanismi di partecipazione”. I quali sono notoriamente l’esatto opposto dell’antidemocrazia. 

Io, giornalista grillino, vi racconto cosa succede nel Movimento di Grillo e Casaleggio, scrive il 19 maggio 2016 Mauro Suttora su “Il Corriere del Giorno. Da Serenetta a Serenella. La parabola del Grillo politico è riassumibile fra Serenetta Monti, candidata sindaca a Roma nel 2008, e Serenella Fucksia, espulsa dal Movimento 5 stelle (M5s) all’alba del 2016. Due donne “con le palle” per usare il bellicoso linguaggio grillino. La prima scappata un anno dopo il debutto romano (3%, quattro consiglieri municipali eletti, tre che cambiano partito dopo pochi mesi, un disastro che nessuno ama ricordare), la seconda fatta fuori con l’agghiacciante ordalia che finora ha epurato online un quarto dei 162 parlamentari eletti nel 2013. Neanche Stalin purgava i compagni a questo ritmo. In mezzo, l’incredibile storia di un partito che raggiunge il 25% al suo primo voto nazionale. Caso unico al mondo: Berlusconi nel 1994 si fermò al 21, ed ereditava gli apparati Dc e Psi. Ma, soprattutto, un fenomeno sociologico mai capitato: 162 persone digiune di politica catapultate in Parlamento da un giorno all’altro, a formare il secondo partito nazionale. È anche la prima vera forza politica popolare nella storia d’Italia. Il Pci, infatti, nonostante volesse rappresentare la classe operaia, aveva dirigenti borghesi. I grillini invece, come reddito e cultura, sono l’odierno lumpen-proletariato dei disoccupati e precari. Nozioni da Facebook, ignoranza pari all’arroganza, prevalenza del perito informatico (il diploma del loro capo, Gianroberto Casaleggio). Non hanno letto Fruttero & Lucentini, quindi a dirglielo non si offendono. Faccio vita da grillino da nove anni. Mi sono iscritto nel settembre 2007 dopo il Vaffa-day, un giorno prima di Paola Taverna. Partecipavo ai primi meetup di Roma: riunioni al quartiere africano in una sala affittata dal dentista Dario Tamburrano (oggi eurodeputato), poi al cinodromo, o sull’Ostiense. Serenetta sconfisse Roberta Lombardi alle primarie. Il 25 aprile 2008 raccogliemmo un’enorme quantità di firme davanti alla basilica di San Paolo per i referendum contro l’Ordine dei Giornalisti. Poi buttate, perché il figlio di Casaleggio sbagliò le date della raccolta. C’era grande entusiasmo, sull’onda del libro La casta di Stella e Rizzo. Ma alle regionali del 2010, disastro: solo quattro eletti in Piemonte ed Emilia. Tutti poi espulsi tranne uno. Trasferito a Milano, frequento anche qui il meetup. Lo stesso clima da caserma-convento-asilo-circo. “Suttora, non seminare zizzagna”, mi intimano sul gruppo Facebook se esprimo una critica. Nel 2013 Paola Bernetti, la più votata alle primarie per il Senato, viene fatta fuori con un trucco. I monzesi con una cordata eleggono tre senatori, Milano neanche uno. Stessi grovigli due mesi fa, alle primarie per il sindaco: solo 300 votanti, 74 voti alla vincitrice. I risultati vengono secretati, gli altri sette candidati non sanno le loro preferenze. Dal movimento della trasparenza al partito dell’omertà. Addio streaming, forum pubblici, dibattiti online. Dopo la valanga delle espulsioni regna la paura, si comunica solo su chat Whatsapp segrete. Sette attivisti milanesi osano pubblicare un giornalino a loro spese: cacciati con lettera dell’avvocato di Casaleggio. Il clima di paranoia avvolge anche i parlamentari. Appena uno azzarda qualche pensiero non conformista, è bollato come dissidente. Intanto, il fervore altruista scema. I parlamentari, che prendono 15mila euro mensili, due anni fa ne restituivano in media 5-6mila. Oggi la cifra si è dimezzata: tremila. Se va bene. Molti si limitano a 1.400-1.800: Morra, Lombardi, Giarrusso, Nuti, Fico, Sibilia. I rendiconti sono una farsa: solo autodichiarazioni, niente ricevute, nessun controllo. La cuccagna è all’Europarlamento. Ben 12 eurodeputati M5s su 17 neanche rendicontano. Possono incassare fino a 40mila euro mensili (21mila solo per i portaborse), ma tutti tranne una restituiscono appena mille euro al mese. Il siciliano Ignazio Corrao (ex portaborse in regione Sicilia) aveva assunto 11 portaborse. L’ho pizzicato con un articolo su Oggi, lui mi ha insultato, ora li ha ridotti a sette. Come un’eurodeputata abruzzese: due li tiene a Bruxelles, gli altri cinque stanno nel suo collegio elettorale. Che differenza c’è con i vecchi politici del passato? Nessuna, tranne che i grillini si vantano di non avere funzionari di partito. Invece ne hanno centinaia, stipendiati dai 1.600 eletti. Insomma, il movimento ora è Collocamento 5 stelle, scherzano i tanti ex. I nomi dei portaborse parlamentari sono convenientemente segreti, per non scoprire altri parenti e conviventi dopo quelli già scoperti (Lezzi, Moronese). Casaleggio e suo figlio comandano a bacchetta. I parlamentari sono sorvegliati da un simpatico reduce del Grande Fratello, Rocco Casalino: decide lui chi mandare in tv. Fra gli altri addetti stampa spicca un ex camionista di Bologna. Dove sono state abolite le primarie: alle comunali di giugno lista bloccata, tutti nominati dall’alto come nel listino berlusconiano di Nicole Minetti. A Trieste un eurodeputato ha candidato sindaca la moglie: metà dei grillini locali in rivolta. La sceneggiata napoletana di Quarto aumenterà la disciplina interna. Per paura di altri “infiltrati” della camorra, i candidati saranno nominati d’autorità. Così, quello che era nato come un movimento liberatorio si è trasformato nel suo esatto contrario. Hare Krishna, Scientology? Ma no, meglio Testimoni di Genova. Lì Grillo ha una delle sue tre ville. E il suo commercialista personale (nonché segretario del M5s) è stato nominato in una società regionale. Quelle che i grillini volevano abolire. 

TOPONOMASTICA DIVISIVA ED IDEOLOGICA.

Non solo Meloni con Almirante, le strade intitolate che hanno fatto polemica. Stefano Cucchi, Oriana Fallaci, Bettino Craxi. Non sono pochi i personaggi "divisivi", per lo più politici, che hanno fatto nascere battaglie toponomastiche in tutta Italia. Dopo la proposta della candidato sindaco a Roma che vuole dedicare una strada all'ex repubblichino, ecco gli altri casi celebri, scrive Maurizio Di Fazio il 23 maggio 2016 su “L’Espresso”. “Se diventerò primo cittadino, intitolerò una strada a Giorgio Almirante” esclama Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia e candidata alla carica di sindaco di Roma. Fioccano le proteste e le polemiche: è tuttora troppo controverso il ricordo del fu padre-padrone del Movimento sociale italiano, a 28 anni dalla sua scomparsa. Quantomeno per intestargli una via di una grande città: il nome dell’ex repubblichino ricorre già (sotto forma di strade, giardini e circonvallazioni) nelle mappe urbane e nel google maps di numerosi piccoli centri del centro-sud, nonché di capoluoghi di provincia come Foggia e Viterbo. Nel 2014 la Provincia di Latina (città fondata col nome di Littoria durante il fascismo) decise di dedicargli una rotonda a Borgo Sabotino, e il Premio Strega Antonio Pennacchi commentò: “Questa vicenda dimostra che il problema non sono i fasci, ma gli stupidi. Una classe politica deficitaria su tutto pensa di rincuorare il proprio popolo agitando la bandiera della provocazione”. Ogni anno i Comuni italiani sono invasi da una pletora di richieste di intitolare corsi, viuzze, slarghi, rondò, piazze, monumenti e parchi a personaggi della storia recente o recentissima che non hanno ancora fatto pace con la Storia condivisa della nostra nazione, e forse non la faranno mai. Per lo più politici, ma anche vittime di abusi di polizia, giornalisti, intellettuali e artisti “divisivi” in vita e dopo la morte, specie se avvenuta da poco. La legge che presiede alle denominazioni toponomastiche è invece vecchissima: risale al 1927, e stabilisce che di norma non si possono intitolare carreggiate e piazze a persone decedute da meno di dieci anni, salvo deroghe e delibere di giunta degli Enti locali. Senza dimenticare che in Italia solo il 4 per cento della strade possiede un’identità femminile: per il resto, è il Risorgimento a dettare tuttora la linea. A intervalli regolari ci si contorce sulle intitolazioni viarie della discordia. A marzo il Comune siciliano di Acireale ha approvato l’intestazione della Cittadella dello sport a Rino Nicolosi, presidente della Regione Sicilia negli anni ottanta, “esempio di una caparbia intelligenza che ha illuminato la sua città riservandole un posto di rilievo nel panorama nazionale” sostengono i pro: “reo confesso di Tangentopoli” rammentano gli altri. Un anno e mezzo fa la Giunta di Roma ha licenziato a larga maggioranza una mozione destinata ad assegnare a Stefano Cucchi una via o una piazza della capitale. Assumendo la sua odissea a "simbolo della necessità di riformare il sistema di procedura penale e penitenziale in senso garantista", sarà questo il testo della targa commemorativa: "Stefano Cucchi, ragazzo". Contrarissimo il solito Carlo Giovanardi. Un mese fa la commissione toponomastica di Cremona ha cassato la petizione presentata da un gruppo di cittadini per intitolare una strada alla giornalista e scrittrice toscana venuta a mancare il 15 settembre del 2006: “Oriana Fallaci è un personaggio che divide, un simbolo dello scontro di civiltà” ha annotato uno dei membri della commissione. Una vexata quaestio, questa relativa al rapporto tra l’autrice di “Un uomo” e “La rabbia e l’orgoglio” e le edizioni di Tuttocittà stampate dopo la sua morte: e se il sindaco di Firenze Dario Nardella ha ormai aperto ufficialmente a una prossima via o vicolo o piazzetta Fallaci, e a Milano le è stata “consacrata” un mese fa una sala del Pirellone, il Campidoglio ha respinto invece nel 2014 ogni possibilità. A meno che non diventi nelle prossime ore il cavallo di battaglia di uno degli aspiranti sindaci romani, in chiave anti-Meloni/Almirante. Analoga sorte maledetta è toccata a Bettino Craxi. La prima a pensare all’ex segretario socialista in chiave toponomastica fu, a dieci anni esatti dal suo trapasso, l’allora primo cittadino di Milano Letizia Moratti. I suoi successori però cambiarono subito discorso, e del nome dell’ex potentissimo segretario socialista non c’è traccia oggi nemmeno in qualche sottopasso della periferia milanese. Anche qui per trovare una via Craxi bisogna spostarsi in provincia, a Ragusa per esempio, o direttamente in qualche paesino dell’Italia profonda. E se è vero che la musica è una metafora perfetta della più dura lotta politica e di pensiero che sopravvive (anche a lungo) ai suoi artefici, due mesi fa il Comune di Napoli si è impegnato a intitolare tre rotatorie, nel quartiere Vomero, a mostri sacri come Roberto Murolo, Renato Carosone e Sergio Bruni. Meglio di niente, anche se i cultori della canzone napoletana desidererebbero magari un boulevard “Tu vuò fa l’americano”. Quantomeno sul solco di Capo D’Orlando, in provincia di Messina, dove nel 2002 è stato inaugurato il "Lungomare Luciano Ligabue, artista contemporaneo".

Strada per Almirante, tabù con 200 eccezioni, scrive “L’Agi” il 22 maggio 2016. Sono circa 200 in giro per l'Italia le strade, i giardini o le strutture intitolate a Giorgio Almirante, il fondatore del Movimento sociale italiano scomparso nel 1988. L'ingresso nella toponomastica è stato spesso sofferto, con giunte di centrodestra che hanno visto rimuovere l'intitolazione in nome dell'antifascismo quando il comune è tornato a essere guidato da giunte di centrosinistra. Solo per restare agli ultimi anni è emblematico il caso di Civitanova Marche, dove nel 2013 "Via Giorgio Almirante" fu sostituita da "Via Nelson Mandela" dal nuovo sindaco progressista, Tommaso Corvatta. Due anni dopo, militanti di destra sostituirono diverse targhe di vie cittadine con il nome di Almirante in un blitz notturno. Sempre nel 2013 allo storico leader della destra furono dedicati una piazza e un busto a Montecorvino Pugliano, in provincia di Salerno, nel 2014 gli fu intitolata una rotonda a Borgo Sabotino, in provincia di Latina. Nel 2015 il Consiglio comunale di Roma respinse due mozioni di Fratelli d'Italia e di Forza Italia che chiedevano di intitolare una strada della capitale ad Almirante, dopo la cauta apertura negli anni precedenti del sindaco (di destra) Gianni Alemanno che però aveva chiesto che non si traducesse in una scelta divisiva.

Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 19 aprile 2016. Oriana Fallaci viveva di due cose. Scrittura e battaglie. Sarà quindi contenta. Domenica si è saputo - cosa di cui i grandi giornali hanno dato conto - che a Cremona la commissione toponomastica del Comune, guidato dal centrosinistra, ha respinto la proposta di intitolare una via alla scrittrice. La richiesta sottoscritta da oltre 130 cittadini è stata accantonata perché «il nome e le opere della Fallaci sarebbero troppo divisive». Quello di cui però i grandi giornali non hanno dato conto è che un «piccolo» quotidiano, La Provincia di Cremona, ha rivolto ai lettori, sul proprio sito internet, la stessa domanda: se vogliono o meno che una via cittadina sia intitolata a Oriana Fallaci. E il risultato del sondaggio on line (che non ha alcuna ufficialità ma è molto indicativo) dice che l'85% dei partecipanti è a favore della proposta. Dimostrando che l'opera e le idee della scrittrice sono in realtà poco o nulla divisive. A dividere semmai è il conformismo e il livore della minoranza che non la pensa come lei. Matteo Salvini non s' è fatto scappare l'occasione e, con la consueta dichiarazione tranchant, ha commentato: «Ignoranti, sono loro che non si meritano la Fallaci». La verità, però, è che la commissione comunale ha fatto un grande favore alla scrittrice, più che se le avesse intitolato la piazza del Duomo. Metterla ancora una volta (senza motivo) dalla parte del torto, le ha dato per l'ennesima volta ragione. Perché - ci si chiede - in Italia si intitolano vie, piazze e viali a personalità della Storia molto più che «divisive», come Lenin, Ho Chi Minh, Che Guevara... ma non a una giornalista? La toponomastica ideologica, quando svolta a sinistra, conosce pochi divieti, e spesso si infila in pericolosi vicoli ciechi storiografici: Stalin, Mao Tze Tung, Trotsky, la Rivoluzione d' Ottobre, viale Unione Sovietica, via Brigate Partigiane, piazza Tito... Bene. Ma se un comune italiano ha corso Lenin, perché non può esserci almeno un vicolo Oriana Fallaci? Sembra incredibile ma a Firenze da nove anni, cioè dalla morte della giornalista, c' è un'associazione, dal nome-manifesto «Una via per Oriana», presieduta da Armando Manocchia, che si batte per intitolare alla Fallaci un pezzettino della sua città: una viuzza, una piazzetta non diciamo un ponte sull' Arno... Niente. Si dirà: beh, certo. La legge prevede che passino almeno dieci anni dalla morte prima che un italiano si meriti un simile onore (ma se è questo il problema manca poco al decennale della giornalista de La rabbia e l'orgoglio: mancò il 15 settembre 2006). Eppure, la notizia è di ieri, a Bologna la piazza coperta della biblioteca Salaborsa, uno dei più eleganti «salotti» cittadini, dentro Palazzo d' Accursio, è stata dedicata a Umberto Eco. Morto un mese fa. Erano presenti il sindaco di Bologna, il rettore dell'«Alma Mater», la vedova dello scrittore e autorità varie. Nessuno in questo caso ha glossato la decisione comunale. L' impressione è che, al di là dei tempi amministrativi (abbattuti senza polemiche), a contare non sia il peso intellettuale del nome in ballo, ma la collocazione politico-ideologica. Intanto, lontano dalla sua Firenze, Milano qualcosa prova a fare. Su proposta della Lega Nord, nella persona di Massimiliano Romeo, il Consiglio regionale della Lombardia proprio oggi pomeriggio, intitola a Oriana Fallaci una sala del Pirellone. Che non è una grande piazza, né un vialone. Ma resta il segno di una città capace di ricordare che le idee migliori di domani, come la Storia insegna, sono quelle che oggi dividono.

Contro quelli che “non si può intestare una via a Oriana”, scrive Gianluca Veneziani “L’Intraprendente” il 25 maggio 2016. L’opposizione a Oriana Fallaci è insopportabile non quando fondata su ragioni di merito e su visioni diverse della nostra civiltà (allora si chiama dibattito culturale), ma quando animata da motivazioni pregiudiziali, da prese di posizioni ideologiche o da meri condizionamenti politici basati sul chiacchiericcio e il sentito dire. A questo secondo filone di oppositori sembra appartenere la giunta di centrosinistra di Cremona che – con la sua Commissione toponomastica – ha respinto la proposta di intestare una via della città all’autrice de La rabbia e l’orgoglio. La motivazione ufficiale è risibile: la Fallaci è “una figura che divide”. Ma la “divisività” non può certo essere un ostacolo nell’intitolazione di una via: se è per questo, non si sarebbero mai dovute intestare delle strade al nome di un Enrico Berlinguer, di Che Guevara o perfino di Luigi Cadorna sui quali il giudizio della gente comune, prima ancora che degli storici, è sicuramente “diviso”. Ma nel caso di Oriana Fallaci, l’essere stata “divisiva”, oltre a non essere un intralcio, rischia addirittura di essere un merito. Lei infatti, prima di molti altri, ha saputo intuire il conflitto di civiltà in corso e ha saputo dunque porre un confine, una linea di demarcazione, di “divisione” appunto, tra noi e loro, tra l’Occidente e l’islam, tra il mondo libero e secolarizzato e i regimi e le religioni ispirati dal fanatismo. Lei è stata in grado di tracciare il solco, stando lì, coraggiosamente, sulla frontiera, a fare da baluardo e insieme da profetessa, a essere sentinella di un’Europa in pericolo e messaggera del suo futuro (ma avrebbe fatto anche la soldatessa, ne siamo sicuri, se solo le avessero dato delle armi in mano). La storia dell’essere stata “divisiva” però deve aver fatto breccia, tant’è che anche nella votazione sull’intitolazione di una sala del Consiglio regionale della Lombardia a Oriana Fallaci (proposta qui fortunatamente approvata) il Movimento 5 Stelle si è astenuto sostenendo, con il consigliere Eugenio Casalino, che “la sua figura è troppo divisiva sul piano politico”. A Cremona, a essere onesti, hanno saputo far di meglio. Come riferisce al Corriere Giuseppe Vigliatta, il promotore della petizione pro-Oriana, gli oppositori avrebbero motivato il no anche con un’altra ragione: la Fallaci “non è del posto”. Scusa meravigliosa perché, se è per questo motivo, dovremmo cancellare immediatamente via Garibaldi da tutte le città italiane (lui era natio di Nizza) e lasciare piazza Vittorio Emanuele II soltanto a Torino, dove il re era nato. Scusa risibile tanto quanto quella che non sarebbero ancora passati i dieci anni dalla morte necessari per l’intitolazione; la norma prevede infatti che, in caso di persone decedute con particolari benemerenze (ed è sicuramente il caso della Fallaci), il ministero dell’Interno è autorizzato a concedere una deroga. L’unico elemento non “divisivo” della faccenda sembra essere l’accordo tra giunte di centrodestra e giunte di centrosinistra nel bocciare la proposta: l’idea di intestare una via alla Fallaci a Cremona era già stata rifiutata infatti dall’amministrazione guidata da Oreste Perri (Pdl) prima di essere respinta dall’attuale giunta del piddino Gianluca Galimberti. Come dire, la grandezza è divisiva, la cretineria sa essere bipartisan. P.S. Intanto suggeriamo ai cittadini cremonesi di proporre l’intestazione di una nuova strada: “via Gianluca Galimberti da Cremona”. Potrebbe essere una buona provocazione per esprimere l’indignazione pro-fallaciana.

Siamo una nazione che rinnega la memoria, se non quella comunista, e nulla fa per onorare i suoi figli più degni.

Gli italiani e le bugie. La vergogna del silenzio, scrive il 24/05/2016 Angelo Crespi su “Il Giornale”. La colonna di località Magnaboschi, sull’altipiano di Asiago, segna il punto di massima penetrazione nemica durante la Grande Guerra. Come si tramanda la memoria? E come uno Stato dovrebbe farlo? Come per il centenario della prima Guerra mondiale, nel 2015, le commemorazioni di un caposaldo della nostra identità restano vaghe e così ogni anno, nel tempo. Eppure 650mila soldati morti, spesso caduti dopo atti di eroismo (dimenticati), dovrebbero essere sufficienti come atto fondativo di una Nazione. Per motivi storici che si conoscono, gli italiani temono invece il ricordare, preferiscono le bugie, sommamente le bugie storiche. Sull’Altopiano di Asiago, in località Magnaboschi, tra Lemerle e Zovetto, si erge ancora la colonna romana (eretta negli anni Trenta e non dobbiamo vergognarcene) che segna il punto di maggior penetrazione nemica. Intorno, un breve tratto di montagna, pochi metri, che fu conteso aspramente per due anni ed è considerato le Termopili della fanteria italiana, dove nel 1916 si sacrificarono e centinaia per bloccare la definitiva avanzata degli austriaci alla pianura. Nel 1918 la zona fu presidiata da unità inglesi che sostennero l’ultima offensiva nemica. Il cimitero inglese, gestito direttamente dal Commonwealth, è il miglior esempio di lapidaria essenza di una Nazione: 180 caduti, ognuno ricordato con una pietra di marmo scolpita con lo stemma del battaglione e le generalità del soldato. Di fronte, nel cimitero italiano in cui sono sepolti confusamente anche gli austroungarici, i cippi in legno e le targhette in plastica sono la plastica dimostrazione di un Paese ancora da fare. 

A PROPOSITO DI MAFIA E DI TERRORISMO ISLAMICO.

Quelli che...sono comunisti giustificazionisti. Fiorella Mannoia: "Gli attentati a Bruxelles? Siamo noi a farci odiare". L'attentato a Bruxelles? Per la cantante è "il risultato dell’andare in giro per il mondo a destituire presidenti, a metterci nelle condizioni di farci odiare", scrive Sergio Rame, Giovedì 24/03/2016, su "Il Giornale". "Devo constatare che siamo in guerra, loro ammazzano noi e noi ammazziamo loro, questo è davanti agli occhi di tutti". Durante il programma di Rai Radio2 Un Giorno da Pecora, Fiorella Mannoia accusa l'Occidente di essere la causa del barbaro attacco all'aeroporto e alla metropolitana di Bruxelles. "Questa è una nuova guerra - spiega - noi li ammazziamo in modi diversi e loro hanno il loro modo di ucciderci. I nostri morti per i loro". La Mannoia accusa apertamente l'Occidente di essersela andata a cercare. A suo dire l'attacco a Bruxelles è "il risultato dell’andare in giro per il mondo a destituire presidenti, a metterci nelle condizioni di farci odiare". "Abbiamo bombardato un paese sovrano e abbiamo destituito Gheddafi, lasciando la Libia nel caos più totale. Ora ne stiamo pagando le conseguenze - continua la cantante ai microfoni di Radio2 - chi le paga sono i cittadini comuni". E si affretta a puntualizzare: "Non c’è giustificazione quando si ammazzano degli innocenti, ma siamo in guerra, questa è una guerra". Quindi conclude: "In Siria ci sono migliaia di cittadini morti uccisi da bombardamenti, perché loro non sono essere umani innocenti come noi? Bisogna avere la stessa pietà per i nostri morti come per i loro. La comunicazione non li mette sullo stesso piano: quando accadono cose in occidente ci spaventiamo, ma anche quelle sono famiglie".

Dalle Torri a "Charlie". Moriremo di distinguo. C'è chi pensa di poter gestire l'odio giustificando i nostri nemici. Ebrei, soldati, americani, vignettisti: alla fine le vittime se la sono cercata, scrive Marco Zucchetti, Domenica 15/11/2015, su "Il Giornale".  All'obitorio di Parigi, sul cartellino appeso agli alluci di quei 129 disgraziati, ci scriveranno: «Causa del decesso: distinguo». Perché questa ecatombe è figlia del Califfo, ma anche figliastra della cultura giustificazionista che mezzo Occidente ha forgiato per disertare prima ancora che la guerra scoppiasse, perché l'idea che qualcuno si fosse messo in mente di diventare il nostro peggior nemico era insopportabile. L'hanno fatto quasi senza accorgersene, in pensieri e parole prima che in opere e omissioni, provando ogni volta a voltarsi dall'altra parte. Hanno scusato le stragi, compreso le ragioni dei jihadisti, cercato le nostre colpe vere o presunte e gentilmente omesso di definire «islamici» i terroristi. Come se chiudendo gli occhi poi tutto si potesse rivelare solo un brutto sogno. Ecco, buon risveglio a tutti. Ancora oggi l'11 settembre è messo in conto alla spregevole coscienza imperialista di George W. Bush e alla sua ossessione western per le armi. Voleva dominare il mondo e gli hanno demolito le Torri, azione e reazione, limpido. Come una querela dopo un'offesa, ognuno reagisce alla sua maniera, ci mancherebbe. Poi gli attentati nella metro di Londra e alla stazione di Atocha di Madrid, l'Europa che sente in bocca per la prima volta il gusto guasto del sangue: sono Blair e Aznar che pagano per le sue bugie sulle armi di distruzione di massa con cui ha avallato l'invasione dell'Irak. Sì, ma la metro che c'entra? Niente, ma c'entravano forse qualcosa le vittime collaterali a Baghdad? Erano innocenti, non come Lee Rigby. Lui era un soldato, quindi decapitarlo per strada nel 2013 ha fatto parte dell'ordine naturale delle cose. Cambiati i governi, scemata l'onda lunga della lotta contro «l'asse del male», il giustificazionismo ci rimane incrostato addosso. Così, quando Mohammed Merah nel 2012 fa una strage nella scuola ebraica di Tolosa, sono in tanti ad alzare un sopracciglio. Gli stessi che oggi hanno ottenuto le etichette sui prodotti delle colonie per boicottare Israele, sono convinti che chi semini vento in Palestina, poi debba raccogliere tempesta ovunque. In una scuola ebraica, in un supermercato kosher per mano dei fratelli Kouachi, davanti a un ristorante di Milano. L'idea che chi diventa bersaglio in fondo se la sia cercata ha attecchito ovunque. Non siamo stati tutti Charlie Hebdo, se pochi mesi dopo un comitato di scrittori ha protestato formalmente contro il premio alla libertà di stampa e se i media si sono guardati bene dal pubblicare anche una sola vignetta. Non siamo stati Charlie perché finché le pallottole piovevano su chi offendeva Maometto potevamo pensare che toccava a loro perché qualcosa si meritavano. Ebrei, soldati, americani, disegnatori sacrileghi, registi scomodi: la guerra è contro di loro, che sono altro. Noi, brava gente perbene, non definiamo i tagliagole in base alla loro fede e non facciamo di tutta l'erba un fascio. E pensiamo così di poter gestire l'odio instaurando l'era del distinguo. Ecco, provate a distinguere anche ora. Chi andava allo stadio se lo meritava perché apprezza uno sport violento, corrotto e razzista. Chi è stato giustiziato ad un concerto non si può lamentare, perché sul palco cantavano gli «Eagles of the Death Metal» e in nomen omen. Ma dove la trovate l'orrenda colpa in chi sorbiva zuppa al ristorante «Petit Cambodge»? A parte i campioni di ottusità che ancora oggi blaterano di inevitabile punizione per aver votato il governo guerrafondaio di Hollande, davvero non abbiamo capito che quei clienti sono morti solo perché qualcuno ha pensato che ammazzarli mentre mangiavano riso allo zenzero potesse far piacere a Maometto? Perché possiamo mettere tutti i puntini sulle «i» che vogliamo, ma una vittima è una vittima, un kalashnikov è un kalashnikov e «Allah akhbar» significa «Allah è grande». E a forza di distinguere, ora l'unica cosa che si può distinguere sono i morti: è facile, sono quelli sdraiati e immobili, mentre quelli in piedi si affannano a cercare nuovi alibi assurdi.

E adesso i giornali italiani censurano la parola "islam". Repubblica e Corriere della Sera descrivono la tragedia di Bruxelles come una catastrofe dovuta al caso. Senza colpevoli, scrive Francesco Maria Del Vigo, Giovedì 24/03/2016, su "Il Giornale".  Rimozione. È questa la parola d'ordine dei giornaloni italiani il giorno dopo la mattanza di Bruxelles. Se un alieno precipitasse stamattina con il suo disco volante davanti a una delle nostre edicole non capirebbe un accidenti di quello che sta succedendo in Europa. Penserebbe che martedì a Bruxelles non c'è stato uno dei più feroci attacchi all'Europa dal 1945 a oggi, ma al massimo un grande incidente ferroviario. Un terremoto. Un maxi tamponamento fra Tir. Una catastrofe dovuta al caso o a qualche imprevedibile fenomeno naturale. Perché le cronache della tragedia che ha lasciato a terra più di trenta corpi innocenti è lunare. E caratterizzata da un (pessimo) comune denominatore: la rimozione della parola islam. Nelle prime quattordici pagine che la Repubblica dedica alla strage, non compare nemmeno una volta, né in un titolo, né in un sommario. Come se non ci fossero un mandante ideologico e un lucido disegno dietro le bombe di martedì. Come se non ci fosse una comune appartenenza religiosa e un conseguente progetto politico che accomuna tutti gli attentati che da quindici anni macellano la carne dell'Occidente. Come se dire islam fosse una bestemmia. Un affronto. Al massimo si può scrivere Is. Stato islamico. Acronimo sufficientemente oscuro e islamicamente corretto da poter essere messo anche nei titoli. Apice del coraggio nostrano. Rappresentazione chiarissima della nostra sottomissione. Ora culturale e poi fisica. Ma il quotidiano diretto da Mario Calabresi non è una mosca bianca. Semmai una mosca cocchiera. Difatti si legge la stessa storia sul Corriere della Sera: diciassette paginone interamente dedicate alla macelleria jihadista, ma senza mai citare manco per sbaglio l'islam, il profeta e neppure un imam. In una trentina di titoli vengono usati tutti i sinonimi possibili e immaginabili - al limite del ridicolo - per circumnavigare i musulmani senza mai nominarli. Stessa solfa sulla Stampa di Torino e su buona parte delle testate genuflesse al politicamente corretto. Le sigle vanno bene, meglio se sono incomprensibili e sembrano il nome di un detersivo come Daesh. Al massimo ci si può permettere un Califfato. Ma guai a tirare in ballo l'islam. Ed è subito sottomissione. Perché rinunciare a chiamare le cose con il loro nome vuol dire avere già appeso la propria identità all'attaccapanni delle sconfitte. Le bestie che si sono fatte esplodere nella metropolitana e hanno premuto il pulsante dei detonatori all'aeroporto lo hanno fatto in nome della jihad, della guerra santa, di Allah. Vogliono eliminare gli infedeli. Che saremmo noi. Lo possiamo dire? Lo possiamo scrivere? Violiamo qualche boldriniano comandamento buonista? Chissenefrega. Dobbiamo farlo. Per rispetto alla verità, innanzitutto, ma anche per noi stessi. Perché rinunciare a digitare quelle cinque lettere significa non avere il coraggio di dire che tutta la questione parte di lì, principia da un gruppo di fanatici che travisano e interpretano la religione come una missione di guerra. Altrimenti, se non ci ammazzerà il terrorismo moriremo di distinguo e di islamicamente corretto.

Cacciamo l'islam da casa nostra. L'islam e il suo Allah sono incompatibili con la nostra civiltà, hanno le mani sporche di sangue dei nostri figli e non sono sazi. Il problema è questo, le altre sono chiacchiere, scrive Alessandro Sallusti, Mercoledì 23/03/2016 su "Il Giornale".  Altri attentati, altri morti. Ora non colpiscono neppure più a sorpresa, a freddo, ma rispondono colpo su colpo, come si fa in guerra. Perché quella dichiarata dall'islam all'Occidente è una guerra. Basta con le balle dei «cani sciolti», dell'islam moderato, del dialogo possibile. A poche ore dall'arresto a Bruxelles della belva Salah, membro del commando terrorista che entrò in azione a Parigi quattro mesi fa, volontari islamici si sono fatti esplodere ieri nell'aeroporto e nel metrò della capitale belga, già blindata e in stato di allerta. Hanno riempito le bombe di chiodi per fare più male. Non si fermano, non si fermeranno. Non sono dei disperati, sono la borghesia dell'islam che qualcuno ha definito «integrato», quello di cui dovremmo fidarci. L'islam e il suo Allah sono incompatibili con la nostra civiltà, hanno le mani sporche di sangue dei nostri figli e non sono sazi. Il problema è questo, le altre sono chiacchiere. Fanno leva sul mal interpretato principio della tolleranza occidentale per minare l'Europa là dove fallirono, nel 1571, i loro antenati nella battaglia di Lepanto, ultimo ostacolo alle flotte musulmane verso l'annientamento del cristianesimo. I morti di ieri, come quelli degli anni e mesi precedenti, sono vittime oltre che dell'Isis anche della tolleranza. In nome dell'accoglienza, dell'egualitarismo e del buonismo nessuno li ha difesi, oggi come nei decenni passati, quando il Belgio, primo Paese europeo, spalancò le porte all'immigrazione senza regole e limiti. È la fine che faremo anche noi se non diciamo, ammesso di essere in tempo, subito basta. Basta con le Boldrini, basta con le ricette della sinistra, basta con preti e vescovi che tradiscono il Vangelo, sindaci, presidi e insegnanti che negano il problema e calpestano la Costituzione che è stata fatta per difendere noi, con magistrati che legalizzano l'illegalità. Basta con l'accoglienza «valore assoluto», basta con politici purtroppo non solo di sinistra - che tentennano. Stiamo salvando, nutrendo e allevando i nostri nemici. Lo saranno anche se «moderati», anche se non maneggiano bombe, perché fanno e faranno da brodo di coltura, da rete di protezione e complicità a chi le bombe le metterà. Devono stare a casa loro, devono tornare a casa loro. Non è razzismo, è legittima difesa.

Molenbeek prova che non esiste l'islam moderato. Quante Molenbeek abbiamo permesso crescessero nei nostri Paesi in nome dell'accoglienza e del multiculturalismo? Scrive Alessandro Sallusti, Sabato 19/03/2016, su "Il Giornale".  Alla fine l'hanno preso, Salah Abdeslam, il terrorista islamico detto «la bestia», capo del commando che la sera del 13 novembre scorso, al grido di «Allah Akbar», assaltò a Parigi il Bataclan. In quella discoteca rimasero a terra i corpi di 93 persone, per lo più giovani che avevano l'unica colpa di essere occidentali. Salah riuscì a fuggire dal luogo dell'attentato e dopo qualche avvistamento sparì nel nulla, diventando il ricercato numero uno del terrorismo islamico in Europa. Si pensò anche che avesse trovato rifugio nel califfato dell'Isis a lui tanto caro. Nulla di tutto questo. Si nascondeva a casa sua, a Molenbeek, quartiere islamico di Bruxelles, a meno di un chilometro dal palazzo sede e simbolo dell'Europa. Per quattro mesi Salah si è preso gioco delle polizie e dei servizi segreti, al massimo ha cambiato qualche appartamento, l'ultimo in una palazzina di proprietà del Comune. Ha potuto farlo perché evidentemente ha goduto di aiuti e protezioni che sono andati ben oltre la sua cellula, per altro decimata nella notte di Parigi. Per quattro mesi un quartiere islamico, Molenbeek, ha fatto da rifugio, scudo attivo e passivo per un feroce criminale di Allah che ha sulla coscienza 93 ragazzi. Cosa sono a Molenbeek, tutti terroristi o anche solo estremisti? No, sono quelli che in molti definirebbero «islamici moderati», «integrati», «fratelli in altra fede». Sono l'equivalente di quei «cittadini onesti» che in Sicilia hanno protetto nell'omertà la latitanza di Totò Riina e Bernardo Provenzano, i capimafia ricercati per anni in tutto il mondo che se ne stavano tranquillamente a casa loro. Quello che è successo a Molenbeek è la prova che non esiste l'islam moderato, civile, rispettoso. L'islam è una religione, ma anche una setta: non esiste il giusto o sbagliato, il bene o il male. Vale solo «o con me o contro di me». E chi è contro è un infedele, che se non va colpito direttamente certamente non va aiutato a estirpare ciò che per noi è il male. Neppure di fronte a mani sporche di sangue innocente. Salah era, e resta, innanzitutto uno di loro. Infatti oggi nessuno festeggia a Molenbeek per l'arresto di una bestia. Semmai c'è rabbia e tristezza. Già, ma quante Molenbeek abbiamo permesso crescessero nei nostri Paesi in nome dell'accoglienza e del multiculturalismo?

A proposito di Mafia e Terrorismo islamico.

L’opinione del dr Antonio Giangrande, scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

A proposito delle vittime della Mafia e del Terrorismo islamico ed i soliti pregiudizi idioti. Per una volta, noi meridionali d’Italia vittime del razzismo becero ed ignorante, mettiamoci nei panni di quei mussulmani che terroristi non sono.

Il 19 marzo 2016 i media parlano della cattura di Salah Abdeslam, il terrorista islamico detto «la bestia», capo del commando che la sera del 13 novembre 2015, al grido di «Allah Akbar», assaltò a Parigi il Bataclan. In quella discoteca rimasero a terra i corpi di 93 persone. Per quattro mesi un quartiere islamico, Molenbeek, gli ha fatto da rifugio. Molenbeek, quartiere islamico di Bruxelles, a meno di un chilometro dal Parlamento Europeo. Cosa sono a Molenbeek, tutti terroristi, o anche solo estremisti, o solo gente ignara della presenza del terrorista? La risposta perentoria la dà Alessandro Sallusti su “Il Giornale” del 19 marzo 2016. “No, sono quelli che in molti definirebbero «islamici moderati», «integrati», «fratelli in altra fede» - dice Sallusti -. Sono l'equivalente di quei «cittadini onesti» che in Sicilia hanno protetto nell'omertà la latitanza di Totò Riina e Bernardo Provenzano, i capimafia ricercati per anni in tutto il mondo che se ne stavano tranquillamente a casa loro”.

Certo ci ricordiamo le immagini di quando, in talune città del Sud Italia, alla cattura di qualche malvivente, in sua difesa, i suoi pochi amici e parenti si frapponevano alle forze dell’ordine. Non vuol dire, però, che il resto della cittadinanza fosse criminale e ne agevolasse la latitanza.

Certo è che l'islam è una religione, ma anche una setta: non esiste il giusto o sbagliato, il bene o il male. Vale solo «o con me o contro di me». E chi è contro è un infedele.

Ma questo vale, a ragion del vero, anche per il comunismo. Il comunismo è anch’esso una religione-setta, ma ce ne passa a considerare tutti i comunisti come terroristi durante gli anni di piombo con i morti ammazzati dalle Brigate Rosse.

L’assioma vale, addirittura, per l’idiotismo. Sì perché dell’idiotismo si fanno partiti politici che vanno per la maggiore. Incompetenti tuttologi mediatici. Se non si è padano si è meridionale o mussulmano terrorista. Fa niente se tra i padani ci sono gli stessi trapiantati arabi, africani e meridionali, la cui propria origine denigrano richiamando mafiosità e islamicità terroristica. Qualcuno dice che le altre religioni (ebrei, buddisti, ecc.) e le altre comunità (cinesi, filippini, ecc.) non si sentono per niente: dove li lasci, lì li trovi. Forse, perché, come gli scandali al nord, non si ha interesse a parlarne e la devianza, quando non è islamica o meridionale, non fa notizia?

Tra Mafia e Terrorismo Islamico, certamente nessuno deve dimenticare il terrorismo di Stato: le morti per l'ingiustizia, come per la sanità, o per la povertà e l'emarginazione.

Noi meridionali d’Italia che non siamo mafiosi e non siamo complici dei mafiosi (tipo Riina o Provenzano) né siamo collusi con gli antimafiosi che le aziende le mettono ko in nome dell'antimafia politica e dell’espropriazione proletaria; noi che non siamo tali ma additati come se lo fossimo, cosa penseremmo se qualche idiota dicesse che, per difendere la propria sicurezza, si dovrebbe andare a bombardare da Roma in giù tutto il Sud Italia come si farebbe in Siria o in Libia, perchè a Napoli come a Palermo son tutti mafiosi per antropologia? O cosa penseremmo se si dicesse che si dovrebbero cacciare tutti i meridionali dal meridione d’Italia, perchè sono biologicamente e culturalmente mafiosi, come si vorrebbe fare in Europa con tutti i mussulmani, considerati, da questi idioti, tutti terroristi?

La risposta sarebbe: queste idiozie lasciamoli uscire dalle bocche dei soliti noti. Ma altrettanto idiota sarebbe appoggiare la cazzata opposta del falso buonismo: accogliamo pecore e porci, anche quando non siamo in grado di ospitarli e di sostentarli ed in nome della multiculturalità rinunciamo in casa nostra alla nostra cultura, ai nostri usi ed alle nostre tradizioni.

Basterebbe, per buon senso, per difenderci da mafia e terrorismo islamico, solo esercitare i dovuti controlli all’entrata e far rispettare le leggi durante il soggiorno, inibendo, così, le speculazioni politiche della destra e le speculazioni economiche della sinistra. Speculazioni create ad arte per gli italioti.

“Il livello di radicamento del terrorismo jihadista a Molenbeeck è come quello della ‘ndrangheta a Platì in Calabria”. cit. On. Marco Minniti Sottosegretario di Stato del Governo Renzi. Platì e la Calabria Tutta non meritano un accostamento del genere non solo è fuori luogo, ma offende una Cittadina come Platì e la Calabria intera, che meritano ben altra attenzione per la loro condizione geografica e la povertà del loro territorio.

Nella Molenbeek della 'ndrangheta. Il senatore di Forza Italia a Platì, comune calabrese sciolto due volte per mafia. Dove i cittadini si sono sentiti offesi dalla parole del sottosegretario di Stato Marco Minniti. Colpevole di aver paragonato il radicamento jihadista nella cittadina belga a quello della 'ndrangheta nel municipio aspromontano, scrive Giovanni Tizian il 30 marzo 2016 su "L'Espresso". «Il livello di radicamento del terrorismo jihadista a Molenbeek è come quello della ‘ndrangheta a Platì in Calabria». L'analisi è del sottosegretario di Stato con delega ai servizi Marco Minniti. Tanto è bastato a scatenare la polemica tra i cittadini e i vecchi politici del paese. Per questo hanno convocato d'urgenza una manifestazione, a tre mesi dalle comunali, nella sala parrocchiale con un un ospite d'eccezione: Domenico Scilipoti. Il senatore siciliano, eletto in Calabria, ha provato, a modo suo, a difendere gli interessi del territorio. Così alla manifestazione ha fatto sentire la sua voce, definendo «infelice» l'uscita di Minniti, aggiungendo poi: «Sono sicuro che non voleva offendere nessuno e che spiegherà le sue parole. Se però l’assemblea lo ritiene opportuno, avvierò un’azione di sindacato ispettivo sulla questione». I presenti, infatti, chiedevano a gran voce persino un'interrogazione sulla vicenda. Il senatore Scilipoti nel suo discorso ha citato varie volte Gesù, ma mai una volta la parola 'ndrangheta. Perché?, a Platì esiste la 'ndrangheta?, verrebbe da chiedersi. La frase del sottosegretario potrebbe sembrare a effetto, denigratoria, ma, purtroppo, non lo è. Ragionando sui fatti e non sulle opinioni-emozioni i dati investigativi e giudiziari danno ragione a Minniti. Platì, comune dell'Aspromonte, è una delle centrali della 'ndrangheta. Vengono da qui i clan più abili nel gestire il narcotraffico a livello internazionale e quelli che hanno messo radici fino in Australia, dove ancora oggi spadroneggiano. Qui sono stati uccisi due sindaci dalle cosche. Questo è il municipio sciolto due volte per mafia e dove alle scorse comunali non si è andato a votare per mancanza di candidati. E sempre qui i latitanti fino a qualche anno fa si nascondevano nel reticolo di bunker costruiti ad hoc per le famiglie del crimine. Infine, sono di Platì i boss che hanno messo le mani sull'hinterland milanese. Che il controllo del territorio, dunque, sia totale da parte della mafia calabrese è evidente. Così come lo è nel paese belga da parte dei terroristi, dove si sentono protetti dalla rete jihadista. Con la differenza che a Molenbeek i fanatici del Califfato non godono delle complicità politiche della 'ndrangheta. Quando l'organizzazione mafiosa controlla il territorio vuol dire che gestisce anche il consenso. Cosa che avviene in tutti i comuni ad alta densità mafiosa. Da Sud a Nord. I vari Salah Abdelslam non hanno la copertura politica. Non hanno complici nelle istituzioni. Le 'ndrine sì. E in questo sono molto più simili all'Is così come lo conosciamo in Siria e Iraq, dove agisce, secondo il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, come un vero e proprio Stato-mafia. Accostare, quindi, la cittadina belga e il comune dell'Aspromonte potrebbe essere persino riduttivo per descrivere il potere criminale dei clan. Le 'ndrine, infatti, rispetto ai gruppi jihadisti sparsi in Europa hanno una capacità maggiore di condizionare le nostre vite. Solo che non ce ne accorgiamo. Perché non mettono bombe e non uccidono in maniera eclatante. Distruggono l'economia e la democrazia in silenzio, senza creare allarme sociale. Ma i primi disastri sono già evidenti, e non da ora: una regione a pezzi; giovani che emigrano; politica terrorizzata, e perciò immobile, quando non complice. Per questo invece di indignarsi per le parole di Minniti, forse è arrivato il momento di ribellarsi alla 'ndrangheta. Che è ancora viva, fa affari e corrode la libertà. A Platì a giugno si voterà. Dopo che le scorse comunali sono saltate per mancanza di candidati. Il municipio sciolto due volte per mafia, aspetta una ventata di democrazia. Annarita Leonardi, che nulla c'entra con Platì, ha deciso di candidarsi. Lei è una trentenne di Reggio Calabria, renziana e pronta al sacrificio per un comune che fino a pochi mesi fa conosceva appena. Ha buone possibilità, ma dovrà vedersela probabilmente con una vecchio volpone della politica locale di Platì: Francesco Mittica, ex sindaco di Platì, la cui amministrazione è stata sciolta per infiltrazioni mafiose. Ancora lui, insomma, per rinnovare la molenbeek della 'ndrangheta. Dove tutto scorre come prima, nonostante la visita di Scilipoti. Perché i clan a Platì amministrano senza bisogno di elezioni. Comandano, semplicemente.

PLATI' MINNITI E IL GIRONE INFERNALE DELLA LOCRIDE, scrive Aldo Varano Martedì 29 Marzo 2016 su "Zoom Sud". Il senatore Minniti, che di solito sta accuratamente lontano dai giornali e da qualsiasi tipo di esposizione mediatica, perché impegnato in un’attività nazionale straordinariamente importante per il nostro paese e la sua sicurezza, ha detto che “il livello di radicamento del terrorismo jihadista a Molenbeeck è come quello della ‘ndrangheta a Platì in Calabria”. Non se ne abbia a male Minniti e se ne faccia una ragione: è difficile accettare e convincersi che a Molembeeck, quasi 82mila abitanti, il terrorismo sia tanto radicato quanto la ‘ndrangheta a Platì. Naturalmente non mi riferisco alla realtà di Platì. Mi riferisco alla sua immagine. Un’immagine che gli è stata cucita addosso con responsabilità diffuse e non estranee alla Calabria, alla sua politica, ai suoi intellettuali. Un’immagine radicata e terribile creata da un meccanismo infernale. In quel meccanismo ci sono le inadempienze antiche dello Stato che, da una parte, non è mai intervenuto a favore dei deboli e dei faticatori di Platì per aiutarli a uscire dal tunnel dell’arretratezza e del sottosviluppo; e dall’altra si è ben guardato dall’intervenire con tutta la forza dello Stato per stroncare una malapianta mafiosa che a Platì è stata sempre potente e aggressiva condizionando pesantemente la vita dei suoi abitanti. Su questi fatti reali si è costruita un’opinione che, come tutti sanno, diventa a sua volta un altro fatto molto più potente di quello che lo ha originato. E’ l’opinione che crea le idee che muovono persone, pregiudizi, sentimenti e popoli. Quell’immagine, a cui ha fatto riferimento Minniti per il suo paragone, che è legittimo ritenere infelice, del resto, è nota a tutti in Calabria e nella Locride da dove è stata esportata in Italia e non solo. Dannoso far finta che non sia così e nascondere la testa sotto la sabbia. Il peggio che possa accadere ora è che un episodio minore possa venire strumentalizzato per costruire a Platì altri danni. Mi riferisco alle iniziative che anziché fare i conti reali con quell’immagine attraverso l’inventario e il rovesciamento degli errori che abbiamo alle spalle, puntano e sperano in un fermo-immagine della situazione dentro la quale, magari, agguantare qualche pezzetto di potere, non trasparente in più. E non si tratta, è bene precisarlo, di forze della politica, dei ceti sociali o della geografia nettamente spaccate a metà. C’è un problema gigantesco in Calabria che si riferisce prima di tutto alla Locride come girone tra i più pericolosi dell’orrido inferno calabrese. Platì viene dopo. Il problema di cui parlo è quello di un racconto veritiero della nostra terra, non viziato né dalla voglia di nascondere o attenuare le nostre responsabilità, né costruito attraverso immagini enfatiche dei fenomeni che la devastano. Un racconto veritiero non come attenuante generica, ma perché solo un racconto veritiero può dar vita a una strategia che, con un impegno corale dei cittadini, possa assestare alla ‘ndrangheta colpi di maglio decisivi e mortali. Colpisce che personalità autorevoli della Locride abbiano scelto di polemizzare in modo francamente enfatico con il senatore Minniti senza accorgersi che nello stesso giorno in cui l’hanno fatto, senza che nessuno di loro se ne preoccupasse, uno dei più grandi giornali italiani, che influisce e orienta pezzi decisivi dello Stato e del potere, ha proposto con grande evidenza in prima pagina la ricostruzione di una Calabria, più precisamente della Locride, come il delinquente dell’Italia. Una regione composta da 2milioni di abitanti compattamente dedita al delitto o comunque con esso collegata. Peso le parole. Ma se la Calabria è il motore devastante che “alimenta le voglie e le ossessioni quotidiane di tre milioni di italiani – com’è stato scritto la domenica della Resurrezione - e ne scatena l’aggressività nelle strade e nelle case, esondando dai suoi argini da Milano a Roma, da Bologna a Siena, da Napoli a Palermo per ritrovare la sua fonte rigeneratrice nella Locride e consegnare alle cosche calabresi un tesoro da 30 miliardi l’anno”, se è questo motore, la Calabria non ha più speranza. Io credo che questa analisi sia sbagliata e credo ostacoli la lotta alla ‘ndrangheta. Perché è chiaro che se le cose stanno a quel modo i cittadini non saranno mai più dalla parte della giustizia. Ma se è così lo Stato, le autorità, i governi, le Procure della Repubblica devono avere il coraggio di riconoscerlo solennemente e trarne le conseguenze. Se è così non si può essere complici. Bisogna chiedere allo Stato di lavorare a un radicale spopolamento della Calabria per rigenerarla facendola rifiorire con altre e diverse popolazioni. Non ci si può rassegnare ad accettare la ‘ndrangheta magari perché senza il suo giro economico illegale l’intera economia legale (della Calabria e non solo) andrebbe all’aria. Né si può accettare di vivere solo grazie alla diffusione di morte e dolori nel resto del paese. Sia chiaro. I calabresi e i cittadini della Locride (o quelli che ne sono originari) non abbiamo interesse a nascondere nulla. Solo chi odia la nostra terra può sottovalutare o anche solo attenuare la gravità del fenomeno mafioso. La Calabria deve continuare a chiedere la sconfitta della mafia, la sua scomparsa definitiva dall’orizzonte storico della Calabria, la sua riduzione a fenomeno irrilevante. E deve continuare a denunciare la lentezza di questa lotta di liberazione che certo diventa impossibile se la situazione dovesse veramente essere quella descritta nei giorni scorsi dalla grande stampa. Una lotta lenta anche perché quell’analisi frena necessariamente la reazione bloccando la voglia di riscatto. Solo nei romanzi si può lottare contro i mulini a vento.

E poi...Minniti chi?

TG La 7: Bufera su Marco Minniti, nel ’94 e nel ’96 i voti della ‘ndrangheta, scrive il 19 giugno 2014 Antonio Giuseppe D’Agostino su "CM News". Suscita non poche perplessità la notizia che vede coinvolto il dirigente del Partito Democratico, Marco Minniti, sottosegretario con delega ai servizi del Governo Renzi, che sta avendo eco sui vari siti internet dopo la messa in onda di un telegiornale. Ieri mattina, il TG di La delle 7.30 ha inserito il nome del sottosegretario all’interno del processo che coinvolse il deputato Amedeo Matacena. Nei verbali d’interrogatorio di un presunto ex killer della ‘ndrangheta pentito, sembrerebbe che l’attuale sottosegretario abbia avuto l’appoggio delle famiglie mafiose durante le elezioni del 1994 e del 1996. Dopo lo scalpore relativo all’EXPO e al MOSE di Venezia, il Partito democratico torna al centro degli scandali con gravi rivelazioni che, se ritenute attendibili, potrebbero colpire uno dei dirigenti più quotati dei democrat. Secondo quanto trascritto nei verbali, del presunto ex killer, verrebbe affermato al pm “noi votavamo a Matacena e Peppe Greco, il figlio di Ciccio, capo ‘ndrnagheta di Calanna, appoggiava a Minniti, all’Onorevole Minniti”. “Minniti?”, chiede il pm, e il pentito replica affermando “Marco Minniti”. Durante l’interrogatorio il collaboratore di giustizia entra nel dettaglio evidenziando come l’attuale sottosegretario “ha preso 800 voti a Calanna nel ’94 e nel ’96, e anche coso… la… Don Rocco Musolino appoggiava a Minniti che lo ha fatto uscire dal carcere tre giorni prima delle elezioni, si era impegnato a farlo uscire”. Il verbale è stato utilizzato dagli inquirenti per evidenziare i rapporti intrattenuti da Matacena con la ‘ndrangheta, un classico scambio di favori fra potere politico e potere mafioso, che ora potrebbe coinvolgere anche il sottosegretari del PD. Un connubio che garantì, nel 1996, l’elezione del deputato Matacena, ma non quella di Marco Minniti che per soli 600 voti non venne eletto, all’interno della coalizione dell’Ulivo.

Bufera sul Pd, a Minniti i voti della ‘ndrangheta? “Don Rocco Musolino lo appoggiava per averlo fatto uscire dal carcere”, scrive il 18 giugno 2014 "StrettoWeb". Una nuova bufera scuote il Partito Democratico già alle prese da settimane con i guai giudiziari che hanno coinvolto alcuni suoi esponenti prima nelle note vicende riguardanti l’Expo di Milano, poi per il Mose di Venezia. Gravissime le nuove rivelazioni fornite questa mattina, nell’edizione delle 07.30, dal tg di La Sette consultabile cliccando qui. E stavolta si tratta di Reggio Calabria. Nell’inchiesta reggina su Scajola, Matacena e Chiara Rizzo, spunta a sorpresa Marco Minniti, dirigente del Partito Democratico che negli ultimi 15 anni ha spesso ricoperto ruoli di governo. Quasi sempre sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega ai servizi segreti, ruolo che ricopre anche in questo momento. Minniti calabrese di Reggio – dichiara la giornalista del TG di LA Sette – compare nel verbale di interrogatorio di un killer della ‘Ndrangheta poi collaboratore di giustizia che nel 2005 entra nel processo Matacena. Dice al pm Andrigo Antonino Zavattieri: “noi votavamo a Matacena e Peppe Greco, il figlio di Ciccio, capo ‘ndrnagheta di Calanna, appoggiava a Minniti, all’Onorevole Minniti”. Minniti? chiede il pm. “Marco Minniti” risponde il pentito, “ha preso 800 voti a Calanna nel ’94 e nel ’96, e anche coso… la… Don Rocco Musolino appoggiava a Minniti che lo ha fatto uscire dal carcere tre giorni prima delle elezioni, si era impegnato a farlo uscire”. Le accuse contro Minniti sono contenute nelle 30 pagine dell’integrazione della richiesta dell’applicazione di misure cautelari depositata dai pm reggini che domattina discuteranno davanti al riesame il ricorso per veder riconosciuta l’aggravante mafiosa bocciata dal GIP di Reggio quando inizio Maggio ordinò l’arresto di Scajola, Matacena Chiara Rizzo e altri 5 indagati. Il verbale del collaboratore di giustizia serve ai magistrati per evidenziare degli stabili rapporti intrattenuti da Matacena con la ‘Ndrangheta erano finalizzati allo sviluppo di attività imprenditoriali sia a proprio favore che a favore delle cosche, nonché ad ottenere voti. Il classico do ut des, tra politico e criminalità organizzata, alle politiche del ’96, quelle di cui parla il pentito, Minniti era candidato per l’Ulivo alla Camera dei Deputati nel collegio di Villa San Giovanni ma per 600 voti non venne eletto, risultando battuto proprio da Matacena che correva con il Popolo delle Libertà”.

Dall’eskimo al burqa (in redazione), scrive Nicola Porro il 28 marzo 2016. Così il buio della ragione contraddistingue i nostri intellettuali e la nostra cultura. C’è un libro che le nuove generazioni, specialmente, dovrebbero leggere. Per la verità è consigliabile anche a quella fascia di ex giovani nati agli inizi degli anni ’70, dunque troppo giovani per sapere cosa stesse succedendo accanto a loro. Scritto nel ’91, per le edizioni Ares, da Michele Brambilla, si intitola L’eskimo in redazione. Varrebbe la pena leggerlo per due ordini di motivi. Uno contingente: anche oggi siamo immersi in un pensiero unico sul fenomeno del terrorismo islamista. Chi pensa che accoglienza e integrazione siano due balle, viene trattato come un paria. E infine c’è una ragione più storica: occorre conoscere il livello di cialtronaggine che ha caratterizzato la nostra classe giornalistica e culturale nel ventennio del terrorismo. Che poi sono gli stessi che si sono fatti establishment spiegando alle nuove generazioni quali errori non fare, proprio loro che ne hanno commessi una caterva. D’altronde era la generazione che inventò lo slogan giornalistico più ridicolo del secolo: i fatti separati dalle opinioni. Brambilla ci racconta bene come le cronache erano per lo più ideologiche, altro che opinioni. Quello di Brambilla è il racconto di un orrore a cui solo pochi si seppero sottrarre: Montanelli, Pansa, Casalegno, Tobagi. È l’orrore per cui nei giornalisti degli anni ’70 l’ideologia veniva prima della cronaca. L’orrore per cui campagne di stampa hanno armato la mano che ha ucciso il commissario Calabresi. L’orrore orwelliano del pensiero unico per cui i manifesti della gente per bene erano firmati da Eco e da Fo, da Scalfari e da Mieli. L’orrore per cui, nonostante tutte le evidenze, giornalisti come Bocca, Sechi (pensate un po’, ancora considerato un mito del giornalismo), Galli e mille altri ci hanno raccontato per anni che le Brigate Rosse erano sedicenti, e che piuttosto era in corso una strategia della tensione sotto la regia della destra. L’orrore della signora Cederna (quanto continua a essere celebrata…), la quale nel ’72 aveva il coraggio di scrivere sull’Espresso: «Ho capito da sola in questi anni come è scomodo essere in una minoranza specialmente quando si ha ragione». E aggiungeva che Feltrinelli era stato ucciso chissà da chi e non, come si seppe qualche anno dopo (ma tutti lo sapevano anche allora), da un incidente sul lavoro, piazzando un ordigno su quel traliccio. E la sua supposta minoranza era piuttosto la maggioranza degli intellettuali dell’epoca. Brambilla fa un lavoro grandioso: mette in fila questa galleria degli orrori, fa nomi e cognomi, cita date e giornali e mette in evidenza questo impasto di conformismo e di vigliacca omologazione. Merita un posto d’onore nella nostra Biblioteca liberale, anche se non si tratta di un saggio economico, non affronta questioni filosofiche, ma meglio dei primi e dei secondi racconta il buio della ragione che ha contraddistinto i nostri intellettuali e la nostra cultura.

A proposito di omertà e censura…puoi parlar male di Avetrana, ma mai parlar male dell’Islam.

L’opinione del dr Antonio Giangrande, scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

L’Italia delle libertà mancate, dell’omertà e della censura. Tra Mafia e Terrorismo Islamico, certamente nessuno deve dimenticare il terrorismo di Stato: le morti per l'ingiustizia, come per la sanità, o per la povertà e l'emarginazione. Ma di tutto questo non se ne deve parlare. Si deve parlare sempre e comunque solo di Avetrana omertosa.

“Continuano le indagini dei carabinieri di Avetrana per individuare i responsabili della brutale aggressione che questa mattina ha ridotto in fin di vita un avetranese di 63 anni colpito alla testa con delle bottiglie di vetro. Il violento pestaggio è avvenuto davanti al bar Mojito alla presenza di numerosi testimoni che hanno dichiarato di non aver visto niente o di non ricordare particolari utili. E sugli avetranesi ritorna il fantasma dell’omertà venuto fuori durante le indagini del delitto di Sarah Scazzi, un episodio che ha fatto parlare e fa parlare ancora l’Italia intera e che ha visto il coinvolgimento di una quarantina di persone tra sospettati, indagati, imputati, condannati e sognatori. Nessuna ammissione, nessun aiuto concreto agli inquirenti e alla verità sulla morte della quindicenne uccisa dai parenti”. Così scriveva Nazareno Dinoi il 27 marzo 2016 su “La Voce di Manduria” in riferimento all’aggressione avvenuta a danno di Salvatore Detommaso la mattina presto del giorno di Pasqua, ricoverato poi in prognosi riservata. Aggressione su una via di passaggio per chi, proveniente da Manduria, è diretto a Nardò od a Torre Colimena. Lo stesso Dinoi continua con la solita litania anche il 29 marzo 2016: “Il bruttissimo episodio è ora materia degli investigatori dell’Arma che stanno incontrando difficoltà a raccogliere testimonianze dei presenti. Sino a ieri il maresciallo Fabrizio Viva che comanda la stazione di Avetrana ha sentito diverse persone che erano presenti nelle vicinanze, ma nessuno di loro ha detto di ricordare o di aver visto niente. Un atteggiamento omertoso che ha spinto gli amministratori pubblici e il parroco a lanciare appelli a parlare (di questo parliamo a parte). I militari hanno già ritirato le registrazioni delle telecamere di sorveglianza installate nei punti commerciali della zona, ma nessuna di loro era puntata sulla zona dell’aggressione. Un testimone che avrebbe visto tutto, avrebbe detto di aver visto delle persone fuggire a bordo di una piccola utilitaria di colore scuro di cui non ricorda la marca. Ancora poco per dare un nome e un significato a tanta violenza.” A quell'ora del dì di festa ovviamente non potevano esserci tanti avventori del bar, nè, tantomeno, numerosi testimoni, ma parlare di omertà ad Avetrana fa notizia.

Chi fa la professione di giornalista dovrebbe sapere che i curiosi, accorsi in massa, non possono essere definiti testimoni. Non si può parlare di omertà se la stessa vittima non ha potuto fornire notizie utili alle indagini, né tanto meno si può parlare di indagini. Le indagini vengono svolte alla notizia di reato e, a quanto pare, al momento del fatto il reato palesato (lesioni) era perseguibile per querela che non vi è stata. E comunque l’indagine fatta bene, anche successivamente attivata per querela o denuncia per fatto più grave, i responsabili li trova.

Nazareno Dinoi, come corrispondente del Corriere della Sera ha scritto sempre articoli su Avetrana dello stesso tenore quando riferiva sul caso di Sarah Scazzi, come tutti d’altronde. Rispetto agli altri, però, Dinoi è di Manduria, paese a 17 chilometri da Avetrana, non certo un canonico razzista settentrionale.

D’altro canto bisogna ricordare a questo signore, come a tutt'Italia, che gli Avetranesi parlano e non hanno paura di nessuno, nonostante le ritorsioni. Da ricordare che il sottoscritto è un avetranese doc, e non può certo essere tacciato di omertà, visto quello che scrive, tanto che alcuni magistrati questa prolificità non gliela perdonano affatto. Ma esiste un altro avetranese che paga il suo non essere omertoso: Riccardo Prisciano, tanto da essere perseguitato per le sue idee espresse contro Islam e gay.

Certo è che l'islam è una religione, ma anche una setta: non esiste il giusto o sbagliato, il bene o il male. Vale solo «o con me o contro di me». E chi è contro è un infedele. Ma questo vale, a ragion del vero, anche per il comunismo. Il comunismo è anch’esso una religione-setta. Ecco perché a sinistra se ne dolgono quando dell’Islam o dei gay se ne parla male.

È contro l'islam e i gay, il maresciallo rischia il posto di lavoro. Ha partecipato a una conferenza in qualità di scrittore e relatore sull’"incostituzionalità dell’Islam". Dopo essere stato condannato per "islamofobia, xenofobia, omofobia", ora il Maresciallo Prisciano rischia di perdere il posto per un saggio giuridico, scriveva Gabriele Bertocchi, Lunedì 07/03/2016, su “Il Giornale”. Riccardo Prisciano è un maresciallo dei carabinieri, a luglio gli viene notificato l'avvio di un procedimento disciplinare per "islamofobia, xenofobia, omofobia, violazioni dei doveri attinenti al grado ed al giuramento prestato e per aver inficiato l’apoliticità della Forza Armata". Come racconta Infodifesa, solo un mese dopo, mentre si trova in Puglia per un congedo parentale dovuto alle gravi condizioni della figlia, lo raggiunge l'avviso in cui si specifica che la data in cui avverrà il processo disciplinare. La notifica viene recapitata solo con due giorni d'anticipo, non consentendo così a Prisciano di essere presente alla sentenza che lo condanna a sette giorni di consegna di rigore. Motivo di questo procedimento nei confronti del maresciallo è la sua posizione nei confronti dell'islam. Più precisamente li viene contestata la partecipazione a una conferenza, in cui Prisciano ha preso parte in qualità di scrittore e relatore, sull’"incostituzionalità dell’Islam". Un impegno preso e svolto mentre era libero dal servizio. Come se non bastasse, ora è stato è stato avviato un nuovo procedimento disciplinare, con le stesse accuse, per diversi articoli scritti da Prisciano, pubblicati su un quotidiano online, che trattano argomenti come aborto, teoria gender, immigrazione e sovranità statale. Nel fascicolo vengono allegati anche post e stati di Facebook del carabiniere ritraenti il patriota cecoslovacco Jan Palach e frasi del filosofo Ernst Junger. Inoltre viene anche contestata la prossima pubblicazione del maresciallo di un saggio giuridico intitolato "Nazislamismo", con prefazione di Magdi Allam. Il volume non è ancora andato in stampa. Se dovesse essere nuovamente punito, Prisciano rischia di perdere il posto di lavoro.

Carabiniere-scrittore contesta l'islam. Punito con sette giorni di consegna. Vietato criticare, maresciallo accusato di islamofobia, scrive Domenico Ferrara, Sabato 26/03/2016, su “Il Giornale”. Vietato criticare l'islam. Guai a scriverne e a esporre la propria opinione in pubblico. Mentre l'Europa è sconquassata dallo jihadismo, in Italia ci si preoccupa di mettere all'indice un carabiniere colpevole di aver studiato e analizzato magari con troppa animosità il problema del terrorismo e dei flussi migratori. Per questo motivo, Riccardo Prisciano, maresciallo pugliese 25enne, è stato sottoposto a procedimento disciplinare e punito con sette giorni di rigore. Il 23 maggio 2015, il militare partecipa in qualità di scrittore a un convegno a Pisa organizzato da un movimento politico. Già, perché Prisciano, oltre a essere un carabiniere, è anche uno scrittore, laureato in scienze giuridiche della sicurezza all'Università di Tor Vergata a Roma con una tesi dal titolo «Multiculturalismo e islam, problemi e soluzioni». Esprime le proprie idee in veste di libero cittadino e non di carabiniere. Parla dell'integralismo dell'Islam, sostiene che non esistano musulmani moderati, afferma la necessità di interrompere i flussi migratori tra le coste del nord Africa e l'Italia. Apriti cielo. Il 25 giugno viene avviato il procedimento disciplinare e si richiede una visita medico-psicologica. Il 6 agosto, mentre era in Puglia in congedo parentale per problemi familiari, si svolge il processo in sua assenza. Risultato? L'Arma decide di punirlo, non solo per la partecipazione al convegno, ma anche per una serie di post su Facebook in cui esternava posizioni critiche in materia di islam e immigrazione. Sette giorni di rigore «per islamofobia, xenofobia, omofobia, violazioni dei doveri attinenti al grado ed al giuramento prestato e per aver inficiato l'apoliticità della Forza Armata». Inoltre a Prisciano vengono contestati altri addebiti per post sui social. In caso di ulteriore condanna, non potrebbe entrare in servizio permanente.

Ma non è la prima volta che cala la scure della censura.

Islam, il giovane scrittore Riccardo Prisciano censurato da Facebook, scrive “Imola Oggi” il 20 gennaio 2015. Il giovane poeta e scrittore Riccardo Prisciano, censurato da Facebook, non ci sta! È l’ennesimo atto di censura quello che Riccardo Prisciano, autore della raccolta di poesie “INSONNIA” e del poema biblico “L’Arcangelo crociato”, riceve da Facebook: ma questa volta non ci sta! La pagina pubblica Facebook del giovane autore è stata bloccata (dallo stesso sito) fino al 1° febbraio 2015, ma le motivazioni ancora non sembrano chiare …La storia ha dell’incredibile: dopo la macabra strage consumatasi a Parigi qualche giorno fa, ad opera di terroristi islamici, il poeta Prisciano ha pubblicato sulla sua pagina facebook alcuni commenti, correlati da apposite immagini, che hanno scatenato l’ira dei sostenitori del melting-pot. La scintilla che ha fatto scatenare la raffica di segnalazioni a Facebook, sembrerebbe essere un post in cui il giovane scrittore, citando preventivamente Oriana Fallaci, ha scritto “La paura di camminare a schiena dritta è, oggi, la vera causa del declino della millenaria società cristiana europea. Ricordare le proprie radici è il principale dovere di ogni europeo (cristiano e non)”. In conclusione l’autore, conscio dell’inesistenza di un Islam moderato, afferma ancora una volta: “se per un Cristiano è doveroso seguire il messaggio d’amore del Messia, per il musulmano è doveroso seguire il messaggio di morte di Maometto”. Immediate le condivisioni del post ma anche, di contro, le segnalazioni a Facebook. L’intento dei segnalatori sembrerebbe essere quello di bloccare, almeno per un po’, il giovane autore che, quotidianamente, sveglia le coscienze attraverso la sua pagina. MA RICCARDO PRISCIANO NON CI STA! Ed ecco che con l’ultimo post spiega i motivi giuridici ed etico-legali, secondo i quali, “L’Islam non è Costituzionale!”; una vera e propria scintilla che presto scatenerà chissà quali reazioni.

Facebook ha riservato lo stesso trattamento all’avv. Mirko Giangrande, chiudendogli la sua pagina “Azione Liberale”.

Chi è Riccardo Prisciano, maresciallo carabinieri anti Islam, scrive il 9 marzo 2016 Silvia Cirocchi su “Blitz Quotidiano”. Maresciallo Prisciano, vi dico io chi è. In queste ore sui social network si sente solo parlare di lui: il Maresciallo Riccardo Prisciano. Ma chi è questo uomo? Ve lo dico io visto che ho auto modo di conoscerlo collaborando con lui allo stesso quotidiano online (i cui articoli gli vengono ora contestati) fino a quando la censura dei “taglialingua” gli ha tappato la bocca. Riccardo Prisciano non è un “semplice” Maresciallo dell’Arma dei Carabinieri; onore alla categoria, ma intendo dire che, nella sua vita, Riccardo è anche tante altre cose. Laureato in Scienze Giuridiche presso l’Università di Roma Tor Vergata, da sempre impegnato culturalmente ed artisticamente, ha pubblicato la raccolta di poesie “Insonnia” ed il poema biblico “L’Arcangelo crociato”, Prisciano è in primis un uomo che ha sempre combattuto per tutto nella sua vita; odia il compromesso e l’ipocrisia perbenista: per lui esiste solo ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, “vie di mezzo” non possono esistere. Basta leggere i suoi articoli per saggiarne la preparazione culturale, giuridica e filosofica. Riccardo Prisciano è uomo d’azione; azione che si estrinseca attraverso la penna, la parola ed i fatti … e per questo è stato punito e trasferito in Sardegna a ben 800 km dalla propria figlioletta. Il Maresciallo Prisciano aveva argomentato le proprie tesi giuridiche circa l’incostituzionalità dell’Islam e circa l’impossibilità di credere nell’esistenza di un islam moderato, nonché aveva espresso su Facebook la propria contrarietà circa le unioni omosessuali e le adozioni gay. Il tutto libero dal servizio e mai qualificandosi come carabiniere. Ebbene, in un processo, nonostante l’assenza del Prisciano e di un suo difensore, il maresciallo veniva condannato a 7 giorni di consegna di rigore e trasferito. Non è finita: i nuovi Comandanti (della Sardegna) instaurano un ennesimo procedimento disciplinare nei confronti del Maresciallo Prisciano per condotte successive al 06 agosto 2015 (data del processo-condanna fiorentino) sempre per “islamofobia, xenofobia, omofobia, violazioni dei doveri attinenti al grado ed al giuramento prestato e per aver inficiato l’apoliticità della Forza Armata”. Quest’ultimo procedimento disciplinare è ancora più assurdo del primo: si contesta all’ispettore il fatto di aver scritto, sempre libero dal servizio, articoli, in cui si parlava di aborto, teoria gender, immigrazione e sovranità statale. Addirittura, si contesta il prossimo libro del Maresciallo Prisciano – lo si contesta prima della pubblicazione, prima di leggerlo quindi. Il Mar. Prisciano pubblicherà a breve un saggio giuridico, il cui titolo è “Nazislamismo” e l’editore è Solfanelli. Come si evince dagli atti, gli Ufficiali dell’Arma scrivono che “benché si tratti di un saggio giuridico, scaturito dalla stessa tesi di Laurea in Scienze Giuridiche del Mar. Prisciano, non è opportuno che si parli in tali termini dell’Islam”. Sarà un caso che tutta la storia gira attorno alla Toscana, ed a Firenze in particolare? A noi non sembra un caso, visto che il Maresciallo Prisciano in entrambi i procedimenti si è visto accusare “di aver leso e vilipeso l’immagine del Presidente del Consiglio dei Ministri, del Presidente della Repubblica, del Ministro dell’Interno e della Presidenta Boldrini.

Riccardo Prisciano: l’Islam come il nazismo, scrive Gian Giacomo William Faillace su “Milano Post” del 14 giugno 2015. Riccardo Prisciano, scrittore politicamente scorretto, vicino a posizioni ideologiche patriottiche e sovraniste, ha esordito con “Insonnia”, una raccolta di poesie romantico-decadentiste e successivamente con il poema biblico “L’Arcangelo crociato” in cui narra, con stile dantesco a metrica libera, le vicende dell’Arcangelo Uriel. Politicamente impegnato, Riccardo Prisciano, è in procinto di pubblicare il suo terzo libro: con la prefazione del noto giornalista Magdi Allam, con cui Prisciano intrattiene ottimi rapporti amichevoli, sarà un saggio di diritto in cui tratterà l’incostituzionalità dell’Islam. Con parole semplici effettuerà dei parallelismi tra la fede musulmana e l’ideologia nazista, sfociando nella proposta di un disegno di legge che annoveri il reato di apologia dell’Islam. Partendo dal tema della “tolleranza” sul quale molti filosofi hanno scritto e disquisito, Prisciano prende in esame la citazione del filosofo austriaco, naturalizzato britannico, Karl Raimund Popper il quale trattò innumerevoli volte, in seno alla sua teoria di “società aperta” le problematiche inerenti alla tolleranza arrivando a sostenere che “La tolleranza illimitata porta alla scomparsa della tolleranza. Se estendiamo l’illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro gli attacchi degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con essi” oltre ad asserire che “Dovremmo rivendicare, nel nome della tolleranza, il diritto a non tollerare gli intolleranti”. A queste teorie fecero eco anche lo scrittore tedesco Thomas Mann il quale sostenne che “La tolleranza diventa un crimine quando si applica al male” ed il giurista statunitense Joseph Halevi Horowitz Weiler il quale sostenne che “Il messaggio di tolleranza verso l’altro non deve essere tradotto in un messaggio di intolleranza verso la propria identità”; un tema molto attuale soprattutto nella moderna “società” europea, ed italica in prevalenza, in cui in nome della tolleranza verso la teocrazia islamica si tende ad odiare le proprie origini culturali, storiche e religiose. Persino Voltaire, uno dei maggiori Lumi del Settecento, nel suo “Trattato sulla tolleranza” pur cercando di aprire la società ad una sorta di pluralità di religioni, e perché no, ad una pluralità di dottrine politiche, col suo grido “Esacrez l’infame” (Schiacciate l’infame) incita quell’umanità illuminata a lottare con tutte le forze della propria ragione e della propria morale contro il fanatismo intollerante tipico della religione confessionale qualsiasi essa sia, incita ogni uomo di buona volontà a lottare per la tolleranza e la giustizia. Pertanto, alla domanda “Cosa intende per apologia dell’Islam” Prisciano, prontamente risponde:” In considerazione di ciò che sostenne l’Ayatollah Khomeini, ossia che l’Islam è politica altrimenti non è Islam, dobbiamo trovare gli strumenti idonei per trattare questa dottrina violenta in quanto l’Islam non può essere considerata una religione, nel senso “occidentale” del termine. Un Islam che punta al potere deve essere arginato secondo quello che Popper definiva come un dovere della democrazia. Quindi ecco il reato di apologia, in Italia, con la legge Scelba, previsto per il Fascismo. Con tale legge si tutela la manifestazione privata ma non pubblica di alcune correnti di pensiero. Nel mio prossimo libro citerò questo paragone facendo dei parallelismi tra l’ideologia nazista e la dottrina islamica; parlando di apologia non voglio mettere al bando l’Islam: ognuno in privato potrà essere fedele alla sua fede vietando però le sue manifestazioni pubbliche”.

Lo scrittore Riccardo Prisciano sfida Khalid Chaouki: - “Io sono pronto" …”, scrive Riccardo Ghezzi, il 11 agosto 2015.

Riccardo Prisciano, il tuo prossimo libro in uscita ad ottobre paragona l’Islam al Nazismo. Puoi spiegarci in breve di cosa si tratta?

«Quando si parla di terrorismo islamico, non si parla di “antico folklore”; è, piuttosto, qualcosa di concreto e spaventosamente vicino, come hanno dimostrato numerosi fatti di cronaca, anche in Italia. Non è comprensibile, altresì, come, proprio le frange anticlericali che, da sempre, si sono battute contro la Chiesa Cattolica (incriminando, quasi, le religioni di “incatenare” l’uomo) siano, ora, così rispettose e tolleranti verso comportamenti barbari e sanguinari, predicati in nome dell’Islam. Incredibilmente, la stessa pubblica opinione, che si discosta dall’osteggiare ideologie violente e razziste, non si rende conto di quanto, l’Islam, in certi suoi aspetti, non si discosti molto da queste dottrine».

Perché allora questa difformità di trattamento?

«Anche lo scrittore tedesco Thomas Mann sosteneva che “la tolleranza diventa un crimine quando si applica al male”, addirittura il giurista statunitense Joseph Halevi Horowitz Weiler sostenne che “il messaggio di tolleranza verso l’altro non deve essere tradotto in un messaggio di intolleranza verso la propria identità”; un tema molto attuale soprattutto nella moderna “società” europea, ed italica in prevalenza, in cui in nome della tolleranza verso la teocrazia islamica si tende ad odiare le proprie origini culturali, storiche e religiose. Tale totalitarismo, ammantato da pretesti religiosi ed etici e che, dietro una parvenza di spiritualità, trasudano un’alcova ideologica tra le più intolleranti del mondo, è di gran lunga peggiore di qualunque totalitarismo politico. L’Islam è anche, e forse soprattutto, un’ideologia, come ci tenne a precisare l’Ayatollah Khomeini, uno dei più autorevoli pensatori musulmani: “L’Islam o è politica, o non è nulla!” L’Islam è un’ideologia politica che, ancora oggi, si serve della religione come strumento di potere; o, se volessimo intenderla come religione, non possiamo non rilevare che tale religione, sfruttando la spiritualità umana, si pone il preciso obiettivo d’espandere il proprio potere politico. Se, giustamente, intendessimo l’Islam come una dottrina politica, e non già come una mera fede religiosa, sarebbe doveroso chiedersi per quanto ancora si potrà permettere che, nella civile e democratica Europa, si predichi l’odio religioso, l’intolleranza e la disuguaglianza tra i sessi o tra gli appartenenti a diverse religioni, senza andare a vietare le organizzazioni islamiche, che si ispirano ad una dottrina di gran lunga più totalitaria e intollerante del Nazismo stesso. Non a caso Al-Husayni fu l’assoluto protagonista della nascita del moderno fondamentalismo islamico e della lotta armata (’intifadah) contro gli ebrei, condotta oggi da numerose organizzazioni terroristiche islamiche. Egli fu un visionario crudele che in nome del nazionalismo arabo e dell’antisemitismo strinse un’alleanza tattica con il nazismo, in forza della quale 100.000 musulmani combatterono come volontari nelle divisioni tedesche. Fu tra i più accesi sostenitori della Soluzione Finale, si macchiò direttamente di atti feroci quale il sabotaggio dei negoziati tra i nazisti e gli Alleati, per la liberazione di prigionieri tedeschi in cambio della fuga verso la Palestina di 4000 bambini ebrei, destinati alle camere a gas. Dopo la guerra, scampato a Norimberga, al-Husayni si divise tra l’Egitto, dove rinsaldò i rapporti con Sayyid Qutb e Hasan al-Bannah, rispettivamente il teorico e il fondatore dei Fratelli musulmani, e Beirut, dove pose sotto la sua ala protettiva un giovane che negli anni successivi diventerà un protagonista della politica mediorientale: Yasir ‘Arafat».

La prefazione sarà curata da Magdi Allam. Come è avvenuto l’incontro con lui?

«La Stima che mi avvicina al grande Magdi Cristiano Allam è profonda. Il nostro incontro “fatale” è stato lo scorso 7 giugno 2015, in quel di Milano, durante un incontro-dibattito politico-culturale organizzato dal Fronte Nazionale per l’Italia (il nuovo partito “nato dal basso” che, democraticamente, sta andando a colmare quel vuoto elettorale equiparabile, a detta dei sondaggi, al 60% degli aventi diritto). È stato “amore a prima vista”: l’unità d’intenti e d’ideali è stata tale che, già dopo pochi minuti, Magdi mi aveva già assicurato la prefazione per il mio prossimo saggio».

Nel saggio, definisci l’Islam “Incostituzionale”. È una dichiarazione forte, ma da quali elementi normativi è suffragata questa tua affermazione?

«Oggi, assistiamo sovente ad una visione della Costituzione italiana, come nominata a sostegno della laicità dello Stato, incredibilmente, però, questo accade solo in funzione anticristiana. L’Islam è anticostituzionale perché predica concetti ed ideologie contrari ai principi costituzionali fondamentali, in tema di rispetto per la vita ed uguaglianza tra le persone (anticostituzionalità sostanziale); nonché per la mancanza d’Intesa tra Stato italiano ed Islam (anticostituzionalità normativa). Ecco alcuni esempi pratici, puramente a titolo esemplificativo, di altri articoli (oltre all’ormai noto art.8) della Costituzione che, più nello specifico, sono in netto contrasto con l’Islam:

– Art. 2 Cost: “… i diritti inviolabili dell’uomo …”, che sono totalmente diversi nella religione islamica, tanto da aver creato una propria carta, la Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo, proclamata il sabato 19 settembre 1981 presso l’UNESCO a Parigi.

– Art. 3 Cost: “pari dignità sociale … senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione”; nel Corano, invece, è sancita la superiorità dell’uomo sulla donna e del musulmano sul non-musulmano.

– Art. 13 Cost: “La libertà personale è inviolabile, può essere limitata solo con atto motivato dell’Autorità Giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge . …” ; nella Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo, invece, la libertà individuale viene subordinata alla shari’a.

– Art. 27 Cost: “Non è ammessa la pena di morte …” ; nell’Islam, invece, è imposta per apostati, adulteri ed omosessuali; tale imposizione, mai messa in discussione da nessun organo dirigente islamico, è confermata da tutte e quattro le scuole coraniche e, pertanto, attendibile;

– Art. 29 co. 2 Cost: “Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi”;

– Art. 30 co. 1 Cost: “il dovere-diritto di entrambi i coniugi di educare i figli..”;

– Art. 30 co. 3 Cost: “per la tutela dei figli naturali”.

Oltre al contrasto con dette norme fondamentali della Costituzione, vi è un altro duplice problema, certamente, non meno rilevante, riguardante la legittimità e la gerarchia delle fonti, in quanto la Shari’a funge da “legge” per i mussulmani, a prescindere dalla loro nazionalità».

Oriana Fallaci, ex partigiana, ha combattuto l’Islam esattamente come combatteva il nazifascismo. Eppure, dalla sinistra è stata considerata una “traditrice”. Come si può spiegare l’antifascismo abbinato al filoislamismo della sinistra?

«La grande Oriana, che nel saggio in questione chiude con le sue citazioni ogni capitolo, è quasi da ringraziare per le grandi verità che tramandò a noi (oggi come ieri) poveri buonisti. Mi trovo perfettamente d’accordo con la Fallaci (e con i grandi autori citati poco fa): bisogna svegliarsi e rendersi conto che la nostra utopia (o quella di qualcuno …) ci farà ritrovare molto presto in una guerra dove non saremo padroni a casa nostra. La tolleranza è la base della democrazia; tuttavia, essa non deve mai tradursi nel buonismo relativista radical-chic, tipico della Sinistra Italiana di oggi. Aristotele diceva che “l’apatia e la tolleranza sono le ultime virtù di una società morente”. L’integrazione va bene, purché sia tale, ma ad oggi mi sembra che questa volontà non si sia mai palesata. “Integrazione” vuol dire adattarsi alle regole del Paese ospitante. Pericle (il “Padre della Democrazia”) se fosse vissuto ai nostri giorni si sarebbe sentito chiamare “razzista”, “xenofobo”, “omofobo” finanche “islamofobo”. La Sinistra italiana, tanto brava a sventolar bandiere rosse in piazza a difesa della libertà, non è capace di capire che l’Islam ne è oggi la più grande minaccia. Questo discorso è da farsi nei confronti dei “militanti” della Sinistra italiana; per i vertici, ci sono ben altri interessi dietro … ma questo è un altro discorso».

Esiste un pericolo terrorismo in Italia, oltre che in Europa?

«Ovvio! I numerosi arresti, le iscrizioni nel registro degli indagati nelle varie Procure italiane, nonché i bigliettini dell’Isis che girano sornioni e spaventosi su facebook, parlano chiaro. Smettiamola di dire “io conosco tizio che è mussulmano ed è una bravissima persona”: non si può (e non si deve) ragionare sulle eccezioni, soprattutto dinanzi a simili pericoli. Se ancora qualcuno si ostina a dire che non tutti i mussulmani sono terroristi, certamente dovranno darmi atto che, quantomeno, tutti i terroristi sono islamici».

Sarebbe pronto e disponibile ad un dibattito con Khalid Chaouki del PD?

Io sì … non so lui, semmai!»

Ci odiano da un secolo e noi siamo rimasti a guardare. I jihadisti che stanno colpendo l'Europa non sono terroristi isolati, ma fanno parte di unico grande movimento islamico, scrive Francesco Alberoni, Lunedì 28/03/2016, su "Il Giornale". Ancora qualcuno non ha capito che i jihadisti che stanno colpendo l'Europa non sono terroristi isolati, ma fanno parte di unico grande movimento islamico che va dalle Filippine all'Africa. Cent'anni fa gli europei erano padroni di quasi tutto il mondo, in particolare dell'ex impero ottomano, tagliuzzato in protettorati o occupato direttamente come in Libia e Algeria. Parallelamente, per secoli i musulmani avevano dominato l'India, l'Indonesia, gran parte della Russia meridionale, tutto il Medio Oriente, un terzo dell'Africa e l'Europa fino a Vienna. La loro fede li aveva invitati a islamizzare l'Europa. Si sentivano invincibili, superiori ai cani infedeli e consideravano la loro sharia infinitamente superiore al diritto europeo. Per questo anche quando gli europei sono diventati i dominatori del mondo, loro non hanno mai accettato la civiltà occidentale: la subivano digrignando i denti. Poi un giorno si sono svegliati e, ricordando la loro gloria passata, è nato un movimento per tornare alle origini. Sono stati gli imam e gli intellettuali a mettere in moto il processo. L'integralista Arabia Saudita ha così riempito l’Europa di predicatori che hanno propagandato fra i giovani il compito di distruggere l'Occidente. E poi hanno dato loro soldi e armi. Oggi costituiscono un vero e proprio esercito organizzato, del quale però gli europei e gli americani si sono accorti tardi, pensando in realtà di trovarsi di fronte a terroristi isolati. Ma quando Bin Laden ha fatto saltare le Torri gemelle, da tutto l'islam si è alzato un grido di esultanza, perché anche fra i musulmani moderati c'è ammirazione per i guerrieri di Allah. E quando gli americani, che non hanno mai capito cosa succedeva, hanno abbattuto i regimi laici, le bande jihadiste sono andate al potere con massacri paurosi. Poi si sono infiltrati dappertutto anche in Europa, protetti dalle nostre leggi liberali, mentre l'Ue imbelle non capiva e neppure creava un proprio esercito e un'unica polizia di frontiera.

PARLIAMO DEI RISCATTI DEGLI ITALIANI RAPITI ALL'ESTERO E IL FINANZIAMENTO AI TERRORISTI.

Italiani rapiti, per liberarli spesi in dodici anni 75 milioni di euro, scrive “Libero Quotidiano” il 4 marzo 2016. Le prime furono le due Simona: Pari e Torretta. Fu il loro il primo caso di italiani rapiti e poi liberati tramite riscatto. Era il settembre 2004. Un anno prima c'era stato l'intervento americano in Iraq. C'era Al Qaeda al suo massimo fulgore, mentre l'Isis e lo Stato islamico erano cose ancora nemmeno immaginabili. Le due cooperanti italiane furono sequestrate per 22 giorni e poi liberate dietro il pagamento di una somma che è stata stimata in un paio di milioni di euro. Da allora, contando anche loro, secondo un articolo che appare oggi sul quotidiano "Il Tempo", sono stati 19 i cittadini italiani per liberare i quali l'Italia ha pagato un riscatto. Per un conto totale di circa 75 milioni di euro in dodici anni. Soldi, certo, che sono serviti a salvare vite umane, ma che sono finiti nelle tasche delle organizzazioni terroristiche che stanno insanguinando Medio Oriente ed Europa. Dopo Torretta e Pari, i casi più eclatanti di liberazioni tramite riscatto sono stati quelli della giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena, libera dopo 30 giorni dietro il pagamento di 4,6 milioni di euro (e la sua liberazione costò pure la vita dello 007 Nicola Calipari); per Rossella Urru, la cooperante rapita in Algeria nell'ottobre 2011 si sono sborsati 5 milioni di euro; per l'inviato de "La Stampa" Domenico Quirico sequestrato in Siria nell'aprile 2013 4 milioni; 9 milioni per Daniele Mastrogiacomo, giornalista rapito in Afghanistan nel marzo 2007; 12 milioni se ne sono andati per la liberazione di Salvatore Stefio, Umberto Cupertino e Maurizio Agliana, i contractors rapiti in Iraq nel 2004 insieme a Fabrizio Quattrocchi, che invece fu ucciso e morì dicendo "Vi faccio vedere come muore un italiano". E via contando, fino all'ultimo caso di Greta e Vanessa, le due ragazzine partite per la Siria praticamente da sole, rapite e tenute prigioniere prima di essere liberate in cambio di 12 milioni di euro.

Terrorismo, l'inchiesta di Al Jazeera: "Il governo italiano paga i riscatti per i rapiti dai terroristi", scrive “Libero Quotidiano” il 9 ottobre 2015. Il sospetto sembra possa diventare certezza: ci sono governi, in particolare quello italiano, che pagano i riscatti ai gruppi terroristici per liberare i propri connazionali. L'inchiesta dell'unità investigativa di Al Jazeera svela come gli Stati occidentali abbiano di fatto finanziato e armato il terrorismo islamico con milioni di dollari. Attraverso dei documenti segreti scoperti da Al Jazeera, emergerebbe come l'Italia abbia sempre pagato per la liberazione di propri cittadini rapiti da gruppi terroristici, che fosse in Somalia o in Siria. Nel caso del rapimento in Somalia di Bruno Pelizarri e la sua fidanzata Debbie Calitz, il governo italiano avrebbe negoziato la loro liberazione con i pirati pagando 525mila dollari. Viene smentita, e anzi sembra anche ridicola, la teoria che a liberare i due fosse stato un blitz delle forze armate italiane. Ad agosto 2011 era stato rapito in Siria il giornalista de La Stampa Domenico Quirico con un collega belga. In quell'occasione, l'inchiesta di Al Jazeera ha scoperto che ci sarebbe stato il pagamento di 4 milioni di dollari per il riscatto, a fronte di undici richiesti dai ribelli siriani delle Brigate Farouq. Un membro di quel gruppo, Mamhoud Daboul, sostiene anche di aver visto la cassa dei soldi: "In confezioni da 100mila dollari". E poi a gennaio 2015 l'ultimo caso in cui il governo italiano ha finanziato i terroristi, quando sono state rapite le due cooperanti Greta Ramelli e Vanessa Marzullo. Al Jazeera ha ottenuto alcune fotografie che documentano 11 milioni di dollari in contanti consegnati a rappresentanti di Nusra, un gruppo terroristico legato ad al-Qaeda. Il governo italiano ha sempre smentito i sospetti sui pagamenti dei riscatti e anche dopo essere stato contattato dai giornalisti di Al Jazeera ha confermato che la politica italiana rimane quella di "non pagare". Lo stesso ministro degli esteri italiano, Paolo Gentiloni, ha continuato a negare l'evidenza fino a pochi giorni fa quando marchiava come "illazioni" le prime voci sui pagamenti del governo italiano ai gruppi terroristici.

Tutti gli ostaggi italiani uccisi, liberati o ancora prigionieri. I connazionali nelle mani dei terroristi: dalla tragedia di Piano e Failla al ritorno a casa di Calcagno e Tullicardio fino al mistero su Padre Dall'Oglio, scrive "Panorama" il 4 marzo 2016.

I primi ostaggi del 2004. È il primo rapimento e risale al 2004. Siamo in Iraq dove a Baghdad vengono sequestrati quattro appaltatori, Fabrizio Quattrocchi, Umberto Cupertino, Maurizio Agliana e Salvatore Stefio. Quattrocchi viene barbaramente giustiziato, gli altri riescono a tornare a casa. Lo stesso anno, sempre in Iraq, vengono rapiti il freelance Enzo Baldoni, che perderà la vita poco dopo, e due cooperanti Simona Torretta e Simona Pari, che invece riusciranno a riabbracciare i propri cari dopo 19 giorni di prigionia. Li sequestrano, spesso li giustiziano. Alcuni, invece, dopo estenuanti trattative riescono a tornare a casa. Sono gli ostaggi italiani finiti nel terribile vortice dei rapimenti per opera dell'Isis o di gruppi terroristici affini.

2016 - Due morti e due liberazioni. Era da poco rientrata dal Cairo la salma del giovane ricercatore Giulio Regeni che in Libia si è consumata un'altra tragedia. Fausto Piano e Salvatore Failla, i dipendenti della società di costruzioni Bonatti rapiti nel 2015, sono stati uccisi in uno scontro a Sabrata mentre le forze di sicurezza lanciavano un raid contro la colonna di jihadisti. Migliore la sorte degli altri due dipendenti della ditta di Parma, Gino Tullicardo e Filippo Calcagno che, sequestrati il luglio scorso nella zona di Mellitah a 60 chilometri di Tripoli dopo uno scontro tra fazioni rivali, torneranno in Italia presto. Due dei quattro tecnici italiani sequestrati in Libia lo scorso luglio sono stati uccisi. Lo ha comunicato la Farnesina, dopo un esame di alcune immagini di vittime di una sparatoria nella regione di Sabrata in Libia, "apparentemente riconducibili a occidentali". La Farnesina ha spiegato che si tratta di due dei quattro italiani, dipendenti della società di costruzioni Bonatti, rapiti nel luglio 2015, e precisamente di Fausto Piano e Salvatore Failla". Ma "in assenza della disponibilità dei corpi", sono in corso verifiche. "Posso solo dire che sono stati uccisi nello scontro a fuoco" ha dichiarato all'ANSA, il presidente del Consiglio militare di Sabrata, Taher El-Gharably, rispondendo ad una domanda sulla morte dei due italiani in Libia e dicendosi non in grado di precisare chi ne abbia causato la morte. Il miliziano, contattato al telefono, ha ammesso di avere solo conferme indirette che si tratti dei due dipendenti della Bonatti. Chi li ha uccisi? "È da dimostrare che il gruppo che teneva sequestrati i quattro ostaggi italiani fosse dell'Isis", così come non è sicuro che "i quattro italiani fossero stati divisi in due gruppi: le due vittime erano trasportate separatamente dagli altri due in un convoglio, ma non è detto che fossero divisi" ha dichiarato il presidente del Copasir Giacomo Stucchi, al termine dell'audizione del sottosegretario con delega all'Intelligence Marco Minniti. È di questa mattina invece la notizia che gli altri due operai italiani rapiti con Piano e Failla sono stati liberati. Minniti, ha riferito Stucchi, "ha illustrato compitamente quanto accaduto, sulla base delle informazioni in suo possesso". Quanto alla possibile richiesta di un riscatto, per il senatore "non è l'ipotesi più probabile, occorre valutare una serie di ipotesi che hanno lo stesso peso". Gino Tullicardo, Fausto Piano, Filippo Calcagno e Salvatore Failla erano stati rapiti lo scorso 20 luglio mentre rientravano dalla Tunisia nella zona di Mellitah, a 60 km di Tripoli, nei pressi del compound della Mellitah Oil Gas Company, il principale socio dell'Eni. L'intelligence italiana aveva accreditato quasi subito l'ipotesi che gli italiani fossero stati sequestrati da una delle tante milizie della galassia criminale che imperversa nel Paese. Un sequestro a scopo di estorsione, dunque, opera di criminali "comuni". La preoccupazione, quindi, è stata sin da subito di scongiurare che venissero ceduti, in "blocco" o peggio ancora singolarmente, ad uno o più gruppi legati all'Isis, ormai infiltrato in diverse aree della Libia e molto interessato a gestire i sequestri, anche per i notevoli risvolti mediatici. Secondo una delle ipotesi accreditate nei mesi scorsi da fonti militari libiche, i quattro italiani sarebbero finiti "nelle mani di gruppi vicini ai miliziani di Fajr Libya", la fazione islamista che ha imposto un governo parallelo a Tripoli che si oppone a quello di Tobruk, l'unico riconosciuto a livello internazionale. Secondo questa ricostruzione, i miliziani avrebbero proposto uno scambio: i nostri connazionali con sette libici detenuti in Italia e accusati di traffico di migranti. Ma non c'è mai stata alcuna conferma e per mesi non ci sono state notizie. Secondo un testimone libico rientrato a Tunisi da Sabrata, i due italiani uccisi sarebbero stati usati come scudi umani dai jihadisti dell'Isis, negli scontri con le milizie di ieri a sud della città, nei pressi di Surman. "Renzi ha le mani sporche di sangue tanto in Libia quanto in Italia. In Italia tifa e libera i delinquenti sull'immigrazione è complice del terrorismo internazionale. Mentre dalla Libia giungono delle notizie, Mattarella si vanta sull'avanguardia dell'Italia: o sono matti o sono complici sia Renzi che Mattarella. Speriamo che le notizie che arrivano siano infondate". Lo ha affermato Matteo Salvini nel corso di una conferenza stampa alla Camera. "In ore tragiche come quelle che stiamo vivendo, le parole di Salvini contro il Capo dello Stato e il Presidente del Consiglio sono gravissime, una prova inqualificabile di sciacallaggio" ha dichiarato il presidente della commissione parlamentare Antimafia Rosy Bindi. "Siamo grati al Presidente Mattarella che anche oggi ha interpretato i sentimenti più autentici e profondi in cui si riconoscono gli italiani", ha aggiunto Bindi. "La solidarietà e la cooperazione internazionale sono le bussole con cui governare il fenomeno delle migrazioni di massa e il Paese lo sta dimostrando, da Lampedusa a Trieste", ha concluso. Gino Pollicardo e Fabio Calcagno, rapiti a luglio con Piano e Failla, sono stati liberati. "Stiamo bene e speriamo di tornare urgentemente in Italia". "Sono Gino Pollicardo e sono qui con il mio collega Filippo Calcagno. Siamo in un posto sicuro, in un posto di polizia qui in Libia. Stiamo bene e speriamo di tornare urgentemente in Italia perché abbiamo bisogno di ritrovare la nostra famiglia": questo il testo del primo video diffuso dei due ostaggi italiani in Libia. Aggiunge Calcagno: ci stanno trattando bene". Anche la Farnesina ha confermato che i due tecnici della ditta Bonatti non sono più nelle mani dei rapitori, si trovano sotto la tutela del Consiglio militare di Sabrata e sono in buona salute. Presto saranno trasferiti in zona sicura e presi in consegna da agenti italiani che li riporteranno in patria. La liberazione è uno sviluppo dei tragici fatti dell'altro ieri che hanno portato all'uccisione degli altri due sequestrati. Gino Pollicardo e Filippo Calcagno erano stati abbandonati da sette giorni, senza acqua né cibo, nella cantina di una famiglia di origine marocchina, che è stata fermata e viene interrogata in queste ore: lo ha reso noto il sindaco di Sabrata, Hosin al Dauadi, rivelando altri dettagli sulle ultime fasi del sequestro dei due italiani. "Sono stati trovati in una casa della località di Tallil, a circa 3 chilometri dal luogo dove sono morti i loro compagni giovedì'". Secondo il sindaco, i due italiani "sono stati trovati lunedi", addirittura prima dunque dell'operazione nella quale sono morti i loro compagni. "Daesh (l'acronimo in arabo per l'Isis) li aveva lasciati da una settimana senza acqua né cibo. I due raccontano che potevano udire le voci della famiglia che parlava in arabo e francese". Il sindaco ha fatto vedere ai giornalisti anche il messaggio scritto a mano da Pollicardo, in cui annuncia la loro liberazione: "Sono Gino Pollicardo e con il mio collega Filippo Calcagno oggi 5 marzo 2016 siamo liberi e stiamo discretamente fisicamente ma psicologicamente devastati. Abbiamo bisogno di tornare urgentemente in Italia". E il biglietto reca una data che non è quella di oggi. Il figlio di Pollicardo, Gino junior, incrociando i cronisti di fronte a casa, a Monterosso (La Spezia) ha annunciato: "È finita, è finita" e la moglie Ema Orellana in lacrime ha detto: "L'ho sentito al telefono". Poco dopo il parroco del paese ha fatto suonare a festa le campane. "Ho appena sentito al telefono mio padre, è libero. Sta bene, anche se è molto provato. Mi ha detto che in questo momento lui e Gino Pollicardo sono nelle mani della polizia libica e che non vedono l'ora di rientrare in Italia". Lo ha detto all'Ansa Gianluca Calcagno, figlio di Filippo Calcagno. Gino Pollicardo e Filippo Calcagno, dipendenti della società di costruzioni Bonatti, erano stati rapiti lo scorso 20 luglio con Fausto Piano e Salvatore Failla mentre rientravano dalla Tunisia nella zona di Mellitah, a 60 km di Tripoli, nei pressi del compound della Mellitah Oil Gas Company, il principale socio dell'Eni. Piano e Failla sarebbero stati uccisi durante scontri nella zona di Sabrata. Gino Pollicardo, 55 anni, è originario di Monterosso, in Liguria, nelle Cinque Terre. Filippo Calcagno, 65 anni, è siciliano di Piazza Armerina (Enna), sposato con due figlie.

I sequestri del 2015. Nell'elenco nero dei sequestrati c'è anche Ignazio Scaravilli, il medico catanese rapito nel gennaio 2015 e poi rilasciato in giugno. Tragica invece la fine del cooperante Giovanni Lo Porto, catturato con la forza in Pakistan nel 2012 mentre lavorava per una Ong tedesca e ucciso tre anni dopo in un raid della Cia con un altro ostaggio, l’americano Warren Weinstein. Un errore fatale di cui Barack Obama si è scusato in diretta tv. Gabriele Lo Porto ucciso tante volte. Parla la donna che durante il sequestro ha continuato a gestire la pagina Facebook dell’uomo conosciuto a Londra nel 2003, scrive su "Panorama" Fausto Biloslavo l'11 maggio 2015. Valeria De Marco è una cara amica del giovane cooperatore siciliano tenuto in ostaggio da al Qaeda dal gennaio 2012 e poi ucciso per errore da un drone statunitense il 15 gennaio. Durante il sequestro ha continuato a gestire la pagina Facebook dell’uomo che aveva conosciuto a Londra nel 2003: quando lui partiva per le sue missioni umanitarie, i due restavano sempre in contatto, «come se non si allontanasse mai» spiega Valeria in questa intervista con Panorama. La donna, che vive e lavora a Palermo ed è sempre stata molto vicina anche alla famiglia del cooperante, rivela che l’amico «doveva venire liberato per Natale 2014» e denuncia «il disinteresse italiano» sul caso. Signora De Marco, lei che cosa sapeva della trattativa per liberare Lo Porto? «Poco. I periodi di ottimismo del ministero degli Esteri si alternavano a periodi di silenzio. Però lo scorso autunno eravamo molto vicini alla liberazione. Da Roma avevano detto: «Le prometto che entro quest’anno Giancarlo sarà a casa»». La famiglia dell’ostaggio americano, ucciso assieme a Lo Porto, è stata avvisata dall’Fbi all’inizio di febbraio che il loro congiunto era probabilmente morto. Non è avvenuto nulla del genere con i familiari di Lo Porto? «In febbraio non hanno ricevuto nessuna comunicazione. Lo aspettavamo a casa per Natale 2014, ma poi i toni della Farnesina si sono incupiti, sono diventati meno ottimisti. E alla fine si è scoperto che il mediatore era stato arrestato in Pakistan o Afghanistan, facendo saltare la trattativa. Come è possibile che nessuno sia riuscito a evitarlo?» Chi ha lavorato al caso sostiene che sia mancata la priorità politica per imprimere una svolta. Cosa ne pensa? «Non c’è dubbio che l’interesse politico, vista anche l’aula della Camera vuota del 24 aprile, sia stato assolutamente assente e inadeguato». Lei si riferisce alla comunicazione del ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, sul tragico epilogo del caso. «Sì. L’aula parlamentare vuota ha ucciso Giancarlo per la seconda volta. È stata una grande umiliazione e un’enorme sofferenza». Le sembra possibile che il presidente del Consiglio Matteo Renzi abbia saputo della morte di Lo Porto solo lo scorso 22 aprile? «No, non è assolutamente credibile». Gli americani pare abbiano informato l’Italia da febbraio-marzo che qualcosa era andato storto, ma tutto si sarebbe fermato al livello di Marco Minniti, sottosegretario con la delega ai Servizi presso palazzo Chigi. Cosa ne pensa? «È semplicemente agghiacciante. La mia reazione è di rabbia ma anche di lucida determinazione: vogliamo andare fino in fondo per scoprire la verità e le responsabilità. Se Minniti non ha comunicato (a qualcuno più in alto, ndr) è grave e dovrebbe dimettersi. Spero soltanto che non ci sia un’ulteriore e terribile colpa: che si sapesse che Giancarlo fosse esattamente lì. Ma questo non lo scopriremo mai». Qualcuno ha mai informato lei o la famiglia che l’ostaggio americano Warren Weinstein e l’italiano erano detenuti assieme? «Mai avuta nessuna conferma che Giancarlo fosse con un americano. Anzi, parlando tra noi, pensavo che sarebbe stato ben peggio se lo avessero rapito con un americano o un inglese.  Conosciamo bene le politiche di questi Paesi nei confronti dei loro connazionali presi in ostaggio». La famiglia ha reso noto che molti sapevano che Lo Porto era prigioniero in Waziristan e i bombardamenti dei droni potevano colpirlo. Può spiegare meglio che cosa significa? «Sapevamo che si trovava in quelle zone inaccessibili, al confine fra Pakistan e Afghanistan. Dallo scorso luglio i bombardamenti (e le offensive pachistane, ndr) hanno provocato oltre mezzo milione di sfollati e molti morti. Di giorno in giorno cresceva la paura, il terrore per la vita di Giancarlo». Pensa che la detenzione di Lo Porto assieme all’americano abbia segnato il suo destino perché gli Usa non trattano con i terroristi? «Assolutamente sì. Viste anche le ultime notizie penso ci sia stata un’influenza americana sull’eventuale liberazione di Giancarlo». La famiglia per tre anni ha mantenuto un totale, dignitoso silenzio. Non sarebbe il caso che parlassero loro? Forse gli amici o i parenti dovevano incatenarsi da qualche parte o rilasciare interviste eclatanti? «La Farnesina ci ha sempre chiesto di tenere un basso profilo per non alzare la posta e pregiudicare la liberazione. Cooperanti e amici non erano così sicuri che fosse la strategia giusta, ma hanno rispettato le raccomandazioni della famiglia». In definitiva: lei crede sia mancata la spinta politica italiana per riportare a casa Lo Porto? Insomma, è tutta colpa del coinvolgimento degli americani e della loro linea dura con i terroristi? «A livello internazionale non c’è grande considerazione del nostro Paese. È possibile che gli interessi americani abbiamo prevalso su quelli dell’Italia, debole e incapace di imporre le proprie strategie». Quali sono i suoi ricordi più belli di Giancarlo Lo Porto? «I ricordi più belli sono quelli legati alla sua vita da trentenne a Londra. Lo vedo sempre con la pinta di birra, mentre ascolta le band che si alternano sui palchi dei vari pub londinesi. In giugno avrebbe compiuto 38 anni. Io li ho fatti in aprile. Ma la cosa più bella che mi ha lasciato Giancarlo è una frase: «Fino a quando avrò due gambe per camminare e due occhi per guardare il sole, non perderò mai la speranza e continuerò ad andare avanti»». Amici e familiari di Giancarlo cosa chiedono al presidente americano e al governo italiano? «Vogliamo la verità, che i responsabili paghino e che la magistratura apra un’inchiesta per omicidio. Vogliamo a ogni costo la salma di Giancarlo, una commemorazione ufficiale e che il suo sacrificio e i tre anni nelle mani dei terroristi non siano stati vani».

I rapimenti del 2014. Due anni prima, nel 2014, in Libia vengono rapiti altri italiani: due tecnici di aziende private, Marco Vallisa e Gianluca Salviato che sono tornati a casa dopo diversi mesi di prigionia.

Ancora ostaggi dal 2013. Padre Paolo Dall'Oglio e Rolando Del Torchio ancora ostaggi. Poche e contrastanti sono invece le notizie del gesuita padre Paolo Dall'Oglio, scomparso in Siria nel 2013 mentre cerca di mediare a Raqqa, quartier generale del califfato, per la liberazione di alcuni rapiti. Non è tanto diversa la sorte di Rolando Del Torchio, ex missionario italiano sequestrato nel suo ristorante nel sud delle Filippine l'anno scorso, in un’area dove operano gruppi musulmani separatisti, e ancora ostaggio dei terroristi.

Le catture e le liberazioni del 2011. Il 2011 è l’annus horribilis per i rapimenti. L'inviato della Stampa Domenico Quirico viene rapito la prima volta in Libia (lo sarà una seconda in Siria nel 2013) per due giorni insieme a due colleghi Elisabetta Rosaspina e Giuseppe Sarcina e Claudio Monici. In Somalia i pirati catturano i mercantili Savina Caylyn, con cinque italiani a bordo, e Rosalia D'Amato, con sei nostri connazionali. Tutti gli ostaggi saranno liberati dopo mesi di prigionia. Sempre nello stesso anno, dopo 124 giorni, nel Darfur, in Sudan, viene lasciato libero dai ribelli locali il cooperante di Emergency Francesco Azzarà. Stessa sorte tocca all’italo-sudafricano Bruno Pellizzari che gli Shabaab somali catturano sul Largo della Tanzania. Passando in Algeria, i terroristi islamici sequestrano la turista Sandra Mariani e la cooperante Rossella Urru. Entrambe vengono liberare nel 2012. Non avrà la stessa fortuna Franco Lamolinara, l’ingegnere sequestrato in Nigeria dai jihadisti che perderà la vita durante un blitz delle Forze speciali di Londra mentre tentavano la liberazione di un altro ostaggio.

I sequestri del 2007. Nel 2009 dopo quattro mesi in mano a un gruppo legato ad Al-Qaeda Sergio Cicala e la moglie Philomene Kabouré vengono liberati in Mali. Daniele Mastrogiacomo. La cattura del 2007. In Afghanistan, nel 2007 i talebani catturano un giornalista del quotidiano La Repubblica, Daniele Mastrogiacomo noto per le sue inchieste di “Mani pulite” ed i processi Priebke e Marta Russo. Bloccato a bordo della sua auto, poi circondato, legato e imbavagliato da una decina di miliziani talebani Mastrogiacomo sarà liberato dopo circa un mese e mezzo.

Il rapimento del 2005. Nel 2005 la giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena viene presa in ostaggio e poco dopo la liberazione, mentre in auto stava raggiungendo un posto di blocco, un militare americano uccide per errore Il funzionario del Sismi Nicola Calipariche si trovava in macchina con lei.

E per i Marò?

"Ecco le carte per liberare marò snobbate da governo e Difesa". Presto alle stampe un libro con la dettagliata perizia che dimostra l'innocenza di Latorre e Girone. Presentata al ministero della Difesa nel 2013, non è stata poi debitamente considerata, scrive Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 20/04/2016, su "Il Giornale". Un documento che, a detta degli autori, sarebbe esaustivo per escludere "l'illecità del comportamento dei due marò". Tradotto: Salvatore Girone e Massimiliano Latorre sono innocenti. Ci sono le carte, ma il governo e la Difesa le hanno in qualche modo ignorate. Continuando a mantenere una linea che ha prolungato sine die la detenzione dei marò. Gli autori del rapporto "nome in codice DREADNOUGHT", Diego Abbo (Capitano di vascello) e Alfredo Ferrante, ne sono certi: la loro ricerca, che presto diventerà un libro, mette in risalto con dettagliate analisi dei dati la manifesta non colpevolezza dei fucilieri italiani. Ma non solo. Il loro lavoro permette anche di "identificare, senza tema di smentita, delle condotte istituzionali che potrebbero essere penalmente rilevanti". Lo studio non è una novità. Non lo è per i vertici militari. Nel 2013, infatti, il rapporto venne presentato al delegato dell'allora ministro della Difesa, Mario Mauro. L'autore fu chiamato a conferire agli alti gradi della Marina, ma della relazione non se ne fece nulla. Abbo mise a disposizione il suo operato "senza però essere mai contattato". Gli autori hanno sviluppato la loro ricerca con una analisi duale. "Da un lato - si legge nel rapporto - è stata analizzata la componente dinamica in cui vengono ricostruite le rotte dell’Enrica Lexie e del St. Anthony". Dall'altro, sono state ricostruite le "traiettorie delle raffiche partendo dalla distribuzione dei colpi sulla tuga del St. Anthony e sulla loro velocità di impatto stimata". Infine, basandosi sugli atti presentati dall'India, è stata realizzata una "accurata analisi di balistica forense". Ciò che emerge da questi studi è che "la teoria dello spiattellamento (rimbalzo dei colpi sull’acqua) pone le basi per l’esclusione dell’illiceità del comportamento dei fucilieri di marina". Quindi, i marò avrebbero effettivamente sparato quei colpi, ma in acqua. Fatto che esclude la natura dolosa o colposa dell'atto. Seguendo questa linea si sarebbe potuti arrivare rapidamente alla sentenza di "non perseguibilità" di Latorre e Girone. E di evidenziare così la "buona fede" dei marò. Le istituzioni italiane, in particolare i ministeri di Difesa, Trasporti e Esteri, si sarebbero macchiate di "comportamenti omissivi" riguardo al "non adempimento di ben 8 inchieste obbligatorie per legge: 1) l’inchiesta sommaria e quella formale (previste dal codice della navigazione); 2) l’inchiesta di sicurezza (prevista dalla normativa discendente dalle direttive dell’Unione europea); 3) le inchieste sommaria e formale (previste dal Testo Unico dell’Ordinamento Militare); 3) l’inchiesta per infortuni sul lavoro (prevista dalla normativa antinfortunistica); 4) le due inchieste dello Stato di bandiera (la prima prevista dalla Convenzione di Montego Bay e la seconda in ottemperanza alla Convenzione internazionale volta a tutelare la sicurezza della navigazione mercantile)". Violazioni che peseranno sull'immagine dell'Italia e anche sul futuro dei fucilieri di Marina. Tra le istituzioni finite sotto accusa c'è però anche l'Europa. "Vengono individuati - si legge - dei comportamenti dell’Unione Europea non conformi alla sua stessa normativa afferente la sicurezza marittima". L'Ue, infatti, per bocca del Commissario Europeo per i Trasporti, Violteta Bulc, si era lavata le mani sulla vicenda marò, affermando che "le questioni militari ricadono nell’area di responsabilità degli stati membri". L'Europa sarebbe dovuta intervenire, richiamando il governo italiano all'ordine e spingendolo ad avviare tutte le necessarie inchieste. In sostanza, concludono gli autori, "l’atteggiamento dell’UE oltre a rappresentare una responsabilità extra contrattuale configura una violazione della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo in merito al diritto alla vita alla libertà e alla sicurezza".

I documenti ci sono. Ma i governi hanno fatto finta di nulla.

"Grazie giudici, li arrestiamo noi". Così l'Italia ha difeso (male) i marò. Dalle motivazioni del verdetto emerge la linea morbida del nostro governo e una lettera ossequiosa alle autorità indiane che 5 giorni dopo sbatteranno dentro i soldati, scrive Fausto Biloslavo, Domenica 20/01/2013, su "Il Giornale". La Corte suprema indiana ammette che nel tratto di mare dove i marò hanno sparato c'erano stati attacchi dei pirati e il peschereccio delle presunte vittime dei fucilieri di marina non poteva navigare in quella zona non essendo regolarmente registrato. Lo riporta, nero su bianco, l'ordinanza di venerdì sul caso di Salvatore Girone e Massimiliano Latorre. Oltre cento pagine firmate dai giudici Altamas Kabir, presidente della Corte suprema, e J. Chelameswar, che svelano diverse «chicche» dell'imbarazzante vicenda. Il lungo testo dell'ordinanza della Corte suprema, in possesso del Giornale, si apre con l'ammissione che la zona dell'incidente è a rischio bucanieri. «Negli ultimi dieci anni abbiamo assistito a un acuto incremento degli atti di pirateria in alto mare al largo della Somalia - scrivono i giudici - e anche nelle vicinanze delle isole Minicoy che formano l'arcipelago di Lakshadweep». Territorio indiano di fronte alla costa sud occidentale dove si trova lo stato del Kerala, che per quasi un anno ha illegalmente trattenuto i marò, secondo la Corte suprema di Delhi. Al punto 29 dell'ordinanza si scopre che il peschereccio St. Anthony, di circa 12 metri, scambiato dai marò per un vascello pirata, risulta registrato solo nel Tamil Nadu, un altro stato indiano. Però «non era registrato secondo l'Indian Merchant Shipping Act del 1958 (la normativa che regola la navigazione mercantile ndr) e non sventolava la bandiera dell'India al momento dell'incidente». L'importante requisito del rispetto della normativa del 1958 avrebbe permesso al peschereccio di navigare «al di là delle acque territoriali dello Stato dell'Unione (il Tamil Nadu ndr) dove l'imbarcazione era registrata». Questo significa che il 15 febbraio il St. Anthony non poteva far rotta nel tratto di mare dove ha incrociato i marò imbarcati sul mercantile italiano Enrica Lexie. Al punto 6 dell'ordinanza viene sottolineata l'apertura dell'inchiesta della procura di Roma contro Girone e Latorre e la pena prevista: «Per il crimine di omicidio è di 21 anni almeno di reclusione». Forse ai marò conviene rimanere in India. L'ordinanza cita ripetutamente l'avvocato Harish N. Salve, che si batte per la giurisdizione. «La Repubblica italiana ha un diritto di prelazione nel processare» i marò. Il legale chiama in causa due convenzioni internazionali, il Maritime Zones Act e l'Unclos, ambedue riconosciuti dall'India. L'articolo 27 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Unclos) sancirebbe che l'India non può processare i marò e tantomeno arrestarli per «un reato commesso a bordo di una nave straniera in transito». L'articolo 97 specifica che può procedere solo «il paese di bandiera della nave o lo stato di nazionalità delle persone coinvolte». Un altro cavallo di battaglia dell'avvocato Salve è l'articolo 100 dell'Unclos che invita «tutti i Paesi a cooperare nella massima misura alla repressione della pirateria al di là della giurisdizione dei singoli Stati». Una chicca riportata nell'ordinanza è la nota verbale 95/553 dell'ambasciata italiana inviata il 29 febbraio scorso al ministero degli Esteri indiano. Undici giorni prima, Girone e Latorre erano stati prelevati dalla polizia a bordo del mercantile Lexie fatto rientrare con un tranello nel porto di Kochi. I nostri diplomatici ribadiscono la giurisdizione italiana e l'immunità dei fucilieri di marina, ma «accolgono con favore le misure prese dal chief Judical Magistrate di Kollam per la protezione della vita e dell'onore dei militari della marina italiana». Peccato che cinque giorni dopo Girone e Latorre sono stati prelevati dalla guest house della polizia che li "ospitava" agli arresti e sbattuti in galera.

Non solo Girone. Oltre tremila gli italiani detenuti all’estero, scrive Damiano Aliprandi il 20 giugno 2016 su “Il Dubbio”. Caso emblematico è quello di Giuliano Provvisionato, recluso in Mauritania da più di otto mesi, che ha scritto un appello al Presidente della Repubblica. Se per il marò Salvatore Girone è finita l’odissea della detenzione indiana, ce ne sono altri 3000 italiani detenuti all’estero che si stanno confrontando con sistemi legali che non contemplano nemmeno i più elementari diritti e garanzie. Con la differenza che non hanno nessun riflettore mediatico puntato. Il caso più recente riguarda il milanese Cristian Giuliano Provvisionato che da più di otto mesi vive recluso nel carcere della Mauritania. Recentemente ha scritto al Presidente della Repubblica per chiedergli “con tutto il cuore un intervento per farmi rientrare in Patria il più presto possibile”. Nella lettera l’uomo ricostruisce la sua vicenda, spiegando di essere tenuto agli arresti per reati mai commessi. Provvisionato racconta di essere stato mandato in Mauritania nell’agosto scorso dall’azienda per cui lavorava, che opera nel campo delle investigazioni private, per sostituire un altro italiano che doveva rientrare in Italia. Il compito doveva essere quello di fare una dimostrazione di alcuni prodotti di una società straniera al governo mauritano. In realtà, scrive, “sono stato mandato con l’inganno per togliere da una brutta fine l’altro italiano”, perché la società straniera aveva probabilmente truffato il governo mauritano. Ma, si legge nella lettera, “il governo mauritano si ostina a tenermi in detenzione anche davanti all’evidenza che sono parte lesa come loro in questa vicenda. È un fatto gravissimo: sono l’unico agli arresti mentre tutti i veri responsabili di questa truffa sono liberi. Provvisionato sottolinea che, nonostante tutti gli sforzi della Farnesina e dell’ambasciata italiana di Rabat, “c’è un muro da parte delle autorità mauritane che non vuole cedere”. E invoca quindi l’intervento di Mattarella “contro questa gravissima ingiustizia”. E finisce con una supplica rivolta al capo dello stato: “La prego di fermare tutto questo prima che si trasformi in una tragedia, ho già perso 25-30 kg, non posso curarmi come dovrei, non posso sostenere le giuste visite mediche per il diabete, inizio a temere seriamente per la mia salute”. I dati dei detenuti italiani all’estero sono inquietanti. Il ministero degli Esteri ha messo a disposizione gli ultimi riguardanti l’anno 2015. Risulta un totale di 3.309 reclusi all’estero di cui 2.602 in attesa di giudizio, 671 stati condannati e 36 in attesa di estradizione. Il dato più curioso è che il record della detenzione degli italiani all’estero ce l’ha la Germania: un totale di 1.229 detenuti, tra i quali ben 1.087 sono in attesa di giudizio e 123 condannati definitivamente. Nel resto del mondo, il maggior numero dei detenuti si trova in Brasile con 75 italiani reclusi in condizioni a dir poco degradanti; al secondo posto ci sono gli Usa con un totale di 68 detenuti. Dal dossier emerge comunque un dato sconcertante: più della metà sono in attesa di giudizio e risultano poche decine le persone in attesa di essere estradate in Italia per scontare la pena nei nostri penitenziari, condizione che dovrebbe essere garantita dalla "Convenzione di Strasburgo" del 1983 e da diversi "Accordi bilaterali" nei casi che riguardano le persone già condannate. In molti casi gli italiani non hanno nessun diritto per un equo processo. Basti pensare che in alcuni paesi è negata l’assistenza di un avvocato, non è presente un interprete durante gli interrogatori e frequentemente le autorità non fanno trapelare nessuna notizia in modo tale che è impossibile farsi un’idea dettagliata del processo. C’è il caso emblematico avvenuto in India. Ovvero quello riguardante Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni che - dopo cinque anni di calvario perché condannati all’ergastolo - sono stati liberati e fatti rientrare l’anno scorso in Italia. Furono accusati di omicidio nei confronti di Francesco Montis, il loro compagno di viaggio. La tragedia ebbe inizio il 4 febbraio del 2010 quando i tre, di passaggio nell’hotel Buddha di Chentgani, fecero uso di droghe e Francesco si sentì male. I due lo portarono in ospedale ma Francesco morì. Il responso dell’autopsia fu fatale: morte per soffocamento. A nulla valsero le dichiarazioni della madre di Francesco che avrebbero potuto scagionarli: il figlio soffriva di gravi crisi d’asma. Quando poi venne chiesto un secondo esame autoptico, non fu possibile eseguirlo perché l’obitorio era infestato dai topi e così il corpo di Montis venne cremato. I due vennero incarcerati il 7 febbraio 2010 e dopo un anno di detenzione il pubblico Ministero chiese la condanna a morte per impiccagione. A luglio del 2011 la pena venne convertita in ergastolo e confermata poi nel settembre 2012. Da quel giorno i due aspettavano la sentenza della Corte Suprema di Delhi che per lentezza dovuta ad assenze e rinvii, non arrivava mai. Nel frattempo i due italiani sono stati reclusi nel carcere di Varanasi in condizioni precarie: i barak, ospitano circa 140 detenuti con temperature che arrivano a 50 gradi. Costretti a bere acqua non potabile, senza alcun contatto con il mondo esterno. Solo quest’anno la sentenza della Corte suprema li ha scarcerati perché dichiarati innocenti. Negli Usa c’è il celebre caso di Enrico Forti, condannato all’ergastolo con l’accusa di omicidio. Il suo calvario inizia la mattina del 16 febbraio del 1998 quando, in una spiaggia della Florida, viene ritrovato il corpo senza vita di Dale Pike. Di questo omicidio viene accusato Forti, che era in trattativa con il padre di Dale per l’acquisto di un albergo. Nonostante si sia sempre dichiarato innocente e le prove a suo carico siano inconsistenti, la giuria americana lo ha condannato all’ergastolo affermando che “La Corte non ha le prove che Forti abbia premuto materialmente il grilletto, ma ha la sensazione, al di là di ogni dubbio, che sia stato l’istigatore del delitto “. E non mancano i casi di morte sospetta come la terribile storia di Mariano Pasqualin, un giovane di Vicenza arrestato per traffico di droga nella Repubblica dominicana nel giugno del 2011. Dopo pochi giorni dal suo arresto, è stato ritrovato morto in circostanze molto sospette. La famiglia aveva richiesto di far rientrare la salma in Italia per effettuare un’autopsia che svelasse le cause del decesso, ma le autorità della Repubblica dominicana avevano, senza autorizzazione, deciso di cremare il corpo e spedire in Italia le ceneri. E la possibilità di fare luce sul caso è svanita definitivamente. Altro terribile caso di morte è la storia di un italiano che era recluso in Messico. Si tratta del bancario leccese Simone Renda che morì nel 2007 in una cella di Cancun, dopo essere stato arrestato per un banale episodio di ubriachezza molesta. Dapprima ricattato dalla polizia, fu rinchiuso poi in una cella rovente senza possibilità di accedere ad alcuna assistenza né legale né medica. Morì per disidratazione dopo due giorni di privazioni e violenze. Si era tentato di fare un processo in Italia per omicidio nei confronti del giudice, il responsabile dell’ufficio ricezione del carcere, tre guardie carcerarie, due vicedirettori del carcere e due agenti della polizia turistica, tutti messicani. Ma a causa della loro irreperibilità il processo ancora non è partito. Non mancano gli italiani reclusi per il reato di immigrazione clandestina. Ci sono Paesi - con rigide norme contro l’immigrazione - dove gli italiani non solo rischiano di essere espulsi, ma rischiano l’incriminazione proprio come avviene nei nostri confini in esecuzione della legge 94 del 2009: la metà circa degli italiani reclusi per immigrazione clandestina si trova in carceri europee, il 25% in America e il 22% in Asia e Oceania.

SANTA INQUISIZIONE: COME LA RELIGIONE COMUNISTA CAMBIA LA STORIA.

La BBC conferma: l’Inquisizione una truffa culturale per colpire la Chiesa. Addio ad uno dei suoi grandi calunniatori, Umberto Eco, scrive il 21 febbraio 2016 antimassoneria. Se oggi pensare al medioevo e alla Chiesa dell’epoca alla maggior parte del popolo poco informato vengono subito in mente roghi, streghe, superstizione e barbarie di tutti i generi lo dobbiamo sicuramente alla massoneria: si sa, sono i vincitori che scrivono la storia, o almeno quella storia ricca di reticenze, omissioni, spesso di vere e proprie falsità; accuse che si continuano a scagliare anche a distanza di molti secoli. Infatti, una ricerca storica al di fuori dei libri di testo ci dà un quadro chiaro -e del tutto diverso come vedremo- da quello cosiddetto ufficiale. Il 19 Febbraio 2016 se ne va uno dei grandi calunniatori e mistificatori del medioevo e soprattutto, della Chiesa e della Santa Inquisizione. E così Umberto Eco pieno di sè fino all’orlo ha dovuto piegarsi anche lui davanti al ciclo naturale della vita, e alla natura come Dio l’ha creata, a cosa gli è servita tanta superbia se anche lui, “filosofo illuminati”, ha dovuto piegarsi-come i tutti i comuni mortali- alla sua ora? Il suo romanzo “Il Nome della Rosa” è uno dei libri più venduti di tutti i tempi insieme al “Codice da Vinci” di Dan Brown e a “50 sfumature di Grigio”, ciò la dice lunga sui gusti dei lettori occidentali, che sembrano chiedano: “ci vuole meno fede e ci vuole più sesso”. Ateo incallito, Eco ha fatto del suo meglio per trascinare il pubblico mondiale in direzione delle sue vedute personali contro la Cristianità, anche se questo ha significato mentire senza scrupoli. Umberto Eco – intervistato dal Corriere in occasione degli eventi di Charlie Hebdo– si schierò in favore della cancellazione di tutte le religioni, portatrici, secondo lui di odio e di distruzione, appoggiando in pieno il piano di dell’Unica Religione Globale in piena sintonia coi signori del potere e della globalizzazione. Non una parola ovviamente sulle cause reali di questi attentati, -che di islamico, a dir la verità hanno poco o nulla,- ma a questi eventi verranno contrapposti quelli della Santa Inquisizione, come dire? Due false flag a confronto. E fu così che anche Eco ha dovuto chiudere gli occhi e passare dall’aldilà, se abbia invocato la Divina Misericordia– l’unica possibilità di salvezza- non lo sapremo mai, ma sappiamo per certo che le sue menzogne, i suoi romanzi e le sue affermazioni continueranno ad essere riprese dai grembiulini (o massoni senza grembiule) che continueranno a servirsene per attaccare ingiustamente la Chiesa Cattolica e i suoi fedeli.  

Introduzione a cura di Floriana Castro Testo in basso tratto da Appuntiitaliani.com. (Le foto riportate nell’articolo sono tratte dal dalla versione cinematografica de “Il nome della Rosa” di Jean-Jacques Annaud. Raffigurano il falso scenario medievale che si è inculcato nella mente del popolo medio: volti raccapriccianti, torture, donne innocenti accusate e scene di sesso tra presunte streghe e monaci, la più grande mistificazione di tutti i tempi). Finalmente un documentario della BBC, una fonte sicuramente non di parte Cattolica, che smonta il mito sulla Santa Inquisizione con il quale la Chiesa Cattolica è stata calunniata per secoli. Tutto falso signori, è tutto falso. La Chiesa non è quel covo di torturatori sadici depressi e maniaci che ha compiuto stragi, anzi, questa accusa torna al mittente, ossia la propaganda rivoluzionaria francese, i protestanti, gli inglesi anglicani che hanno attaccato la Chiesa Cattolica con accuse infamanti coprendo invece i loro misfatti. Ebbene sì, sono loro i torturatori sadici depressi e maniaci che hanno ucciso e torturato civili soprattutto Cattolici in quanto oppositori dei loro regimi. Basti pensare ai 2 milioni di francesi uccisi dalla massonica Rivoluzione Francese, ai Vandeani trucidati, ai Cattolici perseguitati in Inghilterra, facendo 70.000 vittime. Un clima di terrore quotidiano, ghigliottine, carceri, omicidi e genocidi. Questi sono coloro che accusano gli altri di colpe che invece sono le loro. Forza Cattolici, non fatevi intimidire, la Chiesa non deve chiedere scusa di niente e tantomeno bisogna vivere in soggezione per un presunto passato oscuro. Lo stesso Napoleone, invasa la Spagna, credeva di trovare archivi insanguinati ed invece non trovò niente. Forse avrebbe dovuto indagare sui suoi fratelli a Parigi. Vorrei proporvi questo interessante articolo che riassume i nuovi studi storici sulla cosiddetta leggenda dell’Inquisizione Cattolica, uno dei cavalli di battaglia della Massoneria ma soprattutto del Protestantesimo anglosassone fresco di tradimento nei confronti di Roma ed in competizione con l’egemonia del nascente Impero Spagnolo. Altro interessantissimo documento a supporto dei fatti è il documentario della BBC inglese -fonte sicuramente non di parte Cattolica- che dimostra come i fatti storici siano stati ingigantiti e manipolati in chiave anticattolica dalla propaganda protestante. Naturalmente i cavalieri anticattolici si stracciano le vesti e si inneggiano a difensori della dignità umana solo quando si tratta della storia del Cattolicesimo, dimenticandosi invece delle colpe ben più gravi e maggiori per esempio di Lutero che perseguitò i Cattolici e  fece uccidere 100.000 anabattisti, oppure  degli eccidi  di  Cattolici da parte dell’anglicanesimo, e non dimentichiamo i 2.000.000 di francesi, il 10% della popolazione delle Francia  inclusi i 600,000 Vandeani,  uccisi durante la Rivoluzione Francese, la quintessenza della libertà  e della superiorità anticlericale  ed invece dimostratasi la madre di tutte le dittature. E che dire del Comunismo che fece 100 “milioni” di morti nel mondo, dei quali 30 “milioni” solo in Russia, per i quali però non c’è memoria nè si grida allo scandalo? Per non parlare del genocidio armeno e quello in corso di Cristiani in medio oriente. Nessuna menzione riguardo agli eccidi dell’impero Azteco che sacrificava la popolazione con riti propiziatori  in quantità industriale fino a raggiungere i 30.000 morti ogni anno e che giustamente sono stati travolti dagli spagnoli che hanno letteralmente liberato la popolazione locale da tale tirannia satanica, non solo si vorrà vedere quei territori liberati da quel male, ma si accuserà persino il condottiero spagnolo, Hernan Cortes di inciviltà e barbarie contro quel civile e pacifico popolo. Ma si sà, l’unica liberazione accettabile è quella della dittatura liberale che ha portato guerra in Europa negli ultimi tre secoli ed ora   bombarda civili per esportare la falsa democrazia, nel silenzio totale dei sostenitori degli eroi che avrebbero liberato il mondo dalla millantata tirannia della Chiesa Cattolica

Streghe e Inquisizione: la verità storica oltre i luoghi comuni, di Bartolo Salone. Quando si parla di caccia alle streghe, nell’immaginario collettivo è immediato l’accostamento all’Inquisizione cattolica. Centinaia di migliaia, anzi milioni di donne sarebbero state sterminate per colpa di quell’esecrabile Istituzione, che certa storiografia liberal ci ha abituati a vedere come un covo di fanatici e integralisti religiosi assetati di sangue. Ma sono andate veramente così le cose? La ricerca storica, di recente, ha ribaltato questa prospettiva, dimostrando la falsità di una delle più diffuse “leggende nere” anticattoliche. Possiamo definire la stregoneria come quell’insieme di pratiche che una persona, in particolare relazione col Maligno, possa esercitare per nuocere ai suoi simili (secondo la credenza popolare). Benché si parli sovente di streghe e di caccia alle stesse, in realtà – come risulta dai documenti storici – la persecuzione riguardò, seppur in misura più ridotta, anche gli uomini e, in qualche raro caso, perfino i bambini. Contro un diffuso luogo comune di stampo femminista, va dunque rilevato come la “caccia” non era rivolta al sesso femminile in quanto tale, nascendo invece da una più generale ossessione per il diabolico. Ossessione – e qui va sfatato un altro luogo comune – sorta non nella Cristianità medievale, bensì nell’Europa moderna, proprio in quella osannata Europa della Riforma e del Rinascimento. Se nel Medioevo la credenza nella stregoneria non attecchì presso il popolo si deve proprio alla Chiesa cattolica, la quale, in numerosi Concili dal VI al XIII secolo (si pensi al Concilio di Praga del 563 o di Lione dell’840, fino ad arrivare ai Concili di Rouen e di Parigi, rispettivamente celebrati nel 1189 e nel 1212), condannò come superstiziosa idolatria la credenza che esistessero persone capaci di esercitare la magia nera in forza dei loro rapporti con il diavolo. A partire dalla fine del XIII secolo, le credenze stregonesche, per ragioni storiche che in questa sede non è possibile riepilogare, si fanno sempre più diffuse sia presso il popolo che presso alcuni ecclesiastici ed uomini di cultura. Sul piano dogmatico la posizione ufficiale della Chiesa sulla stregoneria (formulata nei predetti Concili) non muta, tuttavia muta la risposta al fenomeno: streghe e stregoni, proprio perché contravvengono agli insegnamenti della Chiesa e al divieto di esercitare le arti magiche, vengono considerati alla stregua degli eretici, e pertanto la competenza giurisdizionale, nei Paesi cattolici, viene sottratta ai tribunali civili e assegnata ai tribunali inquisitoriali. Secondo una certa vulgata (sostenuta con forza da intellettuali “liberal” e da romanzieri asciutti di storia alla Dan Brown) questo avrebbe segnato l’inizio di una vera e propria mattanza, che nell’arco di tre secoli avrebbe portato al rogo non migliaia, ma addirittura milioni di donne (tutte ascrivibili, manco a dirlo, al fanatismo e alla misoginia propri del mondo cattolico). Fin qui la “leggenda”. La verità è però ben diversa e per rendercene conto basterà riferirsi ad alcuni dati tratti dall’opera più completa ed aggiornata di cui ad oggi si dispone in tema di stregoneria e di caccia alle streghe: si tratta della “Enciclopedia della stregoneria, la Tradizione occidentale” edita nel 2007 dalla Abc-Clio e curata dallo storico anglosassone Richard Golden, per un totale di ben 752 voci, compilate da 172 studiosi di 28 diverse nazionalità. Innanzitutto, facciamo attenzione alla periodizzazione e alla “geografia” del fenomeno: la cosiddetta “caccia alle streghe” (ma, come visto, non mancarono anche roghi di stregoni) va dal 1450 al 1750 (siamo dunque in piena età moderna, non nel “buio” Medioevo) e interessò un po’ tutti i Paesi europei, sia cattolici che protestanti. Quante le persone giustiziate per stregoneria? Centinaia di migliaia o milioni, come ci ripetono alcuni? Ebbene, la cifra “vera” si aggira tra le 30.000 e le 50.000 unità, da “spalmare” nel corso di tre secoli: una cifra considerevole, ma comunque irrisoria se paragonata ai milioni di morti delle grandi rivoluzioni e guerre dell’800 e delle stragi del ‘900, e in ogni caso non tale da giustificare la definizione di “genocidio” né tantomeno di “olocausto”. Un fenomeno prevalentemente cattolico, dovuto alla furia dei tribunali inquisitoriali? Anche questa è una falsità bell’e buona. Infatti nei Paesi che avevano l’Inquisizione, le “streghe” giustiziate furono soltanto 310 (precisamente, 300 in Italia e Spagna e soltanto 10 in Portogallo), a cui si aggiungono (per rimanere in ambito cattolico) i 600 casi della Francia e i 4 dell’Irlanda. La grande massa (tra le 15.000 e le 25.000 vittime) è concentrata in Germania, mentre la piccola Svizzera contribuì al massacro con 3.000, la Scandinavia con 2.000 e la Scozia con 1.000. Si ha quindi conferma che la mattanza fu concentrata soprattutto nei Paesi luterani, calvinisti, anglicani o in quei piccoli Stati tedeschi che non avevano l’Inquisizione cattolica. Dunque, l’Inquisizione costituì non un incentivo (come a lungo ci è stato fatto credere), bensì un freno (e molto efficace) contro la persecuzione delle “streghe”. Le ragioni ci sono spiegate dallo storico Richard Golden in questo modo: “Nelle terre dove regnava la legge dell’Inquisizione cattolica vi furono meno vittime rispetto ad altre regioni d’Europa. Questo si deve al fatto che le tre Inquisizioni applicavano regole omogenee ovunque, avevano propri tribunali composti da giudici con nozioni basilari di diritto e applicavano la legge seguendo canoni universali, rispondendo a un unico potere. In Germania, invece, dove si ebbe il numero più alto di streghe uccise, la realtà era opposta: ognuno degli oltre trecento principati e staterelli aveva un sovrano con un suo tribunale che applicava la legge a piacimento e di conseguenza i pericoli per le presunte streghe aumentavano. I tribunali laici del nord e del centro dell’Europa condannarono a morte molte più streghe di quanto fecero quelli dell’Inquisizione cattolica romana, che facevano maggiore attenzione al rispetto di garanzie legali e di conseguenza limitavano il ricorso alla tortura”. Non penso ci sia bisogno di aggiungere altro, se non che da cattolici realmente maturi e amanti della verità dovremmo imparare ad andare oltre certi luoghi comuni e a guardare con più serenità ed obiettività al nostro passato. E non solo per un dovere di carità verso quanti ci hanno preceduto nella fede, ma anche per saper rispondere a ragion veduta a quanti vorrebbero farci vergognare della nostra fede presentandoci una visione parziale e in molti casi deformata della storia della Chiesa. Introduzione Floriana Castro testo seguente tratto da appuntiitaliani.com

L’eresia, la propaganda e la leggenda della chiesa assassina. La Santa Inquisizione, scrive il 29 agosto 2015 antimassoneria. Sicuramente alcuni lettori al semplice suono della parola “medioevo” avranno già davanti scenari cupi e tenebrosi di cumuli di cadaveri ammassati sui carri nel periodo della peste bubbonica o i roghi della chiesa assassina! Quando parliamo di Inquisizione è proprio il caso di dire: basta la parola. Basta pronunciare il termine Inquisizione ed ecco che noi cattolici restiamo senza parole, ammutoliti. Beh, la chiesa non è più come quella di una volta, oggi i papi non fanno altro che inchinarsi e chiedere perdono davanti a chi ha perseguitato impenitentemente la Chiesa di Cristo. Oggi i papi prendono le distanze dalla tenacia con la quale i loro predecessori hanno difeso l’etica cristiana. Suppliche di perdono che tra l’altro non vengono nemmeno accettate -come nel caso dei valdesi-, che si scissero dalla Chiesa rifiutando la sottomissione alle autorità episcopali ed in seguito combatterono ferocemente la Chiesa Cattolica, anche con la violenza: Essi si diedero alla rapina, al saccheggio, alle stragi di cattolici, a violenze gratuite di ogni genere nel corso dei secoli. Fino a poco più di cent’anni fa misero a punto vari attentati con lo scopo di assassinare San Giovanni Bosco. Invano il vescovo Bellesmaius li richiamò all’ordine. Il papa Lucio III finì per condannarli, nel concilio di Verona e nella Bolla Ad abolendam, del 4 novembre 1184. In seguito i valdesi si organizzarono come setta separata dalla Chiesa. Dallo scisma passarono presto all’eresia. Molto più tardi, verso il 1533, adottarono le principali dottrine della Riforma protestante: Fu questo ad attirare su di essi le repressioni legali sotto Francesco I. Essi furono allora, per ordine del Parlamento di Aix-en-Provence, le vittime di una tremenda spedizione punitiva, durante la quale vi furono migliaia di morti (le cifre variano fra 800 e 4.000 per 22 villaggi distrutti). Oggi i Valdesi si dichiarano ecumenici e desiderosi di collaborare nella Chiesa targata “Vaticano II” dopo aver chiarito alcuni punti teologici con Bergoglio, ricordiamo i punti teologici sulla quale si basano i valdesi: matrimoni gay, sostegno a movimenti LGBT, contraccezione, aborto, eutanasia, testamento biologico (i cui registri, in diverse città, sono gestiti proprio dai valdesi). Chiudiamo la parentesi dei valdesi; andiamo al cuore del problema: cosa ha fatto la chiesa per difendere la sua dottrina nel passato? Davvero gli scenari erano quelli descritti nel libro “Il nome della rosa” di Umberto Eco? E’ vero che tante povere donne innocenti venivano date al rogo solo per tenere un gatto nero in casa? “Come è possibile che la Chiesa cattolica sia stata capace di istituire i tribunali dell’Inquisizione?” domandano e ci ricordano i laicisti e gli avversari della Chiesa. E noi, spesso, non sappiamo che cosa rispondere. Anzi, molti cattolici spesso per ignoranza accusano i cristiani del passato, chiedendo scusa alle presunte vittime. Scusa? Ma conoscete la Santa Inquisizione?

COSA FU L’INQUISIZIONE? L’inquisizione è l’argomento privilegiato dai signori della sovversione per denigrare la storia della Chiesa e con questo pretesto anche la fede cattolica. La Santa Inquisizione fu istituita da Papa Gregorio IX nel 1232, per reprimere eresie, sacrilegi, stregonerie e gravi delitti. Quando ci si trovava davanti a delitti gravi e gli accusati non si pentivano, erano consegnati all’autorità civile, che li castigava secondo la legge. Ovviamente bisogna giudicare le cose secondo la mentalità dell’epoca. In Europa erano tutti obbligati a seguire la religione del re, secondo il principio “CUIUS REGIO, EIUS ET RELIGIO” (di chi è la regione, dello stesso è la religione) per cui un delitto nel campo religioso (eresia) era considerato come attentato contro lo Stato, che interveniva con tutto il peso della legge. Ad accendere i roghi furono prima la gente comune e poi le autorità, tanto che la Chiesa dovette intervenire per avocare a sé il problema. Cioè: in tema di religione solo la Chiesa ha la competenza necessaria nonché la misericordia occorrente affinché sul rogo non ci finisca qualche sprovveduto. Perciò creò l’Inquisizione, un tribunale di esperti teologi con tanto di garanzie che accertava che l'“eretico” fosse veramente tale e non un poveraccio tratto all’eresia da ignoranza. Se l’imputato persisteva nelle sue “idee”, la Chiesa non poteva fare più nulla per lui e passava la mano all’autorità civile. Pertanto, servirsi di questo fatto per attaccare il cattolicesimo e la sua dottrina è storicamente scorretto. Ricordate quanti cristiani furono dati in pasto ai leoni? quanti cristiani furono decapitati ai tempi della Roma pagana? Come mai nessuno ricorda le vittime cristiane sacrificate in nome della “libertà, uguaglianza e fraternità”? E le vittime cristiane durante gli anni 30 in Spagna? e le vittime causate dal Comunismo in Russia e in tutti i paesi comunisti? E i cattolici martirizzati ai tempi dell’istituzione dell’Anglicanesimo in Inghilterra, come si può dimenticare ciò?  Anche perchè stiamo parlando di ben 70.000 martiri uccisi per impiccagione e squartamento che avveniva prima della morte per soffocamento,- Beh, a me non sembra corretto non ricordare mai nemmeno le vittime causate dall’inquisizione protestante, numero assai superiore di quella Spagnola.  Non c’è obiettività…mi sembra ovvio che il bersaglio da colpire è sempre la chiesa cattolica e la sua dottrina. E' abitudine citare il processo e l’atto di abiura di Galileo Galilei, sospettato di eresia.  Il conflitto che egli stava affrontando contro una parte della Chiesa riguardava l’interpretazione di Galileo verso alcuni passi biblici che sostengono l’immobilità della terra e del movimento del sole distorti a favore dell’eliocentrismo. Consideriamo che la Chiesa prima delle prese di posizioni di Galileo era stata favorevole all’ “ipotesi copernicana”. Si evita di chiarire che dopo il processo Galileo non finì sul rogo, ma fu trasferito presso l’arcivescovo di Siena, dopo pochi mesi gli fu concesso di trasferirsi presso la sua abitazione. Pochi conoscono il “segreto” del processo alla quale fu sottoposto Galileo. Proprio di questo “caso” parla il libro “Lezioni da Galileo” recentemente pubblicato da APRA in italiano, scritto dal celebre storico della scienza Stanley Jaki (scomparso nel 2009). Jaki ha smontato diverse leggende, chiarendo che la Chiesa non era affatto interessata a prendere posizione sul sistema copernicano in sé e che non lo temeva affatto. Anche perché, come abbiamo scritto, già quattro secoli prima di lui san Tommaso d’Aquino (1225-1274) disse che la concezione tolemaica, proprio perché non suffragata da prove, non poteva considerarsi definitiva. Inoltre, diversi pontefici, come Leone X e Clemente VII, si mostrarono aperti alle tesi del sacerdote cattolico Copernico (nessun “caso Copernico”, infatti), tanto che nell’Università di Salamanca, proprio negli anni di Galilei, si studiava e si insegnava anche la concezione copernicana (e lo stesso Galilei ne era consapevole). Nel 1533 papa Clemente VII, affascinato dall’eliocentrismo, chiese, ad esempio, a Johann Widmanstadt di tenergli una lezione privata sulle teorie di Copernico nei Giardini Vaticani. L’opposizione all’eliocentrismo venne invece in modo compatto dal mondo protestante, tanto che Lutero scrisse di Copernico: «Il pazzo vuole rovesciare tutta l’arte astronomica». Ancora oggi i protestanti hanno grossi problemi con il mondo scientifico (creazionismo Vs evoluzione) a causa della mancanza di interpretazione della Bibbia. La critica a Galileo da parte della Chiesa fu basata invece dalla mancanza di prove sufficienti a favore dell’eliocentrismo e dunque sulla sua inopportuna presentazione come unica descrizione scientifica dell’universo, tale da costituire criterio di interpretazione della Sacra Scrittura. Galilei, inoltre, utilizzò come unica prova l’argomento dell’esistenza delle maree, che invece gli astronomi gesuiti collegavano non alla rotazione della terra ma all’attrazione lunare (e avevano ragione loro, non certo lo scienziato pisano). Tuttavia molti ecclesiastici erano d’accordo con Galilei, come ha perfettamente spiegato lo storico ateo Tim O’Neill, «tutta la vicenda non era basata su “scienza vs religione”, come recita la favola della fantasia popolare.

QUANTE VITTIME FECE L’INQUISIZIONE? Nell’immaginario popolare si pensa che i tribunali dell’Inquisizione siano stati istituiti per mandare tutti gli eretici al rogo. Si pensa che tutti gli inquisiti, tutti coloro che cadevano nelle terribili braccia dell’inquisitore finivano al rogo. Questo è quello che si pensa, questo è quanto molto spesso ci viene detto ed insegnato e affermazioni di questo genere zittiscono ogni possibile difesa. Noi ci domandiamo: le cose stanno proprio così? Vediamo qualche dato storicamente documentato, che ci aiuti a formulare un giudizio più vicino alla verità storica. Innanzitutto, ricordiamo che la condanna al rogo per gli eretici era una pena stabilita dal diritto penale e non dal diritto canonico. Non esiste nel diritto canonico la condanna al rogo. Fu l’imperatore Federico II di Svevia, che dichiarò per tutto l’impero – e lui era la massima autorità dell’impero e poteva farlo, allora, – l’eresia come crimine di lesa maestà, e stabilì la pena di morte per gli eretici. Ogni sospetto doveva essere tradotto davanti a un tribunale ecclesiastico e arso vivo se riconosciuto colpevole. Dunque, è vero che quando il tribunale dell’Inquisizione abbandonava un eretico al braccio secolare, questi veniva condannato a morte dalla giustizia secolare, se non si pentiva, ma non era la Chiesa a condannarlo a morte, nè era la Chiesa ad ucciderlo. La Chiesa si limitava a riconoscerlo come eretico che rifiutava ogni pentimento. Era il diritto penale e il braccio della legge che prevedevano la morte ed eseguivano la sentenza. Detto questo, entriamo un po’ nel merito e qui emergono sorprese: quale stupore ci coglie tutti se esaminiamo quante sono state le condanne al braccio secolare. L’esame dei dati ci indica che i tribunali dell’Inquisizione furono molto prudenti nel consegnare gli eretici al braccio secolare. I dati, documentati storicamente, non mancano, basta conoscerli. Facciamo l’esempio di Bernardo Gui, che ha esercitato con una certa severità l’ufficio di inquisitore a Tolosa. Bene: dal 1308 al 1323 egli ha pronunciato 930 sentenze. Abbiamo l’elenco completo delle pene da lui inflitte: 132 imposizioni di croci – 9 pellegrinaggi – 143 servizi in Terra Santa – 307 imprigionamenti – 17 imprigionamenti platonici contro defunti – 3 abbandoni teorici al braccio secolare di defunti – 69 esumazioni – 40 sentenze in contumacia – 2 esposizioni alla berlina – 2 riduzioni allo stato laicale – 1 esilio – 22 distruzioni di case -1 Talmud bruciato – 42 abbandoni al braccio secolare e 139 sentenze che ordinavano la liberazione degli accusati. Soltanto l’ 1% ! Questi dati contestano il mito della crudeltà dell’Inquisizione spagnola. E non solo. Lo storico statunitense Edward Peters ha confermato questi dati. Sentiamo che cosa scrive: “La valutazione più attendibile è che, tra il 1550 e il 1800, in Spagna vennero emesse 3000 sentenze di morte secondo verdetto inquisitoriale, un numero molto inferiore a quello degli analoghi tribunali secolari”. Come vedete, grazie a questi dati, va sfatata la leggenda che tutti coloro che venivano giudicati dall’ inquisizione finivano a rogo. È una leggenda che gli storici hanno smontato, ma che perdura ancora nell’immaginario popolare. Nei documenti inquisitoriali, abbiamo incontrato condanne alla prigione “perpetua e irremissibile”. Ma attenti a non farsi ingannare da certi modi di esprimersi del tempo. Abbiamo condanne al “carcere perpetuo per anni uno”. Solitamente “perpetuo” vuoi dire 5 anni, “irremissibile” vuoi dire 8 anni. La pena dell’ergastolo non era prevista.

CHI ERANO QUESTI CITTADINI CHE L’IMMAGINARIO VUOLE ESSERE STATI PERSEGUITATI PER LE LORO IDEE RAZIONALI? QUALI ERANO QUESTE IDEE? Ora, diciamo subito una cosa molto scomoda e fuori moda: non si deve pensare come è abbastanza diffuso nell’immaginario popolare che i condannati fossero pacifici cittadini adibiti a pratiche religiose del tutto innocue e le donne delle pie sante devote accusate ingiustamente senza alcuna prova, non e’ affatto la verità! essi erano in realtà colpevoli di praticare stregoneria e omicidi rituali, basti pensare a quante donne improvvisate ”ostetriche” compivano aborti fino alle ultime settimane di gravidanza per poi sacrificare i resti delle povere creaturine in rituali satanici. Gli eretici spesso costituivano un autentico pericolo per la pace sociale. Pensiamo ai Catari. Condannavano il matrimonio, la famiglia e la procreazione. Per i Catari non bisognava comunicare la vita, ma distruggere la famiglia, in poche parole: distruggere l’intera società medievale, lottavano anche con violenza contro la Chiesa. Negavano il valore del corpo, che consideravano prigione dell’anima. Questa soffre e si può liberare solo sopprimendo il corpo. Talvolta praticavano il suicidio e istigavano a compierlo, causavano rivolte e caos. I catari erano potenti e privi di scrupoli. L’autorità civile non intendeva permettere che, a furia di vietare la procreazione, l’umanità si estinguesse (tra l’altro, i catari proibivano il giuramento, che era la base della società feudale). Ben pochi sanno tutto questo. I settari sorvegliano attentamente e si affrettano ad intervenire perciò onde soffocare ogni timido accenno (non oseremmo mai parlare di restaurazione cattolica dopo il Vaticano II) di rievocazione della grandezza dell’Europa medioevale: la Leggenda Nera dei secoli caliginosi e bui deve essere mantenuta e un torrente di anatemi è scagliato ogniqualvolta si cerchi di metterla in discussione. Eloquente in proposito un articolo comparso nel maggio 1990 sul New York Times – testata giornalistica di proprietà della ricchissima famiglia ebraica dei Sulzberger – a firma di Dominique Moisi, vicedirettore dell’IFRI, l’Istituto per gli Affari Internazionali francese, intitolato: “Uno spettro ossessiona l’Europa: il suo passato”. Vi si dice: “Disgraziatamente (ora che l’Est si è liberato), nell’ombra esiste un’altra Europa, dominata da uno spirito di ritorno alle sue cattive inclinazioni di un tempo, nei richiami alle nere tentazioni della xenofobia, del razzismo e dello sciovinismo”. “[…] Noi non dovremmo sognare di ricostruire un’Europa cristiana sulle ceneri del mondo comunista o nei limiti di un certo capitalismo. L’Europa che Giovanni Paolo II desidera è quella nella quale la maggioranza degli Europei non si troverà molto a suo agio. La Chiesa – che storicamente è responsabile dell’antisemitismo – non saprà offrire soluzioni a una nuova Europa; soltanto i valori umanisti e le istituzioni democratiche sapranno farlo. O altrimenti il muro di Berlino sarà caduto invano”. Non esiste, né può esistere, una società che non si basi su un corpus strutturato di idee (chiamateli, se volete, valori, princìpi, religione civile) e che non lo difenda se vuole continuare a sussistere, ieri come oggi (basti pensare alle leggi sull’omofobia). (Il corriere della sera equipara l’ISIS ai roghi dell’Inquisizione). Eh si, che fortuna che abbiamo, i tempi sono cambiati, adesso non siamo più nel medioevo. Oggi paghiamo il 50 per cento dei nostri introiti ai prestatori di capitale, mentre nel medioevo il cittadino doveva solo la decima alla Chiesa o al feudatario. Oggi si può liberamente bestemmiare senza vergogna, si può ostentare con orgoglio il peccato, e si possono esigere diritti per i suoi perpetratori; si possono aprire pagine blasfeme su Facebook (in linea con i termini della community) create appositamente affinchè ognuno scriva la propria bestemmia sulla pagina; si possono tranquillamente ammazzare i propri figli nel ventre materno con la benedizione delle istituzioni e i soldi dei contribuenti; si può tranquillamente essere iniziati al satanismo comodamente da casa; ci si può arruolare tra i miliziani dell’ Isis con dei semplici click davanti ad un computer… Un uomo senza radici, infatti, privo di riferimenti, senza terra, senza uno scopo di vita diverso dal piacere e dall’accumulo di beni materiali fine a se stesso, è esattamente il prototipo ricercato dai mondialisti, docile burattino massificato, le cui pretese non travalicano il benessere biologico e la cui visione del mondo – solo a prima vista ampia, essendo egli una specie di apolide senza tradizioni. Che fortuna che abbiamo noi ad essere nati in una società così moderna ecumenica e progressista! 

25 APRILE: LA DATA DI UNA SCONFITTA.

ANPI: da “liberatori” a “talebani”, scrive Luciano Fasano il 19 agosto 2016 su “Il Giornale”. L’ANPI, Associazione Nazionale Partigiani di Italia, è ormai da diversi anni vittima di una brutta involuzione fondamentalista e – diciamolo pure – antidemocratica. Ultima dimostrazione ne sia la recente sostituzione ai vertici del Coordinamento regionale dell’Emilia Romagna di Ivano Artioli, Presidente della sezione di Ravenna, con Anna Cocchi, Presidente della sezione di Bologna. Motivazione ufficiale: la prescrizione statutaria che impone il coordinamento regionale venga affidato al Presidente della sezione del capoluogo di regione. Motivazione ufficiosa (anche se spesso a essere maliziosi ci si azzecca): il fatto che Artioli sia un sostenitore del sì alla riforma costituzionale del governo Renzi, mentre Cocchi – allineata con la linea politica dell’associazione – sia contraria a tale riforma. Ma al di là delle polemiche, un aspetto di questa vicenda sembra chiaramente assodato: che all’interno dell’ANPI – per usare le parole dello stesso Artioli – “il confronto sul Referendum è stato duro e aspro”. Certo, l’ANPI di oggi ha ben poco che vedere con una associazione di partigiani – comunisti, socialisti, cattolici, liberali, azionisti – che si sono battuti per la liberazione dalla dittatura fascista. Assai lontani sono i tempi in cui al suo interno si discuteva sull’amnistia dell’allora Ministro di Grazia e giustizia Palmiro Togliatti che beneficiava i sostenitori del fascismo, al fine di voltare pagina e inaugurare una nuova storia per la nascente democrazia italiana. Una discussione in cui prevalse la linea dei partigiani che sostenevano di aver combattuto per la libertà di tutti, fascisti compresi. Oggi quel clima è definitivamente smarrito, mentre l’ANPI è sempre meno associazione di partigiani e sempre più lobby dell’antifascismo militante radicale, nelle mani di giovani di estrema sinistra che di antifascismo sanno ben poco e anziani compiacenti che assecondano quei giovani, in un gioco in cui la vuota retorica ha la meglio su un’analisi politica concretamente fondata sui valori della convivenza democratica.

Una cieca retorica dell’antifascismo militante, che spesso porta l’associazione a esprimere posizioni barricadiere più prossime all’antagonismo dei centri sociali che alla difesa delle regole dello stato di diritto. La vuota litania della “costituzione più bella del mondo” (che poi verrebbe da chiedersi: forse che le altre costituzioni democratiche facciano schifo? Ma chi l’ha detto? E perché? Sulla base di quali criteri?), dietro alla quale si cela una visione del compromesso democratico a senso unico e del tutto fuori dai tempi. Sono questi gli ingredienti ideologici fondamentali di un’associazione partigiani che sembra sempre più un’organizzazione settaria, anchilosata in difesa di una concezione conservatrice e a senso unico della democrazia, rispetto alla quale chiunque la pensi in maniera diversa è da mettere all’indice e stigmatizzare come nemico della libertà. E che si alimenta costantemente dell’eccezionalissimo morale tipico delle chiese più settarie, in virtù del quale ogni sua scelta sarebbe sempre e comunque giustificabile. Fino a generare paradossi come il fatto schierarsi nella battaglia referendaria sulla riforma costituzionale con Casa Pound e organizzazioni di estrema destra alle quali, in altri contesti, non si è ovviamente disposti a riconoscere il diritto all’esistenza. L’ANPI come associazione di partigiani rappresentativa di quella comunità di donne e uomini che si sono battuti per la liberazione dal nazi-fascismo non esiste più. L’ANPI di coloro che si erano battuti per le libertà di tutti, fascisti compresi, è morta e defunta. Oggi al suo posto vi è una cricca talebana che si erge a difesa di una concezione paradossalmente anti-democratica della convivenza civile. Il rigore staliniano (purghe comprese) con cui persegue la linea politica contro la riforma costituzionale ne è soltanto l’ultimo conclamato esempio.

Ecco perché il 25 aprile non è la festa di tutti, scrive Luigi Benedetti il 25 aprile 2015. Tanto tempo fa, quando andavo a scuola, mai avrei potuto immaginare anni, questi, in cui la consapevolezza mi avrebbe portato a rivedere con difficoltà tutto quello su cui ero stato formato; volente o nolente. Ricordo i libri dettagliatamente esaustivi sulle vicende storiche che riguardavano la seconda guerra mondiale e non vi nascondo che, avendo da sempre avuto un otto in storia, ero convinto di conoscere e di sapere ciò che c’era da conoscere e da sapere. Questa mia convinzione di allora è probabilmente la convinzione rimasta in molti, oggi, che non hanno, come me, intrapreso un lavoro di passione fatto di ricerche, letture e studi personali durati anni. I più, infatti, restano convinti di conoscere la storia del ‘900 grazie all’istruzione scolastica, sempre difesa per politically correct ma davvero indifendibile avendo un minimo di cognizione di causa. Anche se già qualcosa non tornava quando mi accorsi che il mio libro di testo esaltava i risultati dei piani quinquennali di Stalin, la mia vita cambiò totalmente quando, appena diplomato, lessi l’opera che svelò al mondo la tragedia marxista leninista: Arcipelago Gulag. Immaginatevi di dormire. Siete nel pieno di un sonno riposante e sereno e, improvvisamente, vi viene sbattuta una padella in faccia. Ecco, per metafora, quello che provai quando lessi l’opera di Aleksandr Solzenicyn. Compresi chiaramente di non sapere assolutamente nulla della storia del 900. Anzi, compresi che tutti non sapevano completamente nulla; a parte le nozioni su Nazismo e Fascismo che rappresentano una parte piccolissima della storia del secolo del male; una parte che annichilisce dinanzi alla furia e alla durata dei regimi comunisti. Ed anche questi, mi accorsi nelle varie letture, non erano poi insegnati per ciò che accadde, con la sola eccezione dei Paesi anglosassoni. Mi piacerebbe dire molte cose. Parlare di come, contrariamente a quanto fattoci credere, i nazisti e i comunisti erano alleati. Fino all’operazione Barbarossa, infatti, così era e quando, capitolata Parigi, Hitler decise di attaccare l’est, Stalin venne preso alla sprovvista. A Mosca il Bolscioj dava soltanto Wagner ed erano proibiti i film antifascisti. Nella Polonia occupata, sul ponte di Brest Litovsk, la NKVD comunista (prima che si chiamasse KGB) consegnava alla Gestapo nazional socialista gli ebrei tedeschi fuggiti in Urss. Come poter chiudere gli occhi davanti al fatto che, quando cadde La Francia, mentre le truppe di Hitler entravano a Parigi sfilando sotto l’arco di Trionfo, gli amici del Partito Comunista Francese, su L’Humanité (l’Unità francese), titolavano a tutta pagina: “Bravi camerati! La borghesia mondiale sa finalmente di che pasta è fatto il proletariato tedesco!”. Si, i comunisti francesi inneggiavano, sul proprio giornale, agli amici nazisti che invadevano la Francia. Pagine della storia che, ad esser studiate, produrrebbero autocoscienza; pagine strappate, quindi, che nessuno vi farà mai studiare. La problematica dello studio consono e giusto della storia del comunismo e in generale del 900, a causa del fatto che questo partecipò alla vittoria e gli venne consentito di scrivere i libri di storia, riguarda tutti i Paesi. Lo dimostrano gli attacchi violenti subiti da Alain Bensacon per essersi permesso di dire che nessuno studia lo sterminio Ucraino o la kolyma. Le motivazioni dell’oblio a cui la storia del comunismo è stata destinata sono tante e difficilmente analizzabili. Certo, però, non esiste un Paese come il nostro da questo punto di vista. Un Paese passato da una dittatura, quella fascista, ad una egemonia culturale dittatoriale, quella comunista, senza passare da una rivoluzione liberale. Una egemonia culturale nelle mani del partito comunista più forte dell’occidente che ha fatto del possedimento dell’istruzione pubblica e dell’arte in genere il proprio punto di riferimento. E i risultati si vedono. I risultati sono quelli sperati e cioè convincere noi tutti, non importa se di destra o di sinistra, di una grande grandissima bugia; e cioè che il comunismo è stato il più grande e valoroso strumento antinazista ed antifascista. Un falso storico ben raccontato da Francois Furet. Questo valore, assolutamente falso, è il motivo grazie al quale si è sempre giustificato ogni scempio. E’ il motivo per il quale si è consegnata alla gente da istruire una consapevolezza basata sulla menzogna. La storia Italiana e in particolar modo la storia della resistenza italiana sono il simbolo di quanto detto fino ad ora. Tra le pagine del nostro passato, ad esempio, è quella dei partigiani italiani che certamente gode di più retorica e intoccabilità, e falsità, pena il pubblico disprezzo e la pubblica derisione. I partigiani sono sacri…La realtà, ciò che avvenne nel ’45, è ben diversa e in questi anni è stata ben rivisitata e analizzata da un bravissimo giornalista che, proprio in quanto antifascista come provenienza culturale, ha fatto questa battaglia di verità a testa alta. Avrete certamente sentito parlare di lui. Giampaolo Pansa ha dovuto combattere contro quelli che chiama i “gendarmi della memoria”. I violenti compagni a guardia della “vulgata resistenziale”.  E’ stato aggredito, minacciato di morte, umiliato, vessato, licenziato dal quotidiano Repubblica dopo 25 anni. Perché egli intraprese questo percorso? Lui, come avvenne per Solzenicyn tanti anni prima, si è trovato quasi per caso ad essere il punto di riferimento di tanti nostri concittadini che, figli di persone assassinate dai partigiani, avevano subito torti atroci ma non avevano mai potuto raccontare la loro storia essendo “prigionieri del silenzio”. Le tante lettere ricevute lo convinsero che era dannatamente vero che l’Italia repubblicana, infondo, era stata fondata su quella che lui chiamò “La Grande Bugia” e cioè l’insieme di convinzioni storiche inesatte riportate sui testi scolastici. Riporto testualmente dall’introduzione del suo libro che prende proprio questo nome: “Come nasce una grande bugia? Nasce da un insieme di reticenze, di omissioni, di piccole menzogne ripetute mille volte, di distorsioni della verità. Tutte giustificate dal pregiudizio autoritario che la storia di una guerra la possono raccontare solo i vincitori. Anzi, uno solo dei vincitori. Mentre i vinti devono continuare a tacere.” E’ bene dire che una delle grandi verità è che gli italiani erano Fascisti e, fino al ’38, entusiasti. Se si riesce ad avere giudizi sereni e distaccati il motivo di ciò appare evidente; evito di argomentare a fondo ma basta dire che mentre nel “paradiso socialista” c’erano i campi di concentramento, in Italia c’erano l’INPS e le colonie estive per i bambini. Ciò non toglie che il Fascismo sconfinò in una dittatura che, se al confronto del comunismo e del nazismo è da considerarsi una meraviglia, perseguitò gli oppositori; erano gli strumenti del tempo. Giorgio Napolitano era il Presidente del Gruppo Universitario Fascista. Giorgio Bocca scriveva articoli contro gli ebrei. Come dimenticare Dario Fo, che in piena disfatta si arruolò nella Repubblica Sociale e combatté per il suo Duce, fino all’ultimo, nelle brigate di Tradate contro i partigiani. Ma non voglio parlare della ipocrisia vomitevole che esiste in questo Paese bensì della grande e negata verità sulla guerra di liberazione. Liberazione…Il fronte partigiano era composto da tante anime e, mentre la maggior parte volevano dare all’Italia la democrazia, l’anima comunista come quella della Brigata Garibaldi operava in maniera organica all’Unione Sovietica che doveva invadere da est l’Italia ed instaurare il comunismo. Tutti i dirigenti partigiani e del PCI avevano combattuto in Spagna ed erano stati formati a Mosca. Su questo ho anche visionato personalmente le cartine con i piani di invasione del Kgb all’interno dell’archivio Mitrokhin; piani rimasti militarmente attivi fino ai primi anni ’80. Ho già parlato di ciò che avvenne nei territori a confine quando ho scritto delle foibe in febbraio nell’articolo “Il genocidio italiano”; meno l’ho fatto per ciò che prese inizio all’interno del territorio Italiano. Tutti noi siamo stati convinti che gli scontri e le rappresaglie durarono fino alla morte di Mussolini e che a quel punto l’Italia venne liberata. La cosa è totalmente falsa. In realtà, morto Mussolini, iniziò una battaglia di tre anni che per nostra fortuna si concluse con la vittoria della Democrazia Cristiana. E’ molto importante sapere cosa avvenne nelle zone a più influenza comunista e cioè quelle emiliane. Il triangolo compreso tra i paesi di Manzolino, Castelfranco Emilia e Piumazzo passò alla storia come il triangolo della morte per lo spaventoso numero di martoriati e uccisi dai partigiani comunisti. Era in atto una operazione di terrore marxista che vedeva la macelleria non di fascisti, ma di tutti quanti potessero contrastare negli anni seguenti una ascesa rossa; fino a quando non venne dato il contro ordine da Stalin sul progetto di invasione, i partigiani iniziarono un lavoro dicarneficina verso comuni cittadini: il farmacista, il notaio, il medico condotto, il parroco, il maestro, l’avvocato, lo studente universitario, il proprietario terriero, l’imprenditore, l’artigiano. Trucidati: prelevati la sera, portati via e mai più rientrati. Migliaia, spesso dati in pasto ai porci affinché non ci fossero cadaveri da riesumare. Tutto questo, ricordiamolo, con Mussolini già morto. Per questi assassini, spesso già condannati all’ergastolo, Togliatti amministrò una amnistia che liberò uomini che avevano compiuto esecuzioni in massa e sanguinosi atti “rivoluzionari”. Questi furono avviati verso la Cecoslovacchia, dopo il 1948, e lì sono rimasti ad addestrare negli anni Sessanta e Settanta i futuri Brigatisti rossi. Oggi, i “gendarmi della memoria”, ci raccontano che i partigiani combattevano solo contro i fascisti e che ammazzarono i fascisti per donarci la democrazia, per liberarci. Questa è una bugia intoccabile che è arrivata fino ai giorni nostri. Prova ne è il fatto che i componenti della Brigata Osoppo, che erano partigiani non comunisti che facevano anch’essi la resistenza, vennero ammazzati a martellate sul cranio in una imboscata perché non accettavano il progetto di invasione sovietica. La strage di Porzus, appunto, è una delle pagine della nostra storia simbolo della verità nascosta. Se in Italia non fossero state presenti le truppe alleate, il bagno di sangue comunista avrebbe raggiunto proporzioni colossali e avrebbe avuto inizio, come già accaduto ad est, una dittatura sanguinaria che avrebbe cambiato per sempre la nostra vita. Questa è la verità. E a lavorare in favore degli stermini e di questo progetto c’erano i partigiani comunisti. Coloro i quali siamo obbligati a celebrare come i nostri eroi in un Paese dove la menzogna è la pietra fondante e dove ad essere celebrati dovrebbero essere i ragazzi di 17 anni prelevati dalla scuola e morti congelati sul Carso, sul Grappa, in Russia per difendere la Patria Italiana. Giovani italiani dimenticati, mai celebrati. I nostri eroi. Dal punto di vista politico, con i suoi continui errori, la sinistra italiana ha trovato nelle tematiche riguardanti la resistenza la vera e propria prigione culturale dalla quale non è riuscita ad uscire, a tal punto da diventare patetica nell’esercizio di una retorica spinta oltre il normale. Prova ne è che, nella dialettica politica, le parole resistenza e liberazione trovano sempre spazio contro l’avversario politico. Questo nel 2015. Una sinistra sempre a matrice culturale comunista che, nonostante i tentativi di apparente cambiamento coadiuvati da cambi di nome del PCI, non ha portato in porto un processo di maturità politica propedeutica a una pacificazione nazionale. Un isterismo e una reazione violenta si sono sempre registrati, nella sinistra italiana, al tentativo di operare, appunto, verso una strada di pacificazione dove tutti i cittadini si sentano figli di una stessa storia e dove le date, come appunto quella del 25 aprile, siano davvero sentite come patrimonio comune. Sfida impossibile ormai. E’ sotto gli occhi di tutti che questa data non è sentita dalla maggior parte della gente. Perchè questa data non è e non può rappresentare una memoria positiva. E non è e non può rappresentare un momento di festa. Solo bandiere rosse, in piazza, e niente tricolori; ci sarà un motivo? A raccontare la verità sulla liberazione ci sono gli stermini comunisti del nord, ma anche tanto da raccontare al sud, con ad esempio le truppe alleate marocchine, quelle della foto in testa all’articolo, che saccheggiarono con violenza intere regioni, stuprando donne e sodomizzando uomini legati agli alberi. Ne avete mai sentito parlare? E’ la storia mai raccontata del marocchinato alleato. Ma anche se non raccontata è la nostra storia, la vera storia della “liberazione” e appartiene a tutti noi. Siamo stati invasi da eserciti stranieri che hanno vinto la guerra e hanno conquistato il territorio risalendo da sud, facendosi largo con i metodi di ogni conflitto: la violenza. Il sistema sanitario nazionale mise a disposizione le condotte mediche per imbastire una grandissima operazione di aborti. Per le centinaia di migliaia di donne stuprate, incinte dei soldati nemici, dei “liberatori”. Queste cose chi le sa? Questa è la verità, con buona pace di tanti politici che presenziano il teatrino che celebra, ogni anno, la menzogna. Siamo l’unico Paese del mondo che festeggia la sconfitta delle seconda guerra mondiale come un giorno di vittoria, fateci caso: è grottesco. Ma anche se questa data è spacciata per gioiosa, anche se a scuola la verità non ce la fanno studiare, per molti nostri concittadini è e sarà sempre una data di morte e di lutto; non solo per i “figli dell’aquila” ma anche, ad esempio, per i figli di quei tanti partigiani non comunisti assassinati. Una parte importante, maggioritaria, dell’Italia non può riconoscersi nel 25 aprile che è quindi festa solo rossa, di divisione; è roba loro! Perché al contrario di quanto propinatoci e fattoci credere, questa data ricorda la sconfitta, l’invasione delle truppe nemiche, gli stupri e le violenze; ed è l’anniversario del tentativo di instaurare in Italia una dittatura comunista. Che fallì. Ecco perché il 25 aprile non è la festa di tutti.

25 APRILE: LA FALSIFICAZIONE SPUDORATA DELLA STORIA. La Storia non si celebra, si studia, scrive Gianfredo Ruggiero il 25 aprile 2015. Ogni anno, con l’approssimarsi del 25 aprile, si susseguono a ritmo incalzante le rievocazioni della guerra di liberazione. E’ un crescendo di manifestazioni, convegni e interventi per celebrare degnamente il sacrificio dei partigiani e di quanti si immolarono per riportare in Italia libertà e democrazia. Le piazze si tingono di rosso e i ricordi della barbarie nazifascista riaffiorano alla mente. Tutto bene tranne che… Dei crimini fascisti oramai sappiamo tutto o quasi, ma del lato oscuro della resistenza, quello fatto di processi sommari, fucilazioni, fosse comuni e di soldati uccisi sui letti di ospedale o prelevati dalle prigioni e freddati con un colpo alla nuca, di violenze e stupri cosa sappiamo? Poco, molto poco. E delle motivazioni, non sempre nobili, che hanno portato i partigiani a coprirsi il volto e a imbracciare il fucile, cosa ci viene tramandato? Praticamente nulla. Conosciamo tutti la triste vicenda dei 7 fratelli Cervi uccisi dai fascisti (è stato perfino tratto un film), ma quanti conoscono l’altrettanto dolorosa storia dei 7 fratelli Govoni, tra cui una donna incinta, fucilati dai partigiani perché uno di essi vestiva la camicia nera? Si ricordano giustamente le 365 vittime della strage nazista delle Fosse Ardeatine, mentre è stata rimossa dalla storia un’altra orribile strage, quella di Oderzo dove, a guerra finita, 598 tra allievi ufficiali e militi della Guardia Nazionale Repubblicana furono fucilati dai partigiani e gettati nel Piave dopo essersi arresi e aver deposto le armi. Di vicende come queste la storia, quella vera, ne è piena.  Non è mia intenzione fare la macabra contabilità dei morti o stabilire chi maggiormente si macchiò le mani di sangue innocente, ma solo contribuire a sollevare quel velo di omertà che copre le malefatte dei vincitori e questo non per spirito di rivalsa, ma solo per amore di verità, perché solo riconoscendo gli errori del passato possiamo evitare di ripeterli in futuro. Messi con le spalle al muro i sostenitori della mitologia partigiana, dopo aver negato per sessant’anni i crimini della loro parte, ora ammettono, a bassa voce e con evidente imbarazzo, che in effetti qualche errore e qualche eccesso ci fu, però – e qui incomincia la solita stucchevole tiritera – da una parte, quella partigiana, c’era chi combatteva per la libertà, mentre dall’altra parte c’erano i sostenitori della tirannide nazifascista. Quindi secondo loro quegli eccessi sono pienamente giustificati dal nobile fine, esattamente come le Foibe, anch’esse nascoste per sessant’anni e poi presentate come reazione all’oppressione fascista. Se devesse prevalere questa logica qualunque crimine, anche il più efferato, sarebbe giustificato. Dipenderebbe solo dalla potenza di comunicazione e dalla forza di persuasione di chi detiene il potere. Per motivi anagrafici non ho conosciuto il Fascismo e anch’io, come la maggior parte degli italiani, sono cresciuto a pane e resistenza avendo appreso la storia in maniera superficiale dai libri di testo, dai programmi televisivi e attraverso la cinematografia imperniata sui soliti luoghi comuni che vede i cattivi da una parte e i buoni dall’altra. Solo che non mi sono accontentato della verità ufficiale – quella scritta dei vincitori – e ho voluto approfondire le mie conoscenze. Il risultato è stato che man mano colmavo i miei vuoti i dubbi aumentavano. Dubbi che a tutt’oggi nessuno è stato in grado di sciogliermi. Il primo dubbio riguarda la definizione dei partigiani quali “patrioti e combattenti per la libertà”. Il movimento partigiano pur essendo variegato e spesso al suo interno profondamente diviso era militarmente e, soprattutto, politicamente egemonizzato dal Partito Comunista Italiano (Pci), all’epoca diretta emanazione della Russia Sovietica da cui prendeva ordine (e denari) tramite Togliatti, stretto collaboratore di Stalin, che infatti viveva in Russia. Obiettivo dichiarato di questi partigiani era quello di fare dell’Italia, una volta sconfitto il fascismo, uno stato comunista satellite dell’Unione Sovietica. Non si capisce quindi su quale base logica e storica i partigiani si possano definire tout court patrioti e combattenti per la libertà. Se l’Italia è oggi una Repubblica “democratica” (sul concetto di democrazia – altro grande equivoco – torneremo) non è certo per merito dei partigiani, ma in virtù della divisione del mondo in due blocchi contrapposti decretata a Yalta nel ’45, da cui scaturì la nostra collocazione nel campo occidentale e la conseguente dipendenza americana. Il contributo dei partigiani alla sconfitta tedesca fu, infatti, del tutto marginale se lo rapportiamo all’enorme potenziale bellico messo in campo dagli alleati. Le fila partigiane s’ingrossavano man mano che l’esercito tedesco si ritirava sotto l’incalzare degli angloamericani. Gli stessi americani avevano una scarsa considerazione dei partigiani e li tolleravano solo perché facevano per loro il lavoro sporco come assassinare i gerarchi fascisti e fare attentati dinamitardi per suscitare la rappresaglia tedesca che fu quasi sempre spietata e spropositata. Il 25 aprile del ‘45 Mussolini era a Milano e solo dopo la sua partenza per trovare la morte a Dongo il capoluogo lombardo fu “liberato” dai partigiani che si abbandonarono ad una vera e propria orgia di sangue contro i fascisti o presunti tali, compresi i loro familiari. Come testimoniano le lapide al Campo 10 del Cimitero Maggiore di Milano che raccoglie le spoglie dei fascisti (di quelle che si riuscì a recuperare, oltre un migliaio) molti dei quali barbaramente assassinati o fucilati ben oltre il 25 aprile e dopo che ebbero deposto le armi. Lo stesso discorso riguarda la Russia di Stalin la quale contribuì in maniera determinante alla sconfitta della Germania nazista, pagando per questo un pesante tributo di sangue, ma al solo scopo di estendere il suo dominio su tutto l’est europeo e non certo per portare in quelle sciagurate terre democrazia e libertà. Non dimentichiamoci poi che l’Unione Sovietica fu alleata della Germania nazista fino al 1941 con la quale si spartì la Polonia due anni prima. Particolare importante che la storiografia ufficiale nasconde – perché farebbe smontare in un sol colpo la tesi di comodo della “lotta della democrazia contro la tirannide” – riguarda la dichiarazione di guerra di Francia e Inghilterra all’indomani dell’invasione tedesca della Polonia: fu dichiarata alla Germania, ma non alla Russia pur avendo anch’essa attaccato, da est, la Polonia alcuni giorni dopo. Perché? Evidentemente la Polonia fu solo un pretesto per muovere guerra alla Germania, mentre Stalin, che dopo la Polonia si apprestava ad invadere la Finlandia e ad annettersi le deboli Repubbliche Baltiche con l’assenso occidentale, era considerato già da allora un prezioso alleato, ben sapendo che questi era uno spietato dittatore, che con le sue “purghe” aveva massacrato, deportato nella gelida Siberia e ridotto alla fame milioni di russi, molti dei quali ebrei, definiti “nemici della rivoluzione” (ma questo, evidentemente, alle democrazie occidentali – America in testa – poco importava). Il secondo dubbio riguarda la definizione di “guerra di liberazione”, quando invece fu una classica e tragica guerra civile. I fascisti non venivano da Marte, era italiani come italiani erano i partigiani. In quei lunghissimi 18 mesi la guerra non risparmiò nessuno, attraversò le famiglie e divise i fratelli. La guerra è una cosa tragica e quella civile lo è ancor di più, in queste circostanze gli uomini tendono a perdere la loro dimensione umana per accostarsi a quella bestiale, per cui o stendiamo un pietoso velo e consideriamo tutti i morti uguali e rispettiamo gli ideali che animarono le loro azioni giusti o sbagliati che possano apparire, oppure la storia la raccontiamo tutta e per intero, senza reticenze e convenienze politiche. Altro grande equivoco riguarda la presunta invasione nazista dell’Italia: tedeschi non invasero l’Italia, c’erano già. Dopo la caduta di Mussolini, avvenuta il 25 luglio 1943, il governo Badoglio chiese aiuto dell’alleato tedesco per contrastare gli anglo americani che nel frattempo erano sbarcati in Sicilia. I soldati italiani e tedeschi si ritrovarono, quindi, a combattere spalla a spalla contro l’invasore americano fino all’8 settembre ’43, quando il Re e Badoglio, con estrema disinvoltura e lasciando allo sbando il nostro esercito, passarono armi e bagagli dalla parte del nemico, scatenando l’ira di Hitler. Solo la nascita della Repubblica Sociale Italiana e la ricostituzione di un esercito lealista cui aderirono, secondo uno studio di Silvio Bertoldi e confermati dai libri matricola, in seicentomila (quanti furono i partigiani è invece un mistero), frenò i propositi di Hitler che aveva previsto il totale smantellamento e trasferimento in Germania del nostro apparato industriale, la deportazione nei campi di lavoro e nelle fabbriche tedesche di tutti gli uomini che si fossero rifiutati di arruolarsi nella Wehrmacht e chissà cos’altro. Le motivazione che spinsero tanti giovani ad entrare nel neo costituito Esercito Fascista Repubblicano furono diverse e non sempre nobili (come spesso accade in questi casi): il rischio di fucilazione per i renitenti alla leva, l’intento di molti militari deportati nei campi di concentramento in Germania di tornare in Italia per poi disertare, la paga e la voglia di protagonismo. Vi aderirono anche fior di criminali, ma la stragrande maggioranza di essi lo fece per riscattare l’onore perduto e per sottrarre l’Italia alla vendetta hitleriana. Questi giovani, uomini e donne, potevano, al pari di molti loro coetanei, aspettare in qualche luogo sicuro che la bufera passasse, oppure andare con i partigiani le cui fila s’ingrossavano man mano che i tedeschi si ritiravano e la vittoria alleata si approssimava. Potevano, ma non lo fecero. Preferirono continuare a combattere, in divisa e a volto scoperto, per quel senso dell’onore che oggi, in epoca di consumismo e individualismo, si fatica a comprendere, consapevoli che le sorti del conflitto erano segnate e che difficilmente ne sarebbero usciti indenni. Furono migliaia e migliaia in tutta Italia i soldati fascisti fucilati dopo la loro resa o condannati a morte dopo processi sommari, come ampiamente documentato nei libri di Gianpaolo Pansa, di Giorgio Pisanò e di Lodovico Ellena, (solo per citarne alcuni). Un capitolo a parte lo meritano le ausiliarie, Il primo reparto al mondo di donne combattenti, addestrate senza nessuna differenza con i loro commilitoni maschi. Il loro tributo di sangue fu altissimo, catturate dai partigiani venivano spesso violentate e uccise.A guerra finita molte di loro, rapate a zero, furono costrette a passare su carri bestiame tra ali di folla inferocita, sottoposte a insulti e angherie di ogni genere. Il terzo dubbio riguarda la modalità di lotta dei partigiani. Mentre i fascisti come abbiamo visto combattevano in divisa e a volto scoperto, inquadrati nelle divisioni dell’esercito della Repubblica Sociale Italiana o nelle varie milizie volontarie i partigiani, invece, pur potendo anch’essi vestire una divisa – essendo armati e finanziati dagli americani – e pur potendo combattere a fianco dell’esercito alleato o nell’esercito  italiano di Badoglio secondo le regole di guerra, preferirono il passamontagna, i soprannomi e la tecnica del mordi e fuggi a base di attentati, sabotaggi e omicidi alle spalle. Tecnica sicuramente meno rischiosa per loro, ma devastante negli effetti. Il fine era infatti quello di scatenare la rappresaglia tedesca e creare i presupposti per quella guerra civile, poi eufemisticamente definita di “liberazione”, le cui ferite ancora oggi stentano a rimarginarsi. Non si capisce infine l’ostinazione dei partigiani con la quale insistono a definirsi militari nonostante una sentenza del Tribunale Supremo Militare abbia negato loro tale status, attribuendolo invece ai combattenti fascisti della Repubblica Sociale Italiana Sono questi i dubbi su cui mi piacerebbe si sviluppasse un sereno dibattito, scevro da pregiudizi ideologici e senza reticenze, finalizzato a capire la storia e non solo a celebrarla come purtroppo avviene da oltre sessant’anni.

La memoria. Il 25 aprile divide meno, ecco perché, scrive il 25 aprile 2016 Marco Gervasoni su "Il Messaggero"

Lo dicono tutti: il 25 aprile è ormai spento, non accende più le “grandi passioni”. Meglio così, verrebbe da dire. L’origine della parola “festa” nella nostra lingua rimanda all’idea di “accogliere”, di “ospitare nel focolare domestico”. Ma il 25 aprile non è mai stata una celebrazione condivisa, ha spesso prodotto gli effetti contrari, ha esaltato una divisione degli italiani in nome di memorie contrapposte. Negli anni Cinquanta i governi non rievocavano quella data, lasciandola ai comunisti, che ne fecero una festa dell’antifascismo, buona per rafforzare la loro identità. In seguito si trasformò in una celebrazione della Resistenza, intesa come incompiuta e da attuare, magari con l’incontro tra i “grandi partiti popolari”, la Dc e il Pci. Solo negli anni Ottanta, con il salutare spegnersi delle guerre ideologiche, il 25 aprile sembrò normalizzarsi, anche se caricandosi di una retorica celebrativa fine a se stessa. Poi crollò la repubblica dei partiti, venne Berlusconi, e il 25 aprile ritrovò vita, ma era una vita apparente, perché la festa diventò uno strumento di lotta politica. Molti ricordano il 25 aprile 1994, quando una parte della sinistra cercò di trasformare la celebrazione in una rivincita contro la vittoria elettorale del Cavaliere.

Chi ha tradito il 25 aprile? "Da qualche tempo, il 25 aprile si festeggia sempre più stancamente, tra l'indifferenza generale, tra bande, cortei, bandiere, labari, gagliardetti, con la scorta di un numero sparuto di superstiti partigiani, ormai ultra90enni, che si guardano di sottecchi, quasi sgomenti ed imbarazzati, chiedendosi dove mai si trovino. Il 25 aprile viene ormai celebrato solo come un rito, senza comprenderne, appieno e a fondo, il significato, secondo una liturgia abitudinaria, da officiare, semel in anno. Sale su un palco qualche politico locale, che, spesso, non sa nemmeno, anche per ragioni anagrafiche, che cosa sia mai la Resistenza, e che si profonde in discorsi retorici di circostanza, vani e vuoti, tra slogans ripetitivi e roboanti. Tante orazioni sono tenute da personaggi invischiati in connivenze mafiose e in sporchi intrallazzi politici; poi, l'oratore ridiscende tra i comuni mortali, la banda attacca “Oh, bella, ciao!”, infine, tutto termina a tarallucci e vino, fino al prossimo 25 aprile. E i vecchi partigiani vengono di nuovo rinchiusi in un cassetto, sotto naftalina, per essere riesumati, l'anno seguente; chi è sopravvissuto, beninteso. Non capisco poi l'abitudine di celebrare il 25 aprile con riti religiosi, con tanto di Messe, in cui il sacerdote, dal pulpito, non sa che diamine dire, e che si accoda poi ai vari cortei, con tanto di croce in testa e seguito di chierichetti: mi pare che sia quasi unire “un s-ciopp cunt un cunfesiunàl”, come diceva mia nonna milanese, Trono ed Altare, sacro e profano, politica e religione. Calamandrei esemplifica così lo spirito eroico e di fratellanza del movimento partigiano: “Tra tutti i morti della Resistenza, vi erano seguaci di tutte le fedi: ognuno aveva il suo Dio, ognuno aveva il suo credo: e parlavano lingue diverse, e avevano pelle di diverso colore: eppure, nella libertà, si sentivano fratelli: e quando si trattò di difendere questi beni, ognuno fu pronto, nonostante la diversità di fede e di nazione, a sacrificarsi per il fratello”. E Ungaretti sottolineò

”Qui

vivono per sempre

gli occhi che furono chiusi alla luce

perché tutti

li avessero aperti

per sempre

alla luce”

Questo è ciò che dobbiamo ricordare e tramandare, aldilà delle sterili cerimonie rievocative. Non è da abolire la commemorazione del 25 aprile, ma la sua stanca ripetizione, tra rituali di circostanza. Il 25 aprile non deve limitarsi alla reiterazione e all'ecolalia di parole come Libertà e Resistenza, senza poi trasformarle in prassi civile quotidiana. Altrimenti, la Resistenza scade nell'ironico, direi quasi irriverente, gioco di parole, di “Partigiano reggiano”, di Zucchero. Evitiamo dunque i discorsi retorici improduttivi e le parate inutili.

Tanti caduti partigiani, se ritornassero in vita, oggi, che cosa mai non direbbero, constatando, con amarezza, che hanno sacrificato la loro vita inutilmente?" Franco Bifani

«Via i libri di Pansa dal banchetto per la Resistenza». Sul banchetto nell’atrio centrale della biblioteca comunale “Bassani”, in questi giorni vi sono tanti libri e saggi storici in mostra, a raccontare, in occasione del 25 aprile, la storia della..., scrive il 23 aprile 2016 “La Nuova Ferrara”. Sul banchetto nell’atrio centrale della biblioteca comunale “Bassani”, in questi giorni vi sono tanti libri e saggi storici in mostra, a raccontare, in occasione del 25 aprile, la storia della Resistenza italiana. Una iniziativa non nuova per la biblioteca Bassani, che per eventi di attualità propone agli utenti il materiale della biblioteca. Però, tra i libri esposti sul banchetto in questi giorni, anche quelli di Giampaolo Pansa che hanno innescato una petizione e che ieri aveva raggiunto un centinaio di adesioni. Una petizione proposta da Irina Aguiari per rimuovere i testi di Pansa dal banchetto allestito: tre titoli, "La Grande Bugia", "La Guerra Sporca dei Partigiani e dei Fascisti" e "Il Sangue dei Vinti". «Testi revisioni e negazionisti» scrive la Aguiari, sottolineando che «la biblioteca giustifica tale scelta con la volontà di garantire molteplici punti di vista». «Credo - la motivazione della petizione - che su una dittatura durata un ventennio e una guerra civile per la libertà d'Italia non esistano punti di vista discordanti». «Soprattutto - continua - non in una città in cui gli antifascisti sono stati fucilati, non in una biblioteca intitolata a Giorgio Bassani, non in occasione della Giornata della Liberazione». Nella petizione si parla di «sfregio alla memoria di tutti coloro che hanno dato la vita per la libertà del nostro Paese (partigiani e civili)». E si conclude «così come nessuno oserebbe (a ragione) porre un testo di Hitler accanto al Diario di Anna Frank, non vedo per quale motivo tale riserbo non venga dedicato anche alla nostra storia». La richiesta di rimuovere i testi- è bene dire - è già stata respinta da Enrico Spinelli, direttore Servizio biblioteche Comune, che spiega: «A mio personale giudizio non ci sono elementi di scandalo poichè Pansa scrive libri, chiunque può analizzarli criticamente e può dire la propria: l’operazione della biblioteca Bassani è corretta, senza faziosità». E commenta: «Le purghe dei libri ricordano anni bui della cultura europea, dico di più: a mio giudizio il 25 aprile, la memoria di Bassani e dei partigiani escono rafforzate dal confronto con quanto scrive Pansa. Quindi ho deciso di respingere la richiesta inoltratami via mail di far rimuovere quei testi dal banchetto».

La sinistra contro Pansa contraddice il senso della Liberazione. "Egregio Direttore, Leggo della triste petizione promossa da Irina Aguiari per rimuovere i libri di Giampaolo Pansa dai banchetti del 25 Aprile, davanti alla biblioteca comunale “Bassani” di Ferrara. Invocare la rimozione di libri richiama tempi bui, nega e contraddice quindi il significato vero del 25 Aprile, ossia la lotta per la Libertà, anche di opinione. Non se ne può più di questo retaggio nostalgico della sinistra, che si è impossessata di una festa di tutti, di una data storica. Ricordo che la Resistenza non l’hanno fatta solo i comunisti, ma tra gli eroi che diedero la vita per liberare il Paese dal nazifascismo ci furono anche liberali, cattolici, liberi pensatori, persone di diversa estrazione e di credi differenti. E’ ora che certa sinistra la finisca di strumentalizzare il 25 Aprile per far propaganda a se stessa. Mio nonno, Gianpietro Fabbri, fu partigiano, non comunista, ma democristiano. Il suo ricordo è il mio orgoglio. Nei circoli Anpi ci si ostina a parlare esclusivamente di "compagni", promuovendo di fatto un falso storico (o, quantomeno, solo mezze verità). E’ ora inoltre che si inizi a parlare di ciò che è accaduto dopo la guerra, e che anche l’Anpi dica la sua a riguardo, per evitare di giustificare ogni tipo di assassinio in nome di un conflitto già finito. Ricordo a questo riguardo episodi come l’eccidio di Argelato: l’esecuzione sommaria, compiuta dai partigiani delle Brigate Garibaldi, di decine di persone, tra cui i sette fratelli Govoni. Esecuzioni precedute da torture e sevizie, a guerra finita. Ricordo anche l’uccisione dei preti e dei seminaristi, vittime della furia ideologica comunista, come il nostro Rolando Maria Rivi, beato della Chiesa cattolica, barbaramente trucidato a 14 anni solo perché indossava l’abito talare. Se Pansa ha tolto dal cono d’ombra argomenti scomodi alla retorica comunista è perché ha a cuore la verità storica. E questo dà valore al 25 Aprile, che è festa di tutti. Non lasceremo che – anche quest’anno – la sinistra si impossessi della festa di Liberazione per la sua bassa propaganda politica. La petizione di Irina Aguiari è la negazione stessa del 25 Aprile. Cordiali saluti". Lettera di Alan Fabbri (Capogruppo Lega Nord in Regione Emilia Romagna) su “Estense”.

Pansa “Il nazismo e il fascismo non sono stati sconfitti dalla Resistenza, ma dagli Alleati”. La voce e l’opinione di Pansa in un intervista di Cesare Martinetti pubblicata su La Stampa il 25 Aprile 2016. «Pansa!». La vociona rimbomba nel telefono al terzo squillo.

Buongiorno Pansa, parliamo della Resistenza?

«Certo, sono anch’io un figlio della Resistenza, me ne occupo e ne scrivo da quasi sessant’anni, ho cominciato con la tesi di laurea che ho discusso nel 1959 a Torino, relatore Guido Quazza, 110, lode e dignità di stampa. Da allora non ho più smesso di occuparmene».

Quanti anni aveva durante la guerra civile?

«Tra gli 8 e i 10, parliamo del ’43-’45. La mia famiglia era genericamente socialista. Se avessi avuto 19 anni con ogni probabilità sarei andato anch’io in montagna».

A combattere il fascismo?

«Sì, ma in Italia nazismo e fascismo non sono stati sconfitti dalla Resistenza. È una verità che non piace a molti, ma è la verità. Sono stati sconfitti dagli Alleati, in particolare dagli angloamericani e non solo. Da migliaia di ragazzi americani, inglesi, canadesi, brasiliani, persino indiani e della Brigata ebraica che sono morti fino all’aprile 1945. Non possiamo dimenticarlo».

E cosa fu la lotta di Liberazione?

«Una guerra civile, un affare di due minoranze. Erano ragazzi di 18-19-20 anni. E si sono trovati in un conflitto bestiale. La retorica resistenziale accredita la ferocia soltanto ai fascisti e certo che erano feroci, ma i partigiani lo sono stati nello stesso modo, hanno compiuto eccidi e torture. È successo in Valsesia – la fonte è uno storico di provata fede antifascista, Cesare Bermani – che due ausiliarie ritenute spie furono uccise facendo esplodere una bomba a mano nella vagina. Ma è solo uno dei tanti episodi».

Perché questa ferocia?

«Dipendeva dal carattere dei comandanti o delle bande, partigiane o fasciste che fossero, ma anche dal tipo di guerra e tra il ’43 e il ’45 ci sono state tante guerre: c’era chi combatteva per liberare il Paese dal fascismo e chi per preparare la rivoluzione comunista. Ci sono stati delitti politici che non verranno di sicuro ricordati tra il 24 e il 25 aprile. C’è stato l’eccidio dei partigiani bianchi a Porzûs, le malefatte della banda Moranino, ci sono stati dei comandanti, veri partigiani, ma non comunisti, eliminati misteriosamente nei giorni della Liberazione».

Pansa, lei dodici anni fa ha pubblicato da Sperling & Kupfer “Il sangue dei vinti”, rovesciando il punto di vista ufficiale e guardando ai fatti dalla parte degli sconfitti, dei fascisti. Perché? Qual era il suo intento??

«Per capire bene le guerre civili non possiamo fermarci nel momento in cui si concludono, uno vince e uno perde. Conoscevo i tentativi di Giorgio Pisanò e i piccoli libri pubblicati da editori sconosciuti. Ma non c’era un racconto organico. Ho fatto un’inchiesta, ho girato mesi, nel Centro ma soprattutto nel Nord Italia, andando a vedere i posti e verificare quello che mi raccontavano. L’unico intento era di fare una cosa che per come la facevo io non l’aveva mai fatta nessuno».

E infatti il suo libro è stato uno scandalo: ma come, Pansa, uno di noi, che si mette dalla parte dei fascisti?

«È successo il finimondo per la reazione dei compagni e dei compagnucci ma anche di altra gente, mi viene in mente Giorgio Bocca, ma è scomparso e non voglio più litigare con lui. La cosa meno cattiva ma più sciocca che mi dissero era che l’avevo scritto per compiacere Berlusconi perché mi facesse nominare direttore del Corriere della Sera. Una cosa ridicola».

Un successo che non le è stato perdonato?

«Il mio caso ha messo allo scoperto un mondo terribile e cioè che una democrazia nata da una guerra civile dovrebbe essere conciliante, riconoscere e non disprezzare il lavoro di uno che viene dalla sua parte, che ha lavorato per tutta la vita in giornali di sentimenti antifascisti, dal Giorno, a La Stampa, al Corriere, a Repubblica per 15 anni, all’Espresso per 17 e che ha attraversato un territorio proibito per raccontare quello che era successo».

Un revisionista?

«Ah quella parola sono stato tra i primi a pronunciarla, il 24 maggio del 1959, in un convegno a Genova, c’era Ferruccio Parri, mi sono alzato e ho attaccato Roberto Battaglia, autore della Storia della Resistenza italiana pubblicata da Einaudi (che Longo aveva corretto, perché troppo intrisa di azionismo), dicendogliene di tutti i colori. L’ex sindaco socialista di Genova ha protestato, ma Parri mi ha lasciato parlare. Poi mi ha chiamato e mi ha detto: hai fatto bene, i giovani devono tirare i sassi nei vetri, i vetri si rompono, vediamo che erano sporchi e andavano cambiati. Poi mi diede 25 mila lire, un assegno rosa del Credito italiano, come una sua personale borsa di studio».

Senta, Pansa, nei suoi libri fascisti e partigiani sembrano stare sullo stesso piano. Perché? Non c’era una parte giusta e una sbagliata?

«Intanto non è vero che metto tutti sullo stesso piano. E poi, che domanda è? La parte giusta era quella della Resistenza. Con una nota a margine. Che il maggior numero delle bande erano delle Garibaldi ed erano comandate da due ossi da mordere, Longo e Secchia, convinti che la guerra di resistenza al fascismo fosse solo il primo tempo. Poi doveva arrivare il secondo… per fortuna grazie a Stalin, a Yalta, a De Gasperi il secondo tempo, dalla dittatura nera a quella rossa, non arrivò mai».

S’è mai pentito di aver scritto quel libro?

«Mai, ne sono orgogliosissimo, ha rotto un tabù, ma mi fa ridere chi dice che si sapeva tutto. Mi fa paura la retorica che esploderà in questi giorni… guai se non si celebrasse il settantesimo, ma chissà cosa dirà Renzi che non sa niente. Vorrei scappare dall’Italia, fare il turista in Australia…».

E invece cosa farà il 25 aprile?

«Come ogni giorno mi alzerò alle 6 e dopo una piccola colazione accenderò il computer e mi metterò a scrivere. È la mia vita, lo farei anche gratis. E poi, come diceva Totò, bisogna insistere: e io insistisco».

25 aprile: basta con l’idea di elevare a Nazione una festa di partito, scrive Emanuele Ricucci il 25 aprile 2016. L’idea di elevare a Nazione una festa di partito. L’Italia è figlia di pochi pregi e tanti errori, è impossibile chiamare democrazia ciò che scrivono solo i vincitori. Fiano e Boldrini: ecco la nuova Resistenza? Nella parolina magica, antifascismo, ormai, c’è un mondo. Un po’ come dire oggi democristiano. Antifascismo è un credo, una mezzo e una missione. Un accessorio vintage, una scusa per tutto e un’offerta promozionale: passa ad antifascismo ed avrai elevazione sociale, culturale, 4 gb al mese, 400 sms e 400 minuti di chiamate. Del fascista – sempre da intendersi come prolungamento naturale di antifascismo, quindi con assoluto disprezzo – oggi ci si da tutti, random. Un modo gretto ed assolutamente superficiale per indicare il male, momentaneo e di qualsiasi forma. Per decentrosocializzare e rendere alla portata di tutti un evento che con il presente non ha più nulla a che fare. Chi sono i nuovo paladini della Resistenza, in una società perennemente a base di antifascismo? I centri sociali, Emanuele Fiano, l’uomo che vuole rendere illegale l’anellino con la croce celtica e maledire a vita il suo portatore o Laura Boldrini, la distruttrice di obelischi, l’apriporte alla Camera dei nonnetti con il fazzolettino al collo e la gita pagata – quelli che almeno mezzo mitra in mano l’hanno tenuto? – In una società liquida in cui il polo d’attrazione è il centro e tutto il resto è anacronismo, l’ideologia è anacronismo e rinnegamento, in cui va configurandosi l’antipolitica populista, canonicamente intesa, nello schieramento del poveraccio popolano costretto sempre alla sofferenza contro il politico di professione, chi è il vero Resistente, qual è la vera Resistenza? Allora stanca da morire la brutalità e l’ipocrisia con cui la retorica militante impone di leggere ancora oggi, nel 2016 disastrato da crisi umane ed economiche continue, nel 2016 della decadenza occidentale, disumanizzante, in cui la Tecnica oltrepassa qualsiasi flusso di coscienza e lobotomizza le masse, il “benedetto” valore della Resistenza. Forse utile a tenere aperti i circoli di quella creatura mitologica definita Associazione Nazionale Partigiani d’Italia? Forse per acchiappare audience in momenti di estrema difficoltà. I crimini fascisti, tutti segnati nel grande libro. Negata la storia. Allora pare che questa disgraziata Italia parta per il lungo viaggio verso la sua maturità solo da dopo la Resistenza. Né il Rinascimento, né il Risorgimento, né il fascismo, ovviamente, né la Grande Guerra, troppo patriottica per essere il riferimento di slancio dell’italica modernità, per essere la protagonista dell’Italia che cresce. Incuranti di alcuni dettagli che giammai potrebbero essere insegnati nelle scuole di ogni ordine e grado. Dal concetto di guerra civile, che mise fratelli contro altri fratelli, che mai si può definire tale, da intendersi invece come Resistenza, come mito della Resistenza, come necessità di Resistenza, come gesta della Resistenza e non come tale, protrattasi anche dopo la cessazione del secondo conflitto. Dal Pci armato che subito dopo la guerra tentava di imporsi, fucili alla mano, per eliminare gli avversari della futura democrazia subito – “Nemici da uccidere sono anche i partigiani bianchi, i militari anticomunisti che hanno combattuto insieme agli Alleati, gli antifascisti liberali, i possidenti, i sacerdoti, i politici moderati, i socialisti riformisti”, quindi non solo fascisti in fuga nelle campagne, scrive Giampaolo Pansa nel suo “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli, 2010) -, approfittando del conflitto ancora caldo, alle parole di Pietro Secchia – una della teste più importanti della Resistenza italiana -, scritte negli anni ‘70, capaci di far intuire un certo scopo: “Particolarmente importante, come indice del nostro orientamento, mi sembra il fatto che già nel settembre 1943 noi sottolineassimo che il nostro obiettivo era la lotta per una democrazia popolare. In seguito si parlerà di democrazia progressiva. Ma sin dall’inizio il nostro obiettivo era chiaro ed esplicito: noi comunisti non ci battevamo per ritornare alla democrazia prefascista” o a quelle del generale Raffaele Cadorna, inviate nel 1945 all’allora Ministro della Guerra, Alessandro Casati: “Il PCI, che conduce il gioco, non nasconde affatto che il suo scopo è di prendere il potere. Per instaurare un regime russo che chiama popolare progressivo. I suoi capi nell’Italia del Nord sono stati addestrati in Unione Sovietica. E sono passati attraverso la trafila delle Brigate internazionali in Spagna e del comunismo in Francia. Dichiarano apertamente di volersi appoggiare all’Urss e a Tito. E recalcitrano al pensiero di doversi sottomettere agli ordini degli alleati occidentali”. Degli omicidi metaconflitto, degli stupri di ragazzine, umiliate e poi uccise – come nel caso di Giuseppina Ghersi -, del “triangolo della morte”, finanche delle crocifissioni – Il ‘triangolo della morte’, una specifica zona del Nord Italia in cui trovarono la fine numerose persone per mano partigiana, di cui non tutte furono legate direttamente al fascismo. Dall’uccisione di Rolando Rivi, poi Beato della Chiesa Cattolica, giovane seminarista di 14 anni, ai sette fratelli Govoni, di cui soltanto due aderirono de facto alla Rsi, facenti parte del secondo ‘Eccidio di Argelato’, compiuto nel maggio del 1945; in entrambi gli accadimenti, persero la vita più di 30 persone. La strage della ‘cartiera Burgo’ a Mignagola, in cui vennero rinvenuti nei pressi della stessa cartiera più di 80 cadaveri occultati da componenti delle brigate ‘Garibaldi’. Oltre ai civili massacrati, vi era Luigi Lorenzi, sottotenente della Guardia Nazionale Repubblicana. Testimoni oculari affermarono che, ancora vivo, fu inchiodato ad una specie di croce formata da due legni e che poco prima di morire disse: “La croce che Gesù Cristo ha portato non può far paura a un cristiano” -, di queste azioni condotte da frange della Resistenza, da componenti della Resistenza e delle varie Brigate appartenenti alla grande famiglia del CLN o del CLNAI, poi riconosciuti con onore unici eroi, unici degni figli dalla futura Repubblica Italiana, non si può e non si deve parlare. Disturberebbe quantomeno la retorica della Resistenza che, invece, deve secondo qualcuno perpetuarsi nei secoli a venire. Tutta fantascienza di cattivo gusto. Solo alcuni esempi. Tranquilli, un parto della fantasia. “Il 25 aprile non è mai stata una festa inclusiva e nazionale, ma è sempre stata la festa delle bandiere rosse, che rappresentano legittimamente una parte degli italiani, ma solo una parte, non sono l’Italia. È una festa nata contro “gli italiani del giorno prima”, ovvero non considerava che gli italiani fino ad allora non erano stati certo antifascisti. Non è un festa di tutti gli italiani, perché non rende onore al nemico, anzi nega dignità e memoria a tutti costoro, anche a chi ha dato la vita per la patria, solo per la patria, pur sapendo che si trattava di una guerra perduta. Oggi c’è una rinnovata enfasi corale per un evento che più si allontana nel tempo, più è lontano dalla sensibilità della gente e più viene imposto mediaticamente. Per cui mi sono convinto che sia necessario ridiscutere il valore di questa festa così come viene concepita”, scrive Marcello Veneziani. Impossibile la riappacificazione nazionale, unico gesto utile a rendere memoria a chi ha ceduto la vita combattendo per un’idea, verso cui dignitosamente va riconosciuta memoria, questo sì. Unico gesto utile a garantire una reale coscienza nazionale, un reale impulso democratico. Per evitare di celebrare la “festa” di una guerra civile – come l’hanno definita Giorgio Pisanò e Claudio Pavone –, per tendere davvero a valori nazionali condivisi.

Per il 25 aprile scoppia la faida tra i partigiani. La Scala concede uno spazio all'Anpi. Un reduce: non rappresenta tutti, scrive Luigi Mascheroni, Lunedì 25/04/2016, su "Il Giornale. La guerra civile, ora, è interna al mondo partigiano. Può sembrare un piccolo episodio ma, a un giorno dalle celebrazioni del 25 aprile, mette a nudo una vecchia contrapposizione - partigiani comunisti che hanno egemonizzato la Liberazione, e partigiani non comunisti sempre rimasti ai margini - che si trascina tra infastiditi silenzi e malumori da 70 anni, e ogni tanto alza la testa. Come ha fatto ieri un «affezionato scaligero» milanese, Carlo Guidi, il quale ha firmato una lettera aperta al sovrintendente del Teatro alla Scala, Alexander Pereira, per esprimere il suo dissenso (e sembra di capire di molti altri frequentatori del Piermarini) da un clamoroso gesto. Ritenuto offensivo. Quale? Avere concesso all'Anpi, l'Associazione nazionale partigiani, l'autorizzazione ad aprire all'interno del teatro una sezione «che si prefigge di promuovere e tutelare i valori della Costituzione». Di per sé, obiettivo nobilissimo. Ma - si chiede il firmatario della lettera, «nipote di partigiano e ugualmente nipote di un combattente della Repubblica sociale» - perché non limitarsi a un richiamo alla Resistenza da parte del Teatro alla Scala (dedicare per esempio una sala a un grande partigiano o promuovere un concerto per l'anniversario della Liberazione) e invece arrivare a coinvolgere l'istituzione scaligera in un sodalizio con un'associazione «che non rappresenta affatto tutti i partigiani d'Italia, ma solo una parte?». «Da sempre l'Anpi è stata la succursale partitica del mito della Resistenza, ovvero quanto di più lontano dalla Liberazione: l'ha trasformata in un valore di partito e non di tutti gli italiani». «Trovo assai grave - è la conclusione della lettera, in cui chi firma promette di non assistere più ad alcuna rappresentazione nel periodo della direzione di Pereira - che un'associazione come l'Anpi, ancora purtroppo non del tutto scevra da logiche di partito e di contrapposizione ideologica, abbia messo un piede nel tempio sacro della musica milanese, dove la politica e lo spirito fazioso dovrebbero essere banditi». Augurandosi di non ritrovarsi «pugni chiusi e bandiere rosse dentro il Palco reale». La Scala, insomma, è la casa di tutti i milanesi, non la sede di un partito. E, se non bastasse, a rovinare la festa del 25 aprile, ecco scoppiare la polemica di giornata, rilanciata ieri dal Corriere del veneto. Il quotidiano ha raccontato di come giorni fa Deris Turri, del direttivo Anpi di Rovigo, sia finito nell'occhio del ciclone con accuse di simpatie per le Brigate rosse (alle quali - detto per inciso - i vecchi partigiani consegnarono molte armi e più di un'idea). E cos'ha fatto, il dirigente Anpi? Ha condiviso sulla sua pagina Facebook la frase «La rivoluzione è un fiore che non muore» accanto al volto di Prospero Gallinari, il brigatista rosso (morto nel 2013) condannato all'ergastolo per una serie di attentati, tra cui il rapimento di Aldo Moro: in totale fu esecutore diretto, con altri brigatisti, di otto omicidi. Titolo del post condiviso dall'esponente dell'Anpi? «Ciao Prospero». Conseguenze: polemiche violente in Rete, richieste di scuse, tentativi di giustificazione («La mia unica colpa è essere da sempre un vero Antifascista») e, infine - probabilmente su pressione dell'Anpi stessa - dimissioni dall'incarico. Buon 25 aprile. A tutti.

L'edificante epopea dei partigiani costruita a tavolino. Le carte dell'istituto "Perretta" svelano in che modo le vicende delle Brigate Garibaldi nel Comasco siano state reinventate a colpi di documenti apocrifi. A rendersene conto gli stessi protagonisti di quelle vicende, scrive Roberto Festorazzi, Martedì 23/02/2016, su "Il Giornale". La storia bugiarda, ossia la ricostruzione artificiosa e mitopoietica del passato, è una sorta di specialità nazionale, almeno dal Risorgimento in poi. Ma esiste una forma di menzogna più sottile, sistemica e dannosa, che procede attraverso la fabbricazione di documenti falsi attraverso i quali elaborare una vulgata edificante per chi compie l'operazione. Un caso da manuale è quello che abbiamo scoperto, compulsando le carte dell'Istituto di storia contemporanea Perretta di Como. Ossia, uno dei capisaldi della sacralizzazione delle vicende resistenziali, per il fatto che questo centro di memoria opera, da quasi quarant'anni, nell'area dove si compirono, in un sol colpo, tre eventi di gigantesca portata, nelle ultime giornate di aprile del 1945: la fine del fascismo, la conclusione della guerra e l'epilogo di Benito Mussolini e dei suoi fedelissimi. Consultando il Fondo Gementi del Perretta ci siamo imbattuti in una lettera esplosiva che mette a nudo i criteri attraverso i quali si è costruita la monumentalizzazione dell'episodio resistenziale. Un documento che dev'essere sfuggito ai censori rossi i quali controllano che nulla, di esiziale, possa sfuggire e capitare dentro i fascicoli che vengono distribuiti in consultazione agli studiosi. Bisogna spiegare anzitutto chi è stato il personaggio oggetto delle mie indagini. Oreste Gementi, milanese, classe 1912, fu il leader partigiano di più elevate responsabilità militari, negli organi di coordinamento interpartitico operanti durante la lotta di Liberazione, nel Comasco. Svolse infatti le funzioni di comandante della Piazza lariana del Cvl (Corpo volontari della libertà). Nonostante il suo rango elevato, su Gementi (nome di battaglia, Riccardo), è caduto un totale oblio, spiegabile con una circostanza molto semplice. Il comandante partigiano ebbe il torto, se così si può dire, di non allinearsi alle direttive del Partito comunista, il quale durante e dopo la Liberazione dettò legge, non soltanto nel Comasco. Tanto per cominciare, Gementi si convinse, sulla base di elementi raccolti già nell'immediatezza dei fatti, che a sparare a Mussolini e alla Petacci non fosse stato l'emissario di Luigi Longo, Walter Audisio, alias colonnello Valerio, ma l'umile operaio comasco Michele Moretti, il partigiano comunista Pietro. E ciò bastava perché il nome di Gementi venisse incluso nella lista di proscrizione stilata dagli apparatik della centrale di disinformacjia rossa concentrata nella triangolazione Pci-Anpi-Istituti storici della Resistenza. Non solo: il comandante Riccardo aveva tale determinazione morale da far spiccare, già nel giugno del 1945, un mandato di cattura contro Michele Moretti per il furto dell'oro di Dongo. Risultato: un mese dopo, il Pci architettò contro Gementi un agguato, che fu sventato solo grazie all'abilità straordinaria della vittima predestinata. Ma veniamo al cuore di questa nostra scoperta. Nel novembre del 1991, l'Istituto storico di Como diede alle stampe un volume di oltre 600 pagine, La 52ª Brigata Garibaldi Luigi Clerici attraverso i documenti: si trattava di un racconto della lotta di Liberazione, nel Comasco, attraverso una raccolta delle fonti scritte riferite all'attività della formazione partigiana cui si dovette l'arresto di Mussolini e il fermo della sua colonna, il 27 aprile 1945. Ben 550 documenti (relazioni, direttive, circolari, ecc.), presentati come originali, i quali portavano alla luce la trama organizzativa e l'intera vicenda cospirativa della brigata. Curatore dell'opera antologica era Giusto Perretta, comunista, fondatore e a lungo direttore dell'Istituto comasco di storia del movimento di Liberazione che oggi porta il nome di suo padre, l'avvocato Pier Amato Perretta, un antifascista ferito a morte a Milano da elementi delle Ss e della Legione Muti, nel novembre del 1944.Giusto Perretta, nella nota introduttiva, spiegava che la pubblicazione era frutto di ricerche «effettuate nel 1986-87 presso l'Istituto Gramsci di Roma». Tale scavo archivistico era valso ad arricchire e a integrare la già imponente documentazione in possesso dell'Istituto storico lariano. Ne sortiva una rassegna di materiali che il curatore accreditava come coevi, cioè «compilati e diffusi nel corso vivo della lotta»: in tal modo si sarebbero potute fornire «maggiori garanzie di veridicità» rispetto alle fonti cronologicamente successive. Fin qui le parole di Perretta. Ciò che non è mai trapelato, al riguardo, è la durissima contestazione pervenuta al curatore dell'opera, da parte di Gementi. Il comandante Riccardo, giunto ormai al termine dei suoi giorni terreni, il 10 aprile 1992 confessava, in una riservata-confidenziale, di aver accostato «con molto scetticismo» l'indigeribile repertorio stilato da Perretta, dichiarandosi incapace di «trarne alcun insegnamento», nell'impossibilità pratica di discernere «tra il vero ed il falso». Dove nasceva questo sentimento di somma diffidenza, nell'uomo che ben conosceva la segreta trama di quei lontani fatti della Resistenza, per averli vissuti dall'interno come pochissimi altri? Lo rivelava lo stesso Gementi, tornando con la memoria a una «confidenza fattami da Coppeno nei primi anni dopo la Liberazione, quando i nostri rapporti erano normali e saltuariamente ci incontravamo, ma soprattutto egli mi telefonava per accertarsi su dati e fatti del periodo clandestino». Il riferimento è a Giuseppe Coppeno, lo storiografo ufficiale cui il Partito comunista, già nell'immediato dopoguerra, affidò il compito di costruire, a tavolino, la storia bugiarda. In quale modo? Allestendo una vera e propria officina di fabbricazione di repertori documentari non genuini, allo scopo di produrre la glorificazione del movimento partigiano rosso. Coppeno, nato nel 1920 e scomparso nel 1993, fu un comunista duro e dogmatico che operò, durante la Resistenza, tra Como e Milano, quale cinghia di trasmissione delle direttive del partito dentro le formazioni garibaldine. In realtà, si chiamava Ciappina, in quanto fratello di Ugo Ciappina, un ex gappista che fu tra gli autori della rapina di via Osoppo, avvenuta a Milano, nel 1958. In conseguenza di tale fatto, egli chiese e ottenne di poter cambiare il cognome in Coppeno. Incontrai Ciappina-Coppeno, a Milano, nel maggio del 1992. Andai a casa sua, per intervistarlo. Il personaggio mi raggelò, ma non potevo nemmeno sospettare che si portasse appresso i segreti che Gementi non esitò a denunciare. Che cosa si era lasciato infatti sfuggire, il fratello del bandito Ugo Ciappina, nei suoi colloqui con il compagno di battaglie? Lo racconta lo stesso comandante Riccardo, con questa confessione-bomba: «Coppeno mi aveva confidato che, su richiesta di Gorreri e Fabio, stava costruendo documenti intesi a valorizzare e potenziare l'attività della 52ª, dal settembre '43 alla Liberazione». Dante Gorreri e Pietro Vergani Fabio furono dunque coloro che commissionarono il lavoro al falsario ideologico seriale. Vale la pena di ricordare chi fossero i due personaggi. Gorreri, segretario della Federazione lariana del Pci, e Vergani, comandante lombardo delle Brigate Garibaldi, furono due stalinisti ciecamente devoti al partito. Entrambi, negli anni Cinquanta, vennero rinviati a giudizio per alcuni delitti che insanguinarono il dopo-Liberazione, come quello del capitano Neri (Luigi Canali), leader morale della Resistenza comasca, della staffetta di questi, Gianna (Giuseppina Tuissi), e della giovane Annamaria Bianchi. La clamorosa denuncia dell'esistenza di una centrale della contraffazione, costituisce l'anello mancante di un teorema logico che gli storiografi di impostazione mentale laica, cioè non dottrinale, hanno sempre cercato di dimostrare. Vale a dire: i documenti sui quali è stata intessuta la trama della narrazione resistenziale non convincono. Ora sappiamo perché. I materiali apocrifi costruiti da Ciappina-Coppeno furono il preludio di una colossale opera di elaborazione storiografica mistificatoria che non è ancora cessata. Osserva, del resto, Riccardo che il falsario di partito lasciava, per così dire, le impronte del suo delitto nelle modalità stesse del confezionamento, in sequenza, di documenti in realtà non coevi: quelle carte risultavano infatti essere «dattiloscritti senza firma o con firma a macchina». Chiunque può constatare di persona che è proprio così: il compilatore seriale della storia bugiarda produsse documenti quasi sempre privi di firma autografa, o di altri elementi (come interpolazioni e correzioni manoscritte) che ne attestassero la genuinità sotto il profilo materiale. Autentiche polpette avvelenate, versate poi, in gran parte, all'Istituto Gramsci, dove poi Perretta andò a riesumarle. Istituto Gramsci il quale si fece, a sua volta, ente certificatore dell'autenticità e della sicura provenienza di quelle carte. Il bello è che, nella nota introduttiva al testo, lo stesso curatore compiva un'ammissione che, alla luce della lettera di Gementi, suona alquanto compromettente. «Date le condizioni delle copie originali», infatti, si era proceduto alla «loro ribattitura e riduzione rispettando rigorosamente il testo originale». Insomma, secondo Perretta, era stata effettuata la riscrittura, in forma dattilografica, delle fantomatiche carte originali, prendendo a pretesto le condizioni di cattiva conservazione, e conseguentemente di difficoltosa decifrazione, delle stesse. Ma, se così si fosse fatto, il curatore avrebbe dovuto avvertire quantomeno il dovere metodologico di produrre, in immagine, nelle pagine a fronte di ogni riduzione dattilografica (com'egli la chiama), i testi originali. Cosa che si guardò bene dal fare. Perretta non volle nemmeno spiegare quando, come, e da parte di chi, fosse stata realizzata questa colossale operazione da copisti. Questo autentico ginepraio ci riporta alle considerazioni dubitative di Gementi: a meno di voler per forza seguitare a supporre l'esistenza di veri documenti originali, gli unici originali paiono essere quelli, contrabbandati per tali, la cui matrice ci riporta alla figura di Ciappina-Coppeno e alla sua investitura a falsario di partito. Sorge del resto il sospetto che il Pci assumesse, per così dire, per vizio metodologico generalizzato, la predisposizione di un arsenale documentario realizzato in vitro, con un quadruplice scopo: alimentare il mito della propria forza egemone nel movimento partigiano, silenziare tutte le fonti non allineate con la propria verità di partito, riempire i vuoti narrativi e insieme occultare le degenerazioni violente della Resistenza.

Incoerenze e «copia e incolla» della (falsa) storia partigiana. Come spiega l'ex comandante «Stefano», i documenti artefatti mirano a «presentare la Resistenza come un fenomeno sorto da una volontà pianificata. Ma non fu così», continua Roberto Festorazzi, Mercoledì 24/02/2016, su "Il Giornale".  Mario Tonghini, 93 anni, comasco, è il superstite leader partigiano che operò, durante la Resistenza, a stretto contatto con Oreste Gementi («Riccardo»), che fu comandante della Piazza di Como del Cvl, il Corpo volontari della libertà guidato dal generale Raffaele Cadorna.Gementi, in una lettera del 10 aprile 1992 a Giusto Perretta, fondatore e a lungo direttore dell'Istituto comasco per la storia del movimento di Liberazione, accusò Giuseppe Ciappina-Coppeno di aver costruito, nel primissimo dopoguerra, un intero arsenale documentario apocrifo, su richiesta del suo partito, il Pci.Materiale che fu alla base della pubblicazione del volume, di oltre 600 pagine, curato dalla stesso Perretta, e intitolato La 52ª Brigata Garibaldi Luigi Clerici attraverso i documenti. Un testo, edito nel novembre del 1991 dallo stesso Istituto storico lariano (oggi intitolato a Pier Amato Perretta, martire antifascista e padre di Giusto), che contiene la raccolta di circa 550 carte presentate come «originali».Tonghini, ex comandante di Brigata, con il nome di «Stefano», convinto anticomunista, ha passato alla lente d'ingrandimento i materiali pubblicati da Perretta, giungendo ad avvalorare in pieno la denuncia del comandante «Riccardo», che fu la più alta autorità militare partigiana nel territorio dove si consumarono l'epilogo del fascismo e la morte di Mussolini. L'operazione di «assemblaggio», in serie, dei documenti, balza evidente da alcuni dati di fatto. In questi testi si osservano anomalie ricorrenti: spesso, i rapporti non sono né datati, né firmati. Il che contraddice una prassi allora corrente, nota Tonghini. Anche alla prova dell'analisi strettamente contenutistica, le carte si rivelano tutt'altro che veritiere. Osserva il comandante «Stefano»: «Esaminando i testi, si coglie la tendenza a far apparire come l'origine delle formazioni scaturisse dalle funzioni di comando. Come se vi fosse una regia organizzativa che le facesse sorgere dal nulla. Ma ciò corrisponde alla visione del Partito comunista, che aveva l'interesse, ex post, a presentare la Resistenza come un fenomeno sorto da una volontà pianificata. Noi invece sappiamo che non fu così. Il movimento di Liberazione nasce con bande spontanee, costituite da uomini e da donne, che si coagulano subito dopo l'8 settembre 1943, sulla base di motivazioni squisitamente patriottiche. Se si va poi a vedere il racconto che emerge, dalle carte, balzano all'occhio contraddizioni macroscopiche. Parlo, naturalmente, per fatti e circostanze che siano a mia diretta e personale conoscenza. Un documento del Comando di raggruppamento delle Brigate Garibaldi, datato 9 settembre 1944 (a pagina 135 del volume), qualifica la nostra formazione autonoma dei Cacciatori delle Grigne operante nel Lecchese e nei cui ranghi esordii io stesso quale partigiano, come appena costituita e da inquadrare. Una cosa da non credere: i Cacciatori delle Grigne nascono già alla metà di settembre del 1943, con le prime riunioni clandestine tenutesi in casa del comandante Lino Poletti». Passiamo alla lettera, datata 11 dicembre 1944, e riprodotta a pagina 369 del volume, che Perretta attribuisce alla mano di Dante Gorreri. Il documento, diretto al capitano «Neri» (Luigi Canali), è completamente inattendibile, perché, in esso, si legge che i superiori vertici del Partito comunista intendevano affidare a Mario Tonghini e al suo compagno partigiano Dino Gaffuri «Walter» la ricostituzione della 89ª Brigata «Poletti», quella dei «Cacciatori delle Grigne».La datazione, anzitutto, non regge, perché, a quell'epoca, Tonghini era da mesi operativo nel territorio di Como, impegnato a fondo nell'organizzazione delle formazioni di pianura e di città. Il foglio, dunque, è sicuramente apocrifo, come ci conferma lo stesso comandante «Stefano»: «Non ho mai ricevuto disposizioni di tal genere: è da escludere che potessi essere rimandato indietro in montagna a ricostituire la Poletti, che avevo lasciato alle mie spalle mesi prima, dopo 5 rastrellamenti condotti contro di noi da tedeschi e fascisti». Va ancora peggio per un secondo documento, pubblicato alle pagine 390 e 391, e datato soltanto quattro giorni dopo il precedente: 15 dicembre 1944.Si tratta di una comunicazione, firmata da «Neri», indirizzata in primis al battaglione «Nannetti» della 52ª Brigata Garibaldi, in cui si annunciano misure di ricostituzione della 89ª Brigata «Poletti» e, al contempo, si invitano Tonghini, «Walter» e altri a raggiungere le formazioni «Ricci» per rifondarle. I nuclei partigiani guidati dal capitano Ugo Ricci, rimasto ucciso in un'imboscata, a Lenno, sul lago di Como, il 3 ottobre 1944, erano sbandati dopo la caduta del loro comandante. Qui si rasenta la follia. Appena quattro giorni dopo le presunte direttive tendenti a dirigere gli sforzi di Tonghini alla ricostituzione della Brigata «Poletti», giunge un ordine contraddittorio, che non contiene alcun riferimento alle motivazioni della revoca delle precedenti disposizioni di impiego operativo. Le aree di destinazione, infatti, non sono affatto contigue: le forze superstiti della formazioni Ricci sono attestate nella zona della Val d'Intelvi, mentre la «Poletti» ha sede nell'altro ramo del Lario, quello lecchese. Vi è però un'ulteriore circostanza che conferma in pieno la fondatezza della denuncia di Gementi. Nel volume curato da Perretta vi sono blocchi di testo che ricorrono, praticamente identici, in più parti. La seconda pagina della già citata relazione del 15 dicembre 1944, si può ritrovare, pari pari, in un documento del 3 dicembre precedente, intitolato «Situazione delle formazioni Ricci» (pagine 332-333). L'unica differenza, però significativa, tra i due testi, è data dal fatto che la versione di pagina 333 «chiude» con la firma del capitano «Neri», mentre quella inserita nella relazione del 15 dicembre (pagina 391) la omette, perché il testo prosegue per un'ulteriore facciata. Si tratta di una prova schiacciante della manipolazione operata dagli assemblatori di materiali. L'officina della contraffazione, insomma, mostra i suoi difetti. Costruisce «blocchi» di testi prefabbricati, veri e propri kit che poi «monta» nei contesti in cui essi appaiono più funzionali. Ne risulta che specialisti del «copia e incolla» erano in azione con decenni di anticipo sulla tecnologia informatica. Non meno sorprendente è una relazione dell'ispettore regionale garibaldino Pietro Terzi «Francesco» alla Delegazione lombarda delle Brigate Garibaldi, riprodotta alle pagine 465 e 466. Vi si riferisce, tra l'altro, dell'avvenuta liquidazione del distaccamento «Tomasich», come di un evento recente. La data riportata sul documento è il 27 febbraio 1945: a quel tempo, il «Tomasich», attestato sul primo tratto dei Monti Lariani, era però caduto da circa un mese! Del tutto priva di verosimiglianza, infine, è una lettera dello stesso «Francesco» al comandante «Riccardo», datata 31 marzo 1945 (la si trova a pagina 501), ossia ben quattro giorni dopo che Gementi era stato arrestato, a Milano, durante una retata in cui era caduto l'intero vertice militare clandestino della Resistenza lariana. Una circostanza, quella dell'inattendibile datazione, la quale obbligherebbe, qualora la si volesse prendere sul serio, a immaginare un inoltro della corrispondenza nelle carceri fasciste. Insomma, da qualunque parte la si voglia considerare, la fabbrica del falso confeziona le pentole ma non i coperchi.

Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega, scrive Giampaolo Pansa, Domenica 07/10/2012, su "Il Giornale". C’è da scommettere che il nuovo libro di Giampaolo Pansa, La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti (Rizzoli, pagg. 446, euro 19,50; in libreria dal 10 ottobre), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione pubblichiamo un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro. Tanto i partigiani comunisti che i miliziani fascisti combattevano per la bandiera di due dittature, una rossa e l'altra nera. Le loro ideologie erano entrambe autoritarie. E li spingevano a fanatismi opposti, uguali pur essendo contrari. Ma prima ancora delle loro fedeltà politiche venivano i comportamenti tenuti giorno per giorno nel grande incendio della guerra civile. Era un tipo di conflitto che escludeva la pietà e rendeva fatale qualunque violenza, anche la più atroce. Pure i partigiani avevano ucciso persone innocenti e inermi sulla base di semplici sospetti, spesso infondati, o sotto la spinta di un cieco odio ideologico. Avevano provocato le rappresaglie dei tedeschi, sparando e poi fuggendo. Avevano torturato i fascisti catturati prima di sopprimerli. E quando si trattava di donne, si erano concessi il lusso di tutte le soldataglie: lo stupro, spesso di gruppo. A conti fatti, anche la Resistenza si era macchiata di orrori. Quelli che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ricorderà nel suo primo messaggio al Parlamento, il 16 maggio 2006, con tre parole senza scampo: «Zone d'ombra, eccessi, aberrazioni». Un'eredità pesante, tenuta nascosta per decenni da un insieme di complicità. L'opportunismo politico che imponeva di esaltare sempre e comunque la lotta partigiana. Il predominio culturale e organizzativo del Pci, regista di un'operazione al tempo stesso retorica e bugiarda. La passività degli altri partiti antifascisti, timorosi di scontrarsi con la poderosa macchina comunista, la sua propaganda, la sua energia nel replicare colpo su colpo. Soltanto una piccola frazione della classe dirigente italiana si è posta il problema di capire che cosa si nascondeva dietro il sipario di una storia contraffatta della nostra guerra civile. E ha iniziato a farsi delle domande a proposito del protagonista assoluto della Resistenza: i comunisti. Ancora oggi, nel 2012, qualcuno si affanna a dimostrare che a scendere in campo contro tedeschi e fascisti e stato un complesso di forze che comprendeva pure soggetti moderati: militari, cattolici, liberali, persino figure anticomuniste come Edgardo Sogno. È vero: c'erano anche loro nel blocco del Corpo volontari della libertà. Ma si e trattato sempre di minoranze, a volte di piccole schegge. Impotenti a contrastare la voglia di egemonia del Pci e i comportamenti che ne derivavano. Del resto, i comunisti perseguivano un disegno preciso e potente che si è manifestato subito, quando ancora la Resistenza muoveva i primi passi. Volevano essere la forza numero uno della guerra di liberazione. Un conflitto che per loro rappresentava soltanto il primo tempo di un passaggio storico: fare dell'Italia uscita dalla guerra una democrazia popolare schierata con l'Unione Sovietica. Dopo il 25 aprile 1945 le domande sulle vere intenzioni dei comunisti italiani si sono moltiplicate, diventando sempre più allarmate. Mi riferisco ad aree ristrette dell'opinione pubblica antifascista. La grande maggioranza della popolazione si preoccupava soltanto di sopravvivere. Con l'obiettivo di ritornare a un'esistenza normale, trovare un lavoro e conquistare un minimo di benessere. Piccoli tesori perduti nei cinque anni di guerra. Ma le élite si chiedevano anche dell'altro. Sospinte dal timore che il dopoguerra italiano avesse un regista e un attore senza concorrenti, si interrogavano sul futuro dell'Italia appena liberata. Sarebbe divenuta una democrazia parlamentare oppure il suo destino era di subire una seconda guerra civile scatenata dai comunisti, per poi cadere nelle grinfie di un regime staliniano? Era una paura fondata su quel che si sapeva della guerra civile spagnola. Nel 1945 non era molto, ma quanto si conosceva bastava a far emergere prospettive inquietanti. Anche in Spagna era esistita una coalizione di forze politiche a sostegno della repubblica aggredita dal nazionalismo fascista del generale Francisco Franco. Ma i comunisti iberici, affiancati, sostenuti e incoraggiati dai consiglieri sovietici inviati da Stalin in quell'area di guerra, avevano subito cercato di prevalere sull'insieme dei partiti repubblicani, raccolti nel Fronte popolare. A poco a poco era emerso un inferno di illegalità spaventose. Arresti arbitrari. Tribunali segreti. Delitti politici brutali. Carceri clandestine dove i detenuti venivano torturati e poi fatti sparire. Assassinii destinati ad annientare alleati considerati nemici. Il più clamoroso fu il sequestro e la scomparsa di Andreu Nin, il leader del Poum, il Partito operaio di unificazione marxista. Il Poum era un piccolo partito nel quale militava anche George Orwell, lo scrittore inglese poi diventato famoso per Omaggio alla Catalogna, La fattoria degli animali e 1984. Orwell aveva 34 anni, era molto alto, magrissimo, sgraziato, con una faccia da cavallo. Era arrivato a Barcellona da Londra alla fine del 1936. Una fotografia lo ritrae al fondo di una piccola colonna di miliziani del Poum. Una cinquantina di uomini, preceduti da un bandierone rosso con la falce e martello, la sigla del partito e la scritta «Caserma Lenin», la base dell'addestramento. Orwell stava sul fronte di Huesca quando i comunisti e i servizi segreti sovietici decisero la fine del Poum. Lo consideravano legato a Lev Davidovic Trotsky, il capo bolscevico diventato nemico di Stalin. In realtà era soltanto un gruppuscolo antistaliniano con 10 mila iscritti. L'operazione per distruggerlo venne ordita e condotta da Aleksandr Orlov, il nuovo console generale dell'Urss a Barcellona, ma di fatto il capo della filiale spagnola del Nkvd, la polizia segreta sovietica. Nel giugno 1937, un decreto del governo repubblicano guidato dal socialista di destra Juan Negrin, succube dei comunisti, dichiaro fuori legge il Poum, sospettato a torto di cospirare con i nazionalisti di Franco. Tutti i dirigenti furono imprigionati. Se qualcuno non veniva rintracciato, toccava alla moglie finire in carcere. Gli arrestati si trovarono nelle mani del Nkvd che li rinchiuse in una prigione segreta, una chiesa sconsacrata di Madrid. Interrogato e torturato per quattro giorni, Nin rifiuto di firmare l'accusa assurda che gli veniva rivolta: l'aver comunicato via radio al nemico nazionalista gli obiettivi da colpire con l'artiglieria. Gli sgherri di Orlov lo trasportarono in una villa fuori città. Qui misero in scena una finzione grottesca: la liberazione di Nin per opera di un commando di agenti della Gestapo nazista, incaricati da Hitler di salvare il leader del Poum. Ma si trattava soltanto di miliziani tedeschi di una Brigata internazionale, al servizio di Orlov. Nin scomparve, ucciso di nascosto e sepolto in un luogo rimasto segreto per sempre. E come lui, tutti i suoi seguaci svanirono nel nulla. Quanto accadeva in Spagna fu determinante per la svolta ideologica di uno scrittore americano di sinistra, John Dos Passos. Scrisse: «Ciò che vidi mi provoco una totale disillusione rispetto al comunismo e all'Unione Sovietica. Il governo di Mosca dirigeva in Spagna delle bande di assassini che ammazzavano senza pietà chiunque ostacolasse il cammino dei comunisti. Poi infangavano la reputazione delle loro vittime con una serie di calunnie». Le stesse infamie, sia pure su scala ridotta, vennero commesse in Italia da bande armate del Pci, durante e dopo la guerra civile. C'è da scommettere che il nuovo libro di Giampaolo Pansa, La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti (Rizzoli, pagg. 446, euro 19,50; in libreria dal 10 ottobre), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell'introduzione al volume (di cui per gentile concessione pubblichiamo un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull'esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un'altra, la loro.

Non chiamateli eroi. L’elenco delle ausiliarie uccise dai partigiani dopo che si erano arrese, scrive il 25 aprile 2012 "Quelsi".

Amodio Rosa: 23 anni, assassinata nel luglio del 1947, mentre in bicicletta andava da Savona a Vado.

Antonucci Velia: due volte prelevata, due volte rilasciata a Vercelli, poi fucilata.

Audisio Margherita: Fucilata a Nichelino il 26 aprile 1945.

Baldi Irma: Assassinata a Schio il 7 luglio 1945.

Batacchi Marcella e Spitz Jolanda: 17 anni, di Firenze. Assegnate al Distretto militare di Cuneo altre 7 ausiliarie, il 30 aprile 1945, con tutto il Distretto di Cuneo, pochi ufficiali, 20 soldati e 9 ausiliarie, si mettono in movimento per raggiungere il Nord, secondo gli ordini ricevuti. La colonna è però costretta ad arrendersi nel Biellese ai partigiani del comunista Moranino. Interrogate, sette ausiliarie, ascoltando il suggerimento dei propri ufficiali, dichiarano di essere prostitute che hanno lasciato la casa di tolleranza di Cuneo per seguire i soldati. Ma Marcella e Jolanda non accettano e si dichiarano con fierezza ausiliarie della RSI. I partigiani tentano allora di violentarle, ma le due ragazze resistono con le unghie e con i denti. Costrette con la forza più brutale, vengono violentate numerose volte. In fin di vita chiedono un prete. Il prete viene chiamato ma gli è impedito di avvicinare le ragazze. Prima di cadere sotto il plotone di esecuzione, sfigurate dalle botte di quelle belve indegne di chiamarsi partigiani, mormorano: “Mamma” e “Gesù”. Quando furono esumate, presentavano il volto tumefatto e sfigurato, ma il corpo bianco e intatto. Erano state sepolte nella stessa fossa, l’una sopra l’altra. Era il 3 maggio 1945.

Bergonzi Irene: Assassinata a Milano il 29 aprile 1945.

Biamonti Angela: Assassinata il 15 maggio 1945 a Zinola (SV) assieme ai genitori e alla domestica.

Bianchi Annamaria: Assassinata a Pizzo di Cernobbio (CO) il 4 luglio 1945.

Bonatti Silvana: Assassinata a Genova il 29 aprile 1945.

Brazzoli Vincenza: Assassinata a Milano il 28 aprile 1945.

Bressanini Orsola: Madre di una giovane fascista caduta durante la guerra civile, assassinata a Milano il 10 maggio 1945.

Buzzoni Adele, Buzzoni Maria, Mutti Luigia, Nassari Dosolina, Ottarana Rosetta: Facevano parte di un gruppo di otto ausiliarie, (di cui una sconosciuta), catturate all’interno dell’ospedale di Piacenza assieme a sei soldati di sanità. I prigionieri, trasportati a Casalpusterlengo, furono messi contro il muro dell’ospedale per essere fucilati. Adele Buzzoni supplicò che salvassero la sorella Maria, unico sostegno per la madre cieca. Un partigiano afferrò per un braccio la ragazza e la spostò dal gruppo. Ma, partita la scarica, Maria Buzzoni, vedendo cadere la sorella, lanciò un urlo terribile, in seguito al quale venne falciata dal mitra di un partigiano. Si salvarono, grazie all’intervento di un sacerdote, le ausiliarie Anita Romano (che sanguinante si levò come un fantasma dal mucchio di cadaveri) nonché le sorelle Ida e Bianca Poggioli, che le raffiche non erano riuscite ad uccidere.

Carlino Antonietta: Assassinata il 7 maggio 1945 all’ospedale di Cuneo, dove assisteva la sua caposquadra Raffaella Chiodi.

Castaldi Natalina:Assassinata a Cuneo il 9 maggio 1945.

Chandrè Rina, Giraldi Itala, Rocchetti Lucia: Aggregate al secondo RAU (Raggruppamento Allievi Ufficiali) furono catturate il 27 aprile 1945 a Cigliano, sull’autostrada Torino – Milano, dopo un combattimento durato 14 ore. Il reparto si era arreso dopo aver avuto la garanzia del rispetto delle regole sulla prigionia di guerra e dell’onore delle armi. Trasportate con i loro camerati al Santuario di Graglia, furono trucidate il 2 maggio 1945 assieme ad oltre 30 allievi ufficiali con il loro comandante, maggiore Galamini, e le mogli di due di essi. La madre di Itala ne disseppellì i corpi.

Chiettini (si ignora il nome): Una delle tre ausiliarie trucidate nel massacro delle carceri di Schio il 6/7 luglio 1945.

Collaini Bruna, Forlani Barbara: Assassinate a Rosacco (Pavia) il 5 maggio 1945.

Conti – Magnaldi Adelina: Madre di tre bambini, assassinata a Cuneo il 4 maggio 1945.

Crivelli Jolanda: Vedova ventenne di un ufficiale del Battaglione “M” costretta a denudarsi e fucilata a Cesena, sulla piazza principale, dopo essere stata legata ad un albero, ove il cadavere rimase esposto per due giorni e due notti.

De Simone Antonietta: Romana, studentessa del quarto anni di Medicina, fucilata a Vittorio Veneto in data imprecisata dopo il 25 aprile 1945.

Degani Gina: Assassinata a Milano in data imprecisata dopo il 25 aprile 1945.

Ferrari Flavia: 19 anni, assassinata l’ 1 maggio 1945 a Milano.

Fragiacomo Lidia, Giolo Laura: Fucilate a Nichelino (TO) il 30 aprile 1945 assieme ad altre cinque ausiliarie non identificate, dopo una gara di emulazione nel tentativo di salvare la loro comandante.

Gastaldi Natalia: Assassinata a Cuneo il 3 maggio 1945.

Genesi Jole, Rovilda Lidia: Torturate all’hotel San Carlo di Arona (Novara) e assassinate il 4 maggio 1945. In servizio presso la GNR di Novara. Catturate alla Stazione Centrale di Milano, ai primi di maggio, le due ausiliarie si erano rifiutate di rivelare dove si fosse nascosta la loro comandante provinciale.

Greco Eva: Assassinata a Modena assieme a suo padre nel maggio del 1945.

Grill Marilena: 16 anni, assassinata a Torino la notte del 2 maggio 1945.

Landini Lina: Assassinata a Genova l’1 maggio 1945.

Lavise Blandina: Una delle tre ausiliarie trucidate nel massacro delle carceri di Schio il 6/7 luglio 1945.

Locarno Giulia: Assassinata a Porina (Vicenza) il 27 aprile 1945.

Luppi – Romano Lea: Catturata a Trieste dai partigiani comunisti, consegnata ai titini, portata a a Lubiana, morta in carcere dopo lunghe sofferenze il 30 ottobre 1947.

Minardi Luciana: 16 anni di Imola. Assegnata al battaglione “Colleoni” della Divisione “San Marco” attestati sul Senio, come addetta al telefono da campo e al cifrario, riceve l’ordine di indossare vestiti borghesi e di mettersi in salvo, tornando dai genitori. Fermata dagli inglesi, si disfa, non vista, del gagliardetto gettandolo nel Po. La rilasciano dopo un breve interrogatorio. Raggiunge così i genitori, sfollati a Cologna Veneta (VR). A metà maggio, arriva un gruppo di partigiani comunisti. Informati, non si sa da chi, che quella ragazzina era stata una ausiliaria della RSI, la prelevano, la portano sull’argine del torrente Guà e, dopo una serie di violenze sessuali, la massacrano. “Adesso chiama la mamma, porca fascista!” le grida un partigiano mentre la uccide con una raffica.

Monteverde Licia: Assassinata a Torino il 6 maggio 1945.

Morara Marta: Assassinata a Bologna il 25 maggio 1945.

Morichetti Anna Paola: Assassinata a Milano il 27 aprile 1945.

Olivieri Luciana: Assassinata a Cuneo il 9 maggio 1945.

Ramella Maria: Assassinata a Cuneo il 5 maggio 1945.

Ravioli Ernesta: 19 anni, assassinata a Torino in data imprecisata dopo il 25 aprile 1945.

Recalcati Giuseppina, Recalcati Mariuccia, Recalcati Rina: Madre e figlie assassinate a Milano il 27 aprile 1945.

Rigo Felicita: Assassinata a Riva di Vercelli il 4 maggio 1945.

Sesso Triestina: Gettata viva nella foiba di Tonezza, presso Vicenza.

Silvestri Ida: Assassinata a Torino l’1 maggio 1945, poi gettata nel Po.

Speranzon Armida: Massacrata, assieme a centinaia di fascisti nella Cartiera Burgo di Mignagola dai partigiani di “Falco”. I resti delle vittime furono gettati nel fiume Sile.

Tam Angela Maria: Terziaria francescana, assassinata il 6 maggio 1945 a Buglio in Monte (Sondrio) dopo aver subito violenza carnale.

Tescari -Ladini Letizia: Gettata viva nella foiba di Tonezza, presso Vicenza.

Ugazio Cornelia, Ugazio Mirella: Assassinate a Galliate (Novara) il 28 aprile 1945 assieme al padre.

Tra le vittime del massacro compiuto dai partigiani comunisti nelle carceri di Schio (54 assassinati nella notte tra il 6 ed il 7 luglio 1945) c’erano anche 19 donne, tra cui le 3 ausiliarie (Irma Baldi, Chiettini e Blandina Lavise) richiamate nell’elenco precedente. In via Giason del Maino, a Milano, tre franche tiratrici furono catturate e uccise il 26 aprile 1945. Sui tre cadaveri fu messo un cartello con la scritta “AUSIGLIARIE”. I corpi furono poi sepolti in una fossa comune a Musocco. Impossibile sapere se si trattasse veramente di tre ausiliarie. Nell’archivio dell’obitorio di Torino, il giornalista e storico Giorgio Pisanò ha ritrovato i verbali d’autopsia di sei ausiliarie sepolte come “sconosciute”, ma indossanti la divisa del SAF. Cinque ausiliarie non identificate furono assassinate a Nichelino (TO) il 30 aprile 1945 assieme a Lidia Fragiacomo e Laura Giolo. Al cimitero di Musocco (Milano) sono sepolte 13 ausiliarie sconosciute nella fossa comune al Campo X. Un numero imprecisato di ausiliarie della “Decima Mas” in servizio presso i Comandi di Pola, Fiume e Zara, riuscite a fuggire verso Trieste prima della caduta dei rispettivi presidi, furono catturate durante la fuga dai comunisti titini e massacrate. Fonte: "ausiliarie.blogspot.it".

O Bella Ciao, ovvero le gesta eroiche della resistenza. Il massacro dei carabinieri della centrale idroelettrica di Bretto. Avvelenati, torturati e tagliati a pezzi. Sorpresi nel sonno, avvelenati, torturati ed infine tagliati a pezzi. Fu questo il tragico destino di ben dodici giovani Carabinieri, catturati dai partigiani alle Cave dei Predil, nell’alto Friuli. I Carabinieri costituivano un presidio a difesa della centrale idroelettrica di Bretto. Il 23 Marzo 1945 i partigiani presero in ostaggio il Vicebrigadiere Dino PERPIGNANO, comandate dei presidio che stava rientrando negli alloggiamenti, sotto la minaccia delle armi, lo costrinsero a pronunciare la parola d’ordine e, con facilità, una volta entrati nel presidio, catturarono tutti i Carabinieri, gia in parte addormentati. Dopo il saccheggio, i dodici militari furono deportati nella Valle Bausizza e rinchiusi in un fienile dove fu loro servito un pasto nel quale era stata inglobata soda caustica e sale nero. Affamati, inconsciamente mangiarono quanto gli era stato servito, ma, dopo poco, le urla e le implorazioni furono raccapriccianti e tremende. Erano stati avvelenati e la loro agonia si protrasse fra atroci dolori per ore ed ore. Stremati e consumati dalla febbre, Pasquale RUGGIERO, Domenico DEL VECCHIO, Lino BERTOGLI, Antonio FERRO, Adelmino ZILIO, Fernando FERRETTI, Ridolfo CALZI, Pietro TOGNAZZO, Michele CASTELLANO, Primo AMENICI, Attilio FRANZON, quasi tutti ventenni (e mai impiegati in altri servizi tranne quello a guardia della centrale, cui erano stati sempre preposti), furono costretti a marciare fra inesorabili ed inenarrabili sofferenze ed insopportabili sacrifici fino a Malga Bala ove li attendeva una fine orribile. Il Vicebrigadiere PERPIGNANO fu preso e spogliato; gli venne conficcato un legno ad uncino nel nervo posteriore dei calcagno ed issato a testa in giù, legato ad una trave; poi furono incaprettati. A quel punto, i macellai partigiani, cominciarono a colpire tutti con i picconi: a qualcuno vennero asportati i genitali e conficcati in bocca, a qualche altro fu aperto a picconate il cuore o frantumati gli occhi. All’AMICI venne conficcata nel cuore la fotografia dei suoi cinque figli mentre il PERPIGNANO veniva finito a pedate in faccia ed in testa. La “mattanza” terminava con i corpi dei malcapitati legati col fai di ferro e trascinati, a mo’ di bestie, sotto un grosso masso. Ora le misere spoglie di questi Carabinieri Martiri/Eroi riposano, dimenticati dagli uomini, dalla storia e dalle Istituzioni, in una torre medievale di Tarvisio le cui chiavi sono pietosamente conservate da alcune suore di un vicino convento. Si scoprì in seguito, che l’eccidio fu consumato dalle bande partigiane filo-slave a Malga Bala, sulle montagne del Friuli. Fonte: "Dietro le quinte".

Sassuolo, una delle tante stragi effettuate dai partigiani censurata dalle Istituzioni, scrive "Imola Oggi" il 24 aprile 2016. Sassuolo – Una delle tante stragi effettuate dai partigiani nel dopoguerra, totalmente censurata dalle Istituzioni e dagli organi d’informazione “democratici”, di Modena e Reggio. A Sassuolo, nel tardo pomeriggio del 23 aprile 1945 cessavano gli ultimi combattimenti tra tedeschi, che s’andavano addossando sulla sponda del Secchia nel tentativo di attraversarlo, e Alleati che premevano da Sud. I partigiani, moltiplicatisi negli ultimi mesi, si cimentavano alla caccia di tedeschi in fuga e lo testimonierà Ermanno Gorrieri, il partigiano Claudio: “Parte di coloro che impugnavano le armi contro i tedeschi in fuga, erano persone che non avevano praticamente mai fatto niente o quasi niente nel movimento di Resistenza. Non a caso la gente, più tardi li chiamerà ‘i partigiani della domenica’ o ‘del lunedì’ – a seconda della zona – cioè i partigiani entrati in azione solo il giorno della liberazione”. Ma il comandante Claudio dirà anche che “sarebbero esplosi odii e vendette, insanguinando ancora una volta la terra emiliana”. Accadde che quello che restava di un Reparto della Divisione San Marco, arresosi in quel 23 aprile, fu eliminato in modo atroce a Sassuolo, nel cortile del Palazzo Ducale. Una cinquantina di questi prigionieri, fra i quali v’era qualche tedesco, subì una fine raccapricciante, venuta alla luce attraverso la testimonianza d’un ufficiale dell’esercito brasiliano, tra i primi contingenti entrati a Sassuolo e non dal parroco che pure vi assistette, don Zelindo Pellati. Da parte degli esecutori non trapelò, ovviamente, mai nulla e ufficialmente quelle estreme sevizie, non sarebbero mai avvenute. Quei prigionieri furono torturati anche con enucleazione degli occhi e poi uccisi per strangolamento. L’ufficiale in questione era Agostino Josè Rodrigues e la testimonianza è nel suo libro Terzo battaglione (Terceiro batalhao), edito nel 1985, quattordici anni prima che le salme di quegl’infelici fossero scoperte nello stesso luogo da lui indicato: “La piazza dove c’è la chiesa”. Ecco il brano: “Sassuolo segna il nostro primo incontro con la guerriglia partigiana del Nord Italia, uomini coraggiosi ma spietati. Hanno aiutato la causa degli Alleati durante gli anni dell’occupazione tedesca nella regione. Ed ora sono ancor più decisi nell’attaccare senza pietà il nemico. Come Castelvetro, Sassuolo è una pulita piccola città, un piacere per i nostri occhi. La piazza principale, dove è situata la chiesa, segna anche la nostra prima visione di esecuzioni sommarie. Ne avevamo già sentito parlare. Uomini uccisi con delle corde strette intorno al collo. E’ la vendetta imposta ai fasciste dai partigiani. Ci sono molti comunisti tra i partigiani. Ho visto un gruppo di questi con delle bandiere rosse. Dovunque essi vadano compiono esecuzioni sommarie. I partigiani si giustificano dicendo che si tratta di “traditori del popolo”. Ecco perché le camicie nere e i soldati tedeschi iniziano ad arrendersi a noi brasiliani. Sono terrorizzati dalla furia omicida di questi implacabili cacciatori”. Non solo le prime truppe brasiliane entrate a Sassuolo, ma anche il parroco della chiesa di San Giorgio, don Pellati, assistettero alla strage; il sacerdote aveva raccolto i documenti e gli effetti personali di quei disgraziati. Unico testimone di parte neutra egli preferì tuttavia, e fu pusillanime, non divulgare lo scempio cui assistette, né trascriverlo, come avrebbe dovuto, sul libro delle anime, cosicchè esso rimase sconosciuto e inedito fino al 1998, allorquando, durante gli scavi nel cortile del Palazzo Ducale, emersero quei resti. Il giorno del massacro può essere indicato nella settimana compresa tra il 24 aprile ed il primo maggio ’45. I partigiani che entrarono a Sassuolo discendevano dalle località di Casalgrande, Fiorano, Castellarano e Magrete e facevano parte tutti di formazioni comuniste. Il 25 aprile entrò a Sassuolo anche la formazione comandata da Achille, al secolo Giuseppe Ferrari (1919–2013) che con l’incarico di ‘occuparsi’ dei prigionieri, vi rimase almeno una settimana. Lo stesso Palazzo Ducale era divenuto sede di distaccamenti partigiani tra i quali risulta anche la Brigata Stoppa. Nel ’49 la Questura di Modena arrestò l’ex partigiano comunista Domenico Cavalli di Sassuolo: si voleva che rivelasse qualcosa, ma non parlò e fu rimesso in libertà. Nel ’98, all’indomani della scoperta della fossa comune, l’Associazione dei reduci della Divisione Fanteria San Marco presentò denuncia contro ignoti per il reato di strage. La strage di Sassuolo andrà a far parte dell’aneddotica resistenziale di revisione, la quale chiarendo fatti marginali darà rilievo alla storiografia, passo obbligato per raggiungere la Storia. Scriveva Renzo de Felice, l’autorevole storico di sinistra: “tutto quanto detto e scritto sul fascismo è falso, perché la sinistra politica ha nascosto tante verità, tanti delitti, tante vergogne partigiane”. In alcune pagine del citato libro di Bocca, Il Provinciale, si coglie il clima che regnava a Sassuolo nei primi mesi della liberazione. In un imprecisato giorno di maggio egli giunse a Sassuolo e andò alla Camera del lavoro ove trovò riuniti diversi partigiani. Gli dicono – “Di ben so giurnalesta, ma il tuo giornale è un po’ fazista. Quando la finite di menarla con il triangolo della morte”? Qualcuno mi guarda duro, ma mi lasciano andare. Esco da Sassuolo diretto a Formigine e sento dietro il rombo d’una motocicletta. E’ uno di quelli che mi sfottevano, ma adesso mi guarda da amico: – “Scolta me – dice – non passare per Formigine, ti aspettano all’uscita del paese”. (Tratto dal saggio storico sulle atrocità partigiane: “I GRANDI KILLER DELLA LIBERAZIONE” del Prof. Gianfranco Stella).

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La notte di Cesare Pavese, un amico l’avrebbe salvato. Testo e Video di Antonio Castaldo del 27 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera/Tv. Franco Ferrarotti ricorda l’amico morto suicida il 26 agosto 1950: «Mi chiamò, io ero fuori. Forse sarebbe bastata una parola a salvarlo». «Basta un po’ di coraggio». Scriveva Cesare Pavese sull’ultima pagina de «Il Mestiere di vivere», il diario dei suoi ultimi quindici anni di vita. «Più il dolore è determinato e preciso, più l’istinto della vita si dibatte e cade l’idea del suicidio». È un ripensamento, l’ultimo, che lo raggiunge a Torino, il 18 agosto del 1950. Subito dopo, sempre quel giorno, scriverà: «(…) donnette l’hanno fatto. Ci vuole umiltà, non orgoglio». E ancora: «Tutto questo fa schifo». Poi soltanto: «Non parole. Un gesto. Non scriverò più». Il diario finisce così. Trascorrono otto giorni, e nella notte tra il 26 e 27 agosto del 1950 il poeta e romanziere piemontese ingoia una dose letale di barbiturici. Per non dar noia a nessuno con la propria morte, aveva preso una stanza all’hotel Roma, centro di Torino. Sul comodino il libro più caro, «Dialoghi con Leucò». E sulla prima pagina un messaggio vergato con la stilografica: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi». Quella sera Pavese non voleva restare solo. Il suo biografo, Davide Lajolo, racconta che dalla sua stanza d’albergo partirono diverse chiamate: «Telefona a tre, quattro donne. Chiede compagnia, le invita a cena. Insiste particolarmente con Fernanda Pivano, ma essa, che andrebbe volentieri perché ha potuto finalmente fare la pace con lui dopo tanti anni, ha il marito malato e non può uscire. L’ultima telefonata Pavese la fa alla ragazza della sala Gai. Ma la risposta è dura. La ricorderà la centralinista di servizio dell’albergo: “Non vengo perché sei un musone e mi annoi”» . Provò a sentire anche alcuni amici. Il filosofo Felice Balbo, collega all’Einaudi, e Franco Ferrarotti, lontano per carattere ed età, ma che lui sentiva molto vicino: «Quel giorno io ero a Venezia, con Anna Maria Levi, la sorella di Primo. Quando tornai a Ivrea, il direttore dell’Albergo mi avvisò. Sono arrivate da Torino due o tre telefonate. Se io fossi stato lì, chissà. A volte basta una parola…». Eppure il 1950 era stato l’anno di Pavese. Il 24 giugno era di nuovo a Roma, che in fondo detestava, ma che conosceva bene per aver riorganizzato la filiale della Einaudi alla fine della guerra. Quel giorno la città eterna si piegò ai suoi piedi, vinse lo Strega, il massimo riconoscimento per uno scrittore in Italia. Ma non era felice. «Viveva i premi come una violazione della sua intimità», spiega Ferrarotti, che alla sua amicizia con lo scrittore ha dedicato un libro, «Al santuario con Pavese», delle edizioni Dehoniane, che è un vero scrigno di aneddoti e offre una vista privilegiata su quel mosaico screziato che era l’animo dello scrittore. «Pavese non è solo complesso – scrive Ferrarotti - Ama nascondersi e depistare. Si prende gioco dello sguardo indiscreto del giornalista investigativo e della sua passione per lo scoop. È geloso della sua intimità. È massimamente riservato. È un riserbo che può significare un’intimità impenetrabile. Non ho mai incontrato una persona più di lui estranea alla pratica odierna dell’intimità in piazza». Di diciotto anni più giovane, piemontese come Pavese ma di pianura, Ferrarotti aveva conosciuto il poeta a Casale Monferrato, durante gli ultimi anni di guerra: «Io ero un gappista che non valeva niente - ricorda - e insieme passeggiavamo dalla città verso il Santuario della Madonna di Crea. Se ci imbattevamo in soldati tedeschi, cominciavamo a declamare ad alta voce il “Chorus mysticus” dal “Faust” di Goethe». Estroverso, solare, inquieto e in perenne peregrinazione, Ferrarotti girerà il mondo e tradurrà pensosi volumi di economia prima di farsi strada nell’accademia italiana come pioniere della moderna sociologia. E in quegli anni, dal ‘45 al ‘50, sarà un punto di riferimento costante per il più maturo e meno gioioso amico, piemontese delle colline. «Nelle lettere che ho ritrovato di recente era affettuoso - ricorda Ferrarotti, che oggi ha 90 anni - si informava non solo dei progressi delle traduzioni che mi aveva commissionato, ma anche delle mie esperienze, dei miei amori. Ed era prodigo di consigli» Come nell’agosto del 1948, quando Ferrarotti era ad Hastings, in Gran Bretagna: «Ammiro il tuo coraggio, ma evidentemente sono troppo vecchio per fare altrettanto. L’Inghilterra preferisco conoscerla dai libri. Credo che ci guadagni». A proposito del viaggio romano, Pavese sul suo diario annotava: «Tornato da Roma, da un pezzo. A Roma, apoteosi. E con questo? Ci siamo, tutto crolla». Siamo arrivati al 14 luglio 1950. «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Sarà come smettere un vizio», aveva scritto nel marzo precedente: il vizio di vivere e la tentazione, costante nel corso della sua esistenza, di spegnere la luce e lasciarsi andare. Una danza con l’idea del suicidio cominciata da ragazzo, quando tentò di emulare un caro amico che si era tolto la vita per amore. E poi corteggiata per il resto dell’esistenza, come testimoniato dal suo diario, dove la parola suicidio ritorna ossessivamente. La poesia che dà il titolo alla raccolta di versi postuma è ispirata all’attrice americana Constance Dowling, l’ultima donna amata dallo scrittore. «Per Pavese Constance, con le sue cosce sode, con il petto florido e i capelli biondi, rappresentava l’America, gli spazi immensi. Quelle praterie che lui non aveva mai visto e che ricreava soltanto dalla lettura dei libri», postilla l’amico Ferrarotti, che di quell’amore raccolse più di una confidenza. La loro fu una storia rapida e bruciante. Dopo un inverno e una primavera trascorsi insieme, lei era tornata negli States. Informata della morte del poeta e del clamore che in Italia aveva suscitato, commentò: «Non sapevo che era uno scrittore così grande.

Magari avrete sentito parlare di un certo Dario Fo, il Nobel per la Letteratura, il giornalista Mentana o l’esperto di Divina Commedia Roberto Benigni. Sono esempi di persone famose che non hanno ottenuto la laurea ma raggiunto lo stesso importanti traguardi.

Dario Fo - “Mistero Buffo” è il titolo della sua opera teatrale più famosa, ma anche un attributo che calza bene alla faccia comica, misteriosa e umoristica che ha portato questo saltimbanco moderno a celebrare l’Italia nel mondo grazie al premio Nobel per la Letteratura. All’università non avrà preso la laurea, certo, ma ha guadagnato un riconoscimento forse più gratificante.

È morto Dario Fo. Si è spento a 90 anni. Da qualche giorno era ricoverato in ospedale. Drammaturgo, attore e regista: Nobel nel 1997, scrive Luca Romano, Giovedì 13/10/2016, su "Il Giornale". Si è spento Dario Fo. Drammaturgo, attore, regista, scrittore, autore, illustratore, pittore e scenografo. Premio Nobel per la letteratura nel 1997, Fo aveva 90 anni. Con la moglie Franca Rame, per oltre 50 anni, ha rivoluzionato il mondo artistico italiano. Era ricoverato da 12 giorni all’ospedale sacco di Milano. Da sempre affermava di aver vissuto una vita "esageratamente fortunata". Era figlio di un ferroviere e da un paesino del lago Maggiore ha mosso i primi passi nella sua carriera artistica. La sua vita è stata diversa, vissuta su tanti fronti. Prima le esperienza all'Accademia di Brera, poi la guerra e la divisa della Repubblica di Salò. E ancora: l'esperienza in radio con i testi radiofonici con Franco Paraenti e Dyrano al Piccolo di Milano con "Il dito nell'occhio". C'è spazio anche per il cinema con Lo sviato di Carlo Lizzani. Ma è l'incontro con Franca Rame a segnare la sua vita. Compagna per sempre. Colpo di fulmine e matrimonio in Sant'Ambrogio a Milano. Con lei prendono forma Gli Arcangeli non giocano a flipper, Chi ruba un piede è fortunato in amore, La signora è da buttare. Poi il grande successo di Mistero Buffo nel ‘69, dove Fo riprende a modo suo la lezione dei fabulatori e dei cantastorie. Negli anni '70 un susseguirsi di satire pungenti, sulle quali Dario spandeva a piene mani il suo grammelot, folle assemblaggio di suoni di parlate diverse, nonsense linguistici. Una invenzione narrativa che, insieme con l’imponente corpus drammaturgico, quasi un centinaio di testi teatrali, gli valse nel 1997 il Nobel per la letteratura. Poi la morte della sua Franca nel maggio del 2013. Perde un po' la luce negli occhi. E dopo Franca va via anche l'amico Jannacci. Negli ultimi anni aveva abbracciato la causa grillina diventando amico di Casaleggio, recentemente scomparso. Ora se n'è andato anche lui a 90 anni nel giorno in cui (beffa del destino) verrà assegnato il Nobel per la letteratura 2016.

Addio Dario Fo: "Io, populista e me ne vanto". Il drammaturgo scompare a 90 anni. Riproponiamo qui il suo ultimo intervento per l'Espresso del 13 agosto 2016. In cui difendeva il suo percorso a fianco dei movimenti, contro il potere. C’era da aspettarselo, ma è successo anche questo: mi hanno dato del populista. È accaduto sulle pagine de “l’Espresso” di domenica 21 agosto 2016. L’autore dell’articolo dove tranquillamente mi si affibbia questo termine è Marco Belpoliti. Il mio detrattore insegna Sociologia della letteratura e Letteratura italiana all’Università di Bergamo. Il letterato impiega il termine “populista” nell’accezione negativa in voga da qualche anno in Italia, cioè quella di considerare il populismo una sorta di pretestuoso espediente per imbonire furbescamente una comunità di semplici creduloni facili ad essere gestiti con qualsiasi argomento. Ora mi sembra strano che un docente universitario si sia lasciato andare ad un uso così smaccato di una parola tanto palesemente mistificata. Ma che origine ha in verità questa espressione? Basta andare su una delle tante enciclopedie di prestigio per venire a sapere quanto segue: “populismo” indica un’ideologia caratteristica di movimento politico o artistico che vede nel popolo un modello etico e sociale e il rispetto di ogni individuo che faccia parte di una comunità civile. Il movimento precursore di questa idea di democrazia può essere riconosciuto nella rivoluzione francese e ancor prima negli scritti di Jean-Jacques Rousseau. Quel suo primo testo ha inizio con un’aspra critica della civiltà come causa di tutti i mali e delle infelicità della vita di molti uomini, temi che saranno sviluppati dal “Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini”. Nel suo libro “Il contratto sociale”, inoltre, Rousseau afferma che «qualunque legge che non sia stata ratificata dal popolo in persona è nulla, non è una legge». Questo stesso tema ha costituito la base del pensiero di Gianroberto Casaleggio fondatore con Beppe Grillo del Movimento 5 Stelle. Marco Belpoliti se la prende con me per lesa maestà di cosce ministeriali e, punitivo, parte alla ricerca dei miei peccati. Bontà sua riconosce la mia professionalità, ma aggiunge maliziosamente che ho avuto vita facile perché a differenza di altri grandi intellettuali non mi sono mai preso il rischio di agire in solitudine andando contro corrente e prendendo posizioni scomode. Beh, che un giornalista che, è evidente, si schiera come strenuo difensore di chi sta al governo e pone questioni sul coraggio degli altri fa come minimo tenerezza... Che io sappia stare dalla parte del governo di questi tempi non è una posizione molto audace... Comunque secondo Belpoliti me la sono presa comoda. Mentre Sciascia, Pasolini e Sartre hanno avuto il coraggio della solitudine io mi sarei sempre schierato andando sul sicuro, protetto da potenti movimenti di opposizione. Il Belpoliti nella sua concione tace naturalmente dei nostri esordi, miei e di Franca, di rapporti un po’ difficili con il potere, come nell’occasione vissuta da noi due intellettuali fuori regola nel nostro scontro con la Rai. Scontro che terminò con la cacciata per ben quindici anni da ogni programma radiofonico e televisivo per aver denunciato per la prima volta nella storia della Rai gli incidenti sul lavoro che producevano vittime come fosse una guerra. E sempre per la prima volta abbiamo parlato anche di mafia, il tutto nella trasmissione “Canzonissima” dopo sette puntate. Infatti è stato molto comodo per me e per Franca portare nelle case del popolo spettacoli critici con il Pci alla presenza degli stessi dirigenti e subire il conseguente ostracismo della parte più rigida del partito. Come finì era da aspettarcelo, fummo pregati di uscire dalle Case del popolo, poiché la nostra critica era deleteria all’unità del partito. Poi ci fu la stagione in cui la polizia decise di metterci ai polsi le manette e porci in arresto e in galera. E quindi i processi, le bombe a casa e in teatro, la nascita di Soccorso Rosso, l’assistenza ai compagni arrestati, la difesa dei diritti civili, il rapimento e le sevizie a Franca. Certamente facevamo parte di un grande movimento, ma non vedo come si possa affermare che questa partecipazione ci abbia garantito sonni tranquilli. Scrivere una cosa qualsiasi, pur di dare addosso, si può fare... Ma un minimo di aderenza ai fatti forse sarebbe dignitoso. L’autore del libello mette in scena ad un certo punto Jean-Paul Sartre, inserendolo fra gli intellettuali che operavano in solitudine. Si vede benissimo che Marco Belpoliti non ha mai incontrato di persona l’inventore dell’esistenzialismo. Io personalmente, al contrario, ho avuto con Franca questa fortuna. Siamo rimasti in contatto con lui per molto tempo, in quanto avevamo progetti di lavoro da realizzare insieme. La prima volta che ho avuto la fortuna di ascoltarlo fu alla Sorbonne dove teneva una lezione in un’enorme sala traboccante di giovani che bevevano letteralmente le sue parole. Il tema di quella lezione era l’impiego della situazione nel teatro popolare. Che significa “situazione”? è la chiave portante di ogni spettacolo della Commedia dell’arte, chiave strutturale che coinvolse Molière e perfino Shakespeare. Infatti di Giulietta e Romeo ognuno ricorda esattamente la chiave di volta di quel dramma: il fatto che fra i due giovani si cali una parete che dice «Voi non potrete amarvi poiché le vostre famiglie sono in lotta cruenta fra di loro». Ma contro ogni logica ecco i due che scavalcano quelle mura invalicabili e si amano rischiando ad ogni passo la morte. Ma dobbiamo ammettere che senza quel veto tragico il loro sarebbe stato un amore del tutto normale. È il contrasto dell’impossibile che crea la spettacolarità e la commozione e questo grazie alla situazione che a sua volta crea il paradosso, il dramma e il teatro popolare. Ma guarda quante volte la parola “popolo” esce nei discorsi sulla cultura! Quello del populismo è proprio un movimento infinito! Nel dibattito c’era chi prendendo la parola tentava di dimostrare che quella del popolo non fosse cultura, ma piuttosto un’imitazione dell’arte delle classi elevate. Volarono naturalmente, fra i presenti, espressioni piuttosto pesanti, l’una contro l’altra fazione e Sartre ad un certo punto chiese la parola, la ottenne ed esclamò: «Questa sì che è dialettica! Finalmente sento i conservatori indignati, ma privi di argomenti validi. Ecco perché mi piace dialogare con un pubblico eterogeneo e ricco di idee diverse come voi siete. La parola è davvero il mezzo più intelligente che abbia creato l’uomo». E c’è ancora chi chiama solitario l’agire di un intellettuale come Jean-Paul Sartre. E visto che l’articolista scrive di coraggio e di andare controcorrente, potrebbe misurarsi con un inventario degli intellettuali che hanno criticato con l’impeto distruttivo di una piuma, oppositori che non hanno mai perso un giorno in tv e sui giornali importanti, che non hanno mai rischiato neppure un buffetto.

Dario Fo, il conformista. Il Nobel è artista, attivista e provocatore. Come nel caso Boschi. Ma in coerenza con il suo passato: quello di un intellettuale che ha sempre voluto attorno un gruppo. Al contrario di Pasolini, scrive Marco Belpoliti il 23 agosto 2016 su "L'Espresso". Nella pagina di Wikipedia a lui dedicata Dario Fo è definito: “drammaturgo, attore, regista, scrittore, autore, illustratore, pittore, scenografo e attivista italiano”. In questa sequenza sono comprese quasi tutte le varie facce dell’artista, cui la cultura italiana deve molto da tanti punti di vista. Non è solo per il Nobel assegnatogli nel 1997 che bisogna essere grati a Fo, per la sua attività di drammaturgo e scrittore, e anche per le altre innumerevoli cose che ha fatto nell’arco della sua lunga vita. A marzo l’autore-attore di “Mistero buffo” ha compiuto novant’anni. La sua ultima uscita è quella di mettere all’asta un suo quadro per finanziare il Movimento 5 Stelle. Si tratta di un dipinto che prende spunto dal discusso disegno che Riccardo Mannelli ha dedicato alla ministra Elena Boschi scosciata; l’opera pittorica di Fo verrà battuta alla manifestazione nazionale grillina a settembre a Palermo. Un dipinto non proprio bellissimo, dal tratto picassiano e dalla simbologia non molto chiara: la doppia figura rappresenta la modella e il pittore-satiro, o più probabilmente esprime la doppia identità della donna-ministra, ritratta mentre accavalla le gambe. Fo pittore non si discute, come quasi nulla della sua opera. Si tratta di un monumento nazionale, non solo della sinistra, ma dell’intero Paese, anche se obtorto collo. Alla fine in lui ci si identifica, con la sua identità complessa che l’ha portato da giovane soldato della fascistissima Repubblica di Salò alla militanza nell’estrema sinistra negli anni Settanta, dopo una lunga e importante attività di commediografo antiborghese, per poi ritrovarlo, dai suoi ottanta in poi, schierato a fianco del movimento di Beppe Grillo. Tra le definizioni che ne dà Wikipedia quella di “attivista politico” è davvero perfetta; marca, non solo quest’ultima stagione della sua presenza pubblica, ma anche l’intera sua attività. Possiamo considerare Dario Fo un militante politico? In una certa misura sì, poiché ha preso parte a manifestazioni, ha firmato appelli e soprattutto ha intessuto la sua opera di autore e commediografo di temi politici. Difficile pensare Fo senza questo aspetto; forse non è neppure giusto. Si tratta infatti di una vena che alimenta il suo lavoro artistico. Ma davanti a un intellettuale - perché Fo è anche questo - viene da chiedersi: che tipo d’intellettuale è? L’Italia, l’Europa in generale, ha avuto negli ultimi settant’anni una serie di esempi eccellenti d’intellettuali-scrittori, e d’intellettuali-artisti. Da Picasso che dipinge Guernica, a Jean Paul Sartre che scende in campo durante il Sessantotto a fianco d egli studenti, per non parlare di autori più vicini a noi come Sciascia con il suo “Contesto”, romanzo con cui trasforma in racconto il “compromesso storico” tra Partito Comunista e Democrazia Cristiana, con L’affaire Moro e persino con la polemica contro i “professionisti dell’antimafia”; o ancora Pier Paolo Pasolini, che con i suoi “Scritti corsari” denuncia la mutazione antropologica degli italiani e dell’Italia intera, il Paese che diventa tutt’uno con il Nuovo Fascismo dei Consumi. Che differenza c’è tra questi intellettuali-scrittori e il commediografo-attore-pittore Dario Fo? La voce di Wikipedia ripercorre l’intera carriera dell’artista di Sangiano, da Soccorso Rosso al movimento di Grillo, non senza dimenticare il suo inizio come milite repubblichino, a lungo rimosso. Il suo attivismo politico appare sempre segnato da una caratteristica: il populismo. Anche quando sposa cause minoritarie, o presunte tali, quando sembra opporsi al Potere, c’è sempre nel suo stile d’attivista politico un medesimo aspetto: il popolo come riferimento più o meno ideale. Fo appartiene a una parte, che aspira a essere maggioranza. Pur nelle venature utopiche del suo lavoro, emerge la vocazione a essere compreso in un’entità sociale e politica più ampia. Senza la sponda dei movimenti dell’estrema sinistra, ieri, e dei 5 stelle, oggi, Fo non sarebbe l’attivista che scrive commedie, gira film o disegna ministre. Fa parte di un “gruppo”, e a questo si rivolge come se davvero si trattasse del popolo intero. «Cosa aspettate a batterci le mani / a metter le bandiere sul balcone», recita una sua famosa canzone-sigla del 1958, versi emblematici”. La differenza con gli intellettuali-artisti del passato sta tutta qui: Fo non è mai solo. Il dipinto messo all’asta, quasi una boutade, manifesta questa sua volontà d’appartenenza. Sartre che scende in strada con gli studenti e parteggia per i giovani maoisti francesi, o si reca in Germania per esprimere il suo dubbio circa il suicidio dei terroristi della Baader-Meinhof, è un uomo solo. Così Sciascia, con il suo orgoglio di siciliano controcorrente, per non parlare di Pasolini, uomo solo per antonomasia, controcorrente prima di tutto come omosessuale, che non s’identifica neppure con quella che poi verrà chiamata la causa gay: mai parte di un partito o una organizzazione, neppure del Pci a per cui pure dichiara di votare. Di lui si ricorda la firma data come direttore responsabile al giornale di “Lotta continua”, sostegno a quei giovani rivoluzionari contro cui scriveva sulle pagine de il “Corriere della sera” accusandoli di essere estremisti a causa della nevrosi prodotta dalla liberazione sessuale. Fo non è mai solo. I suoi gesti anticonformisti non l’hanno isolato e reso sgradito a tutti. Non ha mai consumato la sua provocazione in perfetta solitudine, com’è probabilmente richiesto agli intellettuali che non hanno né partito né bandiera, nessuna ideologia cui riferirsi, per essere contestatori, provocatori, semplici bastian contrari o anticonformisti.  Tutte le vicende dell’ultimo decennio a partire dalle liste a suo nome presentate nelle elezioni di Milano, il sostegno a Grillo, le dichiarazioni e le azioni d’attivista politico raccontano la volontà di una lotta mai solitaria, mai individuale, mai davvero controcorrente. C’è poi un altro aspetto non secondario, legato al suo talento. In Fo prevale la convinzione che, novello Re Mida, tutto quello che tocca si trasformi in oro. Non è così. Il talento non è mai sufficiente a giustificare le prese di posizione dell’attivista politico. Sartre poteva aver torto, Pasolini pure. Questo è il rischio che corrono gli intellettuali. E che spesso pagano caramente. L’attivista Dario Fo è convinto del potere suo tocco magico, e questo si mescola, più o meno bene, con la sua opera, o almeno con quella che ha realizzato negli ultimi trent’anni. Talento e populismo sono, a ben vedere, le sue fonti d’aspirazione, così che gli accade a volte di confonderle tra loro. Un peccato veniale probabilmente. Come il quadro della Boschi che ci auguriamo trovi presto un acquirente tra i 5 stelle.

È morto Dario Fo, eterno giullare: "Se mi capitasse qualcosa, dite che ho fatto di tutto per campare". È scomparso, a 90 anni, 70 dei quali dedicati al teatro, il più importante e famoso artista italiano dei tempi moderni: "Con Franca abbiamo vissuto tre volte più degli altri", scrive Anna Bandettini il 13 ottobre 2016 su "La Repubblica". La notizia è arrivata in mattinata: Dario Fo è morto all'ospedale Sacco di Milano, dove era ricoverato da alcuni giorni per problemi respiratori. Aveva 90 anni. Personalità incontenibile, artista poliedrico, 'giullare' della cultura italiana - amava definirsi lui - Fo era stato attivo fino all'ultimo. Il 20 settembre scorso aveva presentato a Milano il suo ultimo libro, Darwin, dedicato al padre dell'evoluzionismo. In estate, nel Palazzo del Turismo a Cesenatico, il rifugio creativo di Fo e della moglie Franca Rame, aveva esposto dipinti, opere grafiche, bassorilievi, sculture e pupazzi creati dall'artista e accompagnati da testi collegati al suo ultimo libro Darwin. Negli ultimi tempi era diventato impaziente di fare, scrivere, parlare, dipingere. Si ubriacava di impegni, lavorava fino a stordirsi, come volesse bruciare il tempo. Dario Fo ha lasciato la vita con l'energia e la carica con cui l'ha vissuta. "Se mi dovesse capitare qualcosa, dite che ho fatto di tutto per campare", scherzava fino all'ultimo. Aveva 90 anni, a 71 era stato insignito del Premio Nobel, e 70 li aveva passati nel teatro che ha dominato da re, reinventando la satira, la comicità con oltre cento commedie, racconti, romanzi biografici, saggi, e da attore, scrittore, autore di canzoni, ma anche pittore, regista, scenografo, saggista, politico: un talento rinascimentale che ha fatto di Dario Fo il più grande e famoso artista italiano dei tempi moderni. "Con Franca abbiamo vissuto tre volte più degli altri", diceva ripercorrendo una vita straordinaria celebre in ogni parte del pianeta. Eppure tutto era partito da un luogo minuscolo, Sangiano, dove era nato il 24 marzo del 1926, "il paese delle meraviglie", diceva. Effettivamente, insieme a Primo Tronzano e Porto Valtravaglia, dove si era trasferito con la mamma Pina e il papà Felice, capostazione, è uno spicchio di Lombardia, tra il lago Maggiore e la Svizzera, alquanto particolare, dove la cultura popolare ha le forme del teatro. "Giravano contrabbandieri e pescatori, più o meno di frodo - ha raccontato Fo in Il paese dei mezaràt (Feltrinelli), l'autobiografia dei primi sette anni di vita -. Due mestieri per i quali occorre molta fantasia. È a loro che devo la mia vita dopo: riempivano la testa di noi ragazzi di storie, cronaca locale frammista a favole. Da grande ho rubato a man bassa". Anche il grammelot, la lingua inventata di Mistero buffo e altri suoi testi, che ha segnato la nostra storia culturale, viene da lì, dall'incrocio di dialetti locali, neologismi e lingue straniere. Un apprendistato che mette in pratica invadendo di racconti il Bar Giamaica, a Milano, quartiere Brera quando, studente dell'Accademia delle Belle Arti e del Politecnico, conosce i pittori Morlotti, Treccani, Crippa, Trevisani, Peverelli, Cavaliere, Emilio Tadini. Gli anni Cinquanta contano molto per Fo. Lasciata architettura ("prestare il fianco alle speculazioni edilizie non era per me"), nel '51 si propone all'attore Franco Parenti con piccoli monologhi surreali per la radio. Molti di quei pezzi, memori dei fabulatori di Porto Valtravaglia, entrano nel '52 nella raccolta Poer nano, successo radiofonico e l'anno dopo nella farsa Il dito nell'occhio, gran debutto teatrale nientemeno che al Piccolo di Milano sempre con Parenti e Giustino Durano,un testo che rompe le convenzioni della rivista e fa satira di costume. Intanto la sua formazione teatrale prosegue con qualche spettacolo di strada e nei varietà delle Sorelle Nava. Con loro recita anche Franca Rame, figlia di una famiglia di teatranti girovaghi, bellissima, bionda, alta. "Aveva fuori dal teatro le macchine di ricconi che l'aspettavano. Io non ero nessuno, ero uno spilungone tutto orecchie, intimidito dalla sua bellezza e dunque casto. Allora un giorno lei mi prese dalle spalle, mi mise contro un muro e mi baciò. Lì iniziò tutto". Si sposano nel '54, l'anno di Sani da legare, seconda commedia di Fo, sull'Italia dei conflitti politici, e insieme vanno a Roma, dove nel '55 nasce il figlio Jacopo, per tentare la strada del cinema: ma Lo svitato di Carlo Lizzani resterà l'unico suo film, più alcune sceneggiature, tra cui Rosso e nero, Souvenir d'Italie, Rascel fifì. È Franca a spingere per il ritorno al teatro e a Milano dove nel '60 nasce la compagnia Fo-Rame: dalle farse (Ladri, manichini e donne nude), Dario-autore passa alle commedie satiriche ispirate alla tradizione dei comici dell'Arte: Gli arcangeli non giocano a flipper (1959), Chi ruba un piede è fortunato in amore (1961), Isabella, tre caravelle e un cacciaballe (1963), tutte campioni di incassi, anche perchè il Dario-attore si rivela un talento. "In realtà ero un parvenu, senza diplomi. Franca è stata la mia maestra che mi ha tolto gli impacci, la convenzione, le paure". Inventa una maschera, quella dello svitato, del clown che sarà protagonista anche dei lavori successivi. È grazie a questi successi che la Rai 'democristiana' di Ettore Bernabei, nel '62 affida alla coppia di artisti Canzonissima, lo show del sabato sera abbinato alla lotteria che incolla l'Italia alla tv. Dario e Franca presentano sketch a sfondo sociale, sul malaffare e le morti bianche. I burocrati Rai reagiscono e chiedono il controllo dei testi prima della messa in onda. Dopo sette puntate Fo-Rame sbattono la porta. Il clamore è enorme, ma la Rai calerà su di loro la saracinesca per 15 anni, una censura inaudita. Ricompariranno in tv nel '77 con Il teatro di Dario Fo, registrazioni degli spettacoli ormai applauditi in tutto il mondo (nell'89, poi, Fo venne perfino chiamato nella produzione internazionale I promessi sposi nel ruolo dell'Azzeccagarbugli). Tornando a quel '62, la strada è segnata. Dario Fo e Franca Rame non abbandoneranno più il teatro e l'impegno politico. Nascono Settimo: ruba un po' meno (1964), La colpa è sempre del diavolo (1965); dallo studio dei canti popolari tradizionali, il disco Ci ragiono e canto del 1966, e nel '69 Ci ragiono e canto 2 con Ho visto un re, scritta con l'amico Enzo Jannacci. “In quegli anni Franca e io, capivamo che con le nostre commedie finivamo però per fare da alka seltzer ai borghesi, ridevano di loro stessi e si lavavano le coscienze. Decidemmo allora di andare fuori dai circuiti ufficiali, volevamo un altro pubblico. Era la fine degli anni Sessanta e c'era in giro una bell'aria di risveglio". Il '68 è l'addio ai teatri borghesi per le sale Arci e le case del popolo. Fonda il gruppo Nuova Scena, poi nel '70 il Collettivo La Comune, con cui nel '74 occupa la Palazzina Liberty a Milano che diventerà un centro della contro-informazione politica di quegli anni. La pietra miliare, artisticamente parlando, è Mistero Buffo, il cui primo abbozzo si vede nel '69 in un teatro di La Spezia, che avrà diverse stesure (Dario recitava, Franca trascriveva e correggeva), l'ultima nell'aprile 2016: monologo in grammelot, dove Fo rielabora come non si è mai visto prima, fantasticamente, antiche giullarate, testi popolari e vangeli apocrifi attirando le ire del Vaticano. È un successo planetario. Intanto la contestazione e la stagione delle stragi, lo convincono che il teatro deve essere specchio di quello che succede nel paese: Morte accidentale di un anarchico (1970), Non si paga, non si paga (1974), Pum, pum! chi è? la polizia! (1972), Il Fanfani rapito (1975) cambiano di sera in sera sulla cronaca. Fo rompe con il Pci, si avvicina alla sinistra exraparlamentare, con Franca fonda “Soccorso Rosso” per sostenere detenuti politici: Pietro Valpreda, poi gli ex di Lotta Continua, Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani e Ovidio Bompressi, accusati dell'omicidio Calabresi dal pentito Leonardo Marino, oggetto di satira nel '98 in Marino libero! Marino è innocente! Sono anni pieni. Di "casini, dolori, violenze, sgombri, bombe nei teatri, la casa incendiata, nessuno che voleva più affittarcene a Milano, 40 processi. Noi mandavano sempre il copione per il visto di censura, ma era la pantomima a farli arrabbiare. Capitava che mimando un personaggio io lo trasformassi in un Andreotti. In una tournée raccoglievo anche 260 denunce". Nel '73 l'arresto di Fo a Sassari per resistenza a pubblico ufficiale durante la replica di Guerra di popolo in Cile fa clamore, ma ancora di più il rapimento e lo stupro a Franca Rame per opera dei fascisti ma, come verrà fuori, con la connivenza di organi dello Stato. L'orribile violenza non li zittisce. Per Fo si aprono anche le porte della Scala che nel '78 produce tra mille polemiche il suo Histoire du soldat da Stravinskij, prima di una lunga serie di regie liriche. Piovono inviti dall'estero e ottiene la solidarietà perfino di Arthur Miller e Martin Scorsese quando nell'80 gli Usa gli negano il visto. La celebrità mondiale culmina nel '97 col Nobel per la Letteratura (già nel '75 era entrato nella lista), ma rinfocola vecchie diatribe sul suo passato di repubblichino di Salò. “Non l'ho mai negato – spiegherà -. Mi sono arruolato volontario per non destare sospetti sull'attività antifascista di mio padre”. Dopo il '95, quando un ictus rischia di renderlo cieco, Fo rallenta l'attività teatrale (ma pure realizza alcuni cult: Lu santo jullare Francesco nel 1999, Ubu rois, Ubu bas e L'Anomalo Bicefalo negli anni Duemila, sulle vicende giudiziarie di Berlusconi) per quella letteraria e pittorica (le biografie di artisti da Leonardo a Mantegna, romanzi come La figlia del Papa, Un uomo bruciato vivo, fino  agli ultimi  Razza di zingaro e Darwin), cui si intreccia l'impegno politico diretto, di consigliere comunale a Milano nel 2006 e negli ultimi tempi il sostegno ai 5 stelle. Il 29 maggio 2013 segna il "più grande dolore della mia vita. Franca Rame se n'è andata tra le mie braccia". Al funerale, stringerà il cuore di una folla immensa, urlando un disperato "Ciaooooo". Di Franca negli ultimi anni dirà che la sentiva, sentiva la sua presenza e il suo aiuto. E a chi gli chiedeva se questo era il segno di una sua conversione al soprannaturale, ironico e lucido rispondeva: "Io credo nella logica. Ma una volta di là, spero di essere sorpreso".

Morte Dario Fo, la reazione di Brunetta e Salvini. Il capogruppo azzurro Brunetta: "Con me Fo fu razzista". Il leader del Carroccio: "Per lui i leghisti erano ignoranti e razzisti", scrive Franco Grilli, Giovedì 13/10/2016, su "Il Giornale".  "Quando muore una persona, ovviamente, cordoglio. Però, nessuna ipocrisia. Dario Fo non mi era mai piaciuto, l’ho considerato sempre un uomo violentemente di parte, un uomo che violentemente ha diviso il Paese". È l’attacco che arriva da Renato Brunetta, da Radio Anch’io su Radio Uno. "Ricordo a tutti - prosegue il capogruppo FI alla Camera - le polemiche che ci furono quando gli venne assegnato il Nobel. Nessuna ipocrisia, io non sono un ipocrita. Nei miei confronti si è espresso in maniera razzista, facendo riferimento - rammenta - alla mia altezza, per esempio. E questo lo dico con grande amarezza e con grande dolore". "Penso che un premio Nobel, un grande uomo come viene descritto non doveva far polemiche con avversari politici usando questi strumenti o questi schemi mentali. Io dico - conclude - pace all’anima sua, onore a Dario Fo che è morto, perchè sono diverso da lui e sono diverso dalla sua cultura". E sulla morte di Fo si è espresso anche Matteo Salvini con un post polemico su Facebook: "È morto Dario Fo, bravo artista, una preghiera. Per lui io e i leghisti eravamo razzisti, egoisti, ignoranti? Vabbè, acqua passata, non porto rancore, doppia preghiera".

Dario Fo insulta Salvini: "Sfrutta gli ignoranti". Lui: "Sei un poveretto". Botta e risposta tra il premio Nobel per la letteratura e il leader della Lega, scrive Claudio Cartaldo, Giovedì 19/11/2015, su "Il Giornale". Dario Fo insulta Salvini e i leghisti. Intervistato ieri da Radio Cusano Campusm il premio Nobel ha definito Salvini "un uomo dal cinismo assoluto, che non guarda in faccia niente e nessuno". "Fa impressione - aggiunge Fo - perché poi fa ben gioco tra i semplici, tra quelli senza cultura e senza conoscenza, che lo seguono sulla via della paura, dello spavento". Lo scrittore ha poi continuato: "Per Salvini l’importante è battere il tamburo del nemico, senza distinguere tra terroristi e disperati che non riescono più a vivere o addirittura a sopravvivere e che sono costretti a fuggire dalle proprie terre. Non ha nel suo modo di esprimersi e nel suo giudizio l’intelligenza del valutare i valori delle cose. E’ un personaggio che non riesco a tenere in considerazione neanche per dieci minuti". Poi ha aggiunto: "Salvini gioca malamente sul vuoto di conoscenza. Chi fa il politico dovrebbe avere una chiarezza morale e profonda e non giocare sul falso e sull’ipocrisia". "Questa è gente - conclude - che usa qualsiasi chiave per ubriacare e sconvolgere gente che non ha conoscenza. Tutti quelli che ora vogliono strumentalizzare quanto accaduto a Parigi giocano sull’ignoranza delle persone". La risposta del leader del Carroccio non si è fatta attendere. "Buona giornata Amici - ha scritto su Facebook - Dario Fo ha detto 'Salvini è un cinico e viene seguito da ignoranti'. Quindi, buona giornata a tutti noi ignoranti! Che poveretto...".

Dario Fo contro Benigni: "Si adatta in base a ciò che può ricavare". "Per Roberto Benigni ho avuto sempre un grosso affetto e stima, ma ultimamente si è messo in una condizione di non poterlo più seguire", scrive Mario Valenza, Giovedì 18/02/2016, su "Il Giornale". "Per Roberto Benigni ho avuto sempre un grosso affetto e stima, ma ultimamente si è messo in una condizione di non poterlo più seguire". A parlare è Dario Fo, nel corso della prima puntata della nuova edizione di Reputescion. "Lui dice e stradice concetti che poi brucia, contamina, ti mette in imbarazzo. Conoscendolo dall’origine è molto cambiato. Annulla quello che fatto per anni. Si adatta al meglio da ciò che può ricavare da un atteggiamento o una definizione politica o sociale”. E adesso dunque è guerra. Se prima i due erano alleati sulle stesse sponde ora a quanto pare non se le mandano a dire. L'intervento del Premio Nobel Dario Fo ospite della prima puntata della nuova edizione di Reputescion, il programma condotto da Andrea Scanzi in onda questa sera su La3 di fatto farà discutere. Benigni per il momento non ha risposto alle accuse di Fo. Ma di certo non si aspettava un colpo così basso...

«Bella ciao» e bandiere rosse per l'addio a Franca Rame, scrive Elena Gaiardoni, Venerdì 31/05/2013, su "Il Giornale". Ma le rose sono bianche. La bara è chiusa nel foyer del Piccolo Teatro; sul coperchio una fotografia di Franca Rame anche per ricordare che il marito, Dario Fo, la conobbe prima in foto e poi di persona; la corona di Giorgio Napolitano rosseggia di anturium rosa e rubino. Il drappo sulla bara è color sangue come la vita terrena, ma le rose sono bianche, come candidi sono i gelsomini e le calle adagiate ai piedi della bara, quasi come le tuniche lavate ancora dalle donne sul Santo Sepolcro. Un tempo riservata al funerale dei bambini quale emblema d'innocenza, oggi la rosa bianca appare sempre di più nei tributi a persone defunte non in giovane età. La morte ci rende tutti bambine e bambini? Dovrebbe. Solo un'immagine religiosa nella camera ardente, il gonfalone di Mediolanum, e poi i poster di Arlecchino, il servo che cucì il suo costume con pezze di tutti i colori, perché il coraggio femminile deve essere pieno di sfumature come un arcobaleno per arrivare a raggiungere un solo diritto per le donne: il diritto d'essere bianche come rose. Per ottenere dieci, una donna deve chiedere mille, sosteneva Virginia Woolf; Franca Rame è appartenuta al tempo in cui se una voce femminile non gridava fino al rossore non era ascoltata. Dopo aver gridato, ora anche lei sta in silenzio, riposa, perché la morte emette un unico suono per tutti. E' lei la grande eguagliatrice e da questo punto di vista è la forza politica estrema, bianca. «Stamattina non ci sarà un'orazione funebre ma un commiato» ha detto Dario Fo, marito di Franca Rame, e nel morire prima di lui, Franca ci ha fatto un dono: poter dire che Dario Fo è marito di Franca Rame e non Franca Rame moglie di Dario Fo. Tra un mese verrà aperto il testamento dell'attrice. Raffaella Carrà, Carla Fracci, Milly Moratti, donne dal nome noto in mezzo a donne sconosciute che lasciano un biglietto. Poche lacrime. Forse stamattina in corteo canteranno la canzone che Franca Rame avrebbe voluto cantassero le donne, «Bella ciao», dimostrando coerenza fino alla fine, anche se vale la pena ricordare l'immagine che un drammaturgo come Bertold Brecht diede della coerenza: «Solo il mio somarello di peluche sul comodino dice sempre sì». Nella camera ardente bambine e nonne sono mute come i burattini e le marionette quando l'attore che le anima non c'è più. E chi è nella morte l'attore che ci dà ancora voce? Oggi alle 11 allo Strehler un addio laico a una donna a cui non si può non riconoscere un'indole da «eroe», nell'antico termine della parola: chi agisce nell'impeto del cuore. Ci ha stupito l'assenza di un simbolo sacro, visto che proprio Dario Fo ha scritto il libro, «Gesù e le donne», riconoscendo a Cristo il coraggio di non aver condannato nessuna donna, ma di averci salvate tutte anche dalla più piccola pietra. In questo è stato l'Unico e l'Unica vera voce oltre la marionetta della morte.

Il Nobel a Dario Fo, nel ’97, fu letto da molti come uno scherzo da comunisti svedesi: per avere il massimo riconoscimento letterario - usa dire dalle nostre parti, con sospetto - conta l’impegno politico. Come dimenticare Dario Fo, che in piena disfatta si arruolò nella Repubblica Sociale e combatté per il suo Duce, fino all’ultimo, nelle brigate di Tradate contro i partigiani. Da “Italiani Voltagabbana” di Bruno Vespa. Neri con riserva. Da Dario Fo ad Eugenio Scalfari: nel libro di Bruno Vespa, tutti gli intellettuali di sinistra che furono fascisti, scrive “Libero Quotidiano”. La storia del nostro Paese è ricca di retroscena e di aneddoti destinati a fare scalpore: tra queste storie, diverse vengono svelate o ricordate da Bruno Vespa nel suo nuovo libro, Italiani volta gabbana. Dalla prima guerra mondiale alla Terza Repubblica, sempre sul carro del vincitore, in uscita oggi, giovedì 6 novembre (edizione Mondadori). Nel terzo capitolo di questo volume, Vespa parla di diversi intellettuali che si dichiararono antifascisti alla caduta del regime di Benito Mussolini, ma che prima stavano dalla parte del Duce: tra di loro ci sono nomi altisonanti, come Giuseppe Ungaretti o Dario Fo, o altri comunque ben noti, come Indro Montanelli o Enzo Biagi. Tutto nasce dalla rivista Primato, diretta da Giuseppe Bottai: il politico fascista più illuminato sul piano culturale, ma anche il più feroce sostenitore delle leggi razziali. La rivista nacque nel 1940 e chiuse il 25 luglio 1943, e furono tantissimi intellettuali a collaborare per questo giornale. "Fascista in eterno": si definì così Ungaretti durante il regime. Il poeta notò che "tutti gli italiani amano e venerano il loro Duce come un fratello maggiore", e firmava appelli per sostenere Mussolini, salvo poi rinnegarlo dopo il 25 luglio 1943, quando firmò documenti contrari ai precedenti, tanto da meritarsi una grande accoglienza a Mosca da parte di Nikita Kruscev. Stessa parabola per Norberto Bobbio, che da studente si era iscritto al Guf (l'organismo universitario fascista) e aveva mantenuto la tessera del partito, indispensabile per insegnare. Il filosofo e senatore a vita, cercò raccomandazioni per poter evitare problemi che gli derivavano da frequentazioni "non sempre ortodosse", e il padre Luigi fu costretto a rivolgersi allo stesso Mussolini. Bobbio ottenne la cattedra, mentre nel dopoguerra diventò un emblema della sinistra riformista: il 12 giugno 1999, a Pietrangelo Buttafuoco del quotidiano Il Foglio, il filosofo ammise: "Il fascismo l'abbiamo rimosso perché ce ne vergognavamo. Io che ho vissuto la gioventù fascista mi vergognavo di fronte a me stesso, a chi era stato in prigione e a chi non era sopravvissuto". Indro Montanelli non ha mai nascosto di essere stato fascista: "Non chiedo scusa a nessuno", ribadiva sul Corriere della Sera. Stesso discorso per Enzo Biagi, che nel dopoguerra ha sempre mantenuto gratitudine per Bottai. Eugenio Scalfari, dopo il 1945, parlò di "quaranta milioni di fascisti che scoprirono di essere antifascisti", senza celare mai le proprie ferme convinzioni giovanili: anche lui, fino alla sua caduta, sostenne il fascismo e la sua economia corporativa. Più difficile è stato negare la propria fede fascista, da parte di Dario Fo, che a 18 anni si arruolò nel battaglione Azzurro di Tradate (contraerea) e poi tra i paracadutisti del battaglione Mazzarini della Repubblica Sociale Italiana. Nel 1977 Il Nord, piccolo giornale di Borgomanero, raccontò quei trascorsi della vita di Fo: l'attore querelò subito Il Nord, e al processo disse che l'arruolamento era stato soltanto "un metodo di lotta partigiana". Le testimonianze, invece, lo inchiodarono: la sentenza del tribunale di Varese, datata 7 marzo 1980, stabilì che "è perfettamente legittimo definire Dario Fo repubblichino e rastrellatore di partigiani". Dario Fo non fece ricorso.

DARIO FO. Dario Fo si arruolò a 18 anni come volontario prima nel battaglione Azzurro di Tradate (contraerea) e poi tra i paracadutisti del battaglione Mazzarini della Repubblica sociale italiana. Il 9 giugno 1977, quando Fo era ormai da anni celebre per il suo lavoro teatrale Mistero buffo, un piccolo giornale di Borgomanero (Novara), Il Nord, pubblicò una lettera di Angelo Fornara che ne raccontava i trascorsi repubblichini. Fo sporse querela con ampia facoltà di prova, ma il processo non ebbe l'esito da lui sperato. Secondo quanto riferì Il Giorno (8 febbraio 1978), l'attore disse in aula che il suo «arruolamento era una questione di metodi di lotta partigiana» per coprire l'azione antifascista della sua famiglia. Ma le testimonianze furono implacabili. Il suo istruttore tra i parà, Carlo Maria Milani, mise a verbale: «L'allievo paracadutista Dario Fo era con me durante un rastrellamento nella Val Cannobina per la conquista dell'Ossola, il suo compito era di armiere porta bombe». E l'ex comandante partigiano Giacinto Lazzarini lo inchiodò: «Se Dario Fo si arruolò nei paracadutisti repubblichini per consiglio di un capo partigiano, perché non l'ha detto subito, all'indomani della Liberazione? Perché tenere celato per tanti anni un episodio che va a suo merito?». Una testimone, Ercolina Milanesi, lo ricorda «tronfio come un gallo per la divisa che portava e ci tacciò di pavidi per non esserci arruolati come lui. L'avremmo fatto, ma avevamo quindici anni...». L'11 marzo 1978, mentre il processo contro gli accusatori di Fo era in pieno svolgimento, Luciano Garibaldi pubblicò sul settimanale Gente una foto dell'attore in divisa della Repubblica sociale (altissimo, magrissimo come è sempre stato) e un suo disegno dove appaiono alcuni camerati con le anime dei partigiani uccisi che escono dalle canne dei mitra («Sono apocrife e aggiunte da altri», si difenderà). Il 7 marzo 1980 il tribunale di Varese stabilì che «è perfettamente legittimo definire Dario Fo repubblichino e rastrellatore di partigiani». Il futuro premio Nobel non ricorse in appello e la sentenza divenne definitiva.

Agli artisti piacciono soltanto i «poveracci» Il triste paternalismo degli intellettuali italiani. Tutto è cambiato, ma siamo ancora inchiodati all'anticapitalismo d'ordinanza, scrive Massimiliano Parente, Domenica 21/08/2016, su "Il Giornale".  A pensarci ti viene il magone. Insomma, la cultura italiana sembra un reportage di Michele Santoro, stretta per decenni tra il poverismo democristiano e quello comunista. Con il risultato che la ricchezza, il benessere, l'imprenditoria, la Brianza, sono rigorosamente bistrattate, dipinte come male assoluto. E dunque, oggi, i Virzì con Il capitale umano, un libro di Lagioia di qua e un Saviano accusatore del Nord di là; poca roba, per carità, ma allevati nel brodino dell'anticapitalismo d'ordinanza. E appena li tocchi urlano ancora: fascista! fascista! Come se poi il fascismo c'entrasse qualcosa con la libera imprenditoria. Gli imprenditori? Tutti palazzinari. Mai avuto una cultura alta, della ricchezza, noi, figuriamoci. Se Proust fosse nato in Italia anziché dei Guermantes avrebbe scritto al massimo di Acitrezza, Alla ricerca del pesce perduto, perché la tristezza, ammettiamolo, inizia con il Verismo. Verismo della povera gente, ci mancherebbe. Anche oggi, a rileggere I Malavoglia, così stilisticamente raffinati, mi viene però una depressione, una claustrofobia, una puzza di pesce, una voglia austro-ungarica da schierarmi per dispetto contro il giovane Törless di Musil. O comunque, almeno, di rivalutare D'Annunzio. Così come il cinema, il nostro cinema, inizia con Vittorio De Sica e Ladri di biciclette, neppure ladri di Ferrari, che sfigati. E dopo tredici anni di neorealismo, ecco un balzo in avanti, arriva Pier Paolo Pasolini, con Accattone, un titolo un programma. Eppure c'è poco da ridere, sono i nostri modelli culturali, esportati in tutto il mondo. Nessuno si stupisce, all'estero, se l'Italia va male, abbiamo sempre avuto un gusto estetico per fare pena. Nella moda facciamo meraviglie, ma poi arriva Saviano per raccontarti che gli imprenditori del Nord sfruttano i cinesi negli scantinati del Sud. Poi, appena c'è un fuoriclasse, non so, un Guido Morselli, lo si mette all'angolo, gli si rifiutano i libri, lo si fa morire inedito. Va da sé, mentre Morselli si suicida sparandosi, un poverista come Pasolini diventa un santino, ma non subito, appena lo ammazzano. Con una morte scenografica molto Cristo dei poveri, insanguinato, impolverato, lui che sapeva, lui che denunciava lo Stato e gli imprenditori, lui che ha pagato per tutti, complotto, complotto! Fascisti! Fascisti! Mentre quand'era vivo i compagni gli davano del pedofilo e lo espellevano dal Pci. Del pasolinismo resta una scuola con due o tre mantra: l'editoriale dell'Io so, l'altro editoriale delle lucciole che sono sparite, mentre i romanzi con i ragazzi di vita e gli operai che se lo succhiano al Pratone della Casilina nessuno se li rilegge più, una noia, una noia, che neppure La noia di Moravia. Moravia, altro comunista, però come tutti ben inserito nei salotti giusti. Come oggi la Maraini, ex moglie e firma del Corriere della Sera, però, attenzione, appena comprato da Urbano Cairo, imprenditore del Nord, un piccolo Berlusconi. Cosa non bella. Cosa da guardare con sospetto. Mi ricordo una conversazione tra Flavio Briatore e il magistrato Luigi De Magistris. Il primo vorrebbe mettere dei campi da golf intorno a Pompei (figata), e alberghi extra-lusso, per valorizzare il luogo, per incrementare il turismo di un certo livello; il secondo rimprovera a Briatore di non aver mai lavorato un giorno in vita sua. Perché essere ricchi significa essere ladri, furbi, disonesti, o giù di lì. Intellettualmente parlando, Flavio ci ha fatto la figura del gigante, De Magistris quella dell'intellettuale italiano medio, fosse stato più calvo sarebbe parso quasi Saviano. D'altra parte il vero tabù è un altro, un pensiero che non si può dire. Tipo che il Nord ha creato l'imprenditoria e il Sud ha creato la mafia. Invece, ogni anno, tanti moralismi straccioni, petulanti, paradossali, come quello del filosofo Georgescu-Roegen sulla «decrescita felice», idea geniale, diventare tutti più poveri, solita solfa, subito fatta propria dal Movimento Cinque Stelle, di stronzate non se ne perdono una. Aggiungiamoci la Chiesa, il poverismo di papa Francesco (in realtà molto cristiano, ma che mette in imbarazzo i cristiani di destra: vorremo mica aprire la porta a tutti gli immigrati?), il denaro sterco del demonio, e la minestra è servita, e come da motto italico o la mangi o salti dalla finestra. Fratelli d'Italia, l'Italia s'è desta, dell'Elmo di Scipio s'è cinta la testa... anche questa, che marcetta demenziale, giusto a Benigni poteva piacere. Alla fine l'unico vero fratello d'Italia è Alberto Arbasino. Che in Fratelli d'Italia, vero capolavoro della letteratura italiana, dichiara, snobbissimo, fin da pagina uno: «tanto mio papà ha più di un milione di franchi al Credit Suisse». Grandissimo Arbasino, presto attaccato dal solito Pasolini con l'epiteto di «fascista! fascista!».

La casta? La inventò Morselli Per attaccare la sinistra italiana. Quarant'anni fa usciva «Il comunista», romanzo (bocciato dall'intellighenzia) in cui l'autore più sfortunato delle nostre Lettere smascherava la brama di potere del Pci, scrive Luigi Mascheroni, Venerdì 12/02/2016, su "Il Giornale". Attaccò letterariamente la casta politica, e fu letterariamente ucciso da quella intellettuale. Guido Morselli (1912-73), bolognese per neppure due anni, varesino per il resto della vita, fu il primo - chi lo avrebbe mai detto? - ad attaccare la «casta», nella fattispecie di sinistra, nello specifico «comunista», in un romanzo terribile pubblicato postumo da Adelphi quarant'anni fa, anno di scarsa grazia 1976. Titolo: Il comunista. Per inciso, un libro la cui ultima ristampa data, se non sbagliamo, 2006.Un libro invece fresco di stampa è Guido Morselli, un Gattopardo del Nord (Pietro Macchione editore) che, alludendo nel titolo alle analogie di destino con l'opera di Tomasi di Lampedusa, raccoglie gli atti dei convegni tenuti nei primi sette anni del premio dedicato all'autore «postumo» per antonomasia. Curato da Silvio Raffo e Linda Terziroli, il volume è una miniera di notizie, «letture» e interpretazioni sullo scrittore rimasto inedito in vita e riscoperto come un maestro del nostro secondo '900 post mortem. Molti i contributi interessanti: un «fantastico» Gianfranco de Turris su Morselli e l'immaginario, la super-esperta Valentina Fortichiari su Guido Morselli: sobrietà, nitidezza, discrezione, Giordano Bruno Guerri su Tutto è inutile. Morselli smentisce se stesso, dove si cita una frase profetica dello scrittore, del 1966: «Nessun partito politico è di sinistra, dopo che ha assunto il potere», e un elegante Rinaldo Rinaldi sulla Filosofia dell'abbigliamento nell'opera di Morselli... Ma soprattutto un irriverente Antonio Armano che firma l'intervento intitolato - appunto - Il comunista: quando Morselli parlava della casta dove si ricostruisce il caso del romanzo più politico dello scrittore di Varese (avendolo effettivamente letto e studiato, cosa che non tutti coloro che ne parlano hanno fatto).E forse Il comunista non fu neppure letto, o fu letto troppo bene, da chi lo bocciò. Come Italo Calvino - la storia è stranota - il quale nel 1965 rifiutando la pubblicazione del romanzo da Einaudi, casa editrice di cui era direttore editoriale, scrisse all'autore che «Dove ogni accento di verità si perde è quando ci si trova all'interno del partito comunista. Lo lasci dire a me che quel mondo lo conosco, credo proprio di poter dire, a tutti i livelli. Né le parole, né gli atteggiamenti, né le posizioni psicologiche sono vere. Ed è un mondo che troppa gente conosce per poterlo inventare». Insomma, non se ne fece nulla. Però l'anno successivo Rizzoli accettò di pubblicare il libro, arrivando fino alle bozze. Ma cambiò improvvisamente direttore editoriale, e il nuovo arrivato, sicuramente senza aver letto Il comunista, annullò tutti i programmi e il romanzo restò impubblicato (di certo piacque al primo dei due editor, che fece il contratto a Morselli, Giorgio Cesarano, già espulso dal Pci, il quale si uccise nel '75, due anni dopo lo scrittore).Comunque, quello che interessa - a dimostrazione di quanto invece Morselli conoscesse il mondo del comunismo italiano, e sapesse prevederne i destini, meglio di Calvino - è la costruzione del romanzo, la trama profetica e il ritratto psicologico del protagonista: un parlamentare del Pci degli anni Cinquanta diviso tra compagna e amante, dentro un partito laico che però brillava per bigottismo, in una Roma malinconica e trafficona, in un'Italia dove «la gente vive di chiacchiere, si consuma in chiacchiere. Tutto finisce in chiacchiere», perso tra inutili discussioni politiche sui massimi sistemi marxisti e piccole beghe di bottega, oscura. È qui che Morselli chiama quella dei parlamentari comunisti «una casta». Una Chiesa che non ammette né eresie né deviazioni. Un gruppo di potere, da cui il protagonista è deluso e insieme attratto e respinto, all'interno del quale dominano arrivismo, tatticismi, egoismo. Dove le utopie comuniste si schiantano contro i miseri tornaconti individuali. Dove prevalgono, al di là dell'ideologia, gli interessi personali e i compromessi «poltronistici». Ciò che Morselli vide dentro il Pci a metà degli anni Sessanta, quando scrisse Il comunista, è esattamente quello che il Paese avrebbe visto da lì a poco dentro se stesso, e tutta la propria classe politica. Difficile che un romanzo del genere, una staffilata contro la casta comunista togliattiana, potesse essere pubblicato da un editore come Einaudi. La casta intellettuale avrebbe provveduto a stopparlo. Un'ultima considerazione. Alla fine del suo saggio Antonio Armano fa notare che Wikipedia, nella biografia di Guido Morselli, inserisce un commento su Il comunista del tutto infondato: sostiene che lo scrittore non riuscì mai a pubblicare e fu boicottato dall'ambiente editoriale perché il romanzo traccia positivamente la figura di un partigiano e allora la Dc demonizzava i partigiani. «Una vera bestialità - spiega Armano - Se Morselli pagò uno scotto ideologico-letterario fu tutt'al più, come dimostra il romanzo e il commento di Calvino, di non essere uno scrittore etichettabile, tantomeno politicamente, di essere libero, di non appartenere a nessuna parrocchia». Un'ultima antipatica appendice internettiana - Wikipedia casamatta gramsciana - della vecchia egemonia culturale comunista. Morselli, che non rideva mai, avrebbe abbozzato una smorfia.

Se sono eroi, noi stiamo dall'altra parte. Celebrano i loro miti come fossero dei santi, ma non possono riscrivere la storia, scrive Alessandro Gnocchi, Martedì 03/11/2015, su "Il Giornale". L'Italia è sempre generosa nel celebrare i suoi eroi. A patto che abbiano manifestato, in parole e opere, una visione del mondo diversa da quella liberale. Possibilmente opposta, ma va bene anche un generico contributo in favore del conformismo (di sinistra). La cronaca ci offre tre casi molto diversi. Partiamo dal più vistoso, le celebrazioni di Pier Paolo Pasolini, ucciso il 2 novembre 1975 all'Idroscalo di Ostia. Chi si aspettava nuove interpretazioni e contributi critici è rimasto deluso. Il poeta, lo scrittore, il regista non interessano. Si è glorificato il Pasolini che sapeva tutto senza avere le prove di nulla ma voleva comunque processare la Democrazia cristiana. Al massimo si è fatto un po' di complottismo sull'omicidio, per dire che sono stati i fascisti, i poteri occulti, i servizi segreti. Senza prove, naturalmente, perché anche i biografi di Pasolini «sanno» e tanto basta. Pasolini dunque è ridotto a santino anti-capitalista, per via del suo marxismo. Se bisogna forzare la storia, non è un problema: non abbiamo letto grandi rievocazioni dell'ostracismo da parte del Partito comunista; né articoli vibranti sul poeta che simpatizzava con i poliziotti dopo gli scontri di Valle Giulia. La forzatura della storia, anzi: la riscrittura, è parsa evidente alla morte di Pietro Ingrao. I «coccodrilli» cantavano la democraticità del suo comunismo ed esaltavano il suo ruolo di eretico all'interno di Botteghe Oscure. Peccato che Ingrao fosse direttore dell'Unità quando il quotidiano definì «un putsch controrivoluzionario» l'insurrezione di Budapest del 1956. Ingrao stesso firmò l'editoriale in lode dell'invasione sovietica. Molti anni dopo, il presunto eretico pronunciò un discorso durissimo contro i «dissidenti» del Manifesto. Meno male che li considerava politicamente «figli suoi». Elogi sperticati anche per Giulia Maria Crespi, ex proprietaria del Corriere della Sera, in occasione della pubblicazione della sua autobiografia (Il mio filo rosso, Einaudi). Vittorio Feltri ha già ricordato, su queste colonne, che fu proprio la «zarina» a licenziare Giovanni Spadolini per spostare il quotidiano a sinistra. Piero Ottone divenne direttore, Indro Montanelli fondò il Giornale. Nel 2016 cade il ventennale della morte di Renzo De Felice. La sua biografia di Mussolini faceva a pezzi il mito dell'antifascismo. Lo storico sapeva e aveva anche le prove ma fu sottoposto a un linciaggio intellettuale. (Per coincidenza, la feroce campagna di delegittimazione segue di pochissimo l'io so di Pasolini). Vedremo se l'Italia sarà capace di celebrare questo formidabile liberale come celebra le icone del pensiero illiberale. O se farà finta di non sapere. 

 “Come sopravvivere al cinema di sinistra”. Razzisti, evasori, ignoranti, arricchiti. Gli italiani di centrodestra ormai sono abituati a vedersi rappresentati così dal cinema di casa nostra. Colpa di un pensiero unico che dal neorealismo ai film impegnati, da Nanni Moretti a Virzì, monopolizza il grande schermo. Questo pamphlet diventa così una guida irriverente per i cinefili non di sinistra, una messa alla berlina dei tic di autori e critici radical chic, la rivendicazione di una verità: i film d’autore incassano poco, quelli che fanno ridere non sono roba da “popolo bue” e chi si ostina a scrivere queste scemenze sta uccidendo il cinema. 

Come sopravvivere al cinema di sinistra, scrive Maurizio Acerbi il 10 agosto 2016 su “Il Giornale”. Da oggi, nelle edicole italiane, abbinato a il Giornale, trovate il mio libretto "Come sopravvivere al cinema di sinistra", inserito nella collana Fuori dal Coro. Il pamphlet, che costa 2,50 euro, cerca di rispondere ad alcune domande che si pongono tutti quei cinefili che non si riconoscono nel pensiero unico della sinistra cinematografica: ridere è di destra? Chi non vota a sinistra è come viene dipinto nei film degli autori radical, ovvero razzista, ignorante, evasore e via dicendo?  Ma non solo. Ho cercato, usando anche un linguaggio semiserio (è pur sempre un libro estivo), di mettere alla berlina i tic dei registi d’autore e della critica radical chic, cercando di capire come si sia formata questa uniformità di pensiero che monopolizza il grande schermo e che ghettizza chi non si riconosca in esso. Il libro parte con uno scherzoso Manifesto del perfetto regista di sinistra che in 21 punti cerca di tratteggiare, in modo ironico, le caratteristiche comportamentali dell’autore impegnato. Poi, vi elenco i vari capitoli per darvi un’idea del contenuto del libretto di 48 pagine, ovvero: Introduzione: il cinema di sinistra è morto?; L’anatema contro il cinepanettone; La dittatura di cowboy e poliziotti; Se far ridere è di destra; I maestri della sinistra autoreferenziale; Brutti, cattivi, evasori e ignoranti; La solitudine di non essere di sinistra; Il mistero buffo di Checco Zalone; Troppa cultura, sale deserte; Il Democratico conquista l’America; Conclusione. Se qualcuno dei numerosi lettori di questo blog (a proposito, grazie per la fiducia) vorrà leggerlo, mi farà piacere. E magari, potremmo successivamente confrontarci sui temi che ho trattato. Lo scopo principale era lanciare una sorta di SOS, un “ci siamo anche noi non di sinistra”, un “non dimentichiamo che il cinema appartiene a tutti”. Se, in qualche modo, sarò riuscito a far riflettere qualcuno di questi autori sul nostro disagio quotidiano di lavorare in un ambiente chiuso come quello del cinema italiano, la missione sarà compiuta. Almeno, ci ho provato. Buona lettura

Cosa si nasconde dietro la targa Unesco. Il marchio di Patrimonio dell'umanità garantisce fama e soldi. Ma la selezione dei siti è un trionfo di sprechi e burocrazia, scrive Emanuela Fontana, Lunedì 01/08/2016 su “Il Giornale”. L'unico brivido è arrivato dal golpe. E non è stata una suspense piacevole, né prevedibile per la quarantesima assemblea del World Heritage Committee dell'Unesco. Il comitato ogni anno decreta i nuovi siti artistici e naturali da inserire nella lista del Patrimonio mondiale dell'agenzia Onu. Un paio di settimane fa era riunito a Istanbul: mentre il verdetto stava per essere emesso, i carri armati occupavano le strade e Recep Tayyp Erdogan parlava via smartphone da un luogo ignoto. Panico, interruzione dei lavori per una giornata, ma, colpo di Stato a parte, era tutto già scritto: sempre più organismo politico (sono i diplomatici, da qualche anno, a far parte delle delegazioni, non i tecnici), con un budget che destina al lavoro di scelta dei siti e alle riunioni più soldi che all'assistenza internazionale, l'organismo dell'Onu delegato alla tutela della bellezza mondiale decretava i «vincitori» del 2016: ventuno nuovi siti che da ora avranno il marchio Unesco, garanzia di visibilità, turismo e soldi. Soldi che però, almeno per i Paesi occidentali, non arrivano dal World Heritage, che pure li inserisce nel gotha della bellezza universale, ma in gran parte dagli Stati di appartenenza. Mettersi all'occhiello il logo di Patrimonio dell'umanità Unesco è ormai un prezioso richiamo turistico e l'inserimento nella world list è diventato una sorta di vittoria nel Risiko della cultura mondiale, ma in realtà il bilancio del fondo speciale dedicato alla salvaguardia dei luoghi più preziosi dell'umanità rappresenta meno del 5% del budget complessivo dell'organizzazione: circa 30 milioni di dollari contro gli 802 del mastodontico conto economico dell'agenzia dell'Onu, in cui il 45% delle spese, quasi 400 milioni, sono destinate al personale. Dei 30 milioni del fondo 7,8 vengono spesi per la valutazione delle candidature e i meeting, 5,5 milioni per l'assistenza. Rivolti quasi esclusivamente ai Paesi più bisognosi. A ricevere la fetta maggiore dei finanziamenti sono Tanzania, con oltre un milione e trecentomila dollari, Costarica, Ecuador, Brasile, Perù, Egitto e Cina (45 programmi, quasi un milione di dollari). Quanto all'Italia, come la maggior parte delle nazioni europee e gli Stati Uniti, non percepisce fondi dalla speciale riserva che si occupa del patrimonio planetario. L'ultimo versamento al nostro Paese nel capitolo International assistance risale al 1994: 20mila dollari per un corso di formazione. Proprio la Penisola è stata la grande assente nelle nomination 2016, e per di più ha ricevuto una sorta di ammonizione relativa a uno dei suoi gioielli, Venezia, a rischio esclusione dai patrimoni del globo terrestre se non si corre ai ripari (vedi anche l'altro articolo in pagina). Eppure dall'Italia va all'Unesco un fiume di soldi: siamo il secondo contribuente dopo il Giappone con 52 milioni di euro di versamenti complessivi. A questi si aggiungono quelli previsti da una legge italiana, la 77/2006, che dispone il finanziamento di una selezione annuale di progetti presentati dai cinquantuno siti della Penisola riconosciuti come patrimonio dell'umanità. Dal 2011 a oggi, il ministero dei Beni culturali ha versato 11 milioni 82mila euro totali alle località patrimonio Unesco. In vetta alla classifica dei super premiati figurano due siti: «I Longobardi, i luoghi del potere» (un milione di euro in un quinquennio; vedi le tabelle in queste pagine) e Siena con val d'Orcia, San Gimignano e Pienza, dove si è svolto il Festival Unesco delle Terre di Siena (un milione 54mila euro totali, 273mila al festival). Seguono i dipinti rupestri della val Camonica, Mantova con Sabbioneta, e le residenze sabaude. Scendendo nella classifica dei siti maggiormente finanziati si trovano poi Modena (515mila euro), sotto i 500mila euro ci sono Venezia, Matera e Piazza Armerina. Mantova e Sabbioneta hanno avuto quasi il doppio di Assisi (357mila), mentre i trulli se la sono cavata con 324mila euro. A pagare l'onore di ricevere il marchio Unesco è dunque l'Italia. Anche qui, però, la crisi si è fatta sentire. Fino a cinque anni fa gli elenchi dei beneficiari dei fondi per i siti premiati erano lunghi almeno tre pagine. Oggi un paio di righe. Il fiume è diventato un rivolo e per il 2016 nel bilancio dello Stato italiano solo 143mila euro sono stati per il momento assegnati. La maggior parte a «Modena, cattedrale, torre civica e piazza Grande per la riqualificazione del bookshop e della biglietteria» e per «un nuovo ingresso per la Ghirlandina», il resto ad Assisi. Per fare qualche confronto, solo nel 2011 i fondi avevano superato i sei milioni e mezzo. E nel 2012 ci si poteva permettere di versare a Siena 63mila euro per pulire le strade e i vicoli «dagli escrementi dei colombi». O a Monte San Giorgio, confine italo-svizzero, 98mila euro per il progetto «Paleontologi per un giorno». Anche oggi, comunque, e nonostante la stretta finanziaria, entrare nella lista dell'Unesco dà un vantaggio tutt'altro che irrilevante: poter accedere al fondo riservato del ministero dei Beni culturali passando davanti ad altri potenziali rivali. Senza contare i finanziamenti regionali e i progetti dei comitati privati: Venezia ne ha da sola 26. In più c'è la ricaduta in termini di maggiore afflusso turistico. Secondo uno degli ultimi studi, svolto dall'Accademia Aidea su Villa Adriana a Tivoli, Pompei e val Camonica, i maggiori guadagni legati al marchio Unesco sono pari a circa il 30%. Tivoli, per esempio, con oltre 224mila visitatori, avrebbe una spesa turistica riconducibile solo al marchio Unesco di 480mila euro. Pompei addirittura di 9,4 milioni. Perfino in Valcamonica, dove i visitatori sono pochi, circa 44mila, il maggiore incasso ottenuto tramite il «logo» è di 90mila euro. Tutto bene, dunque? Niente affatto. Un recente studio di Pricewaterhouse Coopers rileva che i siti Unesco del nostro Paese godono di uno scarso ritorno commerciale: sedici volte inferiore a quello dei siti americani (che sono la metà), sette di meno di quello dei beni inglesi e quattro di quello dei francesi. Forse perché grande contribuente dell'Unesco in generale, l'Italia non compare tra i finanziatori volontari dello specifico fondo World Heritage dell'organismo della Nazioni Unite (ci sono Francia e Germania). Il nostro Paese ha ridotto anche i contributi obbligatori a 122mila euro annui (non ancora versati al 30 giugno 2016). Quattro anni fa erano 163mila. Il Giappone ne versa 316mila, l'Inghilterra appena più di noi, la Cina, che ci tallona per numero di siti (50), paga il doppio della Penisola. Sono cifre comunque minime, che non condizionano le scelte dell'organizzazione dell'Onu. A concorrere alla decisione sulla lista dei siti vincitori sono in realtà un insieme di fattori: la dimensione della delegazione, i rapporti sottotraccia che vedono gli ex Paesi del Terzo mondo regolarmente schierati in opposizione all'Europa, la capacità di creare candidature di sistema. Insomma, contano diplomazia e relazioni. Più la politica che la bellezza. Tra versamenti obbligatori e volontari degli Stati e finanziamenti per progetti dedicati, le entrate del World Heritage Fund per il biennio 2014-2015 ammontano a 8,2 milioni. Ma mamma Unesco destina al WHF altri 22 milioni di euro, di cui sei solo per il personale. Ci sono anche contributi privati, come i centomila euro della giapponese Evergeen Digital, che realizza documentari sul patrimonio mondiale in partnership con l'Unesco, o come l'agenzia pubblicitaria, sempre giapponese, Kobi Graphis (altri centomila dollari). In cinque anni il fondo del World Heritage ha perso oltre un milione di contributi volontari. E anche quelli promessi arrivano a rilento: a marzo 2016 le quote versate erano appena il 15%. Come vengono spesi questi soldi? Con tutte le deformazioni tipiche dei bilanci delle pachidermiche agenzie sovranazionali. Solo per l'organizzazione delle riunioni, compreso il meeting annuale (a Istanbul è stata rinnovata la proposta di svolgerlo ogni due anni per risparmiare), si superano i due milioni di spesa. A questi costi «burocratici» si aggiungono quelli per la selezione dei siti candidati: altri 5,74 milioni. Il totale si avvicina agli otto. Una cifra che supera di gran lunga le spese dedicate all'assistenza internazionale, indicate nel bilancio consuntivo in 5,51 milioni per il biennio, di cui meno di un quinto strettamente riservati ai Sites in danger, i siti in pericolo. Due milioni e mezzo vanno a programmi di comunicazione e promozione di partnership. Quanto ai report di controllo sui siti per verificarne la conservazione, si sfiora il milione e quattrocentomila dollari. Le spese maggiori sono insomma assorbite dalla frenetica attività degli ispettori spediti in giro per il mondo. Nel 2015 le uscite per le missioni sui siti candidati alla World List si sono aggirate tra i 20 e i 45mila dollari per ogni singolo dossier. Per il 2017 la valutazione itinerante di 24 nomination richiederà 1,3 milioni. Nel bilancio preventivo è inserito anche un viaggio in Italia: la visita alle «fortificazioni veneziane costruite tra il XV e il XVII secolo», candidatura della Penisola, costerà intorno ai 31mila dollari.

Così Pellizza mise il popolo ​al centro dell’opera d’arte, scrive Vittorio Sgarbi, Domenica 24/07/2016, su "Il Giornale". Giuseppe Pellizza da Volpedo, nel 1901, dipinge Il quarto stato, oggi esposto al Museo del Novecento a Milano. In questa tela di grandi dimensioni abbiamo di fronte il popolo italiano, pochi decenni dopo l’Unità d’Italia, raffigurato come un popolo di lavoratori. Un dipinto che non solo apre cronologicamente il ventesimo secolo, ma conclude anche una grande tradizione figurativa che vede l’espressione artistica al servizio di una concezione religiosa nella quale l’uomo è protetto da Dio. Da Giotto in avanti, le pale d’altare si sviluppano verso l’alto, in verticale, perché l’umanità si rivolge al cielo per ricevere protezione. Nella parte superiore sono raffigurati la Madonna, Cristo, i Santi, tutto quello che rappresenta l’aiuto celeste all’uomo. All’inizio del secolo senza Dio, che è ancora il nostro tempo, l’immagine religiosa non è più protagonista della pittura, le avanguardie – Cavaliere azzurro, Cubismo, Futurismo, Dadaismo – sono travolte da un formalismo che è più importante del contenuto. IlQuarto Stato di Pellizza da Volpedo risolve la lunga esperienza delle pale d’altare con un rovesciamento: la pala non è più verticale ma orizzontale. Guardiamo un dipinto che si svolge nel senso della larghezza, in cui l’umanità avanza verso il proprio destino senza la protezione di Dio. Non è detto che Dio non sia presente nella coscienza degli individui, ma è l’umanità a conquistare, attraverso la forza dei lavoratori, quello che le spetta. Conquista nuovi diritti, conquista un salario, e avanza senza che ci sia più nessuno a proteggerla. Questo quadro è lafine di un’epoca e l’inizio di un’epoca nuova. Non è ancora un dipinto d’avanguardia, ma è un’opera in cui l’unico dio che l’uomo ha è se stesso, e il taglio ribaltato, orizzontale invece che verticale, lo testimonia chiaramente. Per di più, quel popolo sembra marciare verso il Palazzo, per entrare e conquistare il potere. «Palazzo» è una parola che Pasolini fu il primo a usare, in un intervento sul Corriere della Sera nel 1975, per indicare il luogo del potere, un termine che ricorda il Palazzo d’Inverno dimora degli zar. La marcia dei lavoratori del Quarto stato è propriamente una conquista di uno spazio del potere da parte del popolo. Fedele a questa lettura, nel 2007 trasportai il dipinto dalla Galleria d’Arte Moderna di Milano, dov’era conservato all’epoca, alla Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale. L’idea di allestimento che avevo prevedeva di eliminare l’altare e appoggiare il quadro direttamente a terra, in maniera tale che chi entrava in quella sala andasse incontro al popolo che andava verso di lui. Si stabiliva un rapporto allo stesso livello tra le persone reali e le persone dipinte. Mettendo il quadro in posizione rialzata si sarebbero visti i personaggi calare. L’allestimento giusto per quel quadro era a terra. L’effetto della collocazione dell’opera in una sala che porta ancora i segni dei bombardamenti della seconda guerra mondiale era straordinario, perché realizzava l’occupazione del popolo che distrugge i simboli del potere, il soffitto caduto come il cielo infranto. Giuseppe Pellizza da Volpedo, nato nel 1868, studiò all’Accademia di Brera, fu influenzato dalla Scapigliatura e da Daniele Ranzoni; a Bergamo fu allievo di Cesare Tallone e a Firenze (1893-95) frequentò Silvestro Lega e Plinio Nomellini. Interessato al realismo sociale divenne noto con Fienile (esposto a Milano nel 1894), nel quale sperimentò la tecnica divisionista, stimolato da Angelo Morbelli; aderì quindi al Simbolismo, influenzato da Gaetano Previati (Lo specchio della vita, 1895-98). Attento alle problematiche sociali e ispirandosi a Emilio Longoni, dipinse Ambasciatori della fame (1891-92), poi Fiumana (1896), e infine Il cammino dei lavoratori o Quarto stato (1896-1901), di cui sono notevoli anche i bozzetti e i disegni preparatori. Il sole nascente (1904, Roma, Galleria nazionale d’arte moderna) è l’opera nella quale Pellizza apre alle nuove avanguardie e, in particolare, ai futuristi che vedranno in lui un profeta.

Insultare la gente citando Dante Alighieri. Perdere le staffe senza perdere la faccia? Si può. Basta usare offese tratte da testi letterari. Non si diventa sboccati: si fanno citazioni colte, scrive "L'Inkiesta" il 16 Gennaio 2016. Perdere la calma significa, il più delle volte, perdere anche un po’ di dignità. Arrabbiarsi e insultare le altre persone, anche quando si ha ragione, può far cattiva impressione. Il problema è che non si può pretendere che tutti sappiano mantenere, in ogni situazione, una posizione elegante. Si può, però, pretendere che sappiano scegliere insulti eleganti.

La soluzione è semplice: trascegliere parolacce e offese rileggendo i grandi classici della letteratura. Ad esempio, la Divina Commedia di Dante. Un testo colmo (soprattutto nella prima cantica, l’Inferno) di insulti, offese, parolacce. Non bestemmie (eh be’), ma quasi. Ce ne sono per ogni occasione, e per ogni bersaglio. Prima di tutto, non di insulti si parli, ma di “ontoso metro”, cioè motteggio che provoca “onta”, cioè offesa + vergogna. Lo fanno le anime dei dannati (Inferno, VII, 33), ed è necessario che imparino a farlo anche le persone normali. Offendere vuol dire saper colpire, saper provocare vergogna. Per questo, come la Divina Commedia, è una cosa da studiare. Insulto generico: ottimo partire dal lato scatologico, ossia gli escrementi. E definire qualcuno “sterco”, è senza dubbio più di buon gusto. Se poi è uno “sterco che dalli uman privadi parea mosso”, siamo all’apoteosi. Gli “uman privadi” sono le latrine, per cui si capisce bene di che si parla. Si può attualizzare, si può aggirare, ma è, nella sostanza, la stessa (solita) cosa. E funziona sempre. Si può continuare sulla stessa falsariga, e apostrofare l’avversario definendolo “porco in brago” (Inferno, VIII, 50), cioè come un maiale che sta nella melma, nel fango, la lordura della fogna. Adatto per chi non si distingue per le sue abitudini igieniche. Un generico “vituperio de le genti”, cioè “motivo di offesa per le persone”, che il sommo Poeta rivolge a Pisa – si sa che i toscani non si amano molto tra loro – può essere riferito a chiunque. Si riconosce che è un po’ debole, e l’effetto non è garantito: non tutti conoscono la parola “vituperio”. Potrebbero non sentirsi abbastanza insultati e/o offesi. Il metro rischia di non essere abbastanza “ontoso”. Contro le donne, invece, le parole si sprecano. Dante ne ha a bizzeffe. Si può comunque andare su un misterioso “femmina balba”, cioè balbuziente, che appare in sogno a Dante. È un’offesa non tanto perché sia balbuziente, ma per come continua il verso: cioè “ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta / con le man monche, e di colore scialba”. È insomma, una figura che implica l’essere incapace: di parlare, di vedere, di muoversi. Deforme e ripugnante, sta a indicare i vizi che condannano l’uomo. Ma che va bene anche da solo. E poi, per i non esperti, “balba” può sembrare “babba”, che è un insulto leggero più o meno lungo tutta la Penisola. Per chi volesse invece sottolineare i costumi lascivi della donna in questione, può usare “femmina da conio” (Inferno XVIII, 66), espressione più ricercata rispetto a “puttana”. Ma anche “puttana” va bene, purché sia “puttana sciolta”, (Purgatorio, XXXII, 160), cioè “discinta”, “slacciata”, “senza vergogna”. “Puttana sciolta” è forte, aggressivo e violento al punto giusto. E in più è una citazione. Perdere le staffe, insomma, senza perdere l’eleganza.

Espressioni inventate da Dante che usi senza saperlo. La Divina Commedia ha lasciato una grande impronta nella lingua italiana. Anche nei proverbi, scrive "L'Inkiesta" il 7 Dicembre 2014. Come dicono gli inglesi “gli italiani quando parlano dicono poesie”. Esagerano, ma non troppo: il linguaggio comune che si usa tutti i giorni è pieno di modi di dire, frasi fatte che sono, in realtà, citazioni e versicoli rubati alla Divina Commedia. Poesia pura. Mentre si parla, non sempre ci si accorge di usare parole ed espressioni inventate o diffuse da Dante. Un po’ per abitudine, un po’ per ignoranza. E un po’ perché sono insospettabili. Eccone alcune:

Stai fresco. Più o meno viene usata per dire: “Allora finisce male”. E con questo significato non poteva che provenire dalla parte più profonda dell’Inferno, il lago di Cocito, la peggiore. Lì “i peccatori stanno freschi” (Inferno, XXXIII, 117), perché immersi del tutto o quasi (a seconda della gravità del peccato) nel ghiaccio. Da lì in poi si è usato per indicare, per fortuna, situazioni un po’ meno tragiche.

Inurbarsi. Ormai è quasi vocabolo tecnico per urbanisti, storici e architetti, tanto da passare del tutto inosservato. E invece fa parte di quella schiera infinita di neologismi danteschi fatti con prefisso in- e poi -tutto quello che gli passava per la testa. Come “indiarsi”, cioè “diventare dio”; o “inmillarsi”, che significa “moltiplicarsi per migliaia”; e ancora: “ingemmarsi” = “adornarsi luminosamente”; “imparadisare” = “innalzare al Paradiso”. Non vale per “internarsi”, che non c’entra nulla con l’ingresso nei manicomi ma con il “diventare una terna”, cioè una forma di trinità.

Galeotto fu...[inserire elemento a piacere]. Si è del tutto persa la percezione che “galeotto” in origine fosse un nome proprio, per cui si dovrebbe scrivere Galeotto, con la maiuscola. Era la trascrizione dell’originale Galehault (o Galehaut), personaggio che favorì l’amore tra Lancillotto e Ginevra. “Galeotto fu il libro”, (Inferno, V 136), vuol dire che il libro ebbe la stessa funzione di Galeotto: cioè spinse i due amanti, Paolo e Francesca, l’uno nelle braccia dell’altro. Sarebbe anche uno slogan efficace per qualche campagna a favore della lettura, non fosse che, da quel giorno, i due smisero di leggere.

Il gran rifiuto. Se ne è riparlato quando Ratzinger ha deciso di dimettersi da Papa: un nuovo “gran rifiuto”. L’aveva coniata Dante per riferirsi al rifiuto di Celestino V di continuare a fare il Papa dopo solo qualche mese (Inferno, III, 60). Lo fece “per viltà”. Dante era abbastanza arrabbiato con lui: la rinuncia di Celestino V aprì la strada al suo successore, il cardinale Benedetto Caetani, ossia il famigerato Bonifacio VIII. Questo Papa fu il responsabile dell’esilio di Dante da Firenze. Per vendicarsi Dante lo colloca all’inferno addirittura in anticipo rispetto alla morte. L’espressione “gran rifiuto” è entrata nell’uso comune.

Il bel Paese. È l’Italia il “bel Paese là dove il sì suona”, cioè dove si dice “sì” (Inferno, XXXIII, 80). È un passaggio importante: Dante sta maledicendo Pisa, il “vituperio de le genti”, per l’abominevole sorte riservata al conte Ugolino. Invoca allora le isole di Capraia e Gorgona chiedendo di spostarsi verso la costa, chiudere la foce dell’Arno e annegare tutta la città. Bel Paese, sì, ma un filo violento.

Senza infamia e senza lode. Bravo, ma non bravissimo. Bene, ma non benissimo. Non male, ma nemmeno bene. Senza infamia, insomma, ma anche senza lode. L’originale, per la precisione, vuole “senza infamia e senza lodo”, che rima con “odo” e “modo” (Inferno, III, 36). L’espressione, oggi, ha un valore neutro. Per Dante, invece, era una cosa gravissima. Descriveva in questo modo gli ignavi, ossia coloro che avevano vissuto la propria vita senza commettere gravi peccati, ma anche senza schierarsi dalla parte della fede. Li disprezza, tanto che non vuole nemmeno prenderli in considerazione, e a Virgilio fa dire...

...Non ragioniam di loro, ma guarda e passa. Altra espressione idiomatica: gli ignavi proprio non gli piacevano. Guarda, e passa. Una riga e li lasciamo da parte anche noi.

Fa tremar le vene e i polsi. Si usa per indicare qualcosa di molto spaventoso, spesso riferito a compiti molto gravosi e difficili. Siamo all’inizio del poema (Inferno, I, 90) e Dante, dopo aver ritrovato la strada fuori dalla “selva oscura”, incontra nuovi ostacoli. Tre bestie feroci gli si parano davanti impedendogli il cammino. In particolare una lupa, molto pericolosa, che lo spaventa a morte. Per fortuna a salvarlo arriva Virgilio (in sintesi, Dante scappa da una lupa per seguire un fantasma: vabbè'). A lui spiega le ragioni del suo spavento, “la bestia per cu’ io mi volsi”, che gli “fa tremar le vene e i polsi”. Ma non c’è soluzione. La lupa sarebbe rimasta lì fino a quando – dice la profezia – non sarebbe arrivato un veltro, cioè un cane da caccia, ad allontanarla. Anche Berlusconi, nel 2008, la ripeté. Non c’entrava nessuna lupa, ma solo un Veltroni.

Non mi tange. Non mi importa, non mi interessa. Si usa in frasi scherzose. Come al solito, in origine, di scherzoso non c’era niente: “Io son fatta da Dio, sua mercé, tale / che la vostra miseria non mi tange” (Inferno, II, 92): è Beatrice che parla. È appena scesa dal Paradiso (dove si trova vicina a Dio) nel Limbo, per ordinare a Virgilio di andare a salvare Dante. Il poeta latino è incuriosito dalla visita insolita e ne approfitta per farle qualche domanda. Come fa, una come lei, a venire fin quasi all’Inferno e non soffrirne? Semplice: è “resa in modo tale da Dio da non sentire la miseria (cioè la condizione del peccatore)”. Il male non la tocca, o meglio, non la “tange”.

Cosa fatta capo ha. In Dante si trova l’inverso: “Capo ha cosa fatta” (Inferno, XXVIII, 107). Lo pronuncia un povero dannato, Mosca dei Lamberti, che gira per l’inferno con le mani tagliate e il sangue che gli zampilla sulla faccia. Che c’entra l’espressione proverbiale con questa scena alla Tarantino? Secondo la leggenda dell’epoca di Dante, la frase venne pronunciata da Mosca dei Lamberti per indurre la famiglia degli Amidei a vendicarsi di Buondelmonte per un affronto di tipo matrimoniale. Basta titubanze, disse. Lo scontro fu molto grave perché portò, secondo la leggenda, alla sanguinosissima divisione, nella città, tra Guelfi e Ghibellini. E Mosca, causa della divisione, porterà per l’eternità sulle mani i segni della violenza.

Da "Aborro" a "YouPorn", ecco il dizionario sui luoghi comuni. Una carrellata di stupidità che ormai costellano il nostro vivere quotidiano, raccolte dalla A alla Z dallo scrittore Giuseppe Culicchia. Dagli amici (che sono su Facebook) alle citazioni della Fallaci, dal salutismo ai tronisti, un tentativo di glossario del disinganno nazionale, scrive Maurizio Di Fazio il 7 marzo 2016 su “L’Espresso”. Sulle orme nobili di Gustave Flaubert, Giuseppe Culicchia dà alle stampe per Einaudi "Mi sono perso in un luogo comune. Dizionario della nostra stupidità". Una carrellata di frasi fatte, conformismi, ipocrisie, stereotipi e cliché più o meno salottieri e meglio (o peggio) travestiti del nostro tempo; uno stupidario indicizzato agli anni dieci del terzo millennio. Un diario in pubblico che si specchia nel vissuto personale dello scrittore torinese per poi rifrangersi in mille vocaboli dal contenuto sovente tagliente. Mille lemmi "classici", non tag, dalla a alla z, per un tentativo di glossario del disinganno nazionale. Da aborrire ("caratterizza il Mughini") a Youporn ("chi? io? Mai"), il j'accuse dell'autore non risparmia nessun presunto e corrivo abito mentale dell'homo contemporaneus tricolore, a colpi di definizioni secche e inappellabili. Quella che ne viene fuori è una terra ossessionata dall'apparenza (i tronisti, l'eterna adolescenza), dal salutismo (la fobia degli alimenti e degli stili di vita cancerogeni: quando fu introdotta, si pensava che persino la tv a colori provocasse il cancro, ricorda Culicchia), dalla recessione o meglio, dalla fatidica crisi (che può essere di mille tipi, "d’astinenza, matrimoniale, internazionale, occupazionale, economica, dei consumi, dei costumi"). Una penisola dove gli amici veri sono stati sostituiti da quelli di Facebook, e dove è sempre più presente e pesante il ricatto psicologico del terrorismo, con la caccia inconscia all'arabo e la gara a citare Houellebecq e la Fallaci. E i demoni endogeni, o d'importazione evocati dallo scrittore torinese non finiscono qui. Ci sono i delitti in diretta e il tripudio di applausi che puntualmente accompagna le morti eccellenti, fossero anche di boss della mala; le scorciatoie professionali intrise di cinismo, salvo ufficialmente puntare l'indice contro le mafiette e le pastette, ché tanto pecunia non olet e i "sacrifici sono necessari, purché li facciano gli altri"; la moda degli hipster, del bio, dell'eco-compatibilità, delle foto di gatti da condividere in chat, delle partenze intelligenti, del marketing con la tecnica dello stalking, dei lucchetti dell'amore, delle auto in argento metallizzato. E ci sono i cervelli in fuga e l'impoverimento implacabile della middle class; il buco dell'ozono e l'incubo della catastrofe ambientale perennemente in agguato, benché stra-annunciata; i guru del gossip e l'allarme meteo di massa, compulsiamo terrorizzati le previsioni dell'ora dopo anche se dobbiamo scendere sotto casa. E la vita, che si è trasferita sui social network, finanche i tramonti sembrano essere stati inventati per cristallizzarsi lì. È un vocabolario-divertissement sfrontato e pieno di spine questo di Giuseppe Culicchia. A tinte parossistiche: e così gli italiani sarebbero generalmente affetti da mancanza di autoironia (pur millantandone a fiumi), da ignoranza e maleducazione, da un ritrarsi del rispetto, da razzismo strisciante, da inguaribile doppiezza, e da uno spirito di schietta antipolitica fino ad auspicata e avvenuta cooptazione nel sistema, con l'eterno familismo amorale che ne consegue. Vede nero e manicheo, forse troppo lo scrittore, ossessionato a sua volta (tra le tante idiosincrasie catalogate) dai condizionatori d'aria, dal buonismo post-veltroniano, dagli alternativi figli di papà, dai cascami del '68 e dalle conventicole letterarie; e punta il suo binocolo in una direzione sola, in un tempo in cui anche i difetti e le mollezze d'animo si sono omologati su scala globale. Di illimitato, per Culicchia, resterebbe non più il progresso ma "al massimo il numero di sms". Povero e "stupido" Belpaese, punteggiato da ecomostri, archistar e obbrobri architettonici. Povera Italia, piagata dai luoghi comuni e "massimo produttore mondiale di eccellenze italiane". Un dizionario della stupidità, lettera dopo lettera, (non) ti salverà.

Se sono eroi, noi stiamo dall'altra parte. Celebrano i loro miti come fossero dei santi, ma non possono riscrivere la storia, scrive Alessandro Gnocchi, Martedì 03/11/2015, su "Il Giornale". L'Italia è sempre generosa nel celebrare i suoi eroi. A patto che abbiano manifestato, in parole e opere, una visione del mondo diversa da quella liberale. Possibilmente opposta, ma va bene anche un generico contributo in favore del conformismo (di sinistra). La cronaca ci offre tre casi molto diversi. Partiamo dal più vistoso, le celebrazioni di Pier Paolo Pasolini, ucciso il 2 novembre 1975 all'Idroscalo di Ostia. Chi si aspettava nuove interpretazioni e contributi critici è rimasto deluso. Il poeta, lo scrittore, il regista non interessano. Si è glorificato il Pasolini che sapeva tutto senza avere le prove di nulla ma voleva comunque processare la Democrazia cristiana. Al massimo si è fatto un po' di complottismo sull'omicidio, per dire che sono stati i fascisti, i poteri occulti, i servizi segreti. Senza prove, naturalmente, perché anche i biografi di Pasolini «sanno» e tanto basta. Pasolini dunque è ridotto a santino anti-capitalista, per via del suo marxismo. Se bisogna forzare la storia, non è un problema: non abbiamo letto grandi rievocazioni dell'ostracismo da parte del Partito comunista; né articoli vibranti sul poeta che simpatizzava con i poliziotti dopo gli scontri di Valle Giulia. La forzatura della storia, anzi: la riscrittura, è parsa evidente alla morte di Pietro Ingrao. I «coccodrilli» cantavano la democraticità del suo comunismo ed esaltavano il suo ruolo di eretico all'interno di Botteghe Oscure. Peccato che Ingrao fosse direttore dell'Unità quando il quotidiano definì «un putsch controrivoluzionario» l'insurrezione di Budapest del 1956. Ingrao stesso firmò l'editoriale in lode dell'invasione sovietica. Molti anni dopo, il presunto eretico pronunciò un discorso durissimo contro i «dissidenti» del Manifesto. Meno male che li considerava politicamente «figli suoi». Elogi sperticati anche per Giulia Maria Crespi, ex proprietaria del Corriere della Sera, in occasione della pubblicazione della sua autobiografia (Il mio filo rosso, Einaudi). Vittorio Feltri ha già ricordato, su queste colonne, che fu proprio la «zarina» a licenziare Giovanni Spadolini per spostare il quotidiano a sinistra. Piero Ottone divenne direttore, Indro Montanelli fondò il Giornale. Nel 2016 cade il ventennale della morte di Renzo De Felice. La sua biografia di Mussolini faceva a pezzi il mito dell'antifascismo. Lo storico sapeva e aveva anche le prove ma fu sottoposto a un linciaggio intellettuale. (Per coincidenza, la feroce campagna di delegittimazione segue di pochissimo l'io so di Pasolini). Vedremo se l'Italia sarà capace di celebrare questo formidabile liberale come celebra le icone del pensiero illiberale. O se farà finta di non sapere.

Capolavori, capricci e vanità. Anche illustri scrittori pubblicano a proprie spese. Un saggio mette in fila tutti i libri auto-prodotti. Svevo si pagò tre romanzi. Whitman e Pound le prime poesie. Lewis Carroll la sua "Alice". C'è chi s'impegnò il cappotto e chi chiese soldi a papà, scrive Luigi Mascheroni, Domenica 11/10/2015, su "Il Giornale". Nessuno può immaginare dove arriverà il self publishing (oggi il 90% dei libri di poesia in Italia è autoprodotto). Ma è certo che ha un grandissimo avvenire dietro le spalle. La storia è piena di casi di successo. Autopubblicate, autopubblicate! Qualcosa resterà. Cosa porta un autore a voler pubblicare ciò che ha scritto - un romanzo, dei racconti, una raccolta di versi - a tutti i costi, costi quel che costi, per veder il proprio nome sulla costa di un volume in bella mostra? Cosa spinge uno scrittore a pubblicare in proprio, pagando direttamente lo stampatore o sostenendo tutte le spese di un editore già sul mercato? Difficilmente il desiderio di guadagnare soldi, di solito quelli si spendono e basta. Piuttosto qualcos'altro... Vanitas vanitatum et omnia vanitas. Il fatto è che a quasi tutti coloro che ci sono passati, beffa del destino ciano-grafico e baro, è rimasta solo la vanità. A pochissimi altri invece è stata riservata la gloria. Ma chi furono gli autori, oggi famosi, che scelsero l'auto-pubblicazione? E come? E con quali cifre? Tutto ciò lo racconta benissimo lo studioso di storia editoriale Lucio Gambetti nel saggio - breve ma ricchissimo di notizie - A proprie spese, pubblicato in questo caso a spese delle edizioni Unicopli (pagg. 82, euro 10; prefazione di Andrea Kerbaker). Sottotitolo: «Piccole vanità di illustri scrittori». Vanitas vanitatum et omnia vanitas. Gli anglosassoni la chiamano vanity press o vanity publishing, i francesi parlano di edizioni à compte d'auteur, mentre gli italiani preferiscono usare l'acronimo «aps», a proprie spese, appunto. Oops... a proposito. Dalla casa editrice Alpes di Milano, nel 1929, usciva il romanzo Gli indifferenti per cui l'allora sconosciutissimo Alberto Moravia (destinato a divenire uno dei più pagati scrittori italiani del Novecento) dovette sborsare la somma, per l'epoca non indifferente, di 5mila lire. Dell'esempio illustre di Moravia se ne ricorderà Giorgio Dell'Arti quando sul mensile Wimblendon, siamo nel 1990, lanciò la rubrica dedicata ai testi scritti dai lettori: «La Gente Che Scrive». Lo sloga era: «Morite dalla voglia di pubblicare? PAGATE».

E furono in tanti a pagare nella storia del libro. Qualcuno già famoso, come Ludovico Ariosto. Il quale decise di diventare editore di se stesso quando (l'anno è il 1532) per la terza edizione del suo Orlando, furioso di avere a che fare con edizioni pirata, decise di stroncare il fenomeno: per saturare il mercato si fece stampare una tiratura di 3mila copie, una mostruosità per l'epoca: gliene rimasero sul gobbo 2mila, che quasi lo mandarono sul lastrico. Ma la stragrande maggioranza degli auto-pubblicati erano, almeno in quel momento, anonimi. Edgar Allan Poe, nel 1827, studente per nulla modello all'Università della Virginia, si rivolse a un tipografo commerciale di Boston che non aveva mai stampato un libro prima di allora e lo incaricò di pubblicare nove sue poesie: dai torchi uscì un volumetto di 40 pagine tirate in una cinquantina di copie col titolo Tamerlane and Other Poems. Poe non volle il nome in copertina. E lo fece passare come opera di «A Bostonian». Anche Nathaniel Hawthorne si fece pubblicare la prima opera (il romanzo Fanshawe) nel 1828, anche lui a Boston, anche lui anonimo. Ma, rispetto a Poe, fu così scontento del risultato che poco dopo chiese indietro le copie che aveva regalato ad amici e parenti per distruggerle, mentre a quelle rimaste nel magazzino dell'editore ci pensò un incendio (i rarissimi volumi sopravvissuti oggi valgono 20mila dollari). E a proposito di edizioni anonime. Persino Walt Whitman nel 1855 si auto-stampò senza nome in copertina la prima smilza edizione di Foglie d'erba (molto elegante: il ragazzo aveva lavorato tre anni in una tipografia e conosceva il mestiere). E a proposito di giganti della poesia, persino Ezra Pound dovette arrangiarsi da sé per la sua prima raccolta di versi. Rifiutata in America, se la pagò coi pochi dollari che aveva in tasca appena sbarcato in Europa: nel 1908, in un'oscura tipografia veneziana, tirò 150 copie di A lume spento utilizzando la carta avanzata da una precedente pubblicazione... Il resto è storia. Della letteratura. Ogni libro, una storia. E che storie. C'è quella di Lewis Carroll, il quale prima fa rilegare il manoscritto della sua favola di Alice per donarlo alla sua amichetta Alice Pleasance Liddell, poi capisce che potrebbe guadagnarci qualcosa e si autoproduce una prima pubblicazione, ampliata e illustrata da John Tanniel, che fa distruggere perché di qualità scadente, e infine una seconda che nel giro di un anno lo fa rientrare di tutte le spese, e subito fa il giro del mondo. Poi c'è la storia stranota di Marcel Proust: rifiutato dai grandi editori, nel 1913 si rivolse a un editore specializzato in auto-pubblicazioni, Bernard Grasset, per far stampare la prima parte della Recherche (pagò 1750 franchi). E c'è quella meno nota di Giovanni Verga: nessuno voleva saperne dei suo romanzo polpettone I carbonari della montagna e così si fece dare mille lire dal padre - molto scettico - per farselo stampare (in quattro volumi!) da due diversi tipografi di Catania. Una copia la spedì a Dumas, gran parte della tiratura rimase invenduta e alla fine non ne parlò nessuno. Del resto padri pietosi furono anche quelli di D'Annunzio (che coprì le spese della prima plaquette del Vate) e di Giovanni Comisso (che di suo dovette vendere un impermeabile). Ceto, per chi era ricco di famiglia - o almeno abbiente - le cose furono più facili. Italo Svevo si dice non avesse abbastanza soldi per continuare gli studi universitari, ma ne ebbe abbastanza per accollarsi le spese di stampa sia del primo romanzo Una vita nel 1892 (tiratura: mille copie presso un libraio-editore triestino), sia del secondo, Senilità nel 1898 (un vero fallimento sia sul piano commerciale sia critico), sia, vent'anni dopo, da Cappelli, del terzo: La coscienza di Zeno. Lo sponsor però a quel punto era James Joyce e tutto fu più facile. Molto difficile, invece, fu il rapporto di Oreste Del Buono con un racconto che scrisse nel 1969. Prima, col titolo La fine del romanzo, lo mette in un'antologia Mondadori di racconti gialli. Poi se lo fa pubblicare come romanzo da Einaudi, dove lavora, però si pente subito e allora si compra l'intera tiratura per mandarla al macero. Quindi ci rimette le mani e lo ripropone di nuovo a Einaudi, che lo fa uscire nel 1978 (Un'ombra dietro il cuore), ma quando lo scrittore riceve la copia staffetta comincia a sentire un senso di nausea («Ho riassaporato il mio boccone di petite madeleine di merda», dirà in seguito) e così, pagando sei milioni di lire, blocca la distribuzione e manda tutto di nuovo al macero (pochissime copie sopravvivono in mano a qualche fortunato bibliofilo). Fino a quando, dopo altre riscritture, dubbi e una bella faccia tosta, lo rifila a un altro editore, Longanesi, che lo porta in libreria nel 1980 col titolo Se io mi innamorassi di te. Il libro non vendette molto, anzi. Ma Del Buono liquidò così la sua ossessione. A proprie spese.

Quella smania di pubblicare i libri ripudiati dagli autori. Da Nabokov a Capote, sono tante le opere che non avrebbero dovuto vedere la luce. E in qualche caso sarebbe stato meglio..., scrive Luigi Mascheroni, Domenica 20/12/2015, su "Il Giornale". Virgilio poco prima di morire chiese che l'Eneide, priva degli ultimi ritocchi, venisse distrutta nel caso non fosse riuscito a completarla. Boccaccio, verso la fine della vita, colto da una crisi religiosa, si narra volesse bruciare ogni suo scritto, incluso il Decameron. E Franz Kafka si fece promettere dall'amico Max Brod di distruggere le sue opere incompiute. Oggi dobbiamo ringraziare coloro che disubbidirono agli autori. Ma di fronte ad alcuni recenti casi di cronaca editoriale - la pubblicazione del sequel del Buio oltre la siepe di una Harper Lee che non si capisce quanto sia in grado di intendere e volere, e l'uscita negli Stati Uniti dei racconti giovanili che Truman Capote non si sognò mai di raccogliere in volume - è utile chiedersi se pubblicare sempre e tutto di tutti sia la scelta migliore. Certo, da una parte esiste un diritto dei lettori a godere di ogni testo che l'Autore ha lasciato dietro di sé. Dall'altra c'è il dovere di studiare l'opera omnia, in qualsiasi sua forma, da parte della filologia «riesumatrice». E dall'altra parte ancora appaiono legittime le esigenze commerciali di editori ed eredi (a volte benemeriti, altre sciacalli). Ma il dubbio rimane. Forse alcune pagine inedite, pur di prestigiose firme, sarebbe meglio rimanessero tali. Esempi? Parecchi. In sostanza tutto ciò che il figlio di Tolkien, Christopher, oggi novantunenne, ha pubblicato mettendoci più o meno pesantemente mano a partire dal 1977 con Il Silmarillion, che il padre non avrebbe voluto fosse dato alle stampe. Infatti finché fu in vita lo tenne nei cassetti. Certo, non si tratta di opere esplicitamente rigettate, ma di appunti, pagine abbozzate, testi incompleti che il padre del Signore degli anelli, pignolo e perfezionista, non aveva previsto per la pubblicazione. Libri utili agli studiosi per capire come lavorava Tolkien, benedetti dai fan golosi di inediti, ma (forse con l'eccezione de I figli di Húrin, composto da due parti per le quali il figlio Christopher ha scritto un raccordo «logico») poco significativi dal punto di vista letterario. Stesso discorso per i romanzi realistici di Philip K. Dick dati alle stampe dopo la sua morte nel 1982: scritti prima del suo straordinario successo con i libri di fantascienza, se li vide rifiutare da tutti gli editori a cui mai più li sottopose, neppure quando ormai vendeva moltissimo. E vista la bassa qualità di quei titoli, fece bene. Ogni volta che ne esce uno ci guadagnano gli eredi, ma ci perde Dick. A proposito di figli ed eredi. Vero all'alba, romanzo autobiografico di Ernest Hemingway, fu composto (per alcuni abbozzato) fra il 1954 e il 1956 al ritorno da un safari in Kenya. Il dattiloscritto, custodito per molti anni nell'archivio delle opere non consultabili della Kennedy Library di Boston, fu recuperato dal figlio Patrick che ne curò personalmente un'edizione nel 1999. L'operazione suscitò dubbi e polemiche. Così come lasciò perplessi la decisione di Dimitri Nabokov, figlio di Vladimir, di pubblicare nel 2009, postumo e incompleto, il romanzo L'originale di Laura cui stava lavorando il padre all'epoca della morte, nel 1977, disobbedendo alle indicazioni che lo stesso Nabokov aveva seminato tra le righe del meraviglioso La vera vita di Sebastian Knight: «... perché egli apparteneva a quel raro genere di scrittori i quali sanno che nulla deve più rimanere tranne l'opera compiuta: il libro stampato; che la concreta esistenza del libro è incompatibile con quella del suo spettro, del manoscritto grezzo che ostenta le proprie imperfezioni ; e che per questa ragione gli scarti della bottega, nonostante il loro valore sentimentale o commerciale, non devono mai sopravvivere». Scarti di bottega, dice così. Ogni commento è superfluo. Ed è stato superfluo o essenziale pubblicare i dieci racconti a tema irlandese raccolti sotto il titolo Finn's Hotel scritti (ma mai dati alle stampe) da James Joyce subito dopo l'uscita dell'Ulisse e prima di addentrarsi nella impenetrabile foresta letteraria di Finnegans Wake? Nel 2013 Denis Rose, un veterano della critica joyciana, scaduti i diritti d'autore, tirò fuori i racconti inediti dai cassetti e li fece pubblicare dall'editore Ithys Press (in Italia uscirono da Gallucci, in una peraltro ottima edizione). L'operazione, neanche a dirlo, fu venduta alla stampa, e da questa rilanciata, come una sensazionale «scoperta letteraria». Ma la critica più accreditata la contestò duramente: i racconti erano «brutte copie» che l'autore non desiderava pubblicare. E a proposito di giganti del '900, cosa succederà quando inizieranno a uscire gli inediti finora nelle mani degli eredi di J. D. Salinger? Davvero ogni cosa che verrà alla luce ha avuto il benestare dello scrittore? Quando, nel 1997, una minuscola e sconosciuta casa editrice italiana, la Eldonejo, pubblicò il racconto lungo Hapworth 16, 1924 apparso fino ad allora solo sul New Yorker il 19 giugno 1965 (e poi mai più ristampato per volontà dello stesso Salinger), si scatenò l'inferno. Il libro, tradotto da una ragazza laureatasi con una tesi su Salinger e stampato senza diritti di pubblicazione, fu ritirato dopo la prima edizione di duemila copie e sparì dal mercato. E forse, ancora una volta, è meglio così. Testamenti traditi. Milan Kundera ha scritto molto su come e perché alcuni scrittori siano stati traditi. Da biografi, traduttori, critici. E una forma di tradimento è anche pubblicare pagine di chi in vita quelle pagine non volle dare in pasto al pubblico. Il Libro Rosso di Carl Gustav Jung non avrebbe mai dovuto essere pubblicato secondo l'autore, eppure è uscito in pompa magna in mezzo mondo nel 2009. Andrea Emo non intendeva lasciare nulla: ma da anni leggiamo i suoi libri. E La volontà di potenza di Nietzsche curata dalla sorella? E i nostri scrittori? Nel 1993 Einaudi pubblicò i racconti scritti da Cesare Pavese tra i 17 e i 25 anni, nati dal romanzo appena progettato ma mai scritto Lotte di giovani. L'italianista Ermanno Paccagnini sul Domenicale del Sole-24 ore, sotto il titolo Inediti e inutili, li stroncò duramente: «Una raccolta di pessimi racconti che lo scrittore ebbe l'intelligenza di non pubblicare ma non la lungimiranza di distruggere». Stessa cosa potrebbe valere per il primo romanzo di Guido Piovene, Il ragazzo di buona famiglia, apparso da Rizzoli nel 1998, testo che forse può dire qualcosa agli studiosi, non certo al lettore comune. E stessa cosa, ancora, per il romanzo postumo di Goffredo Parise L'odore del sangue: scritto di getto («bozzetto primitivo», disse certa critica) nell'estate del 1979, fu subito impacchettato, piombato con ceralacca e nascosto in un cassetto. Lì rimase dimenticato e rimosso, fino al 1986. Quell'anno Parise aprì il pacchetto, rilesse il libro, non toccò nulla. E morì poco dopo. Nel 1997 il romanzo uscì da Rizzoli con prefazione di Cesare Garboli. E molti si chiesero se fosse davvero quello che Parise desiderava. Luigi Mascheroni.

Siamo sottomessi? Sì, all'autocensura. Un dossier sull'Impero (culturale) del Bene che spinge al conformismo e umilia il pensiero, scrive Stenio Solinas, Domenica 14/02/2016 su "Il Giornale".  «Il campo del bene», «la sinistra morale», il «politicamente corretto»... Intorno a quella che viene considerata «la nuova battaglia ideologica», la Revue des deux mondes ha costruito un dossier di un centinaio di pagine come cuore del suo ultimo numero (febbraio-marzo 2016). In esso, storici, sociologi, critici d'arte e letterari, giornalisti e politici si accapigliano sul tema: c'è chi elogia il «pensare bene» e chi critica i benpensanti, di destra e di sinistra, chi se la prende con il progressismo e chi ne riscrive la storia, chi ironizza sul tartufismo ipocrita del «libero pensiero» e chi nega di voler «diabolizzare» l'avversario, anche se, sottintende, con il Diavolo non si discute, lo si combatte...Vent'anni fa, in quello che resta un classico in materia, La cultura del piagnisteo, Robert Hughes si era mostrato fiducioso: «Un'abitudine tipicamente americana» l'aveva definita.

«L'appello al linguaggio politicamente corretto, se trova qualche risposta in Inghilterra, nel resto d'Europa non desta praticamente alcuna eco». Mai profezia si è rivelata più avventata, nel piccolo come nel grande, nella politica come nella cronaca, nella tragedia come nella farsa. Giorni fa, nello spiegare l'invio di militari intorno alla diga di Mosul, in Iraq, il nostro ministro della Difesa ha detto che sarebbero andati lì «per curare i feriti» e il suo collega degli Esteri ha specificato che non andavano certo «per combattere»... L'idea del soldato-infermiere e/o portatore di caramelle è singolare e richiama alla mente la neo-lingua e il bis-pensiero del George Orwell di 1984: «La libertà è schiavitù, l'ignoranza è forza», mentire con purità di cuore, «negare l'esistenza della realtà obbiettiva e nello stesso tempo trarre vantaggio dalla realtà che viene negata»...D'altra parte, «la guerra è pace» è in fondo poca cosa rapportata alle dichiarazioni con cui, poco tempo fa, il rettore di un college inglese ha deciso che «il ragazzo è una ragazza» e viceversa, e quindi a scuola gonne e pantaloni sono optional: il sesso non si dà, si sceglie. Se, indeciso, lo studente/la studentessa, si presentasse nudo/nuda alla meta, ovvero in classe, non è dato sapere se frequenterà le lezioni... E naturalmente, i guerrieri della pace e/o i pacifisti della guerra, gli uomini-donne e/o le donne-uomini fanno anche loro parte di quella corrente di pensiero che ha stabilito che immigrati e emigranti erano un retaggio del passato, di quando insomma non eravamo esseri umani: «migranti» rende meglio il concetto, qualsiasi cosa con esso si voglia dire. È l'onda lunga di quella che Hughes aveva definito la Lourdes linguistica, dove il male e la sventura svanivano grazie a un tratto di penna, ma è la stessa idea di natura umana che il pensiero progressista, ovvero «il campo del bene», ovvero «il politicamente corretto» guarda con sospetto. Niente è più irritante dell'avere una identità, di uomo e di cittadino. Come spiega lo storico Jacques Julliard alla Revue des deux mondes, corrisponde «alla caricatura dell'idea sartriana che l'uomo non è ciò che è, ma ciò che fa. Alla filosofia del progresso che era quella del XIX secolo, si è sostituita la filosofia del volontarismo individuale: la decostruzione di ogni identità individuale a beneficio di una libertà pura nella quale la filosofia greca avrebbe visto una sorta di hybris, di rivolta contro la natura che gli dei ci hanno dato. Ecco il fondamento filosofico ultimo della sinistra morale». Il fatto è, dice ancora Julliard, che l'uomo è un essere storico, e ciò che c'è di più presente in lui è il suo passato. Viene anche da qui quella strana «teologia negativa» per la quale si nega la propria identità per far emergere quella dell'altro. Così, nella Francia del laicismo scolastico, puoi avere dei programmi dove l'islam diviene obbligatorio, mentre il cristianesimo è facoltativo...La «cultura dell'eufemismo» vuole le eccezioni preferite alle regole, le minoranze alle maggioranze, le orizzontalità alle verticalità, e grazie a lei la contro-verità diventa una verità. Nel «campo del bene», spiega alla Revue des deux mondes il filosofo Jean Pierre Le Goff, l'emozione e i buoni sentimenti la fanno da padrone. Non si vuole cambiare la società con la violenza, e la classe operaia ha smesso da tempo di essere oggetto di interesse. Si tratta invece di rompere con «il vecchio mondo» estirpandone le idee e i comportamenti ritenuti retrogradi, in specie nel campo dei costumi e della cultura. Non ha un modello chiavi in mano di società futura, ma una sorta «di armatura mentale: svalutazione del passato e della nostra tradizione; appello incessante al cambiamento individuale e collettivo, reiterazione dei valori generali e generosi che porteranno alla riconciliazione e alla fratellanza universali. Da un lato i buoni, dall'altro i cattivi»…Relativista, antiautoritario, edonista, moralista e sentimentale. Anche libertario? Le Goff dice di no: «Esercita una polizia del pensiero e del linguaggio di un genere nuovo. Non taglia le teste, fa pressione e ostracizza». A sentire i difensori del «politicamente corretto», per esempio il direttore di Libération Laurent Joffrin, si tratterebbe di una balla. Essere progressisti vuol dire fondarsi sui valori universali di eguaglianza e giustizia per giudicare le situazioni contemporanee. Le idee progressiste, insomma, sono politicamente corrette proprio perché progressiste, e del resto, per restare sempre in Francia, non siamo di fronte a un affollarsi di pensatori reazionari, sulla stampa come alla televisione, sempre lì a dire che sono proscritti e intanto però a scrivere e a parlare senza impedimenti e con qualche lucro: libri, programmi, rubriche eccetera? Sono loro «il vero pensiero unico»...Le cose sono un po' più complicate, e trasformare una minoranza che dissente in maggioranza che ha potere rimanda ancora al bis-pensiero e alla neo-lingua orwelliani. Per quel che si sa, nessun professore universitario viene fischiato dai suoi studenti per essersi richiamato all'ideologia dei diritti dell'uomo e a quella del progresso, e quindi l'ideologia dominante è ancora quella lì ed è ancora saldamente al suo posto. Solo che è un disco rotto, non inventa più niente e quindi più che alla confutazione del pensiero altrui si dedica alla sua delegittimazione: non dice che è falso, dice che è cattivo o che, oggettivamente, fa il gioco del cattivo, del Male, del Diavolo. Non interessa se le opinioni possono essere giuste, conta che possano essere strumentalizzate contro il «campo del bene», «l'impero del bene»... Si arriva così all'assurdo di dichiararsi per la libertà di espressione, purché però la si pensi allo stesso modo. Naturalmente, c'è anche un benpensantismo a destra, un politicamente corretto che non è solo o tanto la retorica del definirsi politicamente scorretti, una sorta di esaltazione per il rutto intellettuale scambiato per schiettezza anticonformista. È una questione più delicata. In Francia l'hanno ribattezzata «droite no frontier», ovvero il sogno della libertà economica, il capitalismo libertario e senza confini che però non dovrebbe confliggere con i valori familiari e morali. Si esalta il mercato planetario di massa, ma non si ammette che dietro c'è «l'uomo nomade», che al mercatismo del mondo corrisponde quello dell'essere umano. In questo i due benpensantismi, di sinistra e di destra, finiscono per darsi la mano: il primo sogna la libertà illimitata di agire sul naturale umano e però fa finta di rifiutare la libertà economica del mondialismo; il secondo prende per buona quest'ultima, ma finge di credere che non lo riguardi nella sua quotidianità. Entrambi tartufi, politicamente corretti.

L'ossessione politicamente corretta ammazza la cultura e l'Università. Salisburgo, tolta la laurea ad honorem a Lorenz per il suo passato nazista. La lettera di protesta dei professori di Oxford: stanno distruggendo il confronto tra le idee, scrive Luigi Mascheroni, Domenica 20/12/2015, su "Il Giornale".  E l'uomo incontrò il politicamente corretto. Pochi giorni fa l'università di Salisburgo ha revocato al grande etologo austriaco Konrad Lorenz, premio Nobel per la Medicina nel 1973 (morto nel 1989), la laurea honoris causa per il suo passato nazista. Studioso di fama mondiale per gli studi sul comportamento animale - e autore di uno dei testi più straordinari mai scritto sul valore della conoscenza e dell'informazione, L'altra faccia dello specchio - Lorenz si distinse fin dagli anni Trenta per la volontà di diffondere l'ideologia hitleriana.È curioso. Il passato nazista di Lorenz è noto da sempre (nel 1937 fece domanda per una borsa di studio universitaria facendosi raccomandare da accademici viennesi come simpatizzante del nazismo, nel '38 aderì al Partito dopo aver scritto sul curriculum che aveva messo «tutta la sua vita scientifica al servizio del pensiero nazionalsocialista», e nel '42 fu spedito sul fronte orientale e fatto prigioniero dai russi). Eppure Lorenz fu ritenuto meritevole del Premio Nobel nel 1973. E l'ateneo austriaco lo insignì del titolo onorifico nel 1983. Però, oggi, lo rinnega. Perché l'abiura non è stata fatta prima? Perché ora? Ha senso? L'onda lunga del politicamente corretto, nella corrente di risacca, finisce per travolgere la cultura del passato. Ma è quella del futuro che preoccupa di più. Lo tsunami scatenato da questo pericoloso atteggiamento sociale che piega ogni opinione verso un'attenzione morbosa al rispetto degli «altri», perdendo quello per la propria intelligenza, fino a diventare autocensura, rischia di fare immensi disastri. Ieri un gruppo di professori di «Oxbridge», cioè di Oxford e Cambridge, ha scritto una lettera aperta al Daily Telegraph per denunciare il politically correct che sta uccidendo progressivamente la libertà di pensiero ed espressione nelle università britanniche, indebolendone il ruolo di spazio privilegiato del confronto delle idee. Il casus belli è la campagna indetta per rimuovere la storica statua di Cecil Rhodes, ex alunno e benefattore dell'«Oriel College» (tanti ragazzi si sono fatti strada grazie ai suoi soldi), perché considerato l'ispiratore dell'apartheid in Sudafrica. Ma le sue colpe - fa notare qualcuno - non ne cancellano i meriti a favore del progresso. Un principio che può essere applicato anche a Lorenz in campo medico. O a Heidegger in campo filosofico. O a Céline in campo letterario. Ironia della sorte, e dimostrazione della stupidità insita nel politicamente corretto: l'ex studente che ha lanciato la crociata per la rimozione della statua, il sudafricano Ntokozo Qwabe, ha potuto studiare a Oxford grazie a una borsa di studio finanziata dalla Fondazione Rhodes.L'aspetto più inquietante della faccenda è che a farsi promotori dell'autocensura basata sulla correttezza politica, ad Oxford, non sono i professori, ma gli stessi studenti. Gli autori della lettera aperta, guidati dal sociologo Fran Furedi della University of Canterbury, da parte loro accusano le università inglesi di trattare i giovani come «clienti» che pagano rette salate (che è meglio non scontentare) e non come menti da formare e aprire al confronto. A Oxford un dibattito sull'aborto è stato annullato dopo che una studentessa ha lamentato che si sarebbe sentita offesa dalla presenza nell'aula di «una persona senza utero». Che, tradotto, significa «un uomo». Un comportamento da vera papera che avrebbe di certo incuriosito un etologo come Lorenz.

La triste ferocia omo-illiberale contro i cattolici. Non capisco perché i gay che (giustamente) manifestano per i propri diritti civili siano un fenomeno progressista e il Family day una "manifestazione inaccettabile", scrive Piero Ostellino, Giovedì 25/06/2015, su "Il Giornale".  In un Paese civile - e l'Italia, controriformista e intollerante, indipendentemente dallo schieramento al quale ciascuno appartiene, purtroppo, non lo è - tutti dovrebbero poter manifestare liberamente le proprie convinzioni a favore delle proprie libertà, comprese quelle sessuali, senza essere criminalizzati. Non capisco, perciò, perché i gay che (giustamente) manifestano per i propri diritti civili siano un fenomeno progressista e il Family day - per dirla con il sottosegretario Scalfarotto troppo ruffiano verso la vulgata gender - una «manifestazione inaccettabile». I diritti civili dei gay sono i diritti dell'uomo teorizzati dall'Illuminismo e sanciti dallo Stato moderno e la famiglia è il primo nucleo della socializzazione nella nostra società. Difendiamo entrambi senza farne un caso politico o elettorale. Personalmente, non sono omofobo e mi vergognerei a discriminare gli omosessuali. Ma non sono neppure orgoglioso della mia eterosessualità, come alcuni di loro - peraltro per una comprensibile reazione polemica - affermano spesso di essere della loro omosessualità. Prendo il mondo come è senza indulgere a concessioni politicamente corrette o a dannazioni moralistiche. Dico quello che penso, sperando di pensare sempre quello che dico. Per me, ciascuno gestisce la propria sessualità - che è una scelta di libertà individuale - come meglio crede. Sono liberale proprio per tale mio atteggiamento nei confronti di chiunque professi un'opinione - salvo essere intollerante verso gli intolleranti, come predicava Locke - o verso comportamenti diversi dal mio. È un dato caratteriale, prima che culturale. Punto. Non avrei partecipato alla manifestazione del Family day perché non partecipo a manifestazioni di alcun genere, ma neppure, aristotelicamente, condivido certa propaganda gender che tende a confondere ciò che la natura ha creato con le propensioni personali o, addirittura, mondane. Un maschio è un maschio e una femmina una femmina, anche se in tema di diritti civili sono ovviamente sullo stesso piano e non lo sono secondo ciò che intendiamo per «naturale». Detto, dunque, che, in un Paese civile, ciascuno ha diritto di manifestare liberamente la propria opinione, voglio, però, aggiungere, che una cosa è, per me, la piena libertà dei gay di manifestare per i propri diritti civili in quanto diritti umani universali, un'altra sono certe loro pretese di affermare la propria condizione come postulato politico, come ormai sta avvenendo in nome di una malintesa idea di politicamente corretto. Non credo di essere, come eterosessuale, meno apprezzabile di un omosessuale, alla cui condizione conservo tutta la mia comprensione e tolleranza. Ma dico che se e è condannabile l'omofobia non vedo perché non lo debba essere l'ostilità, almeno in certi ambienti, verso l'eterosessualità, che è anch'essa una scelta, oltre che, diciamo, naturale, individuale. Punto. Tira, invece, una certa aria, da noi - frutto della conformistica esasperazione del principio di correttezza politica voluta da una sinistra priva di identità culturale che individua volentieri nell'adesione «a orecchio» alle parole d'ordine del conformismo una manifestazione di identità culturale. Aria che francamente trovo, in una democrazia liberale, del tutto superflua e parecchio stupida. Ho detto che non avrei partecipato al Family day, ma aggiungo subito di trovare non meno stupidi i Gay pride e la loro richiesta di legittimazione del matrimonio fra persone dello stesse sesso. Non sono un fanatico del matrimonio fra maschio e femmina, che considero solo un fatto attinente al costume e alla tradizione. Mi sono sposato, persino in chiesa! - perché così aveva voluto la mia futura moglie, cattolica e moderatamente praticante - ma penso che passerò il resto dei miei giorni con lei non perché l'ho detto a un prete, ma perché mi ci trovo bene... Punto.

Le migliori frasi di Oriana Fallaci. "Prendi l'intellettuale di sinistra, l'intellettuale che oggi va di moda, o meglio l'intellettuale che segue la moda per comodità, o per paura, o per mancanza di fantasia: egli sarà sempre pronto a condannare le dittature di destra, bontà sua, però mai o quasi mai le dittature di sinistra. Le prime, le disseziona, le studia, le combatte coi libri e coi manifesti; le seconde le tace o le scagiona o al massimo le critica con imbarazzo e con timidezza. In certi casi addirittura ricorrendo a Macchiavelli: il-fine-giutifica-i-mezzi. Quale fine? quello di una società concepita su principii astratti, calcoli matematici, due più due fa quattro, tesi e antitesi uguale sintesi, e cioè senza tener conto che nella matematica moderna due più due non fa necessariamente quattro, magari fa trentasei, o senza tener conto che nella filosofia più avanzata la tesi e l'antitesi sono la medesima cosa, che la materia e l'antimateria sono due aspetti dell'identica realtà? È grazie ai loro calcoli, cioè al lugubre fanatismo delle ideologie, all'illusione anzi alla presunzione che il Buono e il Bello stiano da una parte sola, che un genocidio o un assassino o un abuso sono considerati illegittimi se avvengono a destra e diventano legittimi o almeno giustificabili se avvengono a sinistra. Conclusione, il grande malanno del nostro tempo si chiama ideologia e i portatori del suo contagio sono gli intellettuali stupidi: i sacerdoti laici e non disposti ad ammettere che la vita (ciò che essi chiamano Storia) provvede da sola a ridimensionare le loro masturbazioni mentali, quindi a dimostrare l'artificialità del dogma. La sua fragilità, la sua irrealtà."

Il razzismo di Repubblica contro gli intellettuali “di destra”, scrive Marco Respinti su “L’Intraprendente” del 19 ottobre 2015. È una storia che ha più di mezzo secolo, ma se sei uno di quei parvenu che pensano che il mondo inizi e finisca con la Repubblica non te ne sei mai accorto. È la storia della Sinistra che dice alla Destra quel che deve fare. Il titolo potrebbe essere “Ti piace vincere facile”. Cominciò quando negli Stati Uniti, tra i tardi anni ’50 e l’inizio del decennio successivo, gli intellettuali liberal che pensavano di essere i padroni del mondo per mancanza totale di opposizione (tipo Matteo Renzi, per intenderci) scoprirono che non era affatto così (e qui l’analogia con l’Italia di oggi finisce). Temendo di perdere il posto, scoprirono Sun Tzu: «Sconfiggere il nemico senza combattere è la massima abilità», e ci si applicarono di buzzo buono. Non passò molto e sfornarono la ciambella, con tanto di buco. Cucinarsi un avversario su misura di modo che quando abbaia non morde, l’opposizione e l’alternanza diventano una pagliacciata, e il Circo Barnum può proseguire indisturbato la tournée. Ora, negli Stati Uniti è finita che la ciambella liberal dopo un po’ si è afflosciata, ma questa è un’altra ricetta. Da noi invece la mamma del fornaio è sempre incinta. Di nome fa delegittimazione, di cognome demonizzazione. Tutti hanno diritto a pensarla come vogliono, tranne quelli che non la pensano come noi. Quelli lì sono brutti, cattivi, sporchi, e puzzano pure. Per dirlo, la Repubblica del 17 ottobre ha scomodato tanto di firma francese, Christian Salmon. Il bersaglio sono Michel Houellebecq, Eric Zemmour, Alain Finkielkraut e Michel Onfray, tutti diversissimi ma inesorabilmente tutti colpevoli. Di che? Di essere scorrettamente preoccupati per il futuro del loro Paese e dell’identità francese. Renzi tradurrebbe “gufi”, ma nella lingua di Salmon suona: «Sono tutti accusati di deriva a destra, e di fare il gioco del Front National». Fantastico, da manuale della demagogia a dispense settimanali. 1) «Sono accusati», ça va san dire. Da chi? Da chi dice che sono accusati: si chiama sofisma, ma il giorno che a scuola lo insegnavano, Salmon era assente. 2) Quella di destra è sempre e solo una «deriva». 3) L’asso di bastoni che prende alla gola per paura anche l’ultimo scettico è la reductio ad Hitlerum, un classico che non stufa mai. Rimanesse ancora un dubbio, arriva la parola passepartout: «razzismo». Ma Salmon e la Repubblica non sono volgari e quindi raffinano. Mica vogliono dire che i quattro moschettieri accusati sono razzisti; no, per carità. Gli è che essi, pinocchi che altro non sono, fingono. Per vendere. Siccome in giro tira aria xenofoba, l’intellettuale senz’anima, pennivendolo con un pelo sullo stomaco fitto come la selva nera, dà alla gente ciò che la gente pagante vuol sentirsi dire, eccola qua la Destra. La raffinatezza scende però ancora più in basso e sfodera la tesi finale contundente: la cultura di destra nemmeno esiste, non è mai esistita, non esisterà mai. Chi pensa elucubra a sinistra, a destra rubano dalla cassetta dell’elemosina. E qui l’orgasmo si fa multiplo: si ridicolizza chi fa domande scomode (al di là che le sue risposte siano comode), si squalificano le stesse domande scomode, alla faccia della democrazia si sputa su qualche milione di persone che le domande scomode vorrebbe almeno sentirle porre e si demonizza quella che viene minacciosamente chiamata “la Destra” solo perché alternativa al pensiero unico della Sinistra (sono di destra Houellebecq, Finkielkraut e Onfray?). Ah, che la destra sia solo marketing, dice Salomon, è un brand di Gilles Deleuze, stasera possiamo dormire tranquilli. Fine, ma mi punge vaghezza di un poscritto. Nel giorno in cui la Repubblica chiude nel ghetto tutti quelli che non la pensano come lei (ma non era intolleranza, questa, quasi quasi razzismo?), Matteo Renzi gigioneggia dicendo che tagliare le tasse non è né di destra né di sinistra, ma solo giusto. Giusto. Cioè di destra. Giocando con le lingue di mezza Europa (latino, italiano, francese, inglese, idiomi germanici) in cui “giusto”, “destra” e “diritto” (sia nel senso di “retto” sia nel senso di “legge”) sono termini uguali, l’impareggiabile Erik von Kuehnelt-Leddihn (1909-1999) coniò un moto immarcescibile: «Right is right, left is wrong». La Sinistra? Sinistra e sinistrata.

Se l'intellettuale di sinistra ha belle idee di destra. Dopo anni di accuse e invettive, le tesi della Fallaci e le battaglie sull'Islam della Le Pen o di Salvini vengono riprese da chi le condannava. Ovviamente cambiando le parole e facendo finta di niente, scrive Luigi Mascheroni, Lunedì 16/11/2015, su "Il Giornale". È già da tempo che, lentamente, a volte con imbarazzo altre con improvvisi salti della barricata, pezzi più o meno piccoli della sinistra benpensante cominciano a rivedere le proprie convinzioni in tema di Islam, scontro di civiltà, integrazione. E, pur senza prendere tessere politiche o ideologiche nel campo avversario, finiscono per scivolare su posizioni che qualcuno per comodità tende a definire reazionarie e altri per semplificare «di destra». È il progressismo che vira verso la conservazione. L'utopia rivoluzionaria che si piega al pragmatismo del buon senso. E così l'intellighenzia si scopre a confessare a denti stretti che forse, però, in fondo (certo condannando sempre con fermezza la xenofobia e il razzismo!) tutto sommato quelle teste calde che in tempi non sospetti mettevano in guardia dai rischi del fondamentalismo religioso e preannunciavano che il confronto fra Occidente liberale e il fanatismo islamico si sarebbe trasformato in guerra, ecco a ben guardare non avevano poi tutti i torti. Succede da tempo e tanto più succede ora, dopo i sanguinosi fatti si Parigi. Accade in Francia, che ha già pagato sulla sua pelle l'illusione di un convivenza pacifica e di una reciprocità dei diritti tra l'Europa laico-capitalista e l'Islam radicale. E accade in Italia, che non è ancora stata colpita in casa ma sente la minaccia sul collo. Da noi capita sempre più spesso di ascoltare politici e intellettuali di solidissima fede democratica dire (attenzione, ecco il trucco, con parole diverse) le medesime cose che da anni in maniera magari meno elegante e più di pancia ripete la Lega o una certa destra. Era un po' curioso e un po' comico, sabato sera, a 24 ore dalla strage di Parigi, ascoltare a Otto e mezzo Massimo Cacciari e Gianni Letta sostenere - salvo irriderlo per le sue semplificazioni e grossolanità - ciò che Matteo Salvini ripete da anni, a partire dalla necessità di un intervento militare internazionale contro l'Isis fino all'ammissione che sui barconi di profughi diretti in Europa dall'Africa e dal Vicino Oriente ci siano anche potenziali terroristi. Così come capita di trovare persino su un sito come l'Huffington Post Italia articoli (vedi quello di sabato di Giuseppe Fantasia e relativi commenti di decine e decine di lettori) che celebrano «la Cassandra dell'Informazione» Oriana Fallaci, riscoperta come «profetessa» da una parte di quella sinistra che per un quindicennio l'ha derisa e ghettizzata. Ieri, sul Corriere della sera, Pierluigi Battista, dopo aver letto forse l'Huffigton forse altri siti, ha scritto un pezzo intitolato «Scusaci Oriana, avevi ragione», Il risarcimento postumo è online. E se la vecchia pazza - si chiedono molti democratici cittadini in Rete - non fosse così pazza? Battista, peraltro, è uno che non deve scusarsi di nulla, avendo più volte, anche a costo di pesanti attacchi, difeso e citato i libri della scrittrice toscana. Più sorprendente, forse, poche pagine dopo sullo stesso quotidiano, l'articolo La lezione da apprendere del teatro Bataclan firmato da Paolo Mieli, il quale, in maniera molto lucida ma un po' in ritardo rispetto a centinaia di pezzi scritti da esempio sul Giornale da anni, scoperchia l'ipocrisia di tanti #JeSuisCharlie dalla memoria corta e denuncia i danni micidiali che causa il «politicamente corretto» applicato all'islam radicale. Benvenuto nel club di chi crede che il buonismo è solo una forma perversa della cattiveria. Tutto ciò capita, finalmente, anche in Italia. E capita da tempo, ben prima del massacro di due giorni fa, in Francia. Dove a suo tempo editori come Gallimard e Grasset si rifiutarono di pubblicare La Rage et l'Orgueil della Fallaci, considerata fascista, razzista e xenofoba. E dove oggi, mentre il romanzo Sottomissione di Michel Houellebecq si rivela profetico tanto quanto i pamphlet della Fallaci - sono sempre di più i Maître à penser della gauche sedotti dalla destra radicale. Come il filosofo Michel Onfray, alfiere della sinistra laica, o come l'economista di estrema sinistra Jacques Sapir, o l'ex sessantottino Alain Finkielkraut che invoca l'identità nazionale davanti all'invadenza del velo islamico... Certo, non danno i loro voti al Front National, ma spesso danno ragione a Marine Le Pen. Quando parla di Europa, di Islam e di immigrazione.

Intellettuali di destra? «Inesistenti», scrive Serena Danna il 20 gennaio 2010 su “Il Sole 24 ore”. «Lo so perché sono un intellettuale» diceva Pier Paolo Pasolini, punto e basta. E nell'anno 2010, Twitter e televisione a tre dimensioni, gli intellettuali hanno ancora l'aura sacra dei saggi greci o devono affidarsi solo ai talk show? Pierluigi Battista, classe 1955, editorialista del «Corriere della Sera», ha passato la vita a ragionare sul destino degli intellettuali, ieri Sartre, oggi Arianna Huffington con il suo blog. E dopo un libro sul caso Grass e gli intellettuali italiani (Cancellare le tracce, Rizzoli 2007) e uno sulle polemiche che hanno spaccato la cultura italiana del dopoguerra (Il partito degli intellettuali, Laterza 2001), Battista - Pigi per gli amici - ritorna con I conformisti (Rizzoli), stavolta per celebrarne il funerale.

Battista, un'ossessione per la figura dell'intellettuale?

«Mi ha sempre affascinato il rapporto tra intellettuali e politica, soprattutto mi incuriosisce la seduzione che il totalitarismo esercita su di loro. In preda all'ebbrezza ideologica, senza perdere il talento nei loro ambiti, è come se si svuotassero di capacità critica e analitica. Si compie un sacrificio intellettuale: immolano la ricerca della verità sull'altare del conformismo e della fedeltà all'ideologia».

Perché?

«Perché gli irregolari, quelli che rifiutano il conformismo, hanno sempre subito l'isolamento. Pensi al confronto tra l'irregolare Raymond Aron e il conformista Jean-Paul Sartre: i giovani parigini urlavano a gran voce «Meglio avere torto con Sartre che ragione con Aron», convinti di enunciare un brillante paradosso».

Certo le discussioni sulla libertà di Sartre esercitavano più fascino sul '68 rispetto al realismo del liberale Aron che giustificava la guerra... 

«Il punto è che tanti intellettuali giustificavano carneficine in nome dell'ideologia: dal filosofo filo-nazista Martin Heidegger, che vedeva nel Führer il compimento di millenni di metafisica, al drammaturgo filo-sovietico Bertolt Brecht, che commentò così le torture moscovite inflitte alla sua ex amante: «Se è stata condannata devono esserci prove contro di lei»».

Perché – come recita un libro di Raymon Boudon – gli intellettuali non amano il liberalismo?

«Perché è sempre apparso come una dottrina fatta di regole. È difficile avere trasporto per le regole, ci riescono in pochi. Tanti uomini di cultura hanno scelto la sintonia con le masse: gli intellettuali usciti dal fascismo preferirono l'ideologia opposta perché era più facile».

Lei sostiene che dopo la caduta del muro di Berlino la situazione non sia cambiata.

«Allora ci fu l'illusione di essere entrati in un'era post-ideologica: la fine del bipolarismo. E invece cosa si è realizzato? Anticomunismo in assenza di comunismo e antifascismo in assenza di fascismo. Il rapporto con il potere oggi è certo meno omicida, rimane un involucro vuoto e caricaturale dove spicca la tendenza alla denigrazione e all'odio. Ieri Italo Calvino che definiva George Orwell un «libellista di second'ordine» perché aveva denunciato i massacri degli anarchici durante la guerra civile spagnola; oggi Moni Ovadia che parla della «bella utopia»».

Nel suo libro divide gli intellettuali contemporanei tra ex e post. Cosa intende?

«L'ex ha un rapporto serio con il passato vuole ed esige una resa dei conti che non arriva mai. Il suo rappresentante è Sant'Agostino, che passò tutta la vita provando vergogna per i peccati commessi nel suo passato. Il post, invece, è una figura che non considera i suoi errori, concilia ogni cosa. È come Jean-Jacques Rousseau che vedeva nella società la responsabile di tutte le colpe».

Scrive che con pur di non «dargliela vinta» a Berlusconi, la sinistra avrebbe annullato il giudizio critico. D'altra parte il premier usa spesso l'etichetta "comunista" per chiunque abbia un'idea diversa dalla sua...

«Certo l'atteggiamento della sinistra è una risposta all'anticomunismo viscerale di Berlusconi, ma resta il fatto che, pur di non dargli mai ragione, tanti rifiutano di vedere la realtà. Berlusconi è percepito come il riassunto di ogni male, dunque qualunque cosa dica deve essere squalificata e derisa in quanto manifestazione del male».

Fin qui le responsabilità degli intellettuali di sinistra... E quelli di destra?

«Non esistono! In 20 anni la cultura di destra non ha prodotto niente: non c'è un film, una mostra. Al punto che i politici del centro-destra ogni tanto devono imporre alla Rai una fiction revisionista pur di dimostrare che qualcosa c'è».

Sembra che lei abbia perduto speranza per la cultura...

«La devastazione è stata così radicale che ricominciare a pensare sarà molto difficile. Non riesco a essere ottimista, soprattutto quando vedo che tra i giovani hanno ancora successo le idee e i miti del passato. Chi emerge dall'apatia, gioca ancora a fascisti e comunisti...»

E gli intellettuali possono far qualcosa per rompere l'impasse o sono spacciati?

«Non si può sempre ricorrere in appello. A furia di perdere si sono auto-estinti. L'unica cosa è un grande scossone, nuova aria. In sostanza c'è un altro muro da abbattere».

Italia, nazione in coma per eccesso di ipocrisia. Nel dopoguerra la nuova morale politica dei vincitori lavò le coscienze ma anche il carattere di un intero popolo. Che cadde nel conformismo, scrive Stenio Solinas, Giovedì 10/10/2013, su "Il Giornale". Ogni volta che mi illudo di avere imparato a scrivere, Piero Buscaroli mi rimanda sui banchi di scuola. Prendo appunti, studio la costruzione della pagina, mi sforzo di nuotare senza annegare nei riferimenti, nei suggerimenti, nella sprezzatura stilistica con cui tutto è raccolto e come rilegato. Una nazione in coma (Minerva editore, 569 pagine, 19 euro), il suo nuovo libro, conferma questa sudditanza e la colora di malinconia, perché alcune delle parti che lo compongono, penso alla Vandea e a Charette, all'Italia in guerra e al Vietnam, all'infame mattanza dei cosacchi, ai ritratti di Benoist-Mechin e di Longanesi, uscirono su questo giornale quando ne dirigevo le pagine culturali e mi illudevo, anche qui, che le ragioni dei vinti potessero avere una tribuna e un senso. C'erano ancora i dimafonisti, ma Buscaroli odiava dettare («il suono della mia voce mi fa orrore» diceva) e i fax, di cui non si fidava. Così settimanalmente arrivavano sul mio tavolo delle buste gonfie di cartelle dattiloscritte, immagini, consigli e rampogne. Messe in pagina, divenivano paginoni, e a riprenderli oggi in mano uno capisce che, anche giornalisticamente, si è chiusa un'epoca. Le riforme grafiche hanno ridotto gli spazi e imposto la brevità, la paura-alibi di annoiare il lettore ha fatto il resto. E poi, di giornalisti-scrittori come Buscaroli si è perso lo stampo. Scriveva Cioran che «cadere dall'eternità nel tempo fu, finora, la regola. Ma si può cadere più in basso: cadere perfino fuori del tempo. Non è affatto escluso che questa esperienza diventi, un giorno, da individuale, un fatto che ci riguarda tutti». Questa profezia è alla base di Una nazione in coma, nel senso che lo informa e insieme lo contraddice, racconta di un futuro senza speranza e però puntigliosamente elenca ragioni e torti, rettifica e si indigna, maledice, persino. È un libro di memorie sui generis, ridotte al minimo quelle familiari, rivendicate quelle di testimone di un'epoca, il secondo dopoguerra, vissuto portandosi sulle spalle il peso di ciò che, ancora ragazzo, gli era franato sopra cucendogli addosso lo status di sconfitto. Ci sono dei lutti che si portano come decorazioni. Che la sconfitta riguardasse tutti, l'aveva capito perfettamente, ma invano, Benedetto Croce, di cui Buscaroli riporta quel discorso contro la firma del Trattato di Pace del luglio 1947, che una nazione degna di questo nome avrebbe dovuto trasformare in lettura d'obbligo fin dalle elementari. «Noi italiani abbiamo perduto una guerra, e l'abbiamo perduta tutti, anche coloro che l'hanno deprecata con ogni loro potere, anche coloro che sono stati perseguitati dal regime che l'ha dichiarata, anche coloro che sono morti per l'opposizione a questo regime, consapevoli come eravamo tutti che la guerra sciagurata, impegnando la nostra patria, impegnava anche noi, senza eccezioni, noi che non possiamo distaccarci dal bene e dal male della nostra patria, né dalla sua vittoria né dalla sua sconfitta». Nel suo opporsi alla firma del trattato, il filosofo dell'idealismo si opponeva non solo all'idea, infelice e infame, che la Seconda guerra mondiale l'avesse persa il fascismo e vinta invece gli italiani, ma anche alla pretesa dei vincitori «di un giudizio morale e giuridico sull'Italia e la pronunzia di un castigo che essa deve espiare per redimersi». Chiosa Buscaroli che «scrostata la maschera della commedia democratica e della virtuosa ipocrisia messa a nascondere l'eterna vendetta, Croce rifiutava, fin dalla sua prima apparizione, la nuova morale politica che sarebbe diventata, nel mezzo secolo democratico, dominante e senza opposizione possibile». Era il «lavaggio del carattere» quello che si voleva, e che a sessanta e passa anni di distanza ci rimanda l'immagine di un Paese senza carattere, privo di dignità e di orgoglio. Finis Italiae. Di questo cammino che segna il nostro ritorno a ciò che fu un'espressione geografica, Una nazione in coma registra fedelmente i passi: «È l'Italia - scrive Buscaroli - che cessa di partecipare alla grande storia, e beata poltrisce sulle glorie, la storia e le ambizioni dei suoi mille municipi, delle sue cento contrade. È l'Italia indaffarata e laboriosa degli individui, ma priva di ogni aspirazione e speranza. È l'Italia guelfa, municipale e democratica, clericale e comunista da sempre, che castiga le sue minoranze ghibelline, i suoi sognatori senza i piedi per terra sulla terra, senza un solido appoggio nelle reali forze; eppure persuasi, per antica esperienza, che l'Italia savia e coi piedi per terra è l'Italia peggiore: è l'Italia di oggi perché è quella di sempre». Zibaldone di incroci, digressioni, ritratti ad hoc (Soffici e Messina, Paratore e de Vergottini, Praz e Cardarelli), Una nazione in coma è anche un vertiginoso compendio di due secoli di storia, la rivoluzione francese e «lo stupido secolo XIX» che ne discende, il suicidio dell'Europa in due guerre mondiali, con il suo contorno di olocausti umani e olocausti artistici: «La cancellazione delle opere dello spirito, del genio, del lavoro di un popolo, prolunga il crimine oltre la perdita della generazione in un certo tempo vivente. Rende l'olocausto ancora più odioso». Ma c'è spazio anche per «l'universalismo della chiesa» come «non un'invenzione originale del cattolicesimo, fu succhiato dalla romanità»; per una messa a punto sul provincialismo da caffè della cultura italiana d'antan: «Non mi pare che abbia diritto di insolentirla un'età che a quella tribuna, poverella di udienze e di guadagni, ha sostituito le soste di letterati e politicanti, giornalisti e pittori presso le scimmie male ammaestrate dalle televisioni»…. Una nazione in coma non è un libro omogeneo e, essendo un libro di parte si presta a critiche e messe a punto. Ma nel caso specifico, non ho alcuna voglia di sentirmi super partes.

L'imbarazzante silenzio su Buscaroli. Fu al Borghese con Leo Longanesi, al Giornale con Indro Montanelli e Vittorio Feltri. Ma la la piccineria del mondo intellettuale non gli ha mai perdonato le posizioni di estrema destra, scrive Alessandro Gnocchi, Giovedì 18/02/2016, su "Il Giornale". Un paio di brevi e un fogliettone di trenta righe. Per la maggioranza dei giornali, la notizia della morte di Piero Buscaroli, avvenuta lunedì, è roba da poco, da nulla addirittura. Peccato che il Bach di Buscaroli, un successo sorprendente, sia finito negli Oscar Mondadori, fatto inconsueto per un serissimo saggio di 1216 pagine. Peccato che La morte di Mozart e Beethoven abbiano ottenuto un notevole riscontro e siano dibattuti dal giorno della loro uscita in libreria. Peccato che Buscaroli abbia fatto la storia del giornalismo, procedendo a caso fu al Borghese con Leo Longanesi, al Giornale con Indro Montanelli e Vittorio Feltri, diresse il Roma, fu inviato di guerra, raffinato cronista di costume sotto pseudonimo, critico musicale tra i più validi, battitore libero di sconfinate conoscenze, basti pensare alle pagine sui vandeani massacrati dai rivoluzionari. Peccato che Buscaroli abbia diretto alcune collane editoriali che ispirano tuttora editori blasonati. La raffinatissima «Torre d'avorio», curata per l'editore torinese Fògola, annoverava titoli come Dio è nato in esilio di Vintila Horia, un capolavoro, oppure le Lettere dalla Russia di Astolphe de Custine, un altro capolavoro, e poi: Curzio Malaparte, molto prima che tornasse di moda, Henry de Montherlant, la musica e i classici meno frequentati della letteratura italiana. Ci sono anche le collane curate per Rusconi e Mondadori, insieme con Paolo Isotta; la recente autobiografia in due volumi; l'insegnamento nei Conservatori. Si potrebbe proseguire ma ormai è chiaro: le posizioni politiche di estrema destra hanno fatto ombra ai libri di Piero Buscaroli, belli e mai ipocriti, costasse quello che costasse (tantissimo, ora è dimostrato). Naturalmente, si possono criticare le sue idee ma disconoscere il valore di ciò che ha fatto per la cultura italiana è indice della piccineria del mondo intellettuale, incapace di distinguere l'uomo dalle sue opere e di riconoscere i meriti del «nemico», soprattutto quando, come in questo caso, sono indiscutibili. Tempo fa capitò di leggere l'ampia recensione di una nuova edizione del libro di Astolphe de Custine. Buscaroli, che lo aveva scoperto e pubblicato, accompagnandolo con una prefazione straordinaria, neppure veniva nominato. Furbizia? Ignoranza? Difficile dire nel caso specifico. È invece sicuro che certi intellettuali amano definire inesistente la cultura di destra. Prima però la saccheggiano, dopo averla scoperta con quarant'anni di ritardo; e per non farsi cogliere con le mani nel sacco, sbianchettano i nomi.

Piero Buscaroli: l’Italia fa orrore (la Lega meno). I disgusti dell'Indignato Speciale: Fummo fascisti nonostante il Duce. A Budapest c'è il ponte Napolitano. Almirante? Un infortunio. Fini? Uno stupido. Si salva Cota, scrive Stefano Lorenzetto, Domenica 11/04/2010, su "Il Giornale". Per entrare nella casa di Piero Buscaroli a Bologna bisogna piegare il capo, come nella basilica della Natività a Betlemme. Il portone in Strada Maggiore non supera il metro e 50 di altezza. Ci si deve far piccini al cospetto di Dio e Buscaroli, a modo suo, questo è: un dio. Della musica, del giornalismo, della storiografia, della polemica, dell’indignazione. Ed è appunto l’Indignato Speciale a intimorirti, mentre affronti lo scalone che su ogni gradino potrebbe allineare almeno otto persone. Incombe dalla sommità: «Non sarà venuto qui anche lei con l’intenzione di farmi passare per nazista?». L’ultimo è stato un inviato delle pagine culturali della Stampa, «un tipo pieno di capelli gialli, sicuro di sé». Hanno bisticciato subito. «Ha osservato che il libro Beethoven è il mio opus magnus. Ho dovuto correggerlo: guardi che opus è neutro, si dice magnum». Il peggio doveva ancora venire. «Sperava di farmi dire che la mia massima aspirazione era quella di diventare guardiano di Auschwitz. Ma si può? Un vero imbecille. Nel 1943 avevo 13 anni». Non mi è di viatico il ricordo del nostro primo e unico incontro, inizi del 1996, quando, da poco vicedirettore del Giornale, incrociai Buscaroli nella segreteria di redazione. Mi squadrò da capo a piedi: «Tu chi sei? Quello nuovo?». È tornato al lei. «Lo vedremo verso la fine se è degno del tu». Mi sta andando già meglio di Mario Calabresi, il direttore dell’inviato biondo, colpevole di non aver tenuto presente che il padre Luigi fu commemorato da Buscaroli, all’epoca direttore del Roma, il quotidiano di Napoli dell’armatore Achille Lauro, con il conio di una medaglia commissionata allo scultore Francesco Messina (e con una sottoscrizione fra i lettori che raccolse «un bel mucchietto di denari» per la vedova e gli orfani del commissario di polizia assassinato da Lotta continua), e perciò destinatario di una lettera che, fra un «cialtrone» e un «pagliaccio», si chiudeva con un epitaffio: «Senza saluti e tanto schifo». C’era di mezzo Dalla parte dei vinti, il nuovo libro di Buscaroli, Memorie e verità del mio Novecento, 521 pagine di «materie disperatamente difformi», magari non il più caro, certo il più sofferto, «ho fatto diventar matto l’editore, all’ultimo momento volevo sciogliere il contratto, m’è costato un’ischemia moderata, un’ischemia Mondadori», 60 anni ci ha messo a scriverlo, altro che l’Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo che ne richiese 18, «però non s’azzardi a chiamarlo autobiografia: non lo è». Giovanni Ansaldo, collaboratore della Rivoluzione liberale di Piero Gobetti e poi direttore del Telegrafo di Livorno di proprietà della famiglia Ciano e del Mattino di Napoli, gl’impartì una lezione che non avrebbe mai dimenticato: «Scriva sempre tutto quel che le preme, non ha idea di come faccia presto la memoria a cancellare particolari importanti: bastano 24 ore». Una perizia calligrafica rivelerebbe la datazione originale, se non l’autenticità, di ciò che giorno dopo giorno, notte dopo notte, Buscaroli ha minuziosamente registrato, da cronista, nei suoi taccuini. Su uno appena cominciato, il 12 giugno 1955, si legge un’annotazione di Leo Longanesi: «Me lo riporti, quando l’avrà finito...». Il fondatore del Borghese, che nello stesso anno assunse Buscaroli come inviato speciale, aveva intuito subito che da quelle pagine sarebbe transitata la Storia. Ed eccola qui, la Storia. Paolo Emilio Taviani che nel 1974 convoca a casa propria il nemico Buscaroli, nella speranza di ingraziarsi Giorgio Almirante e assicurarsi i voti del Msi, e gli rivela come se nulla fosse che «insomma, lei dovrebbe intendermi, dico che certe bombe, quelle attribuite alla sinistra, le abbiamo messe noi», noi chi, ministro? la Dc?, «ma no, noi, ministero degli Interni, mi capisce adesso?». La guerra nel Vietnam, seguita per sei estati: «Io parteggiavo per il Sud Vietnam, la Rsi locale, e per il generale Nguyen Cao Ky, che era stato decorato dai francesi in Algeria, un ufficiale con le palle come gli Stati Uniti non l’hanno visto mai, ed ero stupefatto di come le nuove generazioni crescessero bene in quel bagno di turpi guadagni e traffici immondi, di anno in anno vedevo ragazzine sempre più floride, più alte, più sane, più svelte, e giunsi a una conclusione prezzoliniana, disperante per un moralista: il vizio migliora la specie». La rivolta d’Ungheria: «A Budapest uno dei ponti sul Danubio viene ancor oggi chiamato Napolitano, per non dimenticare che nel 1956 il futuro capo dello Stato italiano proclamò come gli invasori sovietici avessero salvato la pace mondiale. Trent’anni ci ha messo a chiedere scusa». Nella casa-museo di Buscaroli, un dedalo, l’unico modo per non perdersi è memorizzare la posizione dei Cesari nei medaglioni appesi sopra gli architravi, dei mobili stile impero, dei pianoforti, dei dipinti («questa è l’ultima tempera su carta di Mario Sironi, me la regalò la figlia, un fascio stilizzato sormontato dalla penna d’oca degli scrittori, nessuno aveva mai fatto caso alla similitudine»), delle foto d’epoca, del sorprendente ritratto di Osama Bin Laden in una cornice d’argento, soprattutto di alcuni dei 10.000 libri che a ogni passo, a ogni corridoio, a ogni anticamera, a ogni stanza ti guidano, ti assediano, ti soffocano. Nell’ultimo salone, quello con le due sedie Biedermeier appartenute a Richard Wagner, c’è il pianoforte Érard del 1856 su cui suonò Johannes Brahms. «Me lo restaurò Fabbrini, lei sa chi è Fabbrini?». Veramente no. «Male, ora glielo spiego, queste cose un giornalista le deve sapere. Angelo Fabbrini era l’accordatore di Arturo Benedetti Michelangeli, tre anni ci ha messo a rifarlo nel suo laboratorio di Pescara, per portarlo su dalle scale c’è voluto una specie di cingolato leggero, con mezza Bologna ferma giù di sotto a guardare». Compirà 80 anni fra qualche mese ed è come se avesse vissuto non una, ma dieci vite. Tutto il mondo gli è ruotato intorno e lui lì, sull’attenti, irremovibile. «Italia nemica, a fondo, sempre. Era la prima cosa che dicevo ai miei figli appena nascevano», tre volte ha ripetuto quel tragico giuramento. Buscaroli non parla: esonda. Il 5 marzo 1970 fu costretta a occuparsene persino la Pravda - a ogni citazione ti sopraffà col suo dinamismo prensile nello scovare a colpo sicuro il ritaglio giusto da migliaia di agende, faldoni, scartafacci - «ecco qua, queste due paroline in caratteri cirillici significano Piero Buscaroli e qui c’è scritto che sono un mascalzone, mi assicura un esperto di interna corporis bolscevichi che il giornale ufficiale del Pcus mai usava riferirsi agli stranieri con nome e cognome». La Verità moscovita quella volta fece un’eccezione, non solo perché Buscaroli aveva denunciato sul Borghese l’intenzione sovietica di smembrare la Jugoslavia, ma perché se lo meritava: non ha mai stretto la mano a un comunista in vita sua, «e se dovevo andare in posti frequentati da canaglie, prima indossavo i guanti». L’unica volta che si lasciò afferrare «due dita in punta», ovviamente guantate, fu da direttore del Roma, quando, durante un processo nella pretura di Castel Capuano, lo ghermì alle spalle «un certo avvocato Iossa, o Fossa, consigliere comunale del Pci, che mi aveva denunciato per conto di una professoressa comunista e cieca e protendeva la mano piatendo 300.000 lire per rimettere la querela: “Direttore, voi siete umano, siete un signore...”». È vero. Il Buscaroli umano, che non t’aspetti, è quello che alla fine dell’intervista decide di poter tornare a darti del tu. Lo stesso che la domenica delle Palme, accompagnato dai familiari, ha voluto «vedere la destinazione finale» a Monteleone di Roncofreddo, «è un bel cimiterino su un poggio», col geometra Zamagni che esaltava l’erigenda tomba di famiglia come «il sarcofago del fondatore» e col per nulla convinto futuro inquilino che raccomandava: «Né Madonnine piangenti, né simboli cristiani», ma non osava contraddire la figlia Beatrice, critica d’arte, che eccepiva: «Guarda babbo che la mamma vuole la croce».

La questione sepoltura non mi sembra attuale.

«Quello che chiamano Dio sa che scherzo mi ha fatto? Sì, insomma, quel qualcuno che tiene la contabilità ha detto: al Buscaroli abbiamo tolto dalla testa molti nomi, ma dopo un minuto e mezzo glieli restituiamo. Per cui ho affinato l’arte di divagare per 90 secondi».

Non la trovo affatto svaporato.

«Fino al 22 luglio, prima dell’ischemia, avevo una memoria nichelata. Mai smarrito un ricordo. Adesso arrivo davanti all’edicola e non mi sovvengo di come si chiama Il Sole 24 Ore. Non posso mica dire: mi dia il giornale rosa dei ragionieri. Aspetto».

Da dove viene la mitologica asprezza del suo carattere?

«Sono aspro quando voglio. Con quelli che non mi piacciono. Con i bugiardi. Con i comunisti».

Piero il Terribile.

«Lasci perdere il titolo del Foglio. Non mi ci riconosco. Semmai passo per eccessivamente accondiscendente. Mia moglie Maria Grazia ogni tanto mi fa l’elenco di quelli che ho salvato».

In che modo vi conosceste?

«Andando a trovare i nostri padri prigionieri nel carcere di San Giovanni in Monte. Neppure Giampaolo Pansa ha un’idea di che cos’è stata la vita di noi appartati, dispersi in tante tane».

«Vae victis». A lei, da vinto, che guai sono toccati?

«I partigiani hanno tentato tre volte di ammazzarmi. La mia unica preoccupazione era morire bene. Quando arriva quel momento, non reagisci. Ti acquatti e aspetti che tutto finisca. Mi salvarono due ufficiali polacchi che odiavano i comunisti. E poi la distruzione della famiglia. Quattro zii morti. Mio padre Corso, insigne latinista, incriminato per un reato inesistente. Era il miglior amico di Dino Grandi (il ministro che preparò l’ordine del giorno di sfiducia al Duce votato nel Gran Consiglio del 25 luglio 1943, ndr). Da reggente del fascio di Imola non ebbe alcun ruolo nelle rappresaglie. Lo tenevano in galera dal giugno del 1945. Aveva fatto i calcoli: era sicuro di uscire presto. Il direttore del carcere nell’estate del 1948 lo convocò: “Professore, ho una brutta notizia per lei. Sono arrivati i conteggi: le restano da scontare tre anni”. Il babbo aveva una pressione delirante, 260 di massima, allora non esistevano farmaci. Cadde a terra, colpito da paresi. I conteggi erano sbagliati. A fine anno uscì. Tre mesi dopo era morto. Chiesi la revisione del processo. Fu assolto dalla Cassazione nel 1960».

Dino Grandi è la sua bestia nera.

«Il babbo me l’aveva dipinto come un asino che sbagliava persino a scrivere le parole, roba da non passare la licenza elementare. Nel 1918 era innamorato della sorella maggiore di mio padre, Illiria. Questa mia zia, vedova dell’ingegner Gino Cacciari e nonna di Massimo, il sedicente filosofo già sindaco di Venezia, fino all’ultimo cercò di farmi fare la pace con Grandi. Per meglio dire, era il conte Grandi che invocava disperatamente il mio perdono. Ma quello che pensavo di lui glielo misi per iscritto: “Giudico lei, signor conte, come l’altro conte, il genero (Galeazzo Ciano, marito di Edda Mussolini, ndr), e tutti i soci, fucilati e scampati, per quello che avete fatto; e non per aver ‘tradito il Duce’, come ripetono i fascisti cretini, ma per aver consegnato l’Italia al Badoglio, che la consegnò a tedeschi, inglesi e americani. Senza il 25 luglio, signor conte, non ci sarebbero stati lo sbarco di Salerno e l’infame catena di assassinii che i coglioni chiamano ‘guerra civile’ e fu la guerra inventata e imposta dal partito comunista. Per questo e solo per questo, signor conte, detesto lei e tutti i suoi soci. Voi avete distrutto anche quanto poteva salvarsi, altro che ‘salvare il salvabile’!”».

Grandi la pensava come Indro Montanelli: quando una guerra appare perduta, il male minore è accordarsi col vincitore.

«Quei due erano uguali. A me il feldmaresciallo Albert Kesselring ribadì invece che se il nemico t’impone una resa senza condizioni, non resta che combattere fino in fondo. La Germania e il Giappone seguirono questa via. Fu il maresciallo Pietro Badoglio ad abbandonare l’Italia nelle mani dei nazisti».

Lei non ha grande considerazione di Montanelli. «Lo stimo poco», si legge in Dalla parte dei vinti.

«Montanelli era la copia di Grandi anche in fatto d’ignoranza. Nell’unica pagina che ho letto dei suoi libri sulla storia d’Italia parla della corona ferrea custodita nel Duomo di Monza chiamandola “monile”. Un’ignoranza da far invidia».

Lo accusa d’aver costruito la sua popolarità su un’intervista con Adolf Hitler mai avvenuta e su una condanna a morte emessa dai nazisti, pure questa inventata.

«Da Montanelli non ho mai imparato nulla, se non che i moderati sono peggiori degli estremisti. Ricordo il giorno in cui mi accolse nella redazione del Giornale, allora alloggiata nel Palazzo dell’Informazione in piazza Cavour a Milano, fatto costruire da Benito Mussolini nel 1938 per Il Popolo d’Italia. Nell’atrio mi afferrò un braccio: “Qui Lui diceva... qui Lui faceva... qui Lui scriveva...”. Ma perché mi stringi il braccio? Che c’entro io? Basta! Lo avete glorificato, tradito, ammazzato. Per il Duce non nutro nessun sentimento, se non la pietà. Ti dirò di più, caro Indro: io sono stato fascista nonostante Mussolini, non per Mussolini».

Vorrebbe farmi credere che Montanelli doveva farsi aiutare da Mario Cervi a scrivere i libri di storia perché da solo non ne sarebbe stato capace?

«Da Cervi, da Roberto Gervaso, da Marcello Staglieno. Io non sono mai caduto nella sua rete. Finché una volta, a colazione al ristorante Bice, gli dissi chiaro e tondo: noi non siamo amici. Mi guardò assorto: “Hai ragione, non lo siamo”. E non siamo amici perché tu sei un traditore nato. Avrebbe voluto che fossi io a scrivergli il coccodrillo. Se lo faccio, ti rovino anche da morto, gli risposi. Invece avevo grande stima per Colette Rosselli, la moglie di Montanelli, che non si capacitava di questi miei impeti d’ira: “Sbagli ad arrabbiarti. Non hai ancora capito com’è fatto? Il suo lavoro, il suo articolo, e basta, non c’è altro”. Sa che cosa mi diceva di lui Leo Longanesi? “Quell’Indro finirà nel piscio”».

Oltre a Longanesi, chi sono stati i fari della sua vita?

«Il filosofo Lorenzo Giusso. Il maestro Ireneo Fuser, che fiutò in me un qualche intuito per l’armonia e il contrappunto e mi avviò allo studio dell’organo. Il pittore Ardengo Soffici. Il professor Giovanni de Vergottini, con cui mi laureai in giurisprudenza: m’inoculò la diffidenza per ogni storiografia che non sia incardinata nel diritto. L’anglista Mario Praz, che m’insegnò a distinguere la linea delle epoche, il bello e il brutto, gli stili. E poi Giuseppe Prezzolini, consigliere di tutti i miei comportamenti, il quale 12 anni prima che un erede putativo (Montanelli, ndr) si appropriasse della sua antica testata, disse all’editore Francesco Zuzic: “Oggi l’unico a poter dirigere La Voce forse è Pierino Buscaroli. Avrebbe un grande difetto, però: la scriverebbe tutta lui”. E infine Vittorio Cini. Che persona, che amico, che galantuomo! Lei lo sa che io non sono mai esistito in nessuna manifestazione ufficiale, mi hanno epurato perfino i musicologi?».

Immagino la loro gelosia per lo spessore, anche in senso fisico, dei suoi libri: 1.180 pagine Bach, 1.358 pagine Beethoven...

«Quando Cini scoprì che non m’avevano invitato a un congresso di studi su Ottorino Respighi che si teneva a Venezia sull’Isola di San Giorgio, casa sua, volle portarmici in motoscafo. Giunto il momento di dare il saluto ai convegnisti nel refettorio benedettino dove un tempo vi era la tela delle Nozze di Cana del Veronese, tagliata a pezzi da quel gran ladrone di Napoleone e oggi al Louvre, Cini si finse afono e cedette la parola a me. E quelli furono costretti ad applaudirmi».

Anche Mario Missiroli, direttore del Corriere della Sera dal 1952 al 1961, le ha voluto bene.

«M’insegnò che il giornalista non deve dare al lettore più di un’idea per volta e, se possibile, neanche quella. Era un fascista furioso. Una sera mi prese la mano e mi fece toccare il suo polso: recava la cicatrice di una sciabolata. “Lo senti? È il segno cesareo!”. Gliel’aveva inferto Mussolini in un duello nel 1921. “Sei il più grande”, mi diceva, “potrei fare la tua fortuna”. E in che modo? Assumendomi al Corriere? “Ma come, c’è già quel disgraziato di Montanelli, mica vorrai diventare il numero 2? No, tu devi andare in galera! Per salvare la patria”. Io gli rispondevo: direttore, questa fogna non la salva nessuno, e poi non ne vale la pena, sull’Italia io ci cago. È questo che mi ha sempre unito a Prezzolini: l’odio e il disprezzo per gli italiani».

Ma lei come diventò fascista?

«Non lo ero neanche nell’estate del 1943. Odiavo il sabato fascista, quelle gite assurde nel contado polveroso intorno a Imola, irreggimentati nelle nostre ridicole divise, la camicia nera col fazzoletto azzurro, la medaglietta di Mussolini, tutte cose che mi facevano schifo. Ce l’ho con l’Italia perché, mentre stavamo perdendo le ultime zolle insanguinate della Tunisia, i nostri istruttori durante le marce ci facevano cantare: “È la Marina / l’arma dei fessi / e l’Aviazione / pulisce i cessi”. La precocità è una dote che si perde col tempo. Compivo 13 anni il 21 agosto. Presi la carta da lettera più bella che trovai in casa e scrissi al federale di Bologna, Alfredo Leati. Mi fece rispondere dalla segretaria che non prendeva in considerazione i pareri di un bambino. Cominciai ad aborrire anche i federali. Venti giorni dopo ero rimasto l’unico balilla moschettiere. Fui promosso avanguardista perché non c’era più nessuno».

Siamo all’8 settembre: il proclama di Badoglio, l’armistizio di Cassibile, la Wehrmacht che occupa l’Italia.

«Come faccio a dirle che cosa furono per noi quei giorni? Non c’era mai stato tedeschismo nella nostra famiglia. Mio nonno Pietro era un socialista umanitario che sognava l’invasione della Svizzera e aveva chiamato Corso il primo figlio maschio perché voleva la restituzione della Corsica all’Italia. Mia madre era una Falorsi, i suoi antenati ghibellini avevano combattuto contro i guelfi nella battaglia di Montaperti menzionata da Dante, e aveva perso due fratelli di 22 e 20 anni sul Pasubio nella Strafexpedition del 1916. Un terzo era caduto nella riconquista della Libia. Le restava solo Carlo, il quarto, ferito due volte in Grecia, medaglia d’argento al valor militare, comandante della Scuola ufficiali di Ravenna. L’8 settembre ero a letto con la febbre. Udii un frastuono di pentole che proveniva dalla strada. Le donne urlavano: “È finita la guerra”. Il mio babbo mormorò: “Non sanno che cosa comincia”. Lo zio Carlo si ritrovò da solo con un pugno di uomini. Tutti i comandi militari erano fuggiti a Ortona Mare. Uno dei suoi soldati, preso dalla disperazione, mirò al collo dello zio e lo uccise con un solo colpo, poi si mise il calcio del moschetto fra i piedi e si sparò a sua volta. Ho odiato l’Italia e gli italiani da allora».

Capisco.

«Pochi giorni dopo al ponte sul fiume Santerno mi venne incontro una sagoma nera da Film Luce, due uomini, uno in sella alla motocicletta, l’altro seduto nel sidecar. “I tedeschi! I tedeschi!”. Tutti scappavano. Io solo gli andai incontro. Lasciai cadere la mia bici e feci il saluto romano. L’ufficiale balzò a terra e rispose col saluto romano. Uno scambio di cortesie da cancelleria del Reich. Ecco, mi guardi in faccia: mi fa ancora tremare quel momento. Fu la mia prima decisione da uomo. In quell’istante io diventai ciò che sono. Mi ero schierato. “Nach Ficarolo?”. Poveracci, s’erano solo persi, cercavano la strada per Ficarolo».

È ancora fascista?

«Fummo italiani. Eravamo fascisti per obbedienza, o familiare, o nazionale, o dinastica. Perciò non accetto che mi si dia del nazifascista o, peggio, del nazista, come ha osato apostrofarmi Massimo Cacciari. Feci condannare in un’unica udienza Giorgio Bocca ed Eugenio Scalfari davanti al tribunale di Roma per una simile affermazione. Esordii: signor giudice, non ho mai avuto bisogno di affidare il mio onore a un magistrato, so difendermi da solo, ma questa volta debbo ricorrere a lei, perché “nazista” non è più un giudizio politico, bensì un marchio demonizzante per cancellare una persona, per ridurla al nulla, è il peggio che si possa dire».

Ma Cacciari non si vergogna a portare al polso l’orologio che apparteneva al fratello della madre, fucilato dai partigiani?

«Me lo sono sempre chiesto. Cesare Momo era un tenente che aveva aderito alla Repubblica di Salò. Il comunistino sostiene che lo zio fu ammazzato durante la guerra. Falso! Venne trucidato dieci giorni dopo il 25 aprile, a guerra conclusa, senza alcuna motivazione militare. La distinzione fra strage e macello non è mia, è nel Dizionario di Niccolò Tommaseo, 1851: “Macello s’applica agli animali. Se è per uomini, indica strage più fiera, viene da rea volontà... Il macello va fino alla crudeltà, alla barbarie”. Fu macello, perché vennero massacrati con crudeltà i già vinti e senz’armi».

Che cosa servirebbe per porre fine alla guerra civile?

«La fine del popolo italiano. Non è degno di sopravvivere. La sconfitta della dittatura ha portato alla guerra permanente e alla tirannia del denaro che sta facendo morire la civiltà. Io credo che l’Occidente entro 20 anni sarà finito».

Non c’è speranza.

«La Lega è l’unica salvezza. Può spazzare via la classe dirigente tarlata che ci tiriamo appresso da decenni. Io non voto, sia chiaro. Ma ieri sera a Otto e mezzo su La7 era ospite Roberto Cota. Be’, ho visto una persona diversa, ho ascoltato un modo di ragionare nuovo. È stata una frustata. In quell’uomo parlava un’autenticità che non riscontro in nessun altro politico».

Non è mai troppo tardi.

«L’Italia è stata una finzione che la monarchia e il fascismo hanno potuto solo parzialmente migliorare. Mussolini ha trovato i Savoia e se li è tenuti, ha trovato gli Agnelli e se li è tenuti, ha trovato la Chiesa e se l’è tenuta, anzi l’ha fatta padrona d’Italia. Il fascismo è stato una delusione totale».

E che cosa pensa di Gianfranco Fini, presidente del Senato, secondo il quale il fascismo fu invece «il male assoluto»?

«Si può usare il pensiero per Gianfranco Fini? L’ho sempre spregiato. La gente non sa quant’è stupido. Però io mi considero più stupido di lui, perché insieme con l’ammiraglio Gino Birindelli volevo rovesciare Almirante, al quale scrissi che reputavo la sua presenza il massimo infortunio che potesse toccare al popolo disperso dei fascisti dopo Mussolini. Fini è il vero figlio di Almirante».

Perché questa disistima per Almirante?

«Per il modo indegno con cui sfruttava il suo ruolo di quasi martire. Mi espulse dal Msi accusandomi di non credere nella socializzazione. Io me ne sono sempre fregato degli operai. Pensavo che la Repubblica sociale italiana dovesse solo difendere il passato».

Incluse le leggi antisemite promulgate nel 1938?

«No. Quelle furono un orrore. Un’idiozia prim’ancora che un’infamia».

Però il titolo della Stampa le metteva in bocca una frase terribile: «Non voglio sapere se questo è un uomo».

«Ma per carità! Ho il volto di un individuo che può aver detto un’enormità simile? Nemmeno un cane risponde così. Non ho letto il libro di Primo Levi, tutto qui».

Il politicamente corretto non sa che cosa sia. Sugli omosessuali dichiarò al Corriere: «Sconsiglierei il termine gay. La destra dovrebbe chiamarli correttamente froci o checche. Andrebbero spediti in campo di concentramento».

«Quello fu l’agguato di una tal Latella (Maria Latella, attuale direttore di Anna, ndr). Stravolse il mio pensiero. Dissi che li consideravo degli infelici costretti a vivere come nei lager. È ben diverso. Io ho paura solo della nebbia, non certo degli omosessuali. Esecro chi vorrebbe ergerli a modelli di vita e costruire l’assetto sociale di una nazione sull’omosessualità».

Per lei i trapianti d’organo sono «macelleria di Stato».

«I medici si sono inventati una morte che non esiste, quella cerebrale. La morte è una sola, sa?».

Si considera un perfezionista?

«Non in tutto. Solo in ciò che m’interessa. Nell’Opera 111 di Beethoven, per esempio. E nella scrittura».

Allora perché in Dalla parte dei vinti ha scritto d’essere stato querelato dalla vedova di Mariano Rumor? Al massimo poteva essere la sorella.

«L’ho sposato postumo».

Si dichiara ateo e antireligioso, però suonava Bach nelle cattedrali. La musica non l’ha avvicinata a Dio?

«Non sono né ateo né antireligioso. Già la parola ateo mi fa venire l’orticaria perché mi ricorda Voltaire. Non credo nel monoteismo ossessivo delle tre religioni di Palestina, nel tonitruare d’insopportabili profeti, nell’imposizione di volontà malconosciute, nello scatenacciare porte d’inferni. Non sono né pro Dio, né senza Dio, anche se l’unico in cui credo è il dio Caso. Non ho mai detto ai miei tre figli di non andare in chiesa. Da me avrete imparato almeno la libertà, gli ripeto sempre. Non ho il senso della religione. Ma credo che sia necessaria come instrumentum regni per tutelare l’ordine e i buoni costumi, un modo per disciplinare i popoli. Dio ci vuole. Guai se tutti smettessero di credere in Dio, saremmo finiti. Meno male che c’è Dio».

Si sposò a Santa Maria delle Muratelle.

«Se è per quello sono anche molto amato dai giovani di Comunione e liberazione. Una volta il cardinale Alfredo Ottaviani mi disse: “Non credi in Dio, ma credi nella Chiesa, che c’è!”. Poi soggiunse: “Tu Dio non l’hai ancora conosciuto. Ma lo conoscerai. E finirai sugli altari”. Sono ancora qui che aspetto».

Le è mai capitato di chiedere scusa?

«Tutti i giorni. Nasco dalla giustizia, non quella dei tribunali. È l’unica cosa che è contata davvero qualcosa nella mia vita».

Come vorrebbe essere ricordato?

«Come un buon padre. Ma come un buon padre sul serio, non solo la domenica». (Si ferma). «Ma poi non vorrei nemmeno essere ricordato».

Requiem per Buscaroli, italiano contro. Intellettuale eretico, "fascista deluso", visse sempre dalla parte dei vinti. Litigando con tutti, scrive Camillo Langone, Martedì 16/02/2016, su "Il Giornale". Litigava con tutti, Piero Buscaroli, litigava anche con i suoi estimatori e quindi ha litigato anche con me che lo avevo intervistato in modalità venerante siccome lo consideravo, e lo considero tuttora, un maestro. Litigava con tutti perché tutti coloro che lo circondavano avevano la grave colpa di essere italiani. E per lui i suoi connazionali erano quanto di peggio l'Europa avesse mai generato: «Trattandosi di italiani, non ci si possono aspettare esiti veloci in materie come l'onore nazionale e la morale» scrive in Dalla parte dei vinti che è uno dei suoi libri importanti, miracolosamente pubblicato da Mondadori. Dico miracolosamente perché nemmeno con gli editori andava d'accordo, ci mancherebbe, e perché non è facile trovare una grande casa editrice disposta a pubblicare un simile giudizio sulla resistenza: «Senza il 25 Luglio non ci sarebbero stati lo sbarco di Salerno e l'infame catena di assassinii che i coglioni chiamano guerra civile e che fu la guerra inventata e imposta dal partito comunista». Buscaroli ha odiato gli italiani per oltre settant'anni ovvero dall'Otto Settembre quando appena tredicenne vide disfarsi la nazione. Si trovava a Imola dov'era nato nel 1930 e all'età in cui oggi si ascolta Justin Bieber e si pensa al primo tatuaggio vide morire amici e famigliari e vide tradire Mussolini e Mussolini tradire, o comunque amaramente deludere, e decise di mettersi al fianco del padre Corso, latinista cinquantenne che stoicamente accettò la responsabilità del fascio repubblicano cittadino, scelta che dopo la guerra pagò con anni di carcere. Non la chiamo guerra civile perché altrimenti Buscaroli dall'al di là cataloga come coglione anche me, non la chiamo guerra di liberazione perché non si può chiamare liberazione un'invasione, la chiamo anodinamente Seconda guerra mondiale ed era il tempo delle stragi come quella di Arcevia, paese delle Marche in cui i partigiani comunisti «sterminarono una famiglia di anziane ricamatrici, accusate di essersi fatte ricche col loro lavoro, e quindi nemiche del popolo. Una scena rituale, incredibile e assurda, le anziane cucitrici, i parenti e amici condotti in fila per due a uno spiazzo apposta aperto sulla strada statale, e ivi immolati col dolente assenso del nuovo sindaco e la cittadinanza tutta nascosta, all'italiana, dietro le persiane». Fonte del virgolettato è sempre Dalla parte dei vinti ma di libri ne ha scritti tanti, Buscaroli, e non solo di storia. Era un grande musicologo, anzi, siccome mi sovviene che non voleva essere definito tale mi correggo e lo definisco un grande storico della musica riferendomi al suo libro su Bach, al suo libro su Brahms, al suo libro su Mozart e soprattutto al suo libro su Beethoven che confesso di non avere letto sia perché in quel 2004 ascoltavo Jan Garbarek e Giovanni Lindo Ferretti sia perché la mole, 1.358 pagine, ebbe la meglio sulla mia ammirazione. Paolo Isotta ha definito il gran tomo meraviglioso e questo mi basta, meraviglioso lo sarà senz'altro. Buscaroli aveva studiato organo a Bologna e poi aveva insegnato in vari conservatori, Torino, Venezia, Bologna, trovando il tempo di collaborare col Borghese di Leo Longanesi, uno dei pochi personaggi verso il quale non manifestò mai disprezzo (parlava male perfino di Massimo Cacciari e il perfino non è riferito a un'infondabile intoccabilità intellettuale del filosofo veneziano ma al fatto che, incredibile ma vero, Cacciari era suo cugino). Nei primi anni Settanta fu direttore del Roma, quotidiano che a dispetto del nome veniva pubblicato a Napoli, proprietà del molto controverso e molto autoritario Achille Lauro, a riprova che a Buscaroli davvero non piaceva la vita comoda. In seguito fu critico musicale del Giornale ma io ne scoprii l'esistenza sulle pagine del più seminale dei libri sgarbiani, Dell'Italia, in una sezione dedicata a eccentrici ed esteti quindi tra Franco Maria Ricci, la marchesa Casati e Massimo Listri. Me ne invaghii e corsi a leggere tutto Il poco in quel periodo reperibile in libreria. Ricordo Paesaggio con rovine che aveva un'epigrafe da brivido: «Formica solitaria di un formicaio distrutto / dalle rovine d'Europa, ego scriptor». Parole ovviamente di Ezra Pound e identificazione altrettanto ovvia di Buscaroli, solitario scrittore. E poi La vista, l'udito, la memoria, uscito in una collana molto opportunamente intitolata «La torre d'avorio», dove col suo italiano magistrale impartiva lezioni non solo di storia e di musica, anche di arte. Lo riprendo in mano e ci ritrovo la dedica che mi fece nel buen retiro di Monteleone, sulle colline sopra Cesena. Non scrisse 16 luglio 2002, la data ordinaria, bensì 17 luglio 2.755 u.c. Perché, se ancora non lo si è capito, ieri non è morto un moderno italiano, è morto un antico romano, un uomo che con questa Italia (ma ce ne sono altre?) proprio non poteva andare d'accordo.

Buscaroli, Eco, Magli. Ci sono morti e morti…, scrive Piero Visani il 21 febbraio 2016. Piero Buscaroli, Umberto Eco, Ida Magli: è un febbraio decisamente bisestile per la cultura italiana. Sfortunatamente, è anche assai poco equilibrato, perché si passa dall’esaltazione acritica dell’uno alla “damnatio memoriae” dell’altro, al ricordo vagamente infastidito dell’altro ancora. Non è mia intenzione discutere lo spessore culturale di alcuno dei tre illustri estinti, non ne ho neppure le qualifiche. Mi dispiace solo – e questo è tipicamente italiano – che uno (Eco) muoia da “intellettuale organico”, degno di figurare in una nuova “Accademia d’Italia”; gli altri due muoiano da “underdog” del pensiero, cani sciolti che hanno pagato a carissimo prezzo la loro originalità. Questo fa immediatamente cadere ogni discorso di tipo culturale. Qui, purtroppo, c’è solo politica, la politica totalitaria che accetta un certo tipo di manifestazioni di pensiero e ne boccia irrimediabilmente altre. A mio parere, questo è l’esatto contrario della cultura, perché tutte le manifestazioni del pensiero umano, comunque si manifestino, sono degne del massimo rispetto. Eco aveva espresso posizioni molto radicali in politica, salvo poi finire a cantare le lodi della democrazia totalitaria, ma questo non investe e non può investire il livello qualitativo della sua produzione di pensiero. La cosa vale però anche per Piero Buscaroli e Ida Magli, e invece abbiamo un santo e due reietti. Il che equivale a dire che Ezra Pound e Louis-Ferdinand Céline erano due pessimi scrittori perché fascisti. Nasce il sospetto – non infondato – che spesso si diventi intellettuali celebrati perché organici agli assetti politici del proprio tempo. E’ vero, ma non è una patente culturale, anzi.

Umberto Eco e Ida Magli, considerazioni a margine, scrive Martedì 23 Febbraio 2016, Luigi O. Rintallo su Agenzia Radicale. La morte di due personalità quali Umberto Eco e Ida Magli, spinge a compiere qualche riflessione sulla condizione e sul ruolo svolto dagli intellettuali italianinella società di questi anni. Almeno tre sono gli aspetti da considerare. Il primo concerne la questione dell’autonomia di giudizio e dei modi di espressione della propria militanza politica. Gran parte dell’attività di Umberto Eco si è svolta nell’ambito accademico: autore di saggi che hanno divulgato la semiotica, disciplina prima poco meno che ignota in Italia, egli ha saputo togliere alla figura del professore universitario quella patina di polverosa solennità, contaminando un sapere vasto con la produzione dell’universo mediatico. In questa sua produzione, ha dimostrato acutezza di analisi, spesso anti-conformista, aprendo strade inesplorate e rifornendo allievi e lettori degli strumenti per elaborare un pensiero critico. Detto questo, colpisce come una persona dotata di tutte le capacità intellettuali per esprimere giudizi ponderati, nel descrivere società e politica abbia preferito abbagliare i lettori con fasci di luce monodirezionali che oscuravano il resto e quindi ne falsificavano la percezione complessiva. La cosa può spiegarsi soltanto riferendosi al vincolo esercitato dall’appartenenza, dall’attitudine a schierarsi ereditata dal modello dell’intellettuale organico. L’aver condiviso, con il polo Espresso-Repubblica che ne ospitava gli articoli, la divisione manichea per cui gli avversari sono raffigurati quasi come dei sub-umani, fa calare su Eco il velo di un dubbio irrisolto. A sollevarlo, quel velo, scopriamo quanto pesi il condizionamento dei referenti editoriali, specialmente quando si costituiscono come soggetto politico a tutti gli effetti senza passare per il filtro della normale dialettica democratica. Di ciò si ha un riscontro anche per quel che riguarda Ida Magli. Anche nel suo caso, siamo di fronte a un’autrice che nei suoi studi ha svelato i temi dell’antropologia culturale, scavando in profondità le ragioni della diversità uomo/donna e dando un contributo teorico essenziale al femminismo italiano. Firma prestigiosa de «la Repubblica» negli anni ’70-80, non esitò ad abbandonare quella favorevole tribuna quando la deriva politically correct spinse il giornale a respingere i suoi articoli, che si contraddistinguevano per le posizioni non conformi. Nella logica di contrapposizione manichea, bastò questo fatto per catalogarla automaticamente dall’altra parte della barricata, prescindendo dalla storia di una vita intera: l’ennesima dimostrazione di quali frutti malati abbia prodotto l’avvelenamento dei pozzi della cultura liberale nel nostro Paese. Proprio la denutrizione liberale e, con essa, l’assoluta sordità del mondo intellettuale rispetto a una dimensione individualista e libertaria del vivere sociale, rappresenta il secondo aspetto che va evidenziato. La cultura italiana contiene in sé questa sorta di “buco nero”, per cui è ben difficile scardinare i riferimenti che rimandano da un lato all’egemonia di stampo gramsciano e, dall’altro, ai retaggi del cattolicesimo. Umberto Eco si può dire che ne costituisce la sintesi eccelsa: ex dell’Azione cattolica, approdato nella sinistra prima extra-parlamentare e poi tardo azionista, non è stato mai portatore di un pensiero che fosse per lo meno sfiorato da una visione lontanamente assimilabile a quella del libertarismo. Da parte sua, Ida Magli che pure promosse una consapevolezza nuova delle tematiche di liberazione della donna, ha quindi assunto posizioni anti-europeiste all’insegna di una rivalutazione della dimensione nazionale che mal si concilia con la volontà di riaffermare i diritti della persona universalmente. È pur vero che Ida Magli negli ultimi anni si è battuta per sostenere le parti dei cittadini contro il prevalere delle burocrazie, ma certo è ben difficile che tale difesa possa esercitarsi dentro i confini di un solo Paese. Ultima considerazione riguarda l’assenza, presso gli intellettuali italiani, di una produzione teoretica in proprio. Dai tempi di Croce, non pare si siano più profilati pensatori in grado di dare un’interpretazione complessiva del reale. Abbiamo avuto divulgatori, compilatori e polemisti – come appunto Umberto Eco e Ida Magli – ma finora è mancata la capacità di impegnarsi in una progettualità di ampio respiro.

Ida Magli o la fallocrazia spiegata alle femministe, scrive Sebastiano Caputo il 22 febbraio 2016 su "Il Giornale". Dopo Costanzo Preve si spegne un’altra voce fuori dal coro. Ida Magli è morta nella sua casa a Roma, all’età di 91 anni. Ad annunciarlo è stato Giordano Bruno Guerri, vicino alla famiglia, che con lei scrisse anche un libro intervista nel 1996Per una rivoluzione italiana. Molti ora la ricordano per quel trittico anti-globalista (La dittatura europea, Dopo l’Occidente e Difendere gli italiani) che con largo anticipo pose le basi moderne del primato politico sull’economico. Ma la Magli era innanzitutto un’antropologa laureata in filosofia con specializzazione in psicologia medica sperimentale alla Sapienza dove ha insegnato fino al 1988. Studiava l’uomo anche se si è sempre impegnata nella difesa delle donne. Il suo libro più affascinante e meno commerciale risulta infatti La sessualità maschile (Baldini&Castoldi) in cui affrontò il tema centrale del potere confutando le banali teorie femministe che hanno sempre parlato di una società maschilista, senza però spiegarne le origini. “Per capire la nostra cultura dovevo capire i maschi, visto che sono stati loro a costruirla. Questa la strada che ho percorso a ritroso. E alla sommità della risalita ho trovato il pene” scrive. In un breve manoscritto Ida Magli si avventura in una tesi scontata quanto illuminante: al principio della nostra civiltà c’è l’organo sessuale maschile. Così il “fallo” dell’uomo viene analizzato non solo come forza simbolica, ma come organo biologico. Il pene, osserva Ida Magli, si erige, si distanzia in certo senso dal corpo e per giunta proietta la sua essenza all’esterno, amplificando la volontà di potenza dell’uomo. Così l’erezione diventa sinonimo di conquista e il getto dello sperma, uno strumento di dominazione. “Fallocrazia” a parte, il sesso femminile era stato già studiato un secolo prima dal giovane scrittore austriaco Otto Weininger che in Sesso e Carattere distingueva l’uomo dalla donna per la sua genialità (intesa come capacità d’inventare e creare). Sul piano biologico “la vagina riduce il sesso femminile alla riproduzione”, che si traduce su quello simbolico all’imitazione. Questa tesi non vuol essere misogina, bensì una constatazione storicamente verificata (Weininger lo riscontra nella musica, nella pittura, nella scrittura, nella filosofia, nella scienza, nella politica), che tuttavia può essere confutata con delle ovvie eccezioni (Caterina di Russia, Rosa Luxembourg, Evita Peron, Simone Weil, Margherita Hack, solo per citarne alcune). Eppure l’ideologia femminista ha voluto rendere questa eccezione, sinonimo di naturalezza, in una regola inscatolata: le quote rosa. Un’emancipazione in realtà solo apparente nella “grande dittatura finanziaria”. L’antropologa Ida Magli ci ha insegnato che le decisioni politiche si prendono in altre sfere di potere perché i Parlamenti non contano più nulla. Bene, vi siete mai chiesti quante donne lavorano tra la City londinese e Wall Street? Poche, forse nessuna. Tutti quei “burocrati, banchieri e faccendieri” che lavorano dietro le quinte sono uomini e hanno il pene.

Hanno ucciso mediaticamente Ida Magli. Non riceverà, Ida Magli, gli onori mediatici che ha ricevuto Umberto Eco per la sua scomparsa, scrive Luigi Mascheroni, Martedì 23/02/2016, su "Il Giornale". Chissà come avrebbe commentato i giornali del giorno dopo, se avesse potuto leggerli. Da antropologa di lungo corso e da intellettuale avvezza ai peggiori difetti del culturame, ne avrebbe fatto un interessante caso di studio di quella particolare distorsione del pensiero e della morale che va sotto il nome di razzismo antropologico. Come definire altrimenti la reazione della stampa italiana - silenzio o giudizi di parte - alla morte di Ida Magli? L'Unità e il Fatto Quotidiano: neppure una riga. La Stampa: una breve di sei righe, in cui si sbaglia anche il titolo dell'ultimo libro (Figli dell'uomo. Duemila anni di mito dell'infanzia, Bur), dicendo che uscirà nei prossimi mesi quando invece è in libreria da novembre. Corriere della sera: un fogliettone in cronaca, che gli nega la dignità della sezione Cultura, in cui si dice che «forse ne ha sparata qualcuna un po' grossa» (ma colei che firma il pezzo è una femminista fuori tempo massimo incarognita con chi, come la Magli, di fronte alle violenze imposte alle donne dagli islamici si chiese giustamente «ma come, abbiamo appena incominciato a emanciparci dai nostri veli, dalle nostre velette e ammettiamo che si torni indietro di secoli?»). E la Repubblica - che pure pubblica un bel pezzo di Marino Niola - incentra il ricordo sulla Magli femminista e di sinistra lasciando solo poche righe alla Magli degli anni Novanta-Duemila, quella che per prima prese dure posizioni contro il mondo musulmano e l'Unione europea. Ecco il punto: perché separare un «prima» e un «dopo» (come ha fatto la migliore intellighenzia su Twitter) e non considerare l'intellettuale come unico, con tutte le sue sfumature? E perché (come si sono sfogati in tanti sui social) ricordarla per la sua militanza femminista e poi consegnare le legittime critiche all'islam a una «deriva xenofoba»? È la formula standard del pensiero corretto: chi si azzarda a denunciare il substrato antidemocratico del mondo islamico o manifesta paura per i flussi migratori ormai completamente fuori controllo, è immediatamente tacciato di islamofobia, o ignoranza, o razzismo. Per i politicamente scorretti non c'è posto. Come non c'è stato posto (ancora meno rispetto Ida Magli) per Piero Buscaroli, uno che ha vissuto dalla parte dei vinti tutta la vita, fin da quando aderì, da ragazzo, alla Rsi: non sono bastati libri magistrali di musicologia e una carriera giornalista straordinaria per una «redenzione» agli occhi dei benpensanti. E così, morto settimana scorsa, è stato ignorato da tutti. Uccidere mediaticamente un irregolare del pensiero, o anche due, non è reato.

Umberto Eco e gli Intellettuali partigiani. Morto lo scrittore Umberto Eco. Il semiologo, filosofo e scrittore noto al grande pubblico per "Il nome della rosa" si è spento ieri sera: aveva 84 anni, scrive Chiara Sarra, Sabato 20/02/2016, su "Il Giornale". È morto ieri sera a 84 anni Umberto Eco, semiologo, filosofo e scrittore, noto al grande pubblico soprattutto per i romanzi Il nome della rosa (1980) e Il pendolo di Foucault (1988). Nato ad Alessandria il 5 gennaio del 1932, nel 1988 aveva fondato il Dipartimento della Comunicazione dell'Università di San Marino e dal 2008 era professore emerito e presidente della Scuola Superiore di Studi Umanistici dell'Università di Bologna e dal 2010 socio dell'Accademia dei Lincei. Eco è autore di molti romanzi di successo, ma anche di saggi di semiotica, linguistica e filosofia. L'ultimo libro, Numero Zero è stato pubblicato nel 2015: ambientato nel 1992, racconta di una redazione di un giornale, ripercorrendo con questo stratagemma narrativo tutte le tappe importanti della storia d'Italia da Tangentopoli a Gladio, passando per P2 e terrorismo rosso. Da ieri sera il ricordo dello scrittore si rincorre sui social, che nonostante la tarda ora in cui è giunta notizia della sua morte, celebrano il grande intellettuale. Sintetico il comunicato di Bompiani: "lutto per la cultura, ci lascia Umberto Eco: Siamo addolorati". Giovanna Melandri aggiunge "Che tristezza la notizia della morte di Umberto Eco. Un grandissimo intellettuale e scrittore, una persona unica e speciale. Mancherà tanto". Anche la cantante Noemi affida le sue sensazioni ai social scrivendo: "Una parte della nostra cultura e letteratura. Ora tocca a noi. Saremo capaci di raccontarci così bene agli Italiani di domani?". "È mancato un grande italiano", nota Ivan Scalfarotto. Ma quello che salta più agli occhi è la quantità di messaggi lasciata da gente qualunque, lettori e studenti formatisi sui suoi libri, che ricordano Eco postando alcune citazioni. La più ricordata è quella che forse meglio rappresenta il motivo per cui uno scrittore non certo facile sia oggi ricordato come una rockstar: "Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5000 anni". Profondo cordoglio anche da Matteo Renzi: "Esempio straordinario di intellettuale europeo, univa una intelligenza unica del passato a una inesauribile capacità di anticipare il futuro", sottolinea Renzi, "Una perdita enorme per la cultura, cui mancherà la sua scrittura e voce, il suo pensiero acuto e vivo, la sua umanità", conclude il presidente del consiglio.

Eco, dalla tv ai romanzi fino alle 40 lauree, continua Chiara Sarra. Con la morte di Umberto Eco il mondo della cultura, anche internazionale, perde una delle figure di maggiore importanza. Filosofo e semiologo, fine cultore del Medioevo, padre della semiotica interpretativa, ma anche saggista e professore emerito dell’Università di Bologna. Eco iniziò a interessarsi all’influenza dei mass media nella cultura di massa a partire dalla fine degli anni ’50. Nel 1988 fondò il Dipartimento della Comunicazione dell’Università di San Marino. Dal 2008 era professore emerito e presidente della Scuola Superiore di Studi Umanistici dell’Università di Bologna. Dal 12 novembre 2010 Umberto Eco diventa socio dell’Accademia dei Lincei, per la classe di Scienze Morali, Storiche e Filosofiche. Figlio di un negoziante, Eco conseguì la maturità al liceo classico "Giovanni Plana" di Alessandria, sua città natale. In gioventù fu impegnato nella Giac (l’allora ramo giovanile dell’Azione Cattolica) e nei primi anni cinquanta fu chiamato tra i responsabili nazionali del movimento studentesco dell’Ac. Nel 1954 abbandonò l’incarico in polemica con Luigi Gedda. Si Laurea in filosofia nel 1954 all’Università di Torino con Luigi Pareyson con una tesi sull’estetica di San Tommaso d’Aquino iniziò a interessarsi di filosofia e cultura medievale, campo d’indagine mai più abbandonato, anche se successivamente e per lunghi anni si dedicò allo studio semiotico della cultura popolare contemporanea e all’indagine critica sullo sperimentalismo letterario e artistico. Nel 1956 pubblicò il suo primo libro, un’estensione della sua tesi di laurea dal titolo Il problema estetico in San Tommaso. Ma è lunga e molto importante la lista dei suoi lavori. Tra i maggiori: nel 1963 pubblica un libro che è diventato nel tempo un classico Diario minimo (Mondadori), volume che raccoglie saggi come Fenomenologia di Mike Bongiorno e Elogio di Franti. E ancora, Apocalittici e integrati (Bompiani) del 1964, altro classico La struttura assente (Bompiani, 1968). Ma la celebrità a livello mondiale arriverà nel 1980 con Il nome della rosa. Un romanzo che farà riscoprire all’Italia e poi al mondo intero, attraverso la formula del giallo, dell’intrigo, del mistero, il meraviglioso mondo medievale. Con Il nome della rosa Eco vincerà il Premio Strega nel 1981 e numerosi riconoscimenti a livello internazionale. Ma al di là dei premi Il nome della rosa ha rappresentato il desiderio di Eco di dare pari dignità a tutte le forme culturali. Dopo Il nome della rosa, sono arrivati Il pendolo di Foucault (1981), L’isola del giorno prima (1994), Baudolino (2000). Fino al più recente Numero zero. Nella sua lunga carriera, nel 1954 vince un concorso della Rai per l’assunzione di telecronisti e nuovi funzionari. Con Eco vi entrarono anche Furio Colombo e Gianni Vattimo. Dal 1959 al 1975 fu condirettore editoriale della casa editrice Bompiani. Nel 1962 pubblicò il saggio Opera aperta che ebbe notevole risonanza a livello internazionale e diede le basi teoriche al Gruppo 63, movimento d’avanguardia letterario e artistico italiano. Nel 1961 iniziò anche la sua carriera universitaria che lo portò a tenere corsi, in qualità di professore incaricato, in diverse università italiane: Torino, Milano, Firenze, infine, Bologna dove ha ottenuto la cattedra di Semiotica nel 1975, diventando professore ordinario. All’università di Bologna è stato direttore dell’Istituto di Comunicazione e spettacolo del Dams, poi ha dato inizio al Corso di Laurea in Scienze della comunicazione. Infine è divenuto Presidente della Scuola Superiore di Scienze Umanistiche che coordina l’attività dei dottorati bolognesi del settore umanistico. Nel corso degli anni ha insegnato anche in varie università straniere tra cui UC-San Diego, New York University, Columbia University, Yale, College de France, Ecole Normale Superieure. Nell’ottobre 2007 si è ritirato dall’insegnamento per limiti di età. In tutta la sua lunga carriera Eco ha ricevuto 40 lauree honoris causa da università europee e americane.

È morto Umberto Eco. Filosofo, semiologo e romanziere, aveva 84 anni. Da "Il nome della Rosa" a "Numero Zero", nei suoi libri lo spirito del tempo, scrive il 20 febbraio 2016 Panorama. Umberto Eco scrittore, filosofo e semiologo, aveva 84 anni. La notizia della sua morte è stata data dalla famiglia a Repubblica. Il decesso è avvenuto alle 22:30 di ieri nell'abitazione dello scrittore. Eco era nato ad Alessandria il 5 gennaio del 1932. Tra i suoi maggiori successi letterari Il nome della rosa del 1980 e Il pendolo di Foucault (1988). Il suo ultimo libro, Anno zero, è stato pubblicato lo scorso anno da Bompiani. Nel 1962 Eco pubblica Opera aperta, analisi di testi letterari in termini strutturalisti a partire da Ulisse di Joyce, che fa discutere e diviene uno dei manifesti della neoavanguardia riunita l'anno dopo nel Gruppo '63. Nel 1980 esce invece il romanzo storico medioevale Il nome della rosa, che suscita consensi internazionali, best seller da oltre 12 milioni di copie. Si svolge tra queste due tappe, meno lontane e diverse di quanto possa apparire, il lavoro di Eco, che aveva festeggiato il 5 gennaio scorso gli 84 anni. Da osservatore ironico e semiologo avvertito oltre che creativo, ha dimostrato in ogni occasione di saper cogliere lo spirito del tempo. Il suo Lector in fabula, saggio del 1979 (non a caso periodo in cui stava scrivendo proprio Il nome della rosa), è appunto il lettore che in un testo, in particolare se creativo, letterario, arriva a far interagire col mondo e le intenzioni dell'autore, il proprio mondo di riferimenti, le proprie associazioni, che possono creare una lettura nuova: ''generare un testo significa attuare una strategia di cui fan parte le previsioni delle mosse altrui''. Un'"opera aperta" è proprio quella che più riesce a produrre interpretazioni molteplici, adattandosi al mutare dei tempi e trovando agganci con scienze e discipline diverse. Una tesi che apparve dirompente in un paese legato alle sue tradizionali categorie estetiche, diviso tra crocianesimo e marxismo storicista. E il discorso di Eco non riguarda, ovviamente solo la forma, la struttura di un'opera, come intesero molti autori di quegli anni, tanto che poco dopo dette alle stampe La struttura assente, che spostava il discorso sulla ricerca semiologica e le sue interazioni. Così, forse, il tentativo più esemplare nel mettere in pratica le sue teorie, è nel 2004 La misteriosa fiamma della regina Loana, romanzo illustrato con foto di libri e riviste, manifesti, tavole di fumetti, che fanno parte del racconto e contribuiscono a far rivivere l'atmosfera dell'epoca (da fine anni '30 alla guerra) a ogni lettore anche con i propri ricordi. Insomma, anche un romanzo di un personaggio e studioso di questo tipo, attento alla cultura di massa e già autore di paradossali e ironiche pagine su aspetti minori della realtà raccolte in Diario minimo negli anni '60, nasce entro questo spettro di riferimenti con una sapienza, non solo costruttiva e intellettuale. E il successo internazionale, col Nome della rosa, di un saggista raffinato, di uno studioso che aveva debuttato laureandosi sui problemi estetici in San Tommaso, finì per suscitare più polemiche delle sue innovative teorie saggistiche. Se in tanti parlano di ''libro geniale e assai notevole'' come sintetizzava Maria Corti, ecco che per Geno Pampaloni c'era ''difetto di genio letterario'', Francesco Alberoni lo definiva ''libro privo di emozioni'' che deve la sua fortuna all'essere divenuto un feticcio di cultura, mentre Stefano Benni ha ''chiuso a pagina trenta, assalito dalla noia''. Poi verranno gli altri romanzi, altri best seller che ne consolidano la fama e stemperano le astiosità: Il pendolo di Foucault nel 1988, L'isola del giorno prima 1994 e Baudolino 2001, La misteriosa fiamma della regina Loana 2004 e l'anno scorso Il cimitero di Praga. Ancora una volta, attraverso la storia nel XIX secolo del tragico e graduale prosperare di quella falsificazione nota come I protocolli dei Savi di Sion, che ispirerà anche Hitler, un romanzo di ampio intreccio, ricco di erudizione divulgata con eleganza e in quella misura che impegna il lettore comune, ma non troppo, introducendolo con sapienza narrativa in una coinvolgente realtà di idee e storica. Fino all'ultimo romanzo sul mondo dei giornalisti e dell'editoria, Numero Zero, uscito l'anno scorso.

Caro Umberto, ci hai lasciato orfani. Era il maestro assoluto nell'arte di vivere la contraddizione, aveva una rara capacità di conciliare in un modo che sembrava armonioso, antinomie in apparenza inconciliabili. Un intellettuale vero, che difficilmente distingue tra il proprio privato e il pubblico. Ecco perché il potere lo temeva. Ecco perché lo rimpiangeremo, scrive Wlodek Goldkorn il 20 febbraio 2016 su "L'Espresso". Chiunque abbia conosciuto Umberto Eco nel cuore suo, oltre a volergli bene, lo temeva. Ed era bello temerlo. Infatti, Eco, nato il 5 gennaio 1932 ad Alessandria e scomparso la sera del 19 febbraio a Milano, è stato prima di tutto un grandissimo intellettuale, ossia l'uomo che dall'alto del suo sapere e della sua esperienza di vita, giudica e si schiera. Un intellettuale vero, ed Eco era uno degli ultimi al mondo ad appartenere a questa categoria, difficilmente distingue tra il proprio privato e il pubblico. Ecco perché lo temeva non solo il potere, ma anche la cerchia dei suoi conoscenti e amici. In realtà, però, Umberto era un uomo mite. Un po' perché sapeva quanto la rabbia fosse faticosa e inutile, ma prima di tutto perché la sua mitezza era il risultato di una profonda riflessione. Detto brutalmente (e con ammirazione), era il maestro assoluto nell'arte di vivere la contraddizione, aveva una rara capacità di conciliare in un modo che sembrava armonioso, le antinomie in apparenza inconciliabili. Era un accademico (senza di lui niente semiologia) e al contempo autore di testi giornalistici, anzi l'uomo che dentro il mondo dei media sapeva muoversi come se tutta la sua vita professionale si fosse svolta nell'ambito del giornalismo. E basti pensare al suo impegno con L'Espresso, alla Bustina di Minerva. Infatti, qui all'Espresso l'abbiamo sempre temuto. Ma l'abbiamo anche pensato come a uno di noi, però un po' migliore, e più colto di tutti noi messi insieme. Come si diceva, Eco era un grande accademico, ma anche l'uomo che spiegò, fu tra i primi a farlo, quanto la cultura popolare, il fumetto in fattispecie, siano spesso anche dei testi dai forti risvolti filosofici (Charles Schulz, il papà dei Peanuts, per il Nostro era un maestro dell'etica). E ancora, con “Il Nome della Rosa” il semiologo si era trasformato in un romanziere: non un semplice scrittore, ma un autore di bestseller (tradotto in quaranta lingue, 30 milioni di copie vendute). Però, si trattava di un bestseller che non assomigliava a tanto ciarpame che va di moda. “Il nome della Rosa”, contiene considerazioni filosofiche che riportano a Tommaso d'Aquino, Aristotele, Guglielmo d'Ockham; tocca la disputa teologica sulla povertà nella Chiesa (e papa Francesco sembra talvolta uscito dalle pagine di quel libro) e ha una struttura stratificata, che si presta a mille letture e infinite interpretazioni. Affascinato dalla molteplicità dei codici e dei significati, Eco ha dedicato molto tempo ed energie allo studio delle varie teorie di cospirazione; quel modo di interpretare il mondo semplificandolo, dandone una versione che possa spiegare in apparenza tutto, ma che riduce il tutto a una narrazione nichilistica e senza speranza, mentre lui cercava invece il desiderio che poi è fondamento di ogni immaginazione e quindi dell'avvenire (cosa è il futuro se non il frutto della nostra immaginazione?). Per capire quell'universo oscuro e pieno di falsità ha scritto “Il cimitero di Praga”, un romanzo in cui risale alle origini dei “Protocolli dei savi saggi del Sion”, dandone una paternità diversa da quella convenzionalmente accreditata. Ma soprattutto, in questo romanzo spiega come tutte le teorie di cospirazione muovano dalla stessa matrice. Declinata poi secondo codici diversi. Eco era una persona che ci ha insegnato la cosa più difficile da comprendere e accettare: che ogni opera crea un linguaggio nuovo, quindi ogni linguaggio porta con se infinite possibilità di interpretazione. Un intellettuale quindi che ha anticipato il postmodernismo? Sì. Ma poi, al contrario di quanto sopra, Eco era un intellettuale moderno; uno che sapeva quanto abbiamo bisogno, ancora, di categorie, gerarchie, ordine, sapere generale e non solo parziale e frammentario, quanto la conoscenza delle nozioni, dei dati e delle date, della storia e della geografia, fossero importanti. O, se vogliamo, ci ha insegnato che per sovvertire il linguaggio (strumento di potere) bisognava prima di tutto padroneggiare il linguaggio. Sì, per lui padroneggiare era importante. Lo dimostra la sua ultima, estrema impresa: La nave di Teseo, una casa editrice nuova. Oltre la contingenza (la nascita di Mondazzoli) dopo essere stato autore di libri e delle parole, Eco voleva esserne anche il padrone. Nel migliore senso della parola: uno che si gioca il tutto per tutto. Ora la Nave di Teseo sta per salpare. Senza di lui, ma con i suoi libri. Nell'epoca della frammentazione del sapere e della infinita riproduzione delle fonti, Umberto Eco è stato uno degli ultimi intellettuali veri, un uomo che cercava di abbracciare la totalità del sapere. Ci lascia orfani.

Casa Pound contro Eco: "Voleva rieducare gli elettori di destra". Simone Di Stefano, vicepresidente di Casa Pound, pubblica su Facebook un epitaffio polemico nei confronti del noto scrittore deceduto ieri, scrive Francesco Curridori, Sabato 20/02/2016, su "Il Giornale". "È morto uno che firmava appelli alla lotta armata per il comunismo, uno che affermava tranquillamente l'inferiorità culturale degli elettori di destra proponendo una loro "rieducazione"...Stile gulag sovietici per intenderci. Ciao Umberto, prova a fare lo spocchioso con Caronte stanotte". È l'epitaffio postato su Facebook che Simone Di Stefano, vicepresidente di Casa Pound, dedica all'intellettuale Umberto Eco scomparso ieri notte a 84 anni. Al militante che gli fa notare che Ecco fosse comunque un valido scrittore, Di Stefano risponde a muso duro: "Tu per lui eri feccia. Comunque Il giudizio 'artistico' è soggettivo, l'arte non conosce colore politico. Però di fronte alla apologia che lo dipinge come una specie di santo è giusto che si sappia cosa pensava veramente".

Umberto Eco spara a zero: "Internet è la patria degli scemi del villaggio". Lo scrittore massacra i social e tutti quelli che li frequentano. Un'uscita infelice che ci affibbia il titolo di "scemi del villaggio", scrive Sonia Bedeschi, Giovedì 11/06/2015, su "Il Giornale". Un tempo quelli che venivano definiti gli "scemi del villaggio" erano personaggi strani, con difetti in evidenza, stravaganti e anche un po' tonti. Ma si sa, i tempi cambiano, le tecnologie fanno il loro corso e dalla carta stampata dal profumo inconfondibile si è lentamente passati al web: internet e i suoi social. Una novità, uno progresso che fa tremare il noto professore Umberto Eco, tanto da consentirgli di entrare a gamba tesa sulla reale funzione di internet, dei social, e dell'uso che ne fanno gli "scemi" che navigano e frequentano. Questa volta Umberto Eco ci va giù pesante, la sua è una provocazione perché in altre occasioni, pur con grande e ironica severità, il professore aveva criticato la rete ma insieme ne aveva esaltato le potenzialità. Infatti aveva dichiarato "Oltre a custodire la memoria storica, gli strumenti multimediali possono essere dei dispositivi per rinforzare la capacità di ricordare". E fin qua tutto bene. Gli anni passano e ora Eco si trova ad avere la bellezza di 83 anni, e il suo pensiero, su internet e social e' decisamente cambiato, in peggio. "I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Di solito venivano subito messi a tacere, ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel". Insomma l'avvento del web e naturalmente chi ci lavora dentro, stando alle sue parole, rappresenterebbero una vera e propria minaccia per l'umanità, addirittura un danno e magari irreparabile. Eppure ricordiamo al sempre noto professore, che ha ricevuto la laurea honoris causa in “Comunicazione e Cultura dei media” all’Università di Torino, che dietro al "pericolosissimo" internet esistono persone serie, professionali, che lavorano, che si fanno quotidianamente "un mazzo così". E ora non ci venga a dire che con queste sue sparate non voleva certo generalizzare. Perché dopo queste sue dichiarazioni, ammettetelo, ci sentiamo un po' tutti "scemi del villaggio", perché la consultazione di internet e l'interazione attraverso i social occupano buona parte della nostra giornata. Senza fare troppi danni, anzi in molti casi, quelli che lavorano o passano il tempo sul web, sfornano informazione, e spesso e volentieri attendibile. Continua Eco "Il dramma di Internet è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità", ha osservato invitando i giornali "a filtrare con équipe di specialisti le informazioni di internet perché nessuno è in grado di capire oggi se un sito sia attendibile o meno". Insomma ci sentiamo, credo, un po' tutti offesi da queste raccomandazioni che suonano come una iniezione di terrore, sospetto e sfiducia. Diciamo allora che ognuno dovrebbe fare il proprio mestiere, dovrebbe stare al passo coi tempi se possibile, dovrebbe accettare l'evoluzione naturale della tecnologia e delle persone. Nessuno di noi naviganti si sente scemo, semplicemente al passo coi tempi. Poi sta a ognuno di noi attivare il buon senso e fare un uso corretto della tecnologia.

Eco, un intellettuale sempre organico (ma solo a se stesso), scrive Vittorio Feltri, Domenica 21/02/2016, su "Il Giornale". La livella arriva per tutti e non ha risparmiato neppure Umberto Eco, morto in casa propria a 84 anni, dopo aver inanellato una serie impressionante di successi editoriali che lo hanno reso famoso nel mondo. Il suo romanzone Il nome della rosa è stato tradotto in un centinaio di lingue e ha venduto 12 milioni (14 secondo qualcuno) di copie, quante ne bastano per arricchire un autore. Se si aggiunge la diffusione notevole di altre sue opere, ad esempio Il pendolo di Foucault, si arriva a una montagna di volumi. Non vogliamo fare i conti in tasca a Eco, ma solo ricordare che egli è stato un intellettuale importante per la cultura italiana del dopoguerra. Non piaceva a chiunque lo avesse letto, ma ciò è normale. Come sempre, anche nel suo caso era ed è la politica a dividere il pubblico tra estimatori e detrattori. Le mode culturali contribuiscono in modo decisivo ad innalzare un uomo ai vertici della considerazione popolare o a farlo sprofondare negli abissi del disprezzo. Umberto è stato bravissimo nella scelta di campo utile a portarlo sull'Olimpo. Pur essendo stato cattolico all'inizio della carriera, non ha esitato a diventare miscredente e a schierarsi a sinistra in tempi in cui i cristiani erano democristiani, cioè gentucola conformista, mentre i laici erano comunisti e quindi degni della massima stima. Non affermiamo che Umberto sia saltato da una sponda all'altra per opportunismo. Probabilmente si è limitato a seguire la propria indole di uomo del giorno. Ma il sospetto rimane, visto che il passaggio da qui a là gli ha giovato parecchio in termini di consenso e di incasso. I laici progressisti negli ultimi 60 anni hanno goduto di grandi agevolazioni: porte aperte, buona stampa, elogi sperticati della corporazione dei cosiddetti intelligenti. Giuseppe Berto, grande scrittore che negli anni Sessanta vinse per sbaglio il Campiello con il Male oscuro, romanzo contro la psicoanalisi, fu dimenticato (e schifato) in fretta, perché genericamente di destra, ossia ostile alle ideologie correnti e di maggior presa nel periodo in cui i suoi libri erano in commercio. Quando tirò prematuramente le cuoia non fu celebrato adeguatamente. Lo stesso dicasi per Giuseppe Prezzolini, snobbato poiché conservatore dichiarato. Vabbè, niente di nuovo né di sensazionale. Eco, a differenza di costoro, condannati al silenzio e all'oblio, seppe inserirsi nel filone giusto riuscendo a suscitare l'attenzione e l'approvazione nei contemporanei affascinati dall'eurocomunismo inventato da Luigi Berlinguer, una teoria fantasiosa eppure in grado di sedurre circa la metà della beota popolazione italiana. Fu bravo a intuire la strada da percorrere per giungere in vetta al gradimento dei cittadini sedicenti illuminati. Ciò non toglie alcun merito allo scrittore alessandrino, anzi accresce la misura della sua abilità di intellettuale (quasi) organico. Umberto non è mai stato contestato da nessuno che avesse i titoli per farlo. Lui stesso a un certo punto confessò che Il nome della rosa, nonostante il boom delle vendite (qualcosa di straordinario) era il suo peggior romanzo. Non saprei dire se avesse ragione o torto; sta di fatto che questo era il suo pensiero, almeno quello manifestato con stupefacente franchezza (a cui sarei portato a non credere). Eco, coerentemente con le posizioni acquisite negli anni della maturità, ha collaborato con l'Espresso e la Repubblica, sui quali ha scritto articoli memorabili, che hanno immancabilmente fatto scalpore. Egli assurse ancor giovane (relativamente) al ruolo di maître à penser, ascoltato e lodato dai compagni di ogni risma. Bisogna dargli atto che non è mai stato banale nelle sue osservazioni. Filosofo, semiologo, linguista e professore universitario, egli fu protagonista di un episodio storico. Dopo aver collaborato assiduamente con Lascia o raddoppia?, il primo programma televisivo della Rai d'antan, Umberto scrisse un saggio clamoroso in cui faceva a pezzi il conduttore della trasmissione: Mike Bongiorno. Un'impennata che rivelava appieno la personalità dello scrittore scomparso, uno che faceva e disfaceva con sorridente e irridente disinvoltura. Ebbi anch'io con lui un garbato scontro. Io sostenni che la destra si era impoverita perché tutti gli intellettuali destrorsi, dal 25 aprile 1945 in poi, si erano trasferiti armi e bagagli nella sinistra, cambiando bandiera senza battere ciglio. Era la verità. Ma Eco mi rispose che i voltagabbana non erano tali in quanto non fascisti, bensì esponenti della destra storica. E avevano semplicemente mutato idea. La sua mi parve una stupidaggine. Ma lui era lui e io ero io. Una replica alla marchese del Grillo. Niente di serio. Vittorio Feltri.

Eco fu il migliore della sinistra che si crede sempre migliore. Incarnò alla perfezione la presunta superiorità antropologica dei progressisti sugli "altri". Rinunciò a capire gli italiani che sognavano una destra liberale preferendo attaccare il mondo berlusconiano, scrive Alessandro Gnocchi, Domenica 21/02/2016, su “Il Giornale”. Nel 2005 Luca Ricolfi scrisse il saggio Perché siamo antipatici. La sinistra e il complesso dei migliori (Longanesi). Il sociologo analizzava la reazione degli intellettuali, più o meno militanti a seconda dei casi, di fronte all'avanzata del berlusconismo. Già nel 1994, dopo la clamorosa sconfitta della gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto, si faceva strada la teoria delle due Italie. Una virtuosa, minoritaria e di sinistra. L'altra avida, corrotta, meschina, maggioritaria e di destra. Una colta, amante della lettura. L'altra ignorante, schiava delle televisioni. Tra i molti esempi di questa mentalità, sorda e cieca innanzi al Paese, felice di crogiolarsi nel pregiudizio, Ricolfi citava anche il professore Umberto Eco. In effetti Eco, nel 2001, su Repubblica aveva teorizzato «al meglio» la superiorità antropologica della sinistra, e diviso i cittadini di destra in due categorie. La prima. L'Elettorato Motivato è composto dal «leghista delirante», dall'«ex fascista», e da tutti coloro che, «avendo avuto contenziosi con la magistratura, vedono nel Polo un'alleanza che porrà freno all'indipendenza dei pubblici ministeri». La seconda. L'Elettorato Affascinato «non ha un'opinione politica definita, ma ha fondato il proprio sistema di valori sull'educazione strisciante impartita da decenni dalle televisioni, e non solo da quelle di Berlusconi. Per costoro valgono ideali di benessere materiale e una visione mitica della vita, non dissimile da quella di coloro che chiameremo genericamente i Migranti Albanesi». Marcello Veneziani riassunse in una formula poi ripresa da tutti - incluso Ricolfi - tale modo di vedere le cose: «razzismo etico». Rientrano in questo schema intellettuale, che ha avuto un nefasto influsso sulla vita culturale del Paese, alcune provocazioni del professore: gli appelli contro Berlusconi, lo sciopero dei consumi di prodotti delle aziende di Berlusconi, la promessa (non mantenuta) di abbandonare il Paese in caso di vittoria elettorale di Berlusconi, il paragone tra Hitler e Berlusconi, le rampogne contro il populismo e il fascismo strisciante di Berlusconi. Non sorprende che, a un certo punto, Eco fosse rimproverato da una parte dei suoi compagni di strada (oltre Ricolfi, ricordiamo Franco Cordelli, Erri De Luca, Gianni Vattimo) perché parlava soltanto di Berlusconi, ottenendo l'effetto di renderlo ancora più forte, mentre ignorava le gravi lacune della sinistra. Lui rispose così alle critiche, in un'intervista rilasciata a Dino Messina e pubblicata dal Corriere della Sera: «Guardi, l'Italia nei cinque anni appena trascorsi si è messa sulla strada del declino. Se andiamo avanti così diventiamo definitivamente un Paese da Terzo Mondo. Figurarsi se di fronte a un tale rischio mi metto a parlare della barca di D'Alema, che pure mi permetterebbe di fare delle bellissime battute». Era appena uscito A passo di gambero. Guerre calde e populismo mediatico (Bompiani, 2006) una raccolta di saggi sull'era Berlusconi. Al di là dello sdegnato giudizio etico, c'era poco. A Eco, come a molti altri, mancava la curiosità di scoprire davvero chi fossero e cosa volessero i milioni di italiani che speravano in una svolta liberale. La sua ultima avventura editoriale, la fondazione della casa editrice La Nave di Teseo, appena varata insieme con Elisabetta Sgarbi, rispondeva al desiderio di non pubblicare i suoi ultimi libri con la Mondadori della famiglia Berlusconi, che aveva acquistata Rcs Libri, e con essa la Bompiani, il suo editore storico. Venerdì prossimo La nave di Teseo pubblicherà Pape Satàn Aleppe. Cronache di una società liquida, libro che nasce dalle Bustine di Minerva, la rubrica di Eco sul settimanale l'Espresso. Si parlerà anche di politici. Almeno uno, sapete già chi è.

La «Nave» della superiorità antropologica, scrive Alessandro Gnocchi, Mercoledì 25/11/2015, su "Il Giornale". Ieri è andato in scena, sulle pagine de la Repubblica, l'eterno ritorno dell'anti-berlusconismo, la malattia senile della sinistra rimasta senza idee. Questa volta il bersaglio è Marina Berlusconi, presidente del Gruppo Mondadori. L'occasione per lucidare le armi impolverate è fornita dalla fondazione di una nuova casa editrice, La nave di Teseo. Al timone ci sarà Elisabetta Sgarbi, che ha rassegnato le dimissioni da Bompiani in seguito alla acquisizione di Rcs Libri (e quindi di Bompiani) da parte del Gruppo Mondadori. Una concentrazione, a suo dire, preoccupante perché viatico alla omologazione della proposta editoriale. Con sé, Elisabetta Sgarbi avrà editor e autori provenienti anch'essi da Bompiani: Mario Andreose, Eugenio Lio, Umberto Eco, Sandro Veronesi, Pietrangelo Buttafuoco, Edoardo Nesi e altri. Due giorni fa, da Segrate era filtrato il dispiacere per questa decisione. Elisabetta Sgarbi rifiutava interpretazioni politiche o ideologiche. Meglio la frammentazione o la concentrazione per rilanciare il settore? La qualità è appannaggio dei piccoli editori, dei grandi o di entrambi? A ciascuno le proprie opinioni. A questo punto, in qualunque Paese al mondo, la parola sarebbe passata al mercato, cioè ai lettori. Ma siamo in Italia, e ci ha pensato la Repubblica a trasformare la questione editoriale in questione ideologica, mettendo il cappello su La nave di Teseo. Per accendere le polveri, bastano le parole di Elisabetta Sgarbi, che racconta dal suo punto di vista il rapporto con Marina Berlusconi: «Non ha capito perché ce ne andiamo. E soprattutto non ha accettato la possibilità di una nostra autonomia editoriale e gestionale». Glossa di Umberto Eco: «Qualsiasi cosa avesse detto, Marina non avrebbe capito». Ieri pomeriggio Elisabetta Sgarbi, in un'intervista al sito IlLibraio.it, ha aggiunto: «Ognuno avrebbe dovuto rinunciare a qualcosa per tenere la Bompiani unita. Ma se si è proprietari del 100% di qualcosa, non si è tenuti a raggiungere accordi». E ha descritto come «svolti nella più assoluta cordialità» gli incontri con «Ferrari, Ernesto Mauri (soprattutto), e una volta con Marina e Silvio». Secondo indiscrezioni, inoltre, i «fuoriusciti» hanno anche provato a comprare Bompiani. Tentativo non realistico. In ogni caso, l'indipendenza del marchio, all'interno del Gruppo, non è mai stata in discussione come suggerisce la storia delle precedenti acquisizioni di Segrate. Chiedere informazioni a Eugenio Scalfari, pubblicato da Einaudi e omaggiato con un Meridiano Mondadori. Comunque a la Repubblica non importa la ricostruzione dei fatti. Importa solo che Marina di cognome faccia Berlusconi perché questo consente di rilanciare un «grande» classico: la superiorità antropologica della sinistra. Ecco la prosa di Francesco Merlo: «E torna la contrapposizione dei tipi, che sono opposti per stile e per educazione, due donne-capitano che non possono stare sulla stessa barca, anzi sulla stessa nave, Elisabetta su quella di Teseo, il fragile e felice legno degli scrittori, e Marina sulla barca dell'industria culturale più grande e più decaduta d'Italia. E infatti l'una parlava di umanesimo cosmopolita e l'altra di azienda, l'una di autori da allevare e l'altra di vendite che non aumentano. Ed Elisabetta fa imbizzarrire Umberto Eco mentre Marina si consulta con Alfonso Signorini». Sono «donne incompatibili e incomunicabili non per ideologia, ma per antropologia». Esistono dunque due specie. Di là ci sono le persone colte, raffinate, disinteressate; di qua gli ignoranti, i rozzi, gli affaristi. Questa grottesca rappresentazione della realtà perseguita l'Italia da vent'anni, svilendo ogni dibattito. L'industria culturale «più decaduta» è la sinistra che vive di pregiudizi.

Ecco cosa pensiamo di Umberto Eco. Il coccodrillo-verità di Libero, scrive Fausto Carioti il 21 febbraio 2016 su “Libero Quotidiano”. De mortuis nihil nisi bonum. Ma se il defunto è l'intellettuale italiano più noto nel mondo c' è anche l’obbligo della verità. Tutta, inclusa quella sgradevole. L' autore del Nome della rosa è stato tante cose. Politicamente parlando è stato l'intellettuale più autorevole tra coloro che hanno diviso l'Italia in due, per venti lunghissimi anni. Da una parte chi studia, legge (preferibilmente Repubblica e Micromega) e ha una coscienza: l'Italia dei giusti. Dall' altra, l'Italia della barbarie: delinquenti, favoreggiatori di delinquenti, subumani della cultura. In parole povere: tutti coloro che hanno votato per Silvio Berlusconi. Una dicotomia che ha fatto di Umberto Eco il grande teorico della inferiorità etico-culturale degli elettori di centrodestra. Il difetto di Eco non era la sua antipatia viscerale per il Cavaliere, che nel 2006 lo spinse ad annunciare la fuga dall' Italia (figuriamoci) se avesse vinto Berlusconi e che è appartenuta e appartiene a tanti, anche a destra e che spocchiosi non sono (non sempre, almeno). Era invece il disprezzo antropologico dell'intellettuale illuminato per milioni di italiani. Quel «razzismo etico» che gli è costato un giudizio durissimo da un intellettuale di sinistra senza paraocchi come Luca Ricolfi. Il quale, ricordando come si comportò nella seconda metà degli anni Novanta la categoria cui lui stesso appartiene, scrisse sulla Stampa: «Fu proprio in quell' epoca che la sinistra, tramortita e incredula di fronte a un elettorato che aveva osato preferirle Berlusconi, iniziò a rivedere drasticamente il proprio giudizio sugli italiani. Visto che non la votavano, e le preferivano quel cialtrone di Berlusconi, gli italiani dovevano essere un popolo ben arretrato, individualista, amorale e privo di senso civico. Una teoria, questa, che raggiunse il suo apice, al limite del ridicolo, con l'appello elettorale di Umberto Eco nel 2001, in cui gli italiani che avessero osato votare Berlusconi venivano descritti con un disprezzo ed un semplicismo che, in una persona colta, si spiegano solo con l'accecamento ideologico». Accecamento ideologico: per un intellettuale, cioè per colui la cui identità e professione sono le idee, l'accusa peggiore. È anche quella che dipinge meglio l'Eco degli scritti politici (chiamiamole pure invettive). Dall' appello firmato nel 1971 contro il «commissario torturatore» Luigi Calabresi - padre del direttore di quella Repubblica che ieri commemorava Eco - agli appelli, alle interviste, a certe "Bustine di Minerva" vergate per l'ultima pagina dell'Espresso. L' apice, ma anche la teorizzazione che ha dato dignità a tanti deliri del progressismo italiano (vale la pena di ripeterlo: intrinsecamente razzisti, perché basati sulla superiorità antropologica dell'homo sinistriensis), è proprio l'appello che Repubblica mise in pagina l'8 maggio del 2001. Tonitruante sin dal titolo: «Non possiamo astenerci dal referendum morale». Lì Eco divideva «l'elettorato potenziale del Polo» in due. C' era l'Elettorato Motivato, del quale facevano parte «il leghista delirante», «l'ex fascista» e quelli che, «avendo avuto contenziosi con la magistratura, vedono nel Polo un'alleanza che porrà freno all' indipendenza dei pubblici ministeri». E poi c' era l'Elettorato Affascinato, composto da chi legge «pochi quotidiani e pochissimi libri», persone che «salendo in treno comperano indifferentemente una rivista di destra o di sinistra purché ci sia un sedere in copertina». «Che senso ha parlare a questi elettori di off shore», inveiva Eco, «quando al massimo su quelle spiagge esotiche desiderano poter fare una settimana di vacanza con volo charter?». Criminali e gente in malafede, dunque, assieme a ignoranti lobotomizzati dalle televisioni e da un sogno di benessere a buon mercato. Spiriti meschini, paria del suffragio universale, personaggi che nella democrazia illuminista di Eco non avevano diritto alla cittadinanza e probabilmente nemmeno allo status di rifugiato. In quella pagina Eco scrisse anche che, se avesse vinto il Polo, «tutti i giornali, il Corriere della Sera, la Repubblica, la Stampa, il Messaggero, il Giornale, e via via dall' Unità al Manifesto, compresi i settimanali e i mensili, dall' Espresso a Novella 2000, sino alla rivista online Golem», sarebbero finiti nelle mani dello «stesso proprietario», ovviamente Berlusconi. Il quale, come noto, avrebbe vinto nel 2001 e nel 2008 per trovarseli tutti contro: la previsione dello scienziato sociale Eco fu falsificata, ma lo status dell'autore non ne risentì. Non avrebbe mai cambiato idea. Ripubblicò il testo del 2001 in una raccolta del 2006 (anno in cui ovviamente scrisse anche l' ennesimo appello in occasione dell' ennesimo «appuntamento drammatico» elettorale) e in quell' occasione difese gli insulti che cinque anni prima aveva distribuito su metà degli italiani, paragonando se stesso agli intellettuali che resistettero al fascismo: «Come se ai loro tempi si fosse imputato (si parva licet componere magnis) ai Rosselli, ai Gobetti, ai Salvemini, ai Gramsci, per non dire dei Matteotti, di non essere abbastanza comprensivi e rispettosi nei confronti del loro avversario». Il fatto che «oggi Umberto Eco a Ventotene ci va - se lo vuole - in vacanza», come ha scritto lo storico Giovanni Orsina, non pareva scuotere le sue certezze. Nel dibattito elettorale, argomentava Eco in quel gennaio di dieci anni fa, «le critiche all' avversario devono essere severe, spietate, per potere convincere almeno l'incerto». Ma allora è questo il compito dell'intellettuale? Insultare, drammatizzare, umiliare il prossimo affinché voti come lui gli dice di fare? Abitante spocchioso dei quartieri alti della Moralità, quando di mezzo c'era la politica Eco non aveva nulla della leggerezza e dell'umanità di un Edmondo Berselli, per restare nella sinistra colta di matrice bolognese. Una vita di successi, lo status di grande maestro universalmente riconosciuto, ma in fondo Eco è rimasto sempre lo stesso di quel saggio che scrisse a 29 anni, in cui Mike Bongiorno era definito «esempio vivente e trionfante del valore della mediocrità», la rappresentazione di «un ideale che nessuno deve sforzarsi di raggiungere perché chiunque si trova già al suo livello». Era già tutto lì, nel 1961. Disprezzo per l'italiano medio e accecamento ideologico inclusi. Accecato dall' ideologia, ha sparato ad alzo zero su chi non votava come voleva lui: criminali oppure ignoranti lobotomizzati dalle tv. Il manicheo che teorizzava l'inferiorità etica della destra Umberto Eco nel febbraio del 2011 al Palasharp di Milano chiede le dimissioni di Silvio Berlusconi durante una manifestazione organizzata da Libertà e Giustizia.

La sinistra uccide la cultura, scrive Francesco Maria Del Vigo il 4 febbraio 2016 su "Il Giornale". Qualche giorno fa il Financial Times ha pubblicato un articolo che in Italia non potrebbe mai uscire. Il senso del pezzo è questo: quasi tutti i docenti dei paesi anglosassoni sono di sinistra e il loro pensiero unico distrugge la cultura e pure gli atenei. Sacrosanto. Pare, stando alle statistiche del foglio economico, che il 60 per cento dei professori americani tifi per i Democratici, contro il 40 per cento del 1989. Risultato? Dalle cattedre universitarie si professa un solo punto di vista. Non c’è dibattito. Si vende una sola idea e la si spaccia per verità. Vado per esperienza personale – quindi fallibile – ma in Italia credo che sia peggio. A naso: il 90 per cento dei docenti universitari – e delle superiori – sono di sinistra. Non solo i docenti, anche chi seleziona e scrive i libri di testo. Vi è mai capitato di leggere i tomi di storia o filosofia delle scuole dell’obbligo? Lasciamo perdere Il giudizio su Mussolini e il fascismo – De Felice nella migliore delle ipotesi è citato come un eretico -, ma pure uno come Nietszche viene trattato come una canaglia. Dalle nostre parti vige ancora l’idea che la cultura sia proprietà della sinistra. Quando i giganti della cultura del Novecento – per esempio – sono stati tutti di destra: fosse fascista, reazionaria, conservatrice, repubblicana, liberista, liberale o monarchica. Mishima, Pirandello, Drieu la Rochelle, Heidegger, Schmitt, Fermi, Gentile, Marinetti, D’Annunzio, Junger, Guenon, Evola, Berto, Cioran, Fante, Balla, Prezzolini, Hamsun, Keller, Comisso, Ionesco, Eliot? (E ho citato solo alcuni nomi, i primi che mi sono venuti in mente. Per leggere qualcosa di più preciso consiglio l’articolo “I grandi scrittori? Tutti di destra” di Giovanni Raboni uscito sul Corriere il 27 marzo 2002). Sono stati di sinistra? Sono stati comunisti? No, e ognuno di loro ha detto qualche cosa che oggi sarebbe incappato nella censura del politicamente corretto. E anche se li fossero stati – comunisti, stalinisti o chissà cosa – non ci sarebbe alcun problema… E lì in mezzo – in questa lista assolutamente incompleta e provvisoria – ci sono froci, drogati, blasfemi e alcolizzati. Perchè ci sono centodestre (titolo di un bellissimo dizionario biografico) che fanno da contraltare al pensiero unico di sinistra. E comunque la cultura non è rossa e neppure nera. Non è islamica, nè cattolica, nè apostolica, nè romana. La cultura è cultura. Punto. A prescindere dal colore e persino dalle follie ideologiche che abbia sostenuto. Non ci sono idee o scrittori che non si possano studiare, discutere e criticare. Non c’è nulla di vietato. Il politicamente scorretto è un’impotenza intellettuale contro la quale al momento non è commercializzato alcun Viagra. Se non quello della libertà intellettuale. Che purtroppo non si compra al supermercato. Ma il problema sollevato dal Financial Times – e qualche settimana fa anche dagli accademici di Oxford – merita di essere trasportato in Italia: il politicamente corretto uccide il dibattito culturale. Perché qui da noi il corpo docenti è ancora più radical e fuori dal mondo che negli USA o in Gran Bretagna. E non ci si può mordere la lingua di fronte a un’idea solo perché farebbe sussultare la Boldrini. Poi ci chiediamo perché i nostri titoli di studio non valgono un accidente… Anzi, studiarsi a memoria le banalità che impongono certi libri di testo è una medaglia al demerito. Uno schiaffo alla libertà di pensiero, al sano diritto all’insofferenza e alla claustrofobia verso tutto cioè che è imposto. Ogni volta che conosco qualcuno che abbia raggiunto i massimo voti negli studi classici mi preoccupo e mi sincero che abbia avuto anche altre evasioni intellettuali. Meglio bigiare una lezione e leggersi in un bar – magari pure con una sigaretta in bocca – una pagina di Max Stirner o di Berto Ricci. Di un anarco libertario o di un socialfacista. Magari per poi smontarli. Roba che tra i banchi è giudicata più pornografica di una gang bang di Sasha Grey. E comunque apre di più la mente un filmato su Youporn di uno dei libri di storia imposto dallo stato nei quali le foibe vengono evase in tre righe scarse. E poi – anche in campo sessuale – D’Annunzio a Fiume aveva già fatto tutto… (Alla festa della rivoluzione, Claudia Salaris, Il Mulino). E ricordatevi: quel barbuto con l’eskimo 2.0, gli occhialoni neri e la moleskine in mano che sta seduto accanto a voi in biblioteca non è un intellettuale: probabilmente è un coglione che manda a memoria testi del sessantotto pensando che siano roba nuova. Il futuro, per ora, non è infondo a sinistra. Lì hanno spostato la discarica delle idee.

«Fare film sul potere è duro Sulla sinistra molto di più», scrive Pedro Armocida, Lunedì 15/07/2013, su “Il Giornale”. «Il racconto della politica al cinema non è un fatto scontato. In Italia non si faceva più dai tempi di Rosi o di Petri». E magari, qualche leader della sinistra sinistrata raccontata da Roberto Andò nel suo vivido Viva la libertà ne avrebbe fatto pure volentieri a meno. E invece il regista siciliano ha portato sul grande schermo la storia raccontata nel suo romanzo d'esordio Il trono vuoto (Bompiani) che qualche mese fa ha avuto un buon riscontro anche al botteghino e ha recentemente ottenuto due David di Donatello (sceneggiatura e attore non protagonista, Valerio Mastandrea) e un Nastro d'argento (sceneggiatura) prima dell'uscita in home video in questi giorni. «Sarà un'altra occasione per verificare l'azzardo dell'idea, la bontà di questo progetto, un tappo sulla politica che si è liberato al cinema». Roberto Andò, classe 1959, palermitano adottato dalla Capitale dove mi accoglie in un elegante appartamento nella Prati più vicina al Vaticano mentre squilla il telefono e all'altro capo c'è proprio Rosi, è un caso atipico di regista. Decine le sue regie teatrali e di opere liriche, poi il cinema con tutto il suo lato più intellettuale e complesso (Viaggio segreto, Sotto falso nome) e le sue passioni d'origine (Il manoscritto del Principe ossia Tomasi di Lampedusa al lavoro su Il gattopardo) mentre ora sembra vivere una nuova elettrizzante dimensione di «leggerezza» - come ama definirla - e di incontro con il pubblico: «Questo film mi ha dato la forza di immaginare con libertà attraverso una struttura non conforme. Mi piacerebbe mantenere questo sguardo. Una volta ho letto un'intervista di Bertolucci in cui, dopo un insuccesso, diceva di essersi posto il problema del pubblico. Tutti i registi dovrebbero farlo. Ora questo desiderio è emerso in me perché quando vuoi parlare del tuo Paese devi entrare in contatto con gli spettatori».

Ma, a sinistra, non tutti sono stati così empatici.

«Bè certo, c'è stato chi come Renzi e Veltroni, peraltro recensori positivi del romanzo su Panorama, mi ha fatto arrivare un'adesione entusiasta. Nel corso del tempo sono venute fuori le anime inquiete della sinistra con Civati con cui sono appena stato al suo politicamp a Reggio Emilia dal titolo proprio W la libertà. Mente l'altra parte è rimasta in imbarazzo. So che Bersani l'ha visto da solo a Piacenza».

E D'Alema?

«Silenzio assoluto».

Uno dei suoi «padri» intellettuali, Leonardo Sciascia, ha sempre cercato di raccontare il potere.

«L'affaire Moro era una specie di processo al palazzo dove la politica è sinonimo d'impenetrabilità, di mistero. Dopo Berlinguer i politici hanno sul volto l'angoscia del potere. Lo cercano ma al contempo vorrebbero fuggirgli. Io sono partito da qui ma in direzione del cambiamento. Il film mette insieme vita e politica e lo spettatore s'immedesima nell'idea che nell'esistenza si possa sempre ripartire».

Come nella sua vita?

«A 19 anni ho scritto il mio primo romanzo. Piacque molto a Sciascia ma lo misi nel cassetto e sta ancora lì. Poi sono andato avanti come in una specie di strabismo attraverso discipline diverse. Mai conforme e sempre anomalo, un po' come Toni Servillo, il protagonista di Viva la libertà e ingiustamente non premiato ai David anche se naturalmente sono contento per Valerio Mastandrea».

Come mai, lei che è così «transmediale», non ha mai fatto tv? 

«Mi è stata proposta varie volte ma la narrazione da noi è molto conformistica. Tutto è giocato sullo struggimento privato. Potrei accettare solo se fossi coinvolto nel progetto fin dall'inizio, dalla sceneggiatura».

Intanto continua con l'opera lirica, la sua passione. Ma è una proposta ancora contemporanea?

«Certo, a Torino all'inizio del prossimo anno farò Il flauto magico. L'opera è straordinaria proprio perché propone un paesaggio che lo spettatore pensa di ritrovare sempre uguale ma la scommessa del regista è di cambiarlo sempre. Come quando in Viva la libertà ho inserito la popolare La forza del destino di Verdi che rappresenta perfettamente il carattere dell'italiano e con cui lo spettatore si riconosce, come se galleggiasse dentro un liquido amniotico».

E il teatro?

«Connesso con l'opera. A Palermo il 23 ottobre con Sette storie per lasciare il mondo con Marco Betta, musicista di Viva la libertà, storie di persone che scompaiono, con la novità che lo spettatore vedrà sul palco su due schermi sette film che sostituiscono il libretto».

Cosa risponde a chi dice che la lirica drena molte risorse dello Stato?

«Conosco bene il mondo dell'opera. Ci vorrebbe molto più coraggio da parte dei sindacati che in questo sono molto conservativi. Ci vuole una scossa perché ci sono cose rinunciabili. Un teatro si apre quando c'è uno spettacolo. Invece i costi fissi sono altissimi».

E il sostegno alla cultura? A Taormina ha lanciato un grido di allarme.

«Sono fiducioso nel ministro Bray ma, come diceva Fellini, non possiamo tollerare di prendere i pugni in faccia. La battaglia sul ripristino del tax credit dimezzato alla produzione dei film è sacrosanta. Lo Stato deve preservare un'idea di civiltà e fare delle scelte strategiche. Poi il singolo artista deve costruirsi il suo percorso. Magari senza troppi aiuti si può trovare in una condizione più giusta e stimolante».

Sciascia: «Scrivo solo per fare politica», scrive il “Il Giornale”, venerdì 05/02/2016. Due modi di intendere l'arte. E anche due modi di intendere la politica. Fra Leonardo Sciascia ed Elio Petri la stima correva spedita in entrambe le direzioni, ma con prospettive senza dubbio differenti. Il dato emerge dalla pubblicazione, sulla rivista di studi sciasciani Todomodo (Olschki editore), dell'epistolario fra lo scrittore di Racalmuto e il regista romano. Siamo fra il 1966 e il '67 e il tema del confronto è il film A ciascuno il suo, tratto dall'omonimo romanzo. «Ho fiducia - scrive Sciascia l'8 settembre '66 - che farai un buon film, ma sarà in ogni caso, un film che non avrà niente a che fare col racconto. Il mio personale rammarico (che tu hai già avvertito e dichiarato: e mi riferisco all'intervista pubblicata sul Popolo) riguarda soprattutto la tua intenzione di non fare un film politico. Io scrivo soltanto per fare politica: e la notizia che il mio racconto servirà da pretesto a non farne non può, tu capisci bene, riempirmi di gioia». Due giorni dopo, ecco la risposta di Petri: «Potrei rovesciare il discorso così: volevo fare un film politico non didascalico. Tu credi che quando sullo schermo appariranno i preti, Rosello, i notabili, l'Osservatore Romano, tu credi che il film non sarà politico? Intendiamoci sulle parole, forse faremo prima: io, per politico, intendo ogni film che si presenti apertamente, massicciamente come libello, o come teorema politico, come un'opera sulla cui materia di ricerca, prevalga - incomba - una tesi politica, che in questo senso, è propagandistica». Sciascia comprende ma non si adegua, il 2 ottobre successivo: «Nel mio atteggiamento nei tuoi riguardi non c'è stata altra ragione che quella dell'autore di un libro che ritiene di dover lasciare all'autore del film ogni possibile libertà ma evitando accuratamente di diventarne complice». Il 22 febbraio '67 uscì il film di Petri, e il 10 marzo Sciascia resta sulle proprie posizioni: «La mia previsione che avresti fatto un ottimo film, ma diverso dal libro, si è avverata. E mi piace riconfermare, in tutta sincerità, che non c'è stato tra noi alcun malinteso, né io ho avuto delusione o amarezza dal fatto di scoprire, nella sceneggiatura e ora nel film, che tu hai fatto un'altra cosa». Dieci anni dopo, un altro film di Petri tratto da un libro di Sciascia parrà a tutti decisamente più politico (in senso sciasciano) del primo: Todo modo. Anche questa volta con nel cast Gian Maria Volonté, il più grande attore «politico» d'Italia.

Sciascia, lo scrittore che volle farsi immortale. L’eterno trasformismo. La nascita dell’antipolitica. Il cambio di editori. Una meditazione sull’ars moriendi. L’uscita dei "saggi sparsi" rivela gli aspetti più nascosti dello scrittore siciliano, scrive Piero Melati il 4 febbraio 2016 su “La Repubblica”. Zolfo. Piombo. Inchiostro. Di queste tre elementi è fatta l’immaginaria città di Regalpetra. Del primo elemento, scrive Leonardo Sciascia nel 1975, a proposito della sua nativa Racalmuto: «Tutto ne era circonfuso, imbevuto, segnato». L’aria, l’acqua, le strade: «Scricchiolava vetrino sotto i piedi». Ci si friggeva anche il pesce, nello zolfo. Per circa due secoli la Sicilia ne ebbe il monopolio. Era il petrolio dell’epoca. Nel 1834 l’isola contava 196 miniere. Per oltre un secolo, ci morivano i carusi. A salvarli, più che la legge, fu l’avvento dell’energia elettrica. Il secondo elemento di cui è fatta Regalpetra è il piombo. Quando Sciascia nacque (1921) Racalmuto era il Far West: «Una lite per confini o trazzere fa presto a passare dal perito catastale a quello balistico». Poi c’era la mafia. E infine, ricorda il biografo di Sciascia, Matteo Collura, «le campagne erano un brulicare di doppiette», per via della caccia. Lo stesso Sciascia era stato uno sniper: «Con un fuciletto ad aria compressa, a dieci metri, colpivo la capocchia di uno spillo». L’inchiostro, infine. «Ne ricordo anche il sapore. Forse qualche volta l’ho bevuto». Ed è l’inchiostro della scrittura ad aver trasformato la Racalmuto reale in Regalpetra la fantastica, ad aver trasmutato il piombo in zolfo, e poi lo zolfo in oro. Le parrocchie di Regalpetra, l’esordio che nel 1956 trasformò un comune insegnante in Sciascia, compie sessant’anni. A undici dalla pubblicazione lui spiegò: «È stato detto che nelle Parrocchie sono contenuti tutti i temi che ho poi, in altri libri, variamente svolto. E l’ho detto anch’io. Tutti i miei libri in effetti ne fanno uno». Sciascia, dunque, ha scritto un solo libro, sempre dedicato a quel «gomitolo di vicoli» che dista 16 miglia dal mar africano e 68 da Palermo, che ricapitola tutto l’universo. Lo scrittore, nel ‘79, aggiungerà: «La Sicilia offre la rappresentazione di tanti problemi, di tante contraddizioni, non solo italiani, ma anche europei, al punto da poter costituire la metafora del mondo». Un anno prima Sciascia aveva ultimato un saggio. Lo aveva titolato Fine del carabiniere a cavallo. Il saggio apre il volume di scritti sparsi che Adelphi (con questo stesso titolo) va a pubblicare. Il curatore dell’opera, Paolo Squillacioti, avverte: «Raccogliere tutto Sciascia è molto difficile. Sono infatti quasi 1.400 gli scritti dispersi». Eppure serviranno tutti per conoscere quell’unica storia che Sciascia per tutta la vita scrisse ed ampliò. In un illuminante ritratto di Alberto Savinio, contenuto in questa raccolta, lo scrittore sottolinea: «Sono riuscito a mettere insieme tutti i suoi libri. Ma tutti i suoi libri non fanno “tutto Savinio”: bisognerà raccogliere tutti i saggi, gli articoli e rendersi conto che si tratta, dopo Pirandello, del più grande scrittore italiano di questo secolo».

Sciascia le illusioni di un impolitico. Mai comunista, ma sempre vicino e litigioso con il Pci. Un libro di Emanuele Macaluso. Lo scrittore Leonardo Sciascia in un ritratto di Paolo Galetto, scrive Marcello Sorgi il 12/10/2010 su “La Stampa”. Leonardo Sciascia è diventato un classico, e tutte le sfaccettature della sua complessa personalità artistica, letteraria, intellettuale, sono state ormai sviscerate. Mancava, invece, un’analisi dello Sciascia politico, non solo della sua breve esperienza parlamentare alla Camera con i radicali nel periodo 1979-’83, ma dell’aspetto propriamente e politicamente incisivo della sua opera, in rapporto alla sinistra italiana e in particolare al Pci. A questa lacuna viene ora a porre rimedio il libro di Emanuele Macaluso Leonardo Sciascia e i comunisti (pagg. 160, Feltrinelli), in libreria da domani. Con una tesi che farà nuovamente discutere, a vent’anni dalla scomparsa di uno scrittore già molto discusso in vita. Basandosi sull’amicizia, la conoscenza e la conterraneità durate per quasi mezzo secolo, Macaluso, a lungo dirigente di primo piano del Pci siciliano e di quello nazionale, formula infatti la tesi che Sciascia, pur animato da sincera passione civile, fosse in realtà un impolitico. E che in questa chiave si possano spiegare anche le molte illusioni, e le troppe e repentine delusioni, a cui andò incontro. Sciascia non fu mai comunista, ma nella Caltanissetta della gioventù fu amico di molti comunisti, tra cui lo stesso Macaluso, e portato, come antifascista, ad approssimarsi al Pci. Un Pci che immaginava risolutamente all’opposizione, e nella Sicilia in cui l’alleanza tra mafia e Dc era palpabile, dichiaratamente anti-democristiano. Per lui «potere» e «delitto» erano due entità inscindibili, e in particolare il potere «senza ragioni ideologiche e volto ad assimilare, a degradare e a corrompere perfino le forze che gli si oppongono o che gli si dovrebbero opporre». Una visione così pessimistica, all’inizio degli Anni Settanta, è al centro del Contesto, uno tra i suoi più famosi romanzi, che lo portò diritto in collisione con il Pci. Sciascia aveva intuito, in anticipo sul Berlinguer del «compromesso storico», che la collaborazione con le forze di governo avrebbe portato la sinistra a una degenerazione dei propri valori e dei propri comportamenti. In realtà Sciascia aveva cominciato a prendere le distanze dal partito ancora prima, alla fine dei Cinquanta, ai tempi della famosa «Operazione Milazzo» con cui i comunisti siciliani, alleandosi perfino con il Msi, avevano mandato all’opposizione la Dc. Sul Corriere della Sera era arrivato a definire «di impronta mafiosa» il governo milazzista voluto proprio da Macaluso, che in quegli anni dirigeva il Pci siciliano. Qui salta agli occhi la prima contraddizione dello scrittore, che non nascondeva affatto questo aspetto del suo carattere (volle per sé un curioso epitaffio: «contraddisse e si contraddisse»). Se Sciascia era davvero, e prima di tutto, contrario alla Dc, come non si stancava di ripetere, perché attaccò il Pci l’unica volta che era riuscito a mandarla all’opposizione, e invece, pur restando critico, si schierò con i comunisti al momento del «compromesso»? L’adesione militante (pur senza tessera) dello scrittore alla campagna elettorale del 1975, solo poco tempo dopo le stroncature subite dai giornali e dalla cultura comunista al Contesto, resta inspiegabile per Macaluso, contrario all’accordo con i democristiani soprattutto in Sicilia, dove significava venire a patti con la parte più confinante con la mafia. Eppure, in quell’ambito, Sciascia si muove senza remore: «A chi mi conosce personalmente o attraverso quello che scrivo, appare chiaro che non potevo trovarmi altrove - dice nel discorso che annuncia la candidatura al Consiglio comunale di Palermo, ma rivela la consapevolezza che molti possano non aspettarsela -. Il fatto che io abbia avuto spesso degli attacchi più da sinistra che da destra, da certi luoghi del Pci più che da altri partiti, dimostra che io sono più vicino al Pci che a qualsiasi altro partito». È lo stesso Sciascia che s’è battuto fino ad allora contro le debolezze e le acquiescenze del Pci, che in una famosa polemica con Giorgio Amendola, poi rinnovata con Ugo La Malfa, ha attribuito ai comunisti parte della responsabilità dell’avanzata del Msi e della rinascita di una cultura di destra nel 1972. Ancora, lo stesso Sciascia che aveva criticato i dirigenti comunisti degli Anni Cinquanta, responsabili della svolta milazzista, adesso scopre i «giovani dirigenti» che stanno per allearsi con la Dc paramafiosa di Gioia e di Lima. Ma conoscendone l’integrità morale e l’assoluta buona fede, Macaluso ricorda di aver pronosticato breve durata per quel fragile coinvolgimento, di averne pure parlato con Berlinguer, per metterlo in guardia da una rottura che quando avverrà, di lì a poco, sarà clamorosa. Oltre alla noia delle sedute notturne del Consiglio comunale e all’isolamento che avverte tra i politici di professione, Sciascia, infatti, a un certo punto, si sente usato e preso in giro. Ne verrà un risentimento inesauribile. E un incidente piuttosto imbarazzante tra il segretario comunista e lo scrittore, intanto approdato alla Camera con i radicali. In un pranzo a tre con Renato Guttuso, Berlinguer accennò alla possibilità che le Brigate Rosse, durante il caso Moro, avessero potuto godere di appoggi logistici da parte della Cecoslovacchia. Sciascia utilizzò questa confidenza in Parlamento, nella commissione d’inchiesta sul sequestro. Berlinguer querelò lo scrittore, che a sua volta lo controquerelò, ma fu smentito da Guttuso, schieratosi per disciplina con il leader del partito. Così, oltre al rapporto con il Pci, si ruppe anche l’amicizia tra due grandi siciliani. Gli ultimi anni di Sciascia sono quelli delle famose polemiche sul processo alle Br di Torino, in cui lo scrittore si schierò a favore dei cittadini che si rifiutavano di fare i giurati popolari, condividendone il senso di sfiducia nello Stato, e sui «professionisti dell’Antimafia». Sciascia subì nuovi durissimi attacchi non solo da sinistra, ma dalla parte più militante dei giornalisti, degli intellettuali e della società civile, nonché dai Comitati Antimafia, da cui il Pci non volle mai prendere le distanze per difenderlo. Macaluso descrive un partito ingessato dalla necessità di «non delegittimare la magistratura» e Natta, il successore di Berlinguer, incapace di sviluppare una sua posizione autonoma sui lati oscuri e sugli eccessi del pentitismo. Il racconto della solitudine di Sciascia negli ultimi giorni della sua vita è toccante, come quello dell’addio tra i due vecchi amici. Ma adesso che sono passati vent’anni - conclude l’autore - perché la sinistra non prova a riscoprire Sciascia, sottraendolo all’ingiusta appropriazione che ne sta consumando la destra? 

Leonardo Sciascia, nel 1963 denunciava il cretino di sinistra, scrive il 27 maggio 2009 Iacolare Francesco Saverio. Il grande scrittore siciliano, Leonardo Sciascia, nel 1963 scopriva il verificarsi di un evento senza precedenti: l’ascesi del cretino di sinistra. Fino a quell’epoca, i cretini erano solo di destra.Il grande Leonardo Sciascia diceva: “i cretini di sinistra sono molto più pericolosi di quelli di destra perché alla loro imbecillità si aggiunge il fanatismo per il potere e il disprezzo per il governo”. Sono trascorsi 45 anni e un intellettuale del calibro del prof. Gianfranco Pasquino, molto apprezzato dalla sinistra che conta ha dichiarato:” Alla sinistra riesce bene tenersi stretto il potere”. Accusa il PD di ricusare ogni forma di cambiamento perché quella attuale garantisce, comunque, di conservare il potere che possiede. Pronostica che le prossime elezioni amministrative di maggio di Bologna saranno vinte dal centro destra. Siamo di fronte ad un apparato di mostruosità privo della più elementare forma di dignità. Infatti, la Finocchiaro si dichiara disponibile per la segreteria al posto dell’inutile Veltroni. D’Alema ha la sua televisione e crede di essere il padrone del partito, non sopporta di stare nell’ombra come tale, preferisce il ruolo della prima donna. L’anima comunista non è mai morta nel cretino di sinistra, aveva ragione Leonardo Sciascia. Il momento drammatico di crisi, che offende milioni di italiani nella dignità sociale, è una questione che non appartiene alla sinistra. Essa è sempre contro a prescindere perché non ha cultura di governo, ma solo di potere. In un ‘Italia che vive momenti drammatici di caduta etica e morale, ove l’economia è stata ridotta a squallida operazione finanziaria, priva di produzione reale, solo ricchezza virtuale, la sinistra invece di proporre vie di soluzioni condivise, armata dall’eterno odio, contro chi governa propone lo sciopero generale senza consultare la base, non solo, ma contro la volontà di tutti i sindacati. Questa becera sinistra non è la vera sinistra, questa predica ancora l’odio di classe, nonostante i suoi dirigenti possiedano panfili come Ulisse II e casa a New York. Bravi, Veltroni e D’Alema. Il cretino di sinistra vuole avere sempre ragione. Egli è di una superiorità intellettuale indiscutibile perché ignora l’altro, anzi lo disprezza. La sinistra ha sempre conquistato il potere con l’infallibile arte di fottere il suo interlocutore. Il popolo è sempre stato il paravento sociologico dietro il quale nascondersi compiendo poi le nefandezze del potere. Una sinistra senza dignità che nega perfino il pentimento e la conversione del fondatore del comunismo, che alla fine dei suoi giorni, illuminato dalla Grazia, ha chiesto la presenza di un sacerdote per chiedere il Viatico per l’ultimo viaggio. Questa negazione rappresenta lo sbando totale del cretino di sinistra che abita tra noi. Uno sbandamento provato dall’occupazione delle istituzione che detiene come potere, incapace di governare. I poveri cattolici si sono fatti fagocitare dall’illusione di ciò che non esiste, non si sono ancora resi conto che i loro compagni di viaggio non potranno mai diventare democratici, essi sono privi della cultura dell’alterità, quella cultura che ti permette di riconoscere il volto di chi ti guarda, come il volto del fratello che cerca aiuto. La nostra sinistra non conosce il fratello, conosce il compagno, perché nega l’esistenza del Padre. Oggi cosa resta della sinistra? La squallida ipocrisia di sempre, l’odio per chi non pensa con le loro aberranti categorie mentali, il limite del confronto di chi pensa al di sopra degli schemi, in modo particolare il terrore e la paura con la Trascendenza perché incapaci di un atto di umiltà come quello di Gramsci. L’odio di D’Alema nei confronti di Veltroni è stato evidenziato da E. Scalfari, il quale ha detto che sta lavorando per denigrare il segretario Veltroni. L’amico di merenda di D’Alema, Latorre, accusa Veltroni di praticare una politica fallimentare. Povera sinistra, ma quale sinistra? Quella degli “utili idioti”, una formula inventata da Lenin, ripetuta da Stalin, Gramsci, Togliatti per indicare coloro che dinanzi alla storia hanno firmato un’adesione contraffatta di una stupida disponibilità nel nome del potere. Certo non bisogna cretinizzare tutta la sinistra. Vi sono uomini di grande dignità e intelligenza, questi non vanno confusi con gli attuali qua qua ra qua in cerca del potere. Questi uomini che hanno a cuore la salvaguardia della dignità dei nuovi poveri bisogna rivolgere l’appello di cercare insieme nuove soluzioni possibili per il bene di tutti i bisognosi. Purtroppo la “sensibilità “della ricchezza non incontrerà mai l’ascolto della dignità del povero. Continuare a parlare, oggi, di destra e di sinistra è una grave offesa alle intelligenze a dimensioni planetarie .Noi abbiamo un ferito grave assalito dai briganti sulla strada di Gerico, dobbiamo aspettare il samaritano ,oppure tutti vogliamo essere dei samaritani. Francesco Saverio Iacolare.

Da quello di Sciascia a quello su Twitter, genealogia del cretino moderno, scrive di Guido Vitiello il 19 Novembre 2012 su “Il Foglio”. Non ci sono più i cretini di una volta. Leonardo Sciascia li ricordava quasi con rimpianto: quei bei cretini genuini, integrali, come il pane di casa, come l’olio e il vino dei contadini. La loro scomparsa seguì a breve giro quella delle lucciole, e chissà che tra i due fenomeni non ci sia un nesso misterioso. Poi venne l’epoca della sofisticazione, per gli alimenti come per gli imbecilli: “E’ ormai difficile incontrare un cretino che non sia intelligente e un intelligente che non sia cretino”, annotava sconsolato in “Nero su nero”. A rendere possibile questa confusione incresciosa, a intorbidare le acque era stata l’improvvisa disponibilità di gerghi intimidatori dietro cui far marciare le banalità più indifese. Sciascia sceglie una data convenzionale, il 1963, anno in cui comincia l’ascesa, a sinistra, di un tipo nuovo di cretino, il cretino “mimetizzato nel discorso intelligente, nel discorso problematico e capillare”. Si annunciava la stagione d’oro del cretino dialettico, operaista, maoista, strutturalista, althusseriano, insomma il cretino a cui Paolo Flores d’Arcais e Giampiero Mughini avrebbero eretto il monumento del “Piccolo sinistrese illustrato”. Sciascia era persuaso che il più insidioso mascheramento della stupidità fosse la complicazione non necessaria, l’arzigogolo, e scelse per metafora il berretto di Charles Bovary: Flaubert impiega mezza pagina a descriverne la fattura assai composita, per concluderne che in fin dei conti somigliava alla faccia di un imbecille. Altri tempi, altri cretini. Oggi quel tipo lì lo riconosci a vista, i gerghi non gli fanno più da scudo, anzi ne segnalano a colpo d’occhio la cretinaggine, irraggiandola in ogni direzione come l’evangelica lampada sul moggio. Certo, vanta ancora le sue glorie mondane, scrive i suoi trattati, assiepa i suoi vaniloqui, fonda le sue rivistine, raduna attorno a sé i suoi circoletti (pur predicando, magari, di “moltitudini”), ma tutto sommato è facile impedirgli di nuocere. Sono altri, quelli da cui dobbiamo guardarci. Oggi il cretino, a destra come a sinistra, sembra aver ritrovato la sua originaria semplicità e una perversa concisione. Ma attenzione a non confondersi, è una semplicità contraffatta, una sofisticazione di secondo grado: è il segno che la specie si è evoluta per sfuggire agli artigli dei suoi predatori. Il cretino di buon senso è come quelle mele rosse rosse che per evocare un Eden perduto si servono di tutte le diavolerie della chimica. Ti guarda in faccia e ti dice, che so, “la cultura è un bene comune, come l’aria”, e tu temporeggi dietro un mezzo ghigno contratto, e ti sembra così candido che sei quasi sul punto di assentire, di sciogliere la mandibola e ricambiargli il sorriso, e devi aggrapparti con tutte le forze all’albero maestro del tuo intelletto per non soccombere all’incantesimo e capire che sì, probabilmente hai davanti a te un imbecille. E non è il solo da cui stare in guardia, il cretino di buon senso. Se al tempo di Sciascia la strategia per mimetizzarsi era la blaterazione fantascientifica, la proliferazione cancerosa dei gerghi, la zecca sempre aperta delle parole che coniano altre parole, oggi il cretino si rintana nelle forme brevi. Ecco, sarebbe da prendere quel dibattito soporifero tanto caro ai giornali – “Twitter ci rende stupidi?” – e capovolgerne l’assunto: Twitter ci rende intelligenti. C’è in questo qualcosa di prodigioso, e di terrificante: ci sono cretini certificati, abituali, della cui cretinaggine abbiamo prove da riempirci un dossier, che nel giro breve di quei centoquaranta caratteri riescono non si sa come, per un istante, a ricordarci Karl Kraus, Oscar Wilde, o male che vada Giulio Andreotti. Possibile? L’aforisma, il Witz, che un tempo era un’arma formidabile contro la stupidità di tutte le maniere, è diventata il nuovo rifugio degli imbecilli, la freccia più velenosa nella loro faretra. Eppure non c’è granché da fare. Già che la stupidità ci assalta a tradimento, e senza logica, ne consegue, suggeriva Carlo Cipolla nel suo trattatello sul tema, che “anche quando si acquista consapevolezza dell’attacco, non si riesce a organizzare una difesa razionale, perché l’attacco, in se stesso, è sprovvisto di una qualsiasi struttura razionale”. Il meglio che possiamo fare è metterlo nero su nero. Guido Vitiello

L’oblio su Sciascia politico. Non soltanto i rapporti contrastati col Pci, né la sua elezione con i Radicali. Lo scrittore siciliano divise l’establishment con le domande su giustizia e potere, scrive Gianfranco Spadaccia, già segretario, deputato e senatore del Partito radicale, il10 Luglio 2014 su “Il Foglio”. Pubblichiamo stralci della prefazione di Gianfranco Spadaccia a “La memoria di Sciascia”, collezione di saggi e articoli dello scrittore messicano Federico Campbell (1941-2014), appena pubblicata in Italia da Ipermedium Libri. A quasi un quarto di secolo dalla scomparsa di Leonardo Sciascia, questo libro dello scrittore messicano Federico Campbell ci offre l’occasione di una rilettura critica dell’intera sua opera letteraria e ci invita a una riflessione, oggi più che mai opportuna e necessaria, sull’importanza che essa ha avuto nella letteratura italiana ed europea e nella vita politica e civile del nostro paese. Perché Sciascia è stato durante tutta la sua vita e in tutta la sua opera scrittore politico. Lo è stato più di qualsiasi altro uomo di lettere del suo tempo, più di Italo Calvino, più di Elio Vittorini, più dello stesso Pier Paolo Pasolini. Scrittore politico per eccellenza e non certo per i suoi contrastanti rapporti con il Pci o per essere stato per un breve periodo consigliere comunale a Palermo e poi, nella legislatura 1979-1983, deputato Radicale ma perché tutti i suoi libri – non solo gli articoli, i saggi, i pamphlet ma anche i romanzi e i racconti – sono sempre attraversati dagli interrogativi, dalle gravi questioni etico-politiche che riguardano la vita del paese e il governo della polis: i rapporti fra il Potere (i poteri) e i cittadini, fra lo Stato e il diritto, fra la verità e l’impostura. E’ strano che questa sua qualità di scrittore politico non si ritrovi fra le molte definizioni che di lui sono state date: da quella, perfino scontata, di “scrittore illuminista” per il suo costante riferirsi ai valori dell’Enciclopedia, e in particolare a Voltaire e a Diderot, a quella discussa di “scrittore barocco” (che Belpoliti riprende da Calvino), a quella singolare che Campbell in questo libro riprende da Bufalino di “scrittore secco” per la sua straordinaria concisione letteraria contrapposta a quella di “scrittore umido” che Bufalino attribuiva ad altri letterariamente più ridondanti scrittori e anche a se stesso. E’ come se gli estimatori di Sciascia ritenessero che la sottolineatura della politicità della sua opera potesse concorrere a offuscarne o a sminuirne in qualche misura la grandezza letteraria. Se fosse così si tratterebbe di una preoccupazione sbagliata perché politicità e qualità artistica e letteraria nell’opera di Sciascia vanno di pari passo e si alimentano a vicenda ma sarebbe anche una preoccupazione inutile perché proprio per la sua politicità ogni suo libro ha profondamente diviso sia l’opinione pubblica sia la stessa società letteraria. E’ forse in base a queste preoccupazioni che Piero Citati, pur riconoscendone la qualità e la grandezza, è giunto ad affermare che dalla sua opera bisognerebbe cancellare “l’ultimo Sciascia (allo stesso modo del primo Calvino)” per essersi esposto troppo nell’agone politico. A Citati però bisognerebbe chiedere dove secondo lui comincia l’ultimo Sciascia: comincia con “L’Affaire Moro” o bisogna risalire molto più indietro a “Il Contesto”, a “Todo Modo”, a “Candido”? D’altronde l’autore di questi romanzi non è affatto “l’ultimo Sciascia” perché, dopo “L’Affaire Moro”, scrisse ancora saggi, racconti, romanzi che occupano una parte del secondo volume e quasi per intero il terzo volume delle “Opere complete”, edite da Bompiani e curate da Claude Ambroise. In altra circostanza ho riconosciuto il mio debito nei confronti di Sciascia per l’influenza che i suoi libri hanno avuto nella mia formazione culturale, sentimentale e politica fin da quando, giovanissimo, mi imbattei all’inizio degli anni 60 ne “Le Parrocchie di Regalpetra” e in “Morte dell’Inquisitore”, molto prima dunque che le vicende politiche dei tardi anni 70 e dei primi anni 80 ci facessero trovare dalla stessa parte e perfino nello stesso gruppo parlamentare radicale. Il messicano Campbell, che ha studiato e amato lo scrittore siciliano fino al punto di servirsi anche delle sue lenti per leggere alcuni aspetti della realtà del Messico, conosce perfettamente le sue vicende politiche e letterarie e tuttavia, non influenzato dalle polemiche e dalle strumentalizzazioni italiane che le hanno accompagnate, ci restituisce l’immagine di uno scrittore eretico che in tutta la sua vita si confronta con una realtà siciliana e italiana rimasta, a sinistra non meno che a destra, profondamente controriformista e lo fa seguendo sempre la stessa ispirazione ideale. Ed esprime un’opinione uguale alla mia: “Non c’è opera di Sciascia che non sia politica. E’ un autore politico. E’ uno storico. E’ un romanziere. E’ uno scrittore”. Non c’è soluzione di continuità fra il primo e l’ultimo Sciascia, fra lo Sciascia di “Le parrocchie di Regalpetra”, di “Morte dell’Inquisitore”, del “Giorno della civetta”, di “A ciascuno il suo” e lo Sciascia di “Todo modo”, del “Contesto”, di “Candido”, de “L’Affaire Moro”, fra lo Sciascia di prima della rottura con il Pci e lo Sciascia di dopo la rottura con il Pci. E infatti Alberto Asor Rosa ha spinto il proprio dissenso e la propria censura fino al punto di pretendere di cancellarne l’intera opera dalla storia della letteratura italiana. E un mediocre sociologo che non merita di essere citato, assurto per meriti giustizialisti agli onori della politica, dopo le polemiche sulla mafia dei primi anni Ottanta ha sentito il bisogno di coinvolgere nella propria polemica e nella propria condanna anche il “primo” Sciascia del “Giorno della civetta” e di “A ciascuno il suo”, inventandosi un eccesso di compiacenza nei confronti dei protagonisti mafiosi dei due romanzi con i quali per primo affrontò il tema, fino ad allora negato o misconosciuto, dell’esistenza della mafia e dei rapporti oscuri fra classi dominanti, potere politico e criminalità mafiosa. Con le sue scelte e prese di posizione politiche, ma soprattutto con i suoi libri, Sciascia ha diviso anche il suo campo. E non solo la sinistra, quella sinistra a cui ha fatto sia pure con grande autonomia e spirito critico a lungo riferimento perché in essa si riconoscevano le famiglie dei “carusi” che avevano frequentato le sue lezioni di maestro elementare a Racalmuto e gli operai delle solfare, la cui vita e le cui sofferenze conosceva da vicino per aver frequentato la solfara gestita da suo padre; divise anche il suo campo culturale, l’intellighentia laica, “liberal”, non inquadrata e non inquadrabile negli apparati, sempre oscillante fra il sostegno ai governi centristi o di centro-sinistra e il sostegno offerto al Pci magari attraverso la cosiddetta “sinistra indipendente”. Sciascia, che non amava la parola “intellettuale” a cui preferì sempre quella di letterato o di uomo di lettere, non fu mai, neppure nel periodo di vicinanza al Pci siciliano, intellettuale “impegnato” e tanto meno “organico”. L’unico impegno che concepì, fu nei confronti delle proprie convinzioni e della propria coscienza. Campbell ricorda che, per questo, ebbe come riferimenti Gide che, da comunista, si impegnò nella condanna di Stalin e dello stalinismo e Bernanos che, da cattolico, combatté il sostegno offerto al generale Franco da parte della chiesa cattolica nella guerra civile spagnola. La prima rottura, a lungo maturata tra il colpo di stato cecoslovacco del 1968 (si pensi alla dedica della “Controversia liparitana” ad Alexander Dubcek, indicato con le iniziali A.D.) fino alla proposta berlingueriana del “compromesso storico”, si manifestò pienamente nei confronti della politica della fermezza e al momento delle trattative per la formazione del governo di unità nazionale del 1976 ed esplose durante il “caso Moro”. A causa di essa Sciascia divenne l’obiettivo di una feroce campagna polemica da parte del Pci e degli intellettuali più vicini al Pci, che lo indusse nel 1979 ad accettare la proposta di Marco Pannella di presiedere le liste radicali nelle elezioni politiche. Durante tutto questo periodo trovò però al suo fianco, oltre ai radicali, anche personalità come Norberto Bobbio, Dario Fo, Alessandro Galante Garrone, Giorgio Bocca per citare solo alcuni dei nomi più significativi. Questa coincidenza di posizioni e questa vicinanza politica vennero però meno quando Sciascia, che non era un garantista a senso unico, si trovò a sostenere negli anni 80 gli stessi princìpi che aveva sostenuto al momento del confronto con il terrorismo rosso e nero, per contrastare i poteri eccezionali che vennero invocati nella lotta alla mafia. Non intendo attribuire a lui sentimenti miei. Parlerò quindi per me. Questa seconda rottura fu particolarmente dolorosa perché avveniva con personalità della sinistra democratica che ci erano state vicine e ci avevano sostenuto nelle nostre lotte per i diritti civili: Bobbio con i suoi scritti filosofici su socialismo democratico e comunismo aveva influenzato fortemente la nostra formazione, Alessandro Galante Garrone aveva fatto parte con Loris Fortuna della presidenza della Lega Italiana del Divorzio, quando fui arrestato per la disubbidienza civile contro il reato d’aborto uno dei primi telegrammi che mi giunse in carcere recava le firme di Dario Fo e Franca Rame. Le posizioni di Sciascia e dei radicali, condotte in difesa dello Stato di diritto e della legalità democratica in condizioni di minoranza, avevano fatto emergere il persistere all’interno della sinistra democratica, liberalsocialista e azionista e anche all’interno del liberalismo italiano di una componente giacobina che da allora in poi ha fortemente influenzato la politica e la magistratura, imponendo soluzioni che sono state definite “giustizialiste” in contrapposizione al garantismo ma hanno poco a che fare con la giustizia e la legalità, anzi hanno nell’ultimo quarto di secolo largamente contribuito a devastarle. E’ significativo che le aspre polemiche che accompagnarono le due rotture fossero innescate da due falsi, che lungi dall’esprimere il suo pensiero ne rappresentavano al massimo una grossolana estremizzazione. Nel 1977/78 gli fu attribuita una frase – “Né con lo Stato né con le Bierre” – che non aveva mai pronunciata (certo non con le Br, ma – era la legittima domanda – “con quale Stato?”). La seconda rottura fu provocata da un articolo sul Corriere della Sera in cui criticava i criteri improvvisamente modificati per la scelta dei capi delle Procure, che dovevano occuparsi di criminalità mafiosa: gli fu rinfacciata la frase “I professionisti dell’antimafia” che non compariva nel testo del suo articolo ed era invece il titolo scelto dalla redazione del Corriere. In entrambi i casi Leonardo Sciascia, al pari dei Radicali, fu accusato nella migliore delle ipotesi di equidistanza fra lo Stato e le Bierre e fra lo Stato e la mafia ma molti si spinsero oltre fino al punto di ipotizzare una vera e propria contiguità con le prime e con la seconda. Imperdonabili infamie se solo si pensi alla distanza siderale che separava l’illuminista Sciascia e i nonviolenti Radicali dal rozzo e violento stalinismo delle Brigate rosse e al fatto che nei primi anni Sessanta era stato nei suoi romanzi il primo uomo di lettere a occuparsi di mafia e della collusione fra essa e il potere. L’illuminista Sciascia, che si scoprì antigiacobino, semplicemente pensava che contro i tentativi eversivi delle Bierre come contro la criminalità mafiosa lo Stato dovesse combattere in nome del diritto e dei propri princìpi costituzionali senza cedere, a causa dell’emergenza, a leggi e politiche eccezionali. Nessuna emergenza può giustificare la sospensione delle libertà individuali come delle garanzie giuridiche e costituzionali, se non a prezzo di un abbassamento dello Stato allo stesso livello dei criminali che deve combattere. Allo stesso modo, durante e dopo il sequestro dell’onorevole Moro, per la sua polemica contro la politica della fermezza fu iscritto d’ufficio nel “partito della trattativa”. In realtà anche a rileggere oggi le parole di Sciascia appare chiaro come fossero rivolte a sollecitare non un cedimento ma una maggiore iniziativa nelle indagini e nei rapporti mediatici nei confronti delle Br, impedita dalla conclamata fermezza della Stato che si traduceva purtroppo in inerzia e nella attesa immobile, fatalistica della morte di Moro. Sciascia infatti non mancò di manifestare la propria opposizione e di denunciare la contraddizione della Dc quando, qualche tempo dopo, i suoi dirigenti accettarono di trattare per la liberazione dell’assessore regionale Cirillo sequestrato in Campania. E mostrò cosa si dovesse intendere per politica di iniziativa nei confronti delle Br quando contribuì invece con i radicali a creare le condizioni per la liberazione di un altro sequestrato, il giudice D’Urso, che avvenne senza cedimenti, senza concessioni, ma attraverso un’iniziativa politica e mediatica e un confronto polemico condotto sotto gli occhi dell’opinione pubblica grazie ai microfoni di Radio Radicale e ad alcuni giornali e telegiornali che ebbero il coraggio di rompere un assurdo silenzio stampa. Quell’iniziativa, nella quale Sciascia si espose senza riserve, ruppe dunque l’unità corporativa dei giornalisti ma provocò anche una rottura fra i brigatisti in carcere e i terroristi che avevano operato il sequestro, che si rivelò determinante per la salvezza del giudice.

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(…) Sciascia scrisse di sé che avrebbe voluto essere ricordato come un uomo che “contraddisse e che si contraddisse”. (…) Quanto al “si contraddisse” sono invece possibili più letture e diverse spiegazioni. (…) Ad esempio a proposito della mafia. Non c’è uno Sciascia intransigente contro la mafia, che diventa improvvisamente lassista o peggio, come è stato insinuato, connivente nei confronti della mafia. Basta rileggere “Il Giorno della civetta” per rendersi conto che il Capitano Bellodi, nel momento in cui ha difficoltà a inchiodare alle sue responsabilità il capomafia Arena, respinge la tentazione delle scorciatoie e condanna con decisione i metodi del Prefetto Mori, adottati durante il fascismo. Al contrario invoca e in qualche modo prefigura più efficaci metodi di indagine che potrebbero consentirgli di risalire alle disponibilità finanziarie, penetrando nelle maglie del segreto bancario, allora un tabù per il nostro sistema giuridico, e di colpire i clan mafiosi nei loro patrimoni, anticipando così molto tempo prima la strada che sarà seguita da Falcone e Borsellino e che porterà, con successo, a celebrare il maxi processo di Palermo contro la Cupola di Cosa Nostra. Muta dunque l’obiettivo polemico – alle connivenze della Dc e dello Stato si sostituisce l’attacco alle strumentalizzazioni politiche dell’antimafia – ma Sciascia continua a muoversi all’interno della medesima ispirazione e convinzione ideale. E anche se, come ho prima sottolineato, non pronunciò e non scrisse mai la frase “I professionisti dell’antimafia”, coloro che lo avevano attaccato, insultato, indicato al pubblico disprezzo, furono gli stessi che, comportandosi proprio come tali, riuscirono a impedire la nomina da parte del Consiglio superiore della magistratura di Giovanni Falcone a capo della Procura nazionale Antimafia. “Io ho dovuto fare i conti, da trent’anni a questa parte – scrisse poco prima di morire in “A futura memoria” – con coloro che non credevano o non volevano credere nell’esistenza della mafia e ora con coloro che non vedono altro che mafia. Di volta in volta sono stato accusato di diffamare la Sicilia o di difenderla troppo; i fisici mi hanno accusato di vilipendere la scienza, i comunisti di aver scherzato su Stalin, i clericali di essere un senza Dio; e così via. Non sono infallibile ma credo di aver detto qualche inoppugnabile verità”. C’è tuttavia per quel “si contraddisse”, io penso, una spiegazione più plausibile e una più intima ragione. “Scrivo su di me, per me e talvolta contro di me – disse a Marcelle Padovani nel libro-intervista La Sicilia come metafora – Prendiamo, ad esempio, la realtà siciliana nella quale vivo: un buon numero dei suoi componenti io li disapprovo e li condanno, ma li vedo ‘con dolore’ e ‘dal di dentro’: il mio ‘essere siciliano’ soffre indicibilmente del gioco al massacro che perseguo. Quando denuncio la mafia, nello stesso tempo soffro poiché in me, come in ogni siciliano, continuano ad essere presenti e vitali i residui del sentire mafioso. Così, lottando contro la mafia, io lotto anche contro me stesso, è come una scissione, una lacerazione. Lo stesso avviene per quanto riguarda la donna siciliana: nel mio modo di descriverla e di condannarla c’è anche una condanna di me stesso. Soffro di dover raccontare della donna di Sicilia nel suo ruolo storico, vale a dire come elemento negativo dell’evoluzione della società insulare, nella sua funzione matriarcale, schiacciante e conservatrice, quale ha pesato sui nostri nonni e padri e quale può pesare ancora oggigiorno. Ma nel momento stesso in cui la giudico, io mi sento responsabile della sua condizione, responsabile atavicamente”. (…) Questo non scalfisce in nulla il suo essere, anche, scrittore illuminista. Ho sempre pensato che la qualità e grandezza di Sciascia sia proprio in questa intima e vitale contraddizione tra l’adesione alla sua terra e alla cultura della sua terra e il suo costante, eretico contrapporvisi in nome di pochi, essenziali valori: la laicità, la democrazia, la tolleranza, una profonda religiosità, la giustizia, il rispetto della dignità umana, la verità. (…)

Alberto Moravia: «L’egocentrismo è nulla in confronto dell’indifferenza». Un estratto della lettera uscita nella raccolta (Bompiani) "Se è questa la giovinezza vorrei che passasse presto", che nel 1927 lo scrittore mandò al filosofo Andrea Caffi sulla figura dell’intellettuale e il valore dell’esperienza, scrive “L’Espresso” il 4 febbraio 2016. Il filosofo Andrea Caffi, sodale di Chiaromonte, antifascista - «un uomo di valore, erudito e fantasioso», come lo definì lo stesso Moravia - stimola la riflessione dello scrittore, impegnato nella stesura de Gli indifferenti. Caffi vent’anni più grande è un esempio, per Moravia, e sarà non a caso uno dei pochi a leggere in anteprima l’ultima opera. Della figura dell’intellettuale, del valore dell’esperienza, scrive Moravia in questa lettera (qui in estratto) del 1927, pubblicata da Bompiani nella raccolta Se è questa la giovinezza vorrei che passasse presto – Lettere 1926-1940, da poco in libreria e presentata (venerdì 5 febbraio, a Roma al teatro Argentina) da Dacia Maraini. «Sono sull’orlo di una disperazione ormai troppo abituale», scrive Moravia, raccontando «la aridità e la mediocrità della vita di Roma». Lo spaventano «l’intellettualismo e gli intellettuali». «Finora in Italia (l’Italia moderna)», scrive, «non ci sono stati che intellettuali separati dalla vita e dalla sofferenza che essa implica». «Anche i miei desideri sono non dico attenuati ma come anestetizzati da qualche sconosciuto cloroformio», continua, salvo poi interrompere così l’analisi: «Lei», scrive a Caffi, «mi ha fatto parlare di me stesso, l’unica cosa che non dovrei fare - ma ad ogni modo mi lasci dire che l’egocentrismo è nulla in confronto dell’indifferenza».

Solda, 1 agosto 1927. Mio caro Caffi (...)Quello che Lei dice su me e sul mio avvenire è molto lusinghiero e certo non potrebbe esser più giusto quel che Lei dice sulla maggiore importanza della vita invece che del lavoro – le sue parole vengono a confermare un concetto che fino a poco tempo fa avevo idolatrizzato e che ora, forse per la aridità e la mediocrità della vita di Roma cominciava a vacillare – del resto per dimostrarLe quanto l’idea della vita e della sua vastità mi sia accetta le dirò che poco tempo fa avevo deciso di abbandonare dopo la pubblicazione del mio romanzo la letteratura e di dedicarmi a qualche occupazione meno artistica – quello soprattutto che mi spaventava era l’intellettualismo e gli intellettuali – finora in Italia (l’Italia moderna) non ci sono stati che intellettuali separati dalla vita e dalla sofferenza che essa implica – questo è un grande pericolo: la mia più grande ambizione è non di essere un uomo qualunque ma forse un uomo che nonostante la sua possibile intelligenza non frammetta tra sé e le cose la lente dell’intellettualismo – Come vivere io ancora non so – e certo, finché non avrò qualche scopo più alto che me stesso, quei sacrifici e quelle rinunce di cui Lei mi parla non serviranno a nulla altro se non a far del posto per altre verità – e debbo anche dirle che fino a poco tempo fa il mio più alto ideale umano era l’uomo forte sanguigno e consapevole di Shakespeare o se vogliamo di Balzac – l’uomo completo con tutti i vizi e tutte le virtù – tutto il mio sistema di vita era appoggiato su questo ideale per questo ideale ho fatto diverse e non tutte pure esperienze e perciò quel che a Lei forse era sembrato generosità, non era qualche volta che consapevole e mal intenzionato esperimento – e debbo anche dire che in me c’è ancora una buona dose di irritazione, il resto di una rabbia durata 19 anni – e poi ci sono tante altre cose, le più non belle – anzi posso dire che l’unica cosa che ho di buono è la consapevolezza di questi miei detti difetti – ho visto spesso parecchie persone burlarsi o biasimare senza parerlo le mie vanità e io lo sapevo e le esageravo. Ad ogni modo per ora la questione è di vivere cioè di fare esperienze: certo ora non penso più come due anni fa che l’esperienza sia tutto – ma ne riconosco il valore materiale e documentario... e poi tutte queste sono parole – io ho davanti a me tutte le questioni più dure di conoscenza umana e di elevazione morale e dietro di me solamente qualche piccola vittoria sul tempo e qualche piccolo esperimento – soltanto ecco, tutto è chiaro avanzo e non mi riesce di vedere altra via che quella seguita da tutte le ambizioni – la più grande precarietà è in ogni mia azione – vivo alla giornata e una volta alla settimana almeno sono sull’orlo di una disperazione ormai troppo abituale – anche i miei desideri sono non dico attenuati ma come anestetizzati da qualche sconosciuto cloroformio – è terribile non avere alcun appetito, non esser feroce – sentirsi avvolti da una mediocre ovatta – e certo nulla è più ripugnante che certe mie debolezze femminili direi quasi masochiste. Lei mi ha fatto parlare di me stesso, l’unica cosa che non dovrei fare – ma ad ogni modo mi lasci dire che l’egocentrismo è nulla in confronto dell’indifferenza – e se certi sacrifici non fossero sacrifici ma solamente agevoli distacchi? Lei mi dica delle sue condizioni e di quel che conta di fare – e poi dica anche che cosa intende per “singolarità addirittura brutali” che io svilupperei se non rinunciassi alla vanità terrene – e questo sia detto senza alcuna ironia. Arrivederci per oggi. Una stretta affettuosa di mano. Alberto Pincherle. Copyright Bompiani 2015 

Prostituzione culturale. L’Europa e il neo oscurantismo islamico, scrive Michael Sfaradi il 26 gennaio 2016. Roma, 26 Gennaio 1564. Avete letto bene la data, non è un refuso. Questa mattina siamo tornati indietro di ben quattrocentocinquantadue anni, e al punto in cui siamo arrivati l’Italia non esiste più e chi comanda a Roma è Papa PIO IV. Il concilio di Trento ha deciso che le nudità nell’arte non sono più ammesse e il pittore Daniele da Volterra, detto il Braghettone, armato di pennelli sta coprendo le nudità della Cappella Sistina. Per cui la data è giusta e io non sono impazzito. Fino a ieri, 25 Gennaio 2016, la discussione era sull’opportunità di ricevere il presidente di una nazione come l’Iran dove ogni anno, dopo processi sulla cui legalità internazionale e in sfregio a ogni diritto universale dell’uomo, centinaia di persone vengono impiccate. Molte delle quali finiscono con il penzolare dalle gru per la sola colpa di essere omosessuali. Nei mesi immediatamente precedenti, fra il Dicembre 2015 e il Gennaio 2016, c’è stata anche un’accesa discussione sul fatto che alcune giornaliste o donne politiche italiane e europee in visita a Teheran si fossero coperte il capo con il velo come detta l’usanza imposta in quei luoghi anche se sul Corano non c’è nessuna indicazione di questo tipo. Questa mattina però tutte le discussioni dei giorni scorsi hanno perso di ogni significato perché la gravità di ciò che le autorità italiane hanno deciso ha superato ogni limite, sia della fantapolitica che della decenza, e ci hanno trasportato indietro nel tempo in una situazione così surreale che anche a distanza di ore è difficile credere che sia successo davvero. Qualcuno pensa che criticare Renzi e il suo esecutivo dopo le innumerevoli vicissitudini di carattere politico, economico e di contrasto di interessi vari, ad esempio il salvataggio delle banche di cui una del padre di un suo ministro, di cui si è reso protagonista sia come sparare sulla Croce Rossa, ma dopo che il Governo Italiano ha dato ordine di coprire le nudità delle opere d’arte esposte nei Musei Capitolini di Roma per non offendere il Presidente Rohani in visita presso lo stesso museo, non solo bisogna sparare ma abbiamo anzi il dovere di farlo. E nella fattispecie usando anche l’artiglieria pesante. La visita nella città eterna da parte del leader iraniano è una delle dirette conseguenze della firma di accordi che hanno visto sul tavolo delle trattative volpi politiche, gente in malafede e dilettanti allo sbaraglio. Una delle prove, ce ne sono molte ma cito solo l’ultima in ordine di tempo, è che prima della firma dell’accordo il Segretario di Stato John Kerry tranquillamente dichiarava di essere sicuro che i soldi della fine delle sanzioni sarebbero stati usati da Teheran per salvare la sua economia, e poi a giochi fatti lo abbiamo risentito ammettere, altrettanto tranquillamente, che indubbiamente parte del denaro finirà in mano ai Pasdaran e da lì a finanziare il terrorismo. Se è lo stesso fautore degli accordi ad ammettere che ci sono delle ‘opacità’ possiamo credergli e nel contempo ringraziarlo di averci confermato tutti i dubbi che avevamo su di lui e sul suo operato. Ma il terrorismo che colpisce, e l’assurdo è che potrebbe anche essere l’Europa o gli stessi USA a finanziare proiettili o esplosivo, può colpire anche in maniera molto pesante ma per quanto sconvolgente e sanguinoso possa essere non può riuscire a cambiare storia e cultura di una nazione o di un continente intero. Quello che può farlo invece è il prostituirsi in maniera così palese nei confronti della controparte facendo chiaramente passare il messaggio di sottomissione totale che dice: “Noi a casa tua facciamo come dici tu e tu a casa nostra fai come ti pare e anzi ti aiutiamo a farlo”. Perché coprire le opere d’arte che sono la testimonianza tangibile della cultura occidentale davanti a chi in casa propria pretende rispetto delle proprie usanze significa svendere il proprio essere, e l’ottenimento di contratti di affari, anche lucrosi, non può prescindere dal rispetto di se stessi e della proprio storia. Coprire quelle statue e quei dipinti è stato come coprire se stessi, è stata una dichiarazione di vergogna di quello che siamo e di come ci siamo diventati, e chi ha dato ordine di mettere quelle coperture si è reso complice di uno dei peggiori atti di terrorismo possibili, un attacco che anche se non ha versato neanche una goccia di sangue ha gravemente ferito secoli di progresso umano. Fino ad oggi pensavamo che i tempi dell’oscurantismo papale fossero finiti dal almeno quattrocento anni, ci sbagliavamo. Oggi abbiamo avuto l’ennesima prova che nessuna conquista è per sempre e che ogni passo avanti verso la libertà può essere messo in discussione e che questo può essere fatto da chiunque, perfino da colui che è stato il sindaco di Firenze. 

Quei veli sulle nudità dei musei capitolini. Eccesso di zelo per non turbare l’ospite. Statue millenarie coperte: web e opposizione scatenati contro il governo. Ai Musei capitolini ci sono capolavori dell’antichità classica come la Venere capitolina e la Venere esquilina, scrive Mattia Feltri su "La Stampa” il 27 gennaio 2016. I poveri ragazzi di Palazzo Chigi non sapevano più che rispondere a Bbc e Cnn, e altre emittenti dal mondo, e testate giornalistiche varie, tutte molto interessate al caso delle statue dei Musei capitolini nascoste con pannelli perché le marmoree nudità non offendessero il presidente iraniano, Hassan Rohani. Infatti non hanno più risposto. E l’imbarazzo dov’essere lievitato fino alle sommità del governo, mute davanti agli impietosi e comodi rimproveri arrivati dalle opposizioni. La notizia che Matteo Renzi avesse fatto inscatolare la Venere capitolina e qualche altra statua altrettanto impudica, e l’indiscrezione che avesse fatto chiudere la sala Pietro da Cortona con la Venere esquilina e un Dioniso discinti per un sovrabbondante rispetto delle sensibilità islamiche, ha eccitato forzisti e leghisti e fratelli d’Italia che, invece, il giorno prima non avevano nulla da ridire sulle cerimonie riservate al capo di uno Stato che ammazza, mutila e tortura dissidenti e omosessuali, che lapida le donne adultere, anche se adultere contro la loro volontà, e che non riconosce l’esistenza dello Stato d’Israele. Il dettaglio non soltanto numerico di queste pratiche era stato diffuso da Nessuno tocchi Caino, invano: come al solito la politica ha seguito tortuose viuzze, forse perché ai suoi tempi Silvio Berlusconi non era stato meno benevolo con dittatori anche mediorientali. Però non si era mai spinto su così raffinate vette di piaggeria (le critiche al capo di Forza Italia arrivarono per motivi opposti: impietosito dalle amputazioni, aveva ridotato una statua di Marte con mezzi posticci). Fra l’altro non si è ben capito se le statue siano state occultate su richiesta degli iraniani o per eccesso di zelo degli italiani: secondo qualche spifferata è uno studiato omaggio del nostro governo, secondo spifferate ulteriori si è deciso tutto dopo un sopralluogo ai musei dello staff di Rohani: comunque, quando lunedì sera il presidente ha percorso il corridoio che doveva condurlo al luogo della conferenza stampa, gli è stata risparmiata la vista sconveniente di opere d’arte ignude da due millenni e mezzo. E così non soltanto la politica: come si dice in questi casi, «si è scatenata l’ironia del web». Si è ricordato al presidente del Consiglio la promessa di spendere un euro in cultura per ogni euro speso in sicurezza, gli si è ricordato il grido di vaporoso orgoglio dopo gli attentati di Parigi a dicembre («la bellezza è più forte della barbarie»), il precedente di un paravento gigliato che risparmiò le mascolinità di una scultura di Jeff Koons a un principe saudita, e lo si è irriso con una sfilata di immagini: il David di Michelangelo in mutande, la Venere di Milo col reggiseno, e poi l’album della storia dell’arte occidentale, nudo dopo nudo. Dunque: l’ironia delle minoranze, l’ironia del web e infine l’ironia di testate straniere come il Figaro che nell’edizione on line ha cominciato il pezzo ricordando un motto internazionale: «A Roma fai come fanno i romani», regola unica per sopravviverci. E stavolta no: a Roma si fa come dicono gli iraniani, compresa una cena senza vino quando - ricorda ancora il Figaro - a Parigi una simile occasione fu cancellata per evitare collisioni fra laïcité e sharia. Stavolta si ha più l’impressione che la sharia abbia vinto per compiacente abbandono dell’avversario: gli affari in miliardi di euro che si prevede scaturiranno dagli incontri di questi giorni hanno consigliato a Renzi di ingoiarsi tante prese in giro. E a sera, prima dei tg, dead line per ogni dichiarazione importante, nessuno del Pd aveva ancora cercato di metterci una pezza, e pure qui verrebbe una battuta, ma ve la risparmiamo.

Arriva Rohani, l’omofobo. Si coprono le statue e nessuno scende in piazza, scrive "Tempi”. Tutti in piazza per le unioni civili, ma nessuno per protestare contro la visita del presidente di un paese dove gli omosessuali sono perseguitati. «Soltanto tre giorni fa qualche centinaio di migliaia di italiani era in piazza per manifestare a favore dei diritti omosessuali, non ancora riconosciuti in Italia, non a sufficienza. Si parla con agio di medioevo, si definiscono trogloditi gli oppositori, ci si infiamma di sdegno perché sul Pirellone a Milano compare la scritta “Family Day”. Poi arriva in visita ufficiale il presidente iraniano Hassan Rohani (è arrivato ieri) e tutto questo fermento è già indolenzito nel torpore dei giorni feriali». Scrive così oggi, sulla Stampa, Mattia Feltri. Certo, ci sono i soldi (affari per 17 miliardi di euro, si dice), ma Feltri non può fare a meno di notare come in un battibaleno «i rutilanti caroselli di sabato si siano spenti, la riprovazione per l’arretratezza culturale italiana è evaporata, non importa che Rohani sia presidente di una Repubblica islamica nella quale gli omosessuali vengono impiccati in piazza, appesi alle gru». Sono cose che accadono non di rado nel mondo musulmano (si pensi, solo per fare un esempio, agli omosessuali gettati dalle torri di Raqqa dai jihadisti dello Stato Islamico). Ma non solo lì, appunto. L’Iran è il paese dove se un omosessuale viene scoperto «si prende cento frustate (se il rapporto era casto e si pente) oppure viene messo a morte (se il rapporto era completo). Purtroppo non ci sono statistiche sulle esecuzioni, perché è capitato che i gay, anche minorenni, venissero condannati sotto voci più generiche. Gli amanti del dettaglio troveranno soddisfazione nell’ultimo report di Nessuno tocchi Caino, associazione della galassia radicale: 980 condanne capitali soltanto nel 2015, soprattutto per traffico di droga e omicidio ma anche per reati politici e – come detto – di natura sessuale. E poi lapidazioni, torture, mutilazioni cioè l’intera casistica delle pene inflitte per dare soddisfazione a Dio». Gli unici che hanno protestato sono stati i radicali. E gli altri? «Le ragioni di una così straordinaria indifferenza sono difficili da comprendere», scrive Feltri. Già. Intanto, sempre oggi sono uscite le immagini dei pannelli con cui sono state ricoperte i nudi delle statue dei musei capitolini. Non sia mai che Rohani, passandovi di fianco, possa offendersi.

Statue coperte, Rohani: "Caso giornalistico, Italia Paese ospitale".  Sel: "Renzi spieghi questa vergogna". Salvini-Meloni attaccano Ironia anche sul Guardian, scrive "L'Ansa" il 27 gennaio 2016. La vicenda delle statue coperte "è una questione giornalistica. Non ci sono stati contatti a questo proposito. Posso dire solo che gli italiani sono molto ospitali, cercano di fare di tutto per mettere a proprio agio gli ospiti, e li ringrazio per questo". Così il presidente iraniano Hassan Rohani rispondendo a una domanda dei giornalisti in conferenza stampa a Roma. "Quella di coprire le statue dei Musei capitolini, in occasione della visita a Roma del presidente iraniano Hassan Rohani - ha detto il ministro per i beni culturali, Dario Franceschini - è stata una "scelta incomprensibile. Penso che ci sarebbero stati facilmente altri modi per non andare contro alla sensibilità di un ospite straniero così importante senza questa incomprensibile scelta di coprire le statue. Non era informato - ha proseguito Franceschini - né il presidente del Consiglio né il sottoscritto di quella scelta di coprire le statue". "Ho presentato un'interrogazione al presidente del Consiglio perché siano resi noti tutti i nomi della banda di idioti che ha ordinato la copertura di statue che potevano dare fastidio a Rohani, il leader iraniano in visita in Italia". Lo dichiara il senatore Maurizio Gasparri (FI). "Questo gesto di prostituzione culturale - prosegue - ordinato dalle autorità italiane a beneficio di un personaggio che nel suo paese applica la pena di morte, che minaccia la libertà e la vita di Israele, che viene da noi omaggiato e tollerato nei suoi abusi solo per interessi commerciali ha ottenuto atteggiamenti inconcepibili. Bisognerebbe mettere una sorta di burqa politico a quanti hanno ordinato questo scempio politico-culturale". "Chiedo di conoscere i nomi - afferma Gasparri - di quanti hanno impartito le direttive che sono state eseguite supinamente da chi non ha avuto uno scatto di dignità e orgoglio. Quanti protestarono per una tenda di Gheddafi che per alcune ore fu piantata a Roma oggi tacciono di fronte a questo stupro alla nostra cultura e identità storica. È tipico del renzismo assumere questi atteggiamenti e quindi non appaiono credibili le presunte proteste dello stesso presidente del consiglio. Per questa ragione vogliamo chiarezza. Si esibiscano i documenti, le direttive, le identità di chi ha attuato questa vergogna di cui l'Italia porterà a lungo memoria". In occasione della visita del presidente iraniano Hassan Rohani in Campidoglio sono state coperte da pannelli bianchi su tutti e quattro i lati alcune statue di nudi dei Musei Capitolini. La copertura sarebbe stata decisa come forma di rispetto alla cultura e sensibilità iraniana. Tanto che durante le cerimonie istituzionali non è stato servito nemmeno il vino. E la notizia fa scoppiare una bufera politica. Salvini, gli onori di Renzi a chi vuole la fine di Israele - "Renzi accoglie con tutti gli onori il presidente dell'Iran, lo stesso signore che vorrebbe cancellare Israele dalla faccia della terra. E magari domani Renzi farà il burattino alla Giornata della Memoria, per ricordare lo sterminio degli Ebrei... Renzi ipocrita e anche complice!". Così su Facebook il segretario della Lega Nord Matteo Salvini. "Per la visita degli iraniani - conclude Salvini - ieri sono state 'coperte' da pannelli bianchi alcune statue con nudi dei Musei Capitolini, per rispetto... Roba da matti". Meloni, indecente sudditanza Renzi - Il livello di sudditanza culturale di Renzi e della sinistra ha superato ogni limite di decenza. A questo punto ci chiediamo che cosa avrà in mente Renzi per l'arrivo in Italia dell'emiro del Qatar previsto in settimana: coprire la Basilica di San Pietro con un enorme scatolone?". Lo scrive su Facebook il presidente di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni. L'ironia del Guardian - "Roma copre le statue di nudi per evitare al presidente iraniano di arrossire": così, con una nota d'ironia, il Guardian dedica oggi addirittura il titolo a questa vicenda in un articolo di cronaca sulla visita di Hassan Rohani in Italia e in Vaticano. Ad attirare l'attenzione del giornale britannico - ancor prima delle questioni politiche e degli accordi economici messi sul piatto nei colloqui romani di Rohani - sono state proprio le statue dei Musei Capitolini nascoste dietro alcuni pannelli bianchi in occasione della conferenza stampa congiunta del presidente iraniano con il premier Matteo Renzi all'ombra del monumento equestre a Marc'Aurelio. Un gesto motivato dalle autorità italiane - scrive il Guardian, dopo aver citato l'ANSA come fonte di questa curiosità - con la volontà di non imbarazzare l'ospite e scongiurare "ogni possibile offesa". Il giornale nota anche come nel corso della cena ufficiale in onore di Rohani non siano stati offerti alcolici, consuetudine che lo stesso Guardian descrive peraltro come consolidata quando sono in visita diplomatica "dignitari musulmani". Il quotidiano inglese non manca infine di sottolineare un precedente dell'ottobre scorso, quando Renzi ricevette nella sua Firenze il principe ereditario di Abu Dhabi, Mohammed bin Zayed. Sel lancia petizione su Change.org - "In occasione della visita del presidente iraniano Hassan Rohani in Campidoglio sono state coperte da pannelli bianchi su tutti e quattro i lati le statue di nudi dei Musei Capitolini. La copertura sarebbe stata decisa per non turbare la "sensibilità" religiosa del presidente iraniano". E' quanto scrive Gianluca Peciola, esponente di Sel, che ha lanciato una petizione su change.org. "Chiediamo al Presidente del Consiglio Matteo Renzi - continua Peciola - spiegazioni immediate ed ufficiali su una scelta che consideriamo una vergogna e una mortificazione per l'arte e la cultura intese come concetti universali. Inoltre riteniamo che siano stati gravemente violati e compromessi i principi di laicità dello Stato e di sovranità nazionale". Radicali, a Torino caso analogo con Papa - Diventa un caso la scelta di coprire le statue di nudi dei Musei Capitolini in occasione della visita del presidente iraniano Hassan Rohani, "ma per il Papa nessuno disse niente": così i coordinatori dell'Associazione radicale Adelaide Aglietta, Silvja Manzi, Laura Botti, Igor Boni. "A giugno dello scorso anno (non del secolo scorso), solo sette mesi fa, sempre per rispetto - spiegano i radicali - vennero coperti i manifesti della mostra di Tamara de Lempicka per la visita del Papa nella laica (si fa per dire) Torino. Allora nessuno si scandalizzò, oggi nessuno lo ricorda". "Si tratta evidentemente di una laicità a corrente alternata, ma la laicità è ... o non è" aggiungono e, riferendosi al voto di ieri del Consiglio Comunale di Torino che ha respinto la richiesta di rimuovere il Crocefisso dall'aula, concludono che si tratta di preoccupanti "passi indietro sulla laicità".

Statue coperte, "giallo" su chi ha deciso, scrive “Avvenire” il 27 gennaio 2016. Una questione "giornalistica" per Rohani, quella della polemiche nate dalle statue coperte al Museo Capitolino in occasione della sua visita. In conferenza stampa dice di non avere niente da dire, aggiungendo però: "So che gli italiani sono un popolo molto ospitale, che cerca di fare di tutto per mettere gli ospiti a loro agio". Un atto di ospitalità, dunque, che però non smette di far discutere. Il vicepresidente Fi del Senato Maurizio Gasparri ha presentato un'interrogazione al presidente del Consiglio Matteo Renzi, chiedendo che "siano resi noti tutti i nomi della banda di idioti che ha ordinato la copertura di statue che potevano dare fastidio al presidente iraniano Rouhani, in visita in Italia". Un gesto di "prostituzione culturale", di cui Gasparri chiede di conoscere gli autori. Toni meno polemici da parte del ministro dei Beni culturali Dario Franceschini: "Io penso che ci sarebbero stati facilmente altri modi per non andare contro la sensibilità di un ospite straniero così importante senza questa incomprensibile scelta di coprire le statue ". Franceschini ha aggiunto: "Né il sottoscritto né il presidente del Consiglio erano stati informati di quella scelta di coprire le statue". E siamo al rimpallo di responsabilità: "Sulla vicenda delle statue dei Musei Capitolini coperte in occasione della visita del presidente iraniano Rohani dovete chiedere a Palazzo Chigi. La misura non è stata decisa da noi, è stata un'organizzazione di Palazzo Chigi, non nostra". Così la Sovrintendenza capitolina ai beni culturali smentisce un suo ruolo nella decisione di coprire alcune statue di nudi dei Musei Capitolini e rinvia al cerimoniale della presidenza del Consiglio. Durissimo il Codacons, che chiede il licenziamento di coloro che hanno preso la decisione "per i gravi danni all`onore e all'immagine di Roma e dell'intera Italia, e per la figuraccia cagionata al Paese a livello mondiale". Il presidente Carlo Rienzi dice anche di aver presentato un esposto alla Corte dei Conti, "perché le spese relative alla copertura delle statue siano sottratte alla collettività e addebitate direttamente a chi ha preso tale folle decisione, che deve risponderne in prima persona".

Nudi coperti, il governo fa lo scaricabarile. Ma la Sovrintendenza accusa Renzi. Il presidente iraniano: "Gli italiani fanno di tutto per mettere a proprio agio gli ospiti". L'oscurantista Renzi fa imbarazzare l'Italia davanti al mondo intero. E sottomette la millenaria cultura occidentale all'islam. Ma Franceschini fa lo scaricabarile ma viene smentito dalla Sovrintendenza, scrive Andrea Indini, Mercoledì 27/01/2016, su "Il Giornale". Il presidente iraniano Hassan Rohani prova a tagliare corto, ma la decisione di coprire alcune antiche statue di nudi dei Musei Capitolini ha già mostrato al mondo l'imbarazzante sottomissione dell'Italia all cultura islamica. "Non ci sono stati contatti a questo proposito", assicura Rohani scaricando tutta la responsabilità della scandalosa decisione sul governo italiano. "Posso dire solo che gli italiani sono molto ospitali - continua il presidente italiano - cercano di fare di tutto per mettere a proprio agio gli ospiti, e li ringrazio per questo". L'Italia oscurantista copre la propria cultura per non offendere il presidente iraniano e la sua religione, l'islam. Una premura che non era stata chiesta da Teheran. Anzi, pare proprio che il cerimoniale di Stato iraniano non ne sapesse nulla. Ha fatto tutto Roma. Dietro a osceni pannelli bianchi sono state nascoste la Venere Esquilina, il Dioniso degli Horti Lamiani e un paio di gruppi monumentali perché nudi. Uno sfregio alla bellezza dei Musei Capitolini e, soprattutto, uno schiaffo alla cultura italiana e, più in generale, a quella occidentale. L'ingresso della sala Pietro da Cortona sarebbe stato addirittura chiuso da un pannello per impedirne la vista. Ma non finisce qui. Come fa trapelare la Bbc News, "l'Italia ha anche scelto di non servire vino nei pranzi ufficiali, un gesto che la Francia, dove Rohani andrà poi, si è rifiutata di compiere". Gli inquietanti particolari della visita del capo di Stato negazionista, che (coincidenza imbarazzante) è stata fissata alla vigilia della Giornata della Memoria, hanno trovato eco anche su tutti i media internazionali, in alcuni casi con malcelata ironia. In Francia, per esempio, Le Figaro ha ricordato a Renzi il detto "A Roma fai come i romani". Oltremanica ci ha pensato il Guardian a prendere in giro il nostro governo: "Roma copre le statue di nudi per evitare al presidente iraniano di arrossire". Ma aldilà delle facili e ovvie ironie suscitate all'estero, è in Italia che Matteo Renzi è finito al centro di una asprissima polemica. Dopo aver portato Rohani in giro per il Colosseo, il ministro per i Beni culturali Dario Franceschini si è subito fiondato a difendere il premier. "Né io né Renzi - ha detto - eravamo stati informati della scelta di coprire le statue". Uno scaricabarile che viene subito smontato dalla Sovrintendenza capitolina ai beni culturali: "La misura non è stata decisa da noi, è stata un'organizzazione di Palazzo Chigi non nostra". Tanto che al Senato Maurizio Gasparri ha presentato un'interrogazione a Renzi perché renda noti tutti i nomi della "banda di idioti" che ha ordinato la copertura di statue. "Questo gesto di prostituzione culturale - denuncia il senatore di Forza Italia - è stato ordinato dalle autorità italiane a beneficio di un personaggio che nel suo paese applica la pena di morte, che minaccia la libertà e la vita di Israele e che viene da noi omaggiato e tollerato nei suoi abusi solo per interessi commerciali". Lo sdegno attraversa tutta la politica. "Roba da matti", scuote la testa Matteo Salvini ricordando che Rohani è "lo stesso 'signore' che vorrebbe eliminare Israele". Anche all'interno del Pd non mancano le critiche, anche se i più si limitano a parlare di. "improvvido eccesso di zelo". Ma da Forza Italia gli fanno notare che coprire le statue "non è rispetto" ma "annullamento delle differenze o addirittura sottomissione". Il presidente di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, parla di un "livello di sudditanza culturale di Renzi e della sinistra" che "ha superato ogni limite di decenza".

La statua equestre è "sconveniente". Per Rohani spostato pure il palco. Un retroscena rivela nuovi dettagli sulla visita del presidente iraniano e il fastidio di Palazzo Chigi. Intanto la stampa internazionale si scatena, scrive Luca Romano, Mercoledì 27/01/2016, su "Il Giornale". Se ieri a tenere banco è stata la polemica, oggi si cercano i colpevoli. Le statue delle Veneri coperte per l'arrivo a Roma del presidente iraniano Hassan Rohani occupano le pagine di tutti i giornali, non solo in Italia. E sulla questione dei nudi nascosti per "non offendere" l'ospite straniero resta un dubbio. Chi ha deciso? In conferenza stampa a Parigi, dove Rohani è arrivato oggi, per un altro giro di incontri al vertice, il presidente si è rifiutato di entrare nei dettagli, dicendo che quella dei nudi del Campidoglio è "una questione giornalistica" e lasciando intendere che non ci sono state richieste particolari da Teheran. E un retroscena pubblicato dal Messaggero sembra indicare che neppure a Palazzo Chigi pretendessero tanto. Il palchetto da cui Renzi e Rohani hanno parlato è stato spostato, racconta il quotidiano. Troppo vicino ai testicoli della statua equestre di Marco Aurelio, pare. E Matteo Renzi, di quei pannelli di compensato, non sembra essere rimasto troppo felice, tanto che ha chiesto conto di quell'eccesso di zelo cerimoniale. "Non era informato nè il presidente del Consiglio nè il sottoscritto", ha aggiunto il ministro per i Beni culturali, Dario Franceschini. Tutti hanno scritto di quanto successo a Roma, dal Guardian a Le Figaro. E quello che trapela da Palazzo Chigi è un certo fastidio, anche perché la questione dei nudi ha rubato la scena a una giornata che segnava la riapertura di una nuova fase con un Paese, l'Iran, storicamente amico dell'Italia. Dal canto suo Massimo Sgrelli, già capo del Cerimoniale di Stato, difende ancora sulle pagine del Messaggero quello che è successo a Roma. "Nella scelta di rispettare la sensibilità altrui non c'è alcuna sottomissione".

L'ipocrisia del Pd di Renzi: onora solo i costumi islamici. A Roma censurati i marmi classici per "non offendere" Rohani. Ma come si può parlare di integrazione o anche solo di scambi economici se non abbiamo il coraggio di mostrare ai nostri interlocutori la nostra identità? Scrive Giovanni Masini, Martedì 26/01/2016, su "Il Giornale". La chioma castana di Debora Serracchiani come le "vergogne" dei marmi romani. Due casi assai diversi ma che si possono facilmente porre in correlazione. Pochi giorni fa, la vicepresidente del Pd si faceva fotografare durante una visita ufficiale in Iran con indosso il velo islamico. Un atto di rispetto verso le usanze di quel Paese, che però sollevò numerose polemiche politiche, anche all'interno dello stesso Partito democratico. Due settimane più tardi è il presidente iraniano Hassan Rohani a visitare l'Italia. Stavolta però a venire censurate sono state le statue romane dei Musei Capitolini, coperte perché le nudità classiche non turbassero il pudico sguardo presidenziale. Questi i fatti. Che impongono però alcune riflessioni. Quello della Serracchiani è stato un gesto di riguardo verso l'ospite, non imposto da alcun regolamento (alle spalle del governatore del Friuli si può infatti vedere una donna a capo scoperto) ma solo un'espressione di cortesia. La censura delle statue invece è un fatto diverso. Anzitutto perché nulla impediva che la conferenza stampa con Rohani venisse ospitata altrove, lontano dalle "scandalose" pudenda di marmo. Soprattutto perché l'arte classica è Roma, con i suoi nudi e con le sue censure - come dimenticare, infatti, che furono gli stessi Papi, ad ordinare, in piena Controriforma, la "vestizione" dei nudi della Cappella Sistina? Se Rohani visita Roma, se intende promuovere i commerci e gli scambi con l'Italia deve sapere con chi ha a che fare. Esattamente come è bene che gli italiani conoscano e rispettino le usanze e le tradizioni iraniane. Censurare preventivamente un'arte millenaria è atto sacrilego, indice della nostra debolezza. Ma sbaglierebbe chi pensasse che quei pannelli di legno che nascondono le sculture dei Musei Capitolini rappresentino una vittoria dell'Iran. Quella censura è invece testimonianza dello zeitgeist, dello spirito del tempo, occidentale. Imbevuto di relativismo, inebetito dal mantra per cui solo annullando la nostra identità potremmo realizzare una vera integrazione. Il precedente, del resto è presto servito: a ottobre, a Firenze, una scultura di nudo dello scultore statunitense Jeff Koons venne coperta da un paravento per non turbare la sensibilità del principe ereditario degli Emirati Arabi Uniti, Mohammed Bin Zayed Al Nahyanl. Tanto ricco quanto Rohani è potente (e, en passant, presidente di uno Stato dove i diritti umani vengono calpestati ogni giorno). Perché nascondere la propria identità è sempre inaccettabile, ma farlo per omaggiare ricchi e potenti è ancora più ignobile.

Sottomissione, scrive Massimo Gramellini il 27 gennaio 2016 su "La Stampa". I geni del cerimoniale che hanno inscatolato quattro statue peraltro velate del museo Capitolino nel timore che, vedendole, il presidente iraniano Rohani avesse uno sgomento ormonale e stracciasse i contratti con le nostre aziende sono i degni eredi di un certo modo di essere italiani: senza dignità. Quella vocazione a trattare l’ospite come se fosse un padrone. A fare i tedeschi con i tedeschi, gli iraniani con gli iraniani e gli esquimesi con gli esquimesi. A chiamare «rispetto» la smania tipica dei servi di compiacere chi li spaventa e si accingono a fregare. Su questa tradizione millenaria, figlia di mille invasioni e battaglie perdute anche con la propria coscienza, si innesta il tema modernissimo del comportamento asimmetrico con gli Stati musulmani. Se un’italiana va in Iran, si copre giustamente la testa. Se un iraniano viene in Italia, gli copriamo ingiustamente le statue. In un modo o nell’altro - in un mondo e nell’altro - a coprirci siamo sempre noi. E la suscettibilità da non urtare è sempre la loro. Ma se la presenza di donne sigillate da capo a piedi su un vialone di Baghdad urtasse la mia, di suscettibilità? Non credo che, per rispetto nei miei confronti, gli ayatollah consentirebbero loro di mettersi la minigonna. Sarei curioso di sapere come funziona la sensibilità a corrente alternata del signor Rohani (le tette di marmo lo sconvolgono e i gay condannati a morte nel suo Paese no?) e di sentire cosa penserebbe mia nonna di questa ennesima arlecchinata italica: quando ero bambino mi insegnò che il primo modo di rispettare gli altri è non mancare di rispetto a se stessi. 

Renzi e quelle statue coperte: quando la tolleranza diventa servilismo, scrive Filippo Di Stefano il 27 gennaio 2016. Ha scatenato un incredibile polverone mediatico la scelta di Renzi di far coprire le statue dei Musei Capitolini, per non offendere la "sensibilità musulmana" del presidente iraniano Rohani. Reazioni giustificate? Renzi e le sue statue. Potrebbe essere il titolo di una mediocre satira a tinte grottesche, con un pronunciato sottotesto di drammaticità. Eppure, è tutto vero. L’episodio in questione è ovviamente la copertura delle statue esposte presso i Musei Capitolini per ordine del Governo, in concomitanza con la visita del presidente iraniano Hassan Rohani. Un gesto di scellerata leggerezza-nei confronti della Cultura, con la C maiuscola, e del buongusto-giustificato con il fantasma della famosa “ospitalità italiana”. L’ha ripetuto lo stesso Rohani dopotutto, avendo apprezzato il gesto atto a non ledere la sua sensibilità di musulmano di tendenze filo-integraliste: “L’Italia è un Paese molto ospitale”. E ci mancherebbe. Tuttavia la decisione ha sollevato uno tsunami di polemiche sia in Parlamento, sia nei bar di tutta la Penisola. Ormai non si parla d’altro, ed il quesito sulla bocca degli italiani è pressappoco il medesimo da regione a regione, con sottilissime-trascurabili-variazioni: “Se Renzi voleva essere ospitale perché, anziché coprire dei simboli di Storia, d’Arte e di Cultura del nostro Paese come fossero abominevoli blasfemie, come se se ne dovesse vergognare lui stesso, non gli ha invece concesso per una notte la signora Agnese?”. Probabilmente Rohani avrebbe gradito l’articolo ancora di più. Ma fatto sta che il Premier ha preferito umiliare la propria identità storica e culturale-insieme a quella di milioni di italiani-piuttosto che rischiare di destabilizzare il giudizio morale del presidente dell’Iran. Apparentemente un rischio calcolato per Renzi, che ha simulato per l’occasione un sentimento di pudicizia talmente ipocrita e farisaico, che avrebbe fatto inorridire persino il suo omonimo televisivo Don Matteo. Le reazioni dal mondo della politica non si sono fatte attendere. Maurizio Gasparri ha definito la copertura delle statue “Prostituzione culturale” ad opera di “una banda di idioti”, ricordando che l’Iran vorrebbe la fine di Israele. Che tale prospettiva sia però assolutamente reciproca fra le parti, Gasparri questo non l’ha menzionato. Ancora più dura la Meloni, che ha ventilato l’ipotesi di coprire l’intera Basilica di San Pietro in occasione dello sbarco-oramai prossimo-dell’emiro del Qatar, sottolineando che la sudditanza di Matteo Renzi abbia travalicato ogni limite della decenza. Reazioni a forti tinte ironiche sono giunte, immancabili, dalle testate estere, che non hanno mancato di riportare la vicenda in chiave burlesca. Apprezzabile in particolare il british humor del Guardian (“Roma copre le statue nude per evitare al presidente iraniano di arrossire”). E su change.org è prontamente nata una petizione volta ad ottenere le scuse al popolo italiano da parte di Matteo Renzi. Giochi di politica? Probabilmente sì. Anche se lui, in un disperato tentativo di salvare la faccia, giura oggi che non ne sapeva nulla. Sintetizzando il tutto: per quanto Machiavelli stesso pontificasse sulla necessità del Principe di saper apparire multiforme, così da volgere ogni situazione a proprio vantaggio, lo stesso eminente riferimento non mancava di ricordare che il buon regnante dovesse essere sì “golpe” furba, ma anche dispotico e ruggente “lione” all’occorrenza. Pena il farsi mettere i piedi in testa, e perdere credibilità ed autorità; dunque potere. E Matteo Renzi (che giocava peraltro in casa) con quest’uscita pregna di svilente e gratuito servilismo è sembrato, più che un leone, al massimo un gattino ammansito. Finanche nella propria “tana”.

COSA NE PENSA L’AUTORE. FILIPPO DI STEFANO - Questa farsa è degna delle peggiori operette, è metasatira, è la politica che prende per il culo sé stessa nella realtà quotidiana. Ormai siamo arrivati al punto in cui il grottesco ha travalicato i confini dello spettacolo, per radicarsi-trovare concretezza-in quegli stessi contesti dai quali prendeva spunto. E non è cosa di oggi. La questione sinceramente mi imbarazza, e non poco. Trovo ridicolo il dover essere arrivati a coprire delle statue per non offendere la sensibilità religiosa di un (pur eminente) personaggio estero, tantopiù che non stiamo parlando di nulla di osceno, bensì delle fedeli rappresentazioni di normalissimi e naturalissimi corpi umani. Quoto inoltre chi ha citato l'analogo episodio avvenuto l'anno scorso in occasione di una visita papale, e le disgraziate pennellate di Berlusconi al quadro con l'impudico capezzolo scoperto. Il fatto che certi individui si vergognino a tal punto della propria cultura, salvo poi organizzare festini a coca e mignotte degni del peggior Diprè (che tanto parla, ma in fondo è un poveretto), è insopportabile.

Statue? Impacchettate Renzi e speditelo in Iran a fare un corso di tolleranza, scrive Emanuele Ricucci il 26 gennaio 2016 su "Il Giornale". Stiamo a vedere quando toccherà a noi italiani non essere offesi. Come ebbi modo di scrivere. Dà fastidio il crocifisso? Guardassero altrove. Dà fastidio la patatina marmorea della Venere o gli attributi bronzei della Statua equestre di Marco Aurelio? Andassero altrove. Facessero altrove la farsa. Che so, in Villa Borghese tra i mezzi busti. Ritorno al medioevo o giù di lì? A quando per pudore venivano fatti ricoprire i nudi della Cappella Sistina? O per essere politicamente corretti del Glande Sistina (tanto, visto che ci siamo…)? Coerenza! Ora basta. Se integrazione deve essere, lo sia per davvero. Togliete la biada al cavallo bronzeo di Marco Aurelio: ramadan. Mettete il velo alla Venere di Botticelli, forza! E se possibile troncate pèni di marmo e coprite le sacre nudità partorite dalla gentilezza pittorica di qualche matto infedele del Rinascimento italiano. E soprattutto, altro che le statue di marmo: impacchettate Renzi e tutta la bislacca corte e spediteli in Iran a fare un corso di tolleranza e rispetto delle culture altrui, vedranno quanto sarà più facile chiudere accordi commerciali, chinare il capo e sottostare a leggi morali, etiche e giuridiche ferree. Velo per la Boschi subito, appena scesa dall’aereo, zitti e mosca. Dopo aver subordinato ogni proiezione spontanea di italianità al rispetto dell’altro, ai capricci del progresso che sposta i mercati qua e là, dopo aver quasi dimenticato che cent’anni fa ci fu la Grande Guerra, dopo aver tolto di mezzo crocifissi, dopo aver chiesto di buttare giù obelischi, dopo aver fatto crollare mezza Pompei, mentre l’operazione di smontaggio dell’italianità, dell’essenza stessa della cultura italiana (non basta un bel paio di scarpe “Made in Italy”, fatte a mano, voilà, né la riforma Franceschini che risistema le soprintendeze italiane, per quanto ben concepita) è in lento progredire, ci mancava la ciliegina sulla torta. E certo. Strappare la lingua all’arte che da secoli parla un linguaggio universale è davvero barbarico. Uno stupido servilismo, un’inutile prostrazione. Nascondersi, la parola d’ordine del regime è nascondersi. Nascondere le origini in nome del rispetto, nascondere il proprio credo in nome della tolleranza. Nascondere l’arte dietro a pannelli di plastica. Una mutilazione, un aborto; guardare quella freddezza impacchettata, quei pannelli, annichilisce, roba da star male, sconcertati davanti allo schermo. “Fonti della delegazione iraniana confermano che, durante un sopralluogo, i nudi femminili erano stati considerati inappropriati per la visita del leader e religioso iraniano”, riporta il Corsera. Coprire i nudi, poi, siamo al ridicolo. Siamo d’accordo che il presidente iraniano Hassan Rohani pensi che non tutti abbiano i genitali e per questo si offenda terribilmente nel constatare che, in queste latitudini, esistano, addirittura nelle raffigurazioni marmoree di uomini e donne, ma calarsi le braghe così platealmente, senza ovviamente mostrare i gioielli di famiglia, sempre per questione rispetto, è davvero qualcosa di incredibile. Nel frattempo, Franceschini annuncia che Pistoia sarà la capitale della cultura 2017. Evviva! Speriamo che, lì almeno, non vada in visita nessuna delegazione…non si sa mai.

Umiliati a casa nostra, scrive Vittorio Sgarbi su “Il Tempo” 27 gennaio 2016. È inverosimile. Le ridicole ragioni esibite dal cerimoniale per giustificare la copertura di antiche statue romane ai musei capitolini indicano uno stato di soggezione indegno di un paese libero. Sarebbe inimmaginabile un comportamento come questo da parte del governo americano. Anche se, all’apparenza, la manifestazione di superiorità che l’Occidente può offrire è nella cortesia di fare una cosa gradita a un ospite. Diversamente, obbedire alle indicazioni attribuite al cerimoniale del presidente iraniano appare un’umiliazione. In passato, sul piano folkloristico, ci si era assoggettati ai capricci di Gheddafi che aveva voluto accamparsi nelle sue tende. Nonostante che anch’egli fosse un rappresentante della religione musulmana non si era arrivati a coprire le testimonianze della civiltà romana per compiacerlo. Mai eravamo scesi così in basso. L’arrivo del presidente Rouhani deve invece far riflettere sulla differenza tra una grande civiltà come quella persiana e l’Islam sotto il dominio di Maometto. Non è possibile confondere il presidente dell’Iran con il califfo al-Baghdadi, la Persia non è l’Isis e Rouhani non è Bin Laden. La religione islamica in Iran ha profonde radici culturali come la religione cristiana ha radici nel mondo greco e nel mondo latino. A Persepoli si vede la grandezza della civiltà persiana come a Roma antica si vede la grandezza della civiltà occidentale. I persiani non rinnegano il loro passato, non ne occultano le testimonianze. È insensato nascondere le nostra agli occhi di Rouhani, che non poteva immaginare che quelle scatole occultassero nudi maschili di Roma Antica e non nudi pornografici. D’altra parte, nella statuaria antica nudo è il maschio - eroe, atleta o guerriero - mentre coperta è la femmina, come anche l’Islam richiede. Per questo era insensato cercare d’interpretare un senso di pudore inesistente nella sensibilità di un iraniano colto per un eccesso di zelo non compreso e per noi mortificante. Il paradosso è che le rovine di Persepoli sono alla luce del sole in Iran e le rovine romane sono nascoste a Roma.

Quel nudo coperto della Venere che ci fa apparire solo ridicoli. Chi è superiore può fare qualunque cosa. Chi ha paura, si umilia, rinnegando la propria identità per prevenire rischi, scrive Vittorio Sgarbi, Mercoledì 27/01/2016, su "Il Giornale". La decisione di coprire le sculture romane del Campidoglio può essere motivata da due impulsi. Il primo di superba cortesia, il secondo di umiliazione. Chi è superiore può fare qualunque cosa, concedendo ciò che ritiene gradito all’altro. Chi ha paura, si umilia, rinnegando la propria identità per prevenire rischi. È difficile dire quale delle due motivazioni abbia mosso il cerimoniale a uno dei comportamenti più insensati che si potessero assumere, perché l’eccesso di zelo che si finge ispirato da una richiesta del cerimoniale iraniano può far riferimento alla provocazione di nudi contemporanei su manifesti pubblicitari o cinematografici. Ma la storia è immune dal senso del pudore anche più radicale ed estremo. E qui, infatti, ci sono l’equivoco e il difetto culturale. Sappiamo le varietà dell’islam, ma non si può immaginare di misurarsi con gli stessi strumenti con l’islam radicale che ha il suo profeta in Maometto e la religione islamica innestata su una civiltà antica come la nostra. Non è possibile confondere l’autorità religiosa e politica iraniana con il califfo Al Baghdadi. Non è possibile confrontarsi con l’Iran come con Al Qaida o l’Isis. Per secoli la religione islamica ha rispettato Palmira, che solo in tempi recenti è stata intollerabilmente violata. La Siria musulmana non rinnegava la storia romana. Parimenti, l’islam in Iran si innesta sulla millenaria civiltà persiana, non diversamente dal cristianesimo sulle radici greche e romane. I cristiani hanno adattato ma non distrutto il Pantheon. E allora, soltanto una profonda ignoranza può pensare di coprire in Italia testimonianze della storia antica che non sono oscurate in Iran. A Persepoli, in Iran, i corpi nudi non sono censurati e non è dunque pensabile censurare i corpi nudi romani a Roma. Vedere quelle scatole non sarà sembrato al presidente iraniano Rouhani un gesto di cortesia, né, tanto meno, per fortuna, di sottomissione, ma soltanto la testimonianza di una sciatteria di chi ha continui cantieri per restauri in corso. Questo deve aver pensato, da uomo di cultura, dei parallelepipedi che nascondevano statue di cui non poteva immaginare l’aspetto D’altra parte la nudità da coprire per il senso del pudore ispirato dalla religione è quella femminile, e non quella maschile. Nelle antichità romane il corpo dell’uomo può essere nudo, quello della donna è coperto. Se occorreva apparire ridicoli siamo riusciti ad esserlo.

"Difendiamo la nostra civiltà a costo di offendere le altre". Il filosofo inglese Roger Scruton racconta il flop delle politiche sugli stranieri: "L'Europa si è arresa alla sinistra: se parli di integrazione passi per razzista", scrivono Simone Bressan e Andrea Mancia, Lunedì 18/01/2016, su "Il Giornale". Roger Scruton è un uomo fuori dal tempo. Compirà 72 anni tra poco e solo qualche giorno fa il Weekly Standard lo ha definito come «il conservatore inglese più significativo dai tempi di Edmund Burke». Lui fa di tutto per non smentire l'onorificenza e nel suo ultimo libro Fools, Frauds and Firebrands: Thinkers of the New Left («Sciocchi, imbroglioni ed estremisti: i pensatori della Nuova Sinistra») - espansione e aggiornamento di un suo controverso lavoro del 1985 - disegna una sorta di crudele «bestiario» dell'intellighènzia globale sinistrorsa dal Dopoguerra a oggi. Scritto con il disincanto di chi si ricorda di essere figlio di una famiglia laburista, il libro mette a nudo tutti i limiti del pensiero progressista, affrontando mostri sacri come Habermas, Lukacs, Sartre, Galbraith e Derrida. Scruton è uno di quelli che ha scelto di non piegarsi al politically correct dominante e che continua a ritenere che la nostra civiltà sia minacciata più dall'estremismo islamico che da qualche opinione un po' sbilenca rispetto ai rigidi confini tracciati dai guru del progressismo. In un delizioso dialogo con il giornalista Mike Hume, pubblicato questo mese dal periodico inglese Spiked!, Scruton argomenta con grande lucidità le ragioni del suo ultimo lavoro e spiega il senso di voler dedicare un intero libro alla demolizione intellettuale di pensatori a volte ignoti al grande pubblico. Anche se «all'uomo della strada questi nomi dicono poco» e le loro biografie sono particolarmente datate, gli effetti devastanti del loro pensiero debole rischiano di essere letali per l'Occidente. Soprattutto oggi che le minacce alla nostra libertà sono diventate terribilmente serie. Lo slogan della rivoluzione francese è rimasto, appunto, «solo uno slogan». Liberté, égalité, fraternité: tutti valori per cui, spiega Scruton, «moltissima gente ha combattuto e ha perso la vita, sono stati completamente trasformati da un approccio burocratico». Così oggi siamo pieni di leggi e provvedimenti statali orientati a garantire che nessuno venga discriminato, con il risultato che si impedisce a chiunque di emergere appena un po' più degli altri. Anche la libertà è stata codificata come un diritto concesso generosamente dallo Stato: non la libertà delle persone di vivere la propria vita al meglio e di realizzarsi ma un beneficio, magari «concesso sotto forma di voucher» per chi è gay, donna o minoranza etnica. Così facendo, secondo Scruton, «questi ideali hanno smesso di essere tali e sono diventati una proprietà che lo Stato distribuisce alle persone secondo la moda del momento». Ma è sul conflitto esistente tra la civiltà occidentale e l'estremismo islamico che la questione diventa cruciale. «Per 30 anni spiega il filosofo inglese mi sono battuto perché l'integrazione delle comunità di immigrati nella nostra società fosse un tema centrale». La verità è che nessuno ci ha mai provato davvero, perché «se parlavi di integrazione la sinistra ti accusava di razzismo». Nessuno ha mai avuto la forza di opporsi all'apologia continua del multiculturalismo. E quando Scruton pubblicò sul giornale da lui diretto (The Salisbury Review) un saggio che spiegava come «il fatto di non obbligare i ragazzi a parlare inglese nelle scuole rischiasse di danneggiare i bambini di tutte le comunità», la sua carriera accademica andò letteralmente in pezzi. Scruton, però, continua «a credere nel concetto di integrazione», anche se le sue idee in merito sono quanto di più lontano possa esistere da una generica affermazione di buoni principi. «I Musulmani racconta a Spiked! devono essere messi davanti al fatto che in Occidente ci si comporta in un certo modo: non si trattano le donne come avviene spesso nella loro cultura e non ci si copre il volto in pubblico». Per Scruton, infatti, la nostra è una società che definisce i rapporti e le relazioni tra persone anche e soprattutto guardandosi in faccia e negli occhi. Sono affermazioni come questa che gli hanno garantito in passato e gli garantiranno in futuro l'ostracismo della sinistra progressista e di larga parte dei media occidentali, tutti allineati al dogma del politically correct. Non si tratta solo «di difendere solo il diritto di manifestare il proprio pensiero, anche se scorretto, ma soprattutto di rivendicare quanto abbiamo ereditato dall'Illuminismo e dal Cristianesimo». «Se incalza Scruton non siamo disposti a difendere la cultura che ha prodotto Ludwig van Beethoven, George Eliot e Lev Tolstoj, che cosa mai dovremo difendere?».

"La sinistra mi attacca ma io parlo lo stesso". "Ho visto 40 guerre, io a parlare di Siria ci sarò", scrive Gian Micalessin, Venerdì 22/01/2016, su "Il Giornale". Faccio il giornalista dal 1983 quando, a 23 anni, andai in Afghanistan per raccontare il dramma di un Paese dove piccoli gruppi di combattenti, al tempo ancora male armati e scarsamente finanziati, resistevano all'invasione sovietica. Da allora sono passato per una quarantina di guerre spiegando indifferentemente le ragioni di quanti nella retorica quotidiana passano per «buoni» o «cattivi». Negli anni '90 ho trascorso mesi con i musulmani «buoni» assediati a Sarajevo da Milosevic. Ma in Algeria ho vissuto per settimane con i «cattivi» del Fis, i fondamentalisti islamici impegnati, allora, in un sanguinoso scontro con il governo. Tra il 1994 e il 2000 ho frequentato anche quei ribelli ceceni nemici della Russia di Eltsin e di Putin, trasformatisi poi in spietati terroristi. In Iraq tra il 2004 e il 2005 ho incontrato più volte gli insorti alqaidisti di Falluja. Fino a quando non mi hanno puntato un kalashinkov alla testa spiegando di esser poco interessati a condividere le loro ragioni con un «infedele». Dal 2012 in poi mi sono spesso recato nella Siria di Bashar Assad per raccontare una guerra, costata la vita a 250mila persone, che ha permesso allo Stato Islamico di rafforzarsi e d'espandere la sua logica dell'odio e del terrore. Quando mi è stato chiesto di raccontare queste mie esperienze non ho mai detto di no a nessuno. E, tantomeno, mi sono mai chiesto chi fosse o come la pensasse perché ritengo che l'informazione non si debba negare a nessuno. Ecco perché quando il movimento «Alliance for Freedom and Peace» mi ha chiesto di partecipare al convegno organizzato la prossima domenica a Milano sul conflitto siriano al fianco del senatore ed ex ministro della difesa Mario Mauro, non ho avuto problemi ad accettare. Ora scorrendo le pagine milanesi di Repubblica scopro che quel convegno «non s'ha da fare» perché dietro gli organizzatori si nasconderebbero Forza Nuova e vari altri gruppi di estrema destra. Scopro anche che l'ex Ministro della Difesa senatore Mario Mauro viene accusato di «andare a braccetto con i neonazisti» solo per aver accettato di parlare a quel convegno. Accuse che per la proprietà transitiva cadono anche su di me. Accuse formulate senza essersi premurati di ascoltare quello che il senatore Mauro ed io diremo e le idee che sosterremo. In queste accuse, giustificate con le regole dell'anti fascismo, intravvedo purtroppo lo stesso fanatismo ostracizzante dello Stato Islamico. Da una parte i fedeli, dall'altra gli infedeli da mettere all'indice assieme a chiunque abbia contatti con loro. I colleghi di Repubblica me lo consentano, ma dare spazio a queste logiche mi appare osceno. E non tanto nei confronti del senatore Mario Mauro o di chi, come me, parlerà a quel convegno, ma nei confronti del loro stesso giornale. Un giornale diretto da Mario Calabresi. Un uomo che per queste stesse ragioni vide uccidere il proprio padre.

Il videoclip su tutte le menzogne di guerra divulgate da "La Repubblica", scrive Il Piccolo D'Italia il 21 gennaio 2016. Fonte: Francesco Santoianni per L’Antidiplomatico.  Celebriamo anche noi i “40 anni di Repubblica” con un videoclip dedicato alle sue più clamorose menzogne finalizzate ad alimentare la guerra.  Un compito svolto da “Repubblica” sfruttando – oltre ai soliti cliché della propaganda bellica – i valori di quel popolo di “sinistra”, “progressista”, “antifascista” e “politically correct”, suo principale target. E così già nel 1999 – per supportare la Guerra NATO-D’Alema alla Jugoslavia – Repubblica presentava i Serbi come i nazisti (si legga, a tal proposito, questo ottimo libro e i “ribelli kossovari” come ebrei destinati ai campi di sterminio.  Poi, Repubblica, per promuovere guerre e/o per additare altri “stati canaglia”, ha sposato la salvezza di altre “categorie” care ai suoi lettori di “sinistra”rifilando bufale su donnegaylesbicheanimali da compagnia . Il tutto accompagnato da un sempre più marcato travisamento della realtà: basti guardare i servizi di Repubblica sulla Palestina o il suo davvero sbalorditivo servizio fotografico che consacrava i fascisti del battaglione Azov che baciavano le “fidanzate” (in realtà fotomodelle reclutate dall’agenzia di pubbliche relazioni Weber Shandwick, che aveva realizzato il servizio) prima di partire per le loro mattanze nel Donbass. Ma con questa sempre più marcata linea bellicista, Repubblica ha perso lettori? Purtroppo no. Il quotidiano di De Benedetti continua ad arpionare un target socio-economico medio-alto (il più ambito dagli inserzionisti).  Pubblico che, comunque non si direbbe capace di indignarsi; valgano per tutti le davvero poche proteste dei suoi lettori davanti alla più sfrontata menzogna pubblicata da Repubblica: una foto satellitare – piazzata in prima pagina – che avrebbe dovuto attestare l’invasione russa dell’Ucraina e che, invece, come recitava la piccola didascalia posta sulla foto, riprendeva un territorio della Federazione russa distante cinquanta chilometri dalla frontiera. Ma, invece di abbandonarsi a deprimenti considerazioni è forse meglio dare una occhiata ad alcune (tutto sommato, divertenti) menzogne di guerra pubblicate da “Repubblica”. Solo alcune, tra le innumerevoli. E per farvele meglio gustare ecco il videoclip. Qui di seguito i link sulle “notizie” riportate nel videoclip:

Bambini legati sui carri armati di Assad e usati come “scudi umani” (12 giugno 2012)

Fosse comuni di Gheddafi (13 giugno 2011)

I Serbi uccidono mia madre e poi mi costringono a stuprarla” (22 giugno 1996)

Viagra alle truppe di Gheddafi per violentare le donne dei manifestanti (12 dicembre 2012)

Missile dei ribelli filorussi abbatte jet in Ucraina (18 luglio 2014)

Elicotteri di Gheddafi mitragliano e uccidono centinaia di manifestanti (22 febbraio 2011)

Cecchini di Assad si allenano su donne in cinta (19 ottobre 2013)

Il water d’oro del dittatore comunista Janukovic (22 febbraio 2014)

Il dittatore della Corea del Nord fa sbranare lo zio da 120 cani (3 gennaio 2014)

Il regime di Kiev sta uccidendo in carcere la pasionaria Tymoshenko (14 febbraio 2012)

Assad fa affogare in un fiume decine di oppositori (11 marzo 2013)

Governo Renzi diminuisce le spese per la Difesa (5 ottobre 2015)

L’assedio di Assad strangola Madaya (5 gennaio 2016)

Foto satellitari: la Russia invade l’Ucraina (28 agosto 2014)

Dittatore della Corea del Nord fa fucilare il progettista dell’aeroporto (23 giugno 2015)

Dittatore della Corea del Nord fa fucilare ministro che si era addormentato (13 maggio 2015)

Assad pensa di usare le armi chimiche (31 ottobre 2013)

Governo del Venezuela ordina di sparare su manifestanti (25 febbraio 2015)

Trovato un cane che somiglia a Putin (23 settembre 2014)

Il giallo dei gettoni d’oro alla Rai. «In ogni chilo 5 grammi in meno». L’inchiesta sui premi dei giochi in tv. Il fornitore? Banca Etruria. Tutto inizia con la signora Maria nel 2013: ha vinto 100 mila euro e ne incassa poco più di 64 mila, scrive Sergio Rizzo il 23 aprile 2015 su “Il Corriere della Sera”. Dove vanno a finire quei cinque grammi spariti da ogni chilo d’oro fino che la Rai compra per distribuire fin dal lontano 1955 gettoni di metallo prezioso ai concorrenti dei giochi a premi, è mistero. Non meno misterioso è il modo in cui spariscono. Ma che qualche vincitore si sia ritrovato in mano gettoni d’oro taroccati, e che lui e la Rai abbiano subito una frode bella e buona, è fuor di dubbio. La sconcertante vicenda l’ha scoperta Sigfrido Ranucci, autore di un servizio televisivo che Report di Milena Gabanelli manda in onda stasera su Raitre. Tutto comincia quando alla signora Maria Cristina Sparanide, che nel 2013 ha vinto 100 mila euro alla trasmissione Red or Black su Raiuno arriva una lettera della Zecca, incaricata dalla Rai di coniare quattro gettoni d’oro del valore unitario di 20 mila euro per saldare il conto. Perché 80 mila euro e non 100 mila? Semplice: ci sono le tasse, ma questo il concorrente lo sa. Quello che invece apprende solo quando legge la lettera del Poligrafico dello Stato è che deve pagare pure l’Iva sebbene, spiega il servizio di Ranucci, l’imposta non sia dovuta sull’oro per investimento, cioè quello definito da una direttiva comunitaria come «lingotto o placca». E non ha ragione forse la Treccani a definire il gettone d’oro una «placca»? A questa domanda, però, a quanto pare nessuno sa, può o vuole rispondere. Non il ministero dello Sviluppo. Non le Finanze. Né l’Agenzia delle Entrate. Oltre alle tasse, all’Iva e al costo del conio del gettone c’è poi un’altra voce a carico del vincitore: il calo del 2 per cento dovuto alla fusione. Come se su un chilo d’oro si perdessero 20 grammi ogni volta che si fonde il metallo. Decisamente curioso. A conti fatti, la vincita di 100 mila euro si riduce così a poco più di 64 mila. Ma se l’Iva e quel fantomatico calo, sono questioni legate a interpretazioni astruse di norme astruse, ben altra storia è quella della qualità del metallo. I gettoni che escono dalla Zecca sono marcati come oro fino: 999,9. Quando però la signora Sparanide li porta a un’azienda orafa per farli valutare, il risultato la lascia di stucco: non è oro purissimo. Lo conferma anche un laboratorio specializzato accreditato dal ministero per le analisi legali. Il risultato è identico: si tratta di oro 995. Significa che per ogni chilo ci sono 5 grammi di altro metallo non prezioso. Il bello è che la Rai, c’è scritto nero su bianco nel contratto, l’ha acquistato (e pagato) come oro 999,9. Dunque, in questa incredibile vicenda, è chiaramente parte lesa. La faccenda è pelosissima. Milena Gabanelli precisa che la Rai compra ogni anno dai 6 ai 10 milioni di euro di gettoni d’oro dalla Zecca, che a sua volta si rifornisce del metallo in lingotti sul mercato. Da chi? Da Banca Etruria, fornitore storico degli orafi di Arezzo. Da quell’istituto travolto da una bufera nei mesi scorsi per le obbligazioni subordinate la Zecca ha acquistato «milioni di euro in lingotti d’oro per trasformarli in gettoni della Rai», dice Ranucci, «per anni e senza bando di gara». Perché «è la banca che ci fa il prezzo più basso», replica la Zecca. Aggiungendo che dei lingotti forniti da Banca Etruria «il 20 per cento è stato controllato in ingresso, secondo le nostre procedure di qualità, ed è risultato oro 999». Saranno dunque le procedure, ma resta il fatto che l’80 per cento non è stato controllato. A scanso di equivoci la Zecca si è premurata di presentare un esposto alla procura. E la cosa non finirà qui.

Tutti i cachet dei programmi tv. Giornalisti e politici: quanto guadagnano, scrive “Libero Quotidiano" del 29 gennaio 2016. Programma tv che vai, gettone che trovi. Uno dei tormentoni del telespettatore medio è interrogarsi su se e quanto siano pagati gli ospiti nello studio del programma che si sta guardando. A svelare qualche retroscena ci ha pensato un articolo del quotidiano La Notizia che ha preso in esame i cachet pagati per le ospitate in diverse trasmissioni televisive, soprattutto talk show e programmi di infotainment sportivo. Un giro di "rimborsi" e cachet che riguarda personaggi dello spettacolo e anche qualche giornalista e politico, anche se per la maggior parte partecipano ai programmi gratuitamente. I più ricchi - A pagare meglio di tutti la presenza in tv è Mediaset, che per esempio ha sborsato 20mila euro per ogni partecipazione di Claudio Amendola al Grande Fratello o 5mila per avere Vladimir Luxuria. Un po' meno quotati Alba Parietti e l'opinionista Giampiero Mughini, habitueé anche di Tiki Taka, che incassano tra i 1500 e i 2000 euro a presenza. Sulle stesse cifre viaggiano altri ospiti frequenti nel programma di Pierluigi Pardo, vedi Melissa Satta e Giuseppe Cruciani. Proprio il conduttore della Zanzara potrebbe presto veder aumentare le sue quotazioni se dovesse accettare l'avventura a Ballando con le stelle. Cifre più contenute a Mattino 5, dove si oscilla tra le 500 e le 2000 euro. I più poveri - Le ospitate in Rai sono un affare meno succulento per chi frequenta gli studi della tv pubblica. Al Processo del lunedì la più pagata sarebbe stata Mara Maionchi, il cui compenso però non è noto. Ma non se la passa male neanche l'onnisciente Andrea Scanzi del Fatto quotidiano, che per ogni apparizione ha intasca tra le 1000 e le 1500 euro. Non sempre però viale Mazzini riconosce un gettone di presenza, quando c'è di norma non va oltre le 500 euro, fatta eccezione per chi si presta a fare il giudice in programmi come Ballando o Tale e Quale: per personaggi come Zazzaroni, Lippi, Goggi e Proietti i cachet salgono. Visibilità - I più sfortunati sono gli ospiti dei programmi di La7, con le dovute eccezioni. Chi viene chiamato per partecipare alle levatacce di Omnibus, o a Coffe Break, oppure l'Aria che tira, il compenso sarà solo un ricco pacco di visibilità. Solo per qualcuno viene previsto il rimborso del taxi. Certo non tutti sono così bistrattati. A coccolare i suoi ospiti ci pensa per esempio Lilli Gruber che mantiene un giro fisso di ospiti sin dall'inizio della stagione, vedi Damilano, Cacciari, Travaglio e il solito onnisciente Scanzi. Con loro concorda un pagamento forfettario con tanto di contratto.

Ospiti del Biscione, che pacchia. Mediaset paga bene, la Rai così e così, La7 è gratis. Bottino ricco per l’opinionista Amendola al Gf, scrive Marco Castoro su “La Notizia Giornale” il 29 gennaio 2016. Fare l’ospite in tv di professione può convenire, anche economicamente. Certo, non si guadagna quanto Mastrota, il re delle televendite (850mila l’anno). Tuttavia a fine mese si può portare a casa un bel gruzzolo. Una premessa però va subito fatta: non tutte le trasmissioni pagano. E non tutti gli ospiti che vi partecipano percepiscono il gettone di presenza. Anzi la maggior parte ci va gratis. Soprattutto politici e giornalisti. I cachet più elevati sono quelli di alcuni programmi di Mediaset. A cominciare dal Grande Fratello. Opinionisti come Claudio Amendola sono super pagati (oltre 20mila euro a puntata), ma anche Luxuria si porta a casa qualche soldino (5mila ad apparizione). Altri ospiti molto gettonati sono Giampiero Mughini e Alba Parietti. Il loro target oscilla tra i 1500 e i 2000 euro a presenza. A Tiki Taka Melissa Satta è quotata quanto l’opinionista di fede juventina. Gli altri non percepiscono soldi. Compreso Cruciani. Un gettone una tantum, nulla più. Se il conduttore della Zanzara dovesse andare a Ballando la musica cambierebbe. Al Processo del lunedì l’ingaggio più alto era della Maionchi, ma ora non c’è più. Resta bene in quota Andrea Scanzi che viaggia tra i 1000 e i 1500 a puntata. Anche a Mattino 5 si va da un minimo di 500 euro a un massimo di 1500-2000. La Rai se paga il cachet non rimborsa le spese e viceversa. Le tariffe sono più basse, si va dalle 250 alle 500 a puntata. Escluse ovviamente trasmissioni in cui si fa il giudice, tipo Ballando e Tale e Quale. Per Lippi, Goggi, Proietti e Zazzaroni la quota sale un po’. A La7 invece i cachet li trovi solo in farmacia. Omnibus, La Gabbia, Coffee Break e l’Aria che tira non danno il gettone di presenza. Al massimo pagano il taxi. Discorso diverso per Otto e mezzo. La Gruber ha i suoi opinionisti prescelti a cui sottopone un contratto a inizio stagione. Travaglio, Cacciari e Damilano sono tra i più presenti. Ma si vede spesso pure Scanzi. Ovviamente si tratta di cifre lorde, da cui vanno detratte le tasse e la percentuale per l’agente.

I cachet delle star che la Rai nasconde. La Rai si oppone alla legge che obbliga la pubblicazione dei compensi degli artisti. Vi riveliamo quanto guadagnano i vip: dai 2,6 milioni di Fabio Fazio ai 550mila euro di Floris, ecco tutti i cachet, scrive Laura Rio, Domenica 10/02/2013, su "Il Giornale". Due milioni di euro annuali a Fazio? Più i 600 mila per Sanremo? Un milione e 500 mila ad Antonella Clerici? Un milione e 400 mila a Carlo Conti? Sono cifre «rubate», non ufficiali, che non potete trovare su alcun documento pubblico, su nessun sito della Rai. Cifre enormi che, nelle maggior parte dei casi, sono meritate perché a loro volta, con i loro programmi, le star televisive fanno guadagnare la Tv di Stato, come i campioni del calcio. La differenza è che i soldi per questi compensi vengono direttamente dalle tasche dei cittadini che pagano il canone e che dunque avrebbero a buon ragione il diritto di verificare come vengono spesi. Invece, nonostante una legge imponga la pubblicazione dei cachet sul sito web, la Rai ha deciso di opporsi a un obbligo che la costringerebbe a rivelare «dati sensibili» che potrebbero metterla in difficoltà con la concorrenza. Essendo la Rai un organismo di diritto pubblico - spiegano in viale Mazzini - l'azienda deve rispettare alcuni obblighi sulle gare d'appalto, ma questi non valgono per la parte artistica, altrimenti non potrebbe stare sul mercato. Questi compensi, dunque, non sono soggetti al limite massimo pari allo stipendio del primo presidente di Corte di Cassazione (274 mila euro annui), come invece è diventato d'obbligo per i dirigenti. La querelle va avanti da anni, con pareri discordanti e contrastanti tra ministero della Funzione pubblica, Parlamento e Garante della concorrenza (quest'ultimo ha dato parere favorevole alla Rai). Motivo per cui, sul sito apposito, dove si dovrebbero leggere i cachet, campeggia ancora la scritta: «Lavori in corso. A breve sarà disponibile la documentazione relativa». Ma l'onorevole Renato Brunetta non demorde e continua la sua battaglia avviata quando era ministro della Funzione pubblica: giorni fa ha chiesto in una lettera alla presidente Anna Maria Tarantola di procedere alla pubblicazione. Altrimenti, minaccia, si rivolgerà alla Corte dei Conti. In attesa di sapere come la questione andrà a finire, per chi vuole rodere d'invidia, ecco un assaggio dei compensi dei volti più noti della Tv di Stato, ovviamente tutti rintracciati di straforo, a spanne e non certificati da nessuno. Si sa, l'abbiamo detto altre volte, il più pagato dalla Tv pubblica è Fabio Fazio: il suo contratto per Che tempo che fa vale due milioni di euro l'anno cui si aggiungono i 600 mila per condurre il Festival. Totale per la stagione televisiva 2012/2013 due milioni 600 mila euro, cifra in effetti da capogiro. Altri compensi di tutto rispetto, pur se a notevole distanza dal capofila, sono quelli di Antonella Clerici e Carlo Conti. La conduttrice de La prova del cuoco e Ti lascio una canzone mette insieme un milione e mezzo di euro (cui si aggiungono ovviamente molti altri soldi per le telepromozioni). Invece il capitano de L'eredità, i Migliori anni e tanti altri show arriva a un milione e 400mila (più telepromozioni). Tra i giornalisti, il compenso di Giovanni Floris (Ballarò) si aggira sui 550 mila euro, quello di Bruno Vespa, sui 600. La Littizzetto, partner di Fazio, prende 20mila euro a puntata per Che tempo che fa e 350mila euro per il Festival. Mara Venier, per la Vita in diretta guadagna mezzo milioni annui. Gli altri contratti, delle presentatrici dei programmi mattutini o pomeridiani, come Elisa Isoardi o Veronica Maya, si aggirano sui 200mila euro. Tutte cifre che, ovviamente, saremmo pronti a correggere, se potessimo leggerle sul sito ufficiale della Rai.

RAI, ECCO I CACHET (UFFICIOSI) DELLE STAR: FABIO FAZIO E’ IL PIU’ PAGATO. CLERICI “BATTE” CONTI. Chissà che lavoraccio, col «Redditest» scrive Marco Leardi. Con le somme che percepiscono, infatti, alcuni volti noti della Rai avranno un bel daffare nella compilazione dei loro incassi annuali: provate voi a gestire certe cifre a sei zeri. Preamboli a parte, in tempi di crisi fa un certo effetto conoscere l’entità dei cachet ottenuti dalle star della tv pubblica. Si tratta di compensi importanti – per lo più meritati e giustificati da successi professionali – che Viale Mazzini non si è ancora decisa a rendere ufficialmente noti, come prevederebbe la legge. A svelare numeri e stipendi, però, ci ha pensato Il Giornale, raccogliendo alcune indiscrezioni spannometriche al riguardo. Nulla di certificato, quindi, ma meglio che niente. Ad ulteriore conferma di un primato già noto, Fabio Fazio si conferma il conduttore Rai più pagato: il suo contratto per Che tempo che fa varrebbe due milioni di euro, cui si aggiungerebbero i 600mila euro del Festival di Sanremo 2013. Hai capito, il Fabietto?! La sua irresistibile compare, Luciana Littizzetto, percepirebbe invece 20mila euro per ogni suo monologo su Rai3, più i 350mila euro pattuiti per la co-conduzione della kermesse canora. Antonella Clerici, presentatrice de La Prova del Cuoco e Ti Lascio una canzone, staccherebbe invece un assegno da un milione e mezzo di euro l’anno, mentre il cachet di Carlo Conti, stakanovista di successo su Rai1, ammonterebbe a 1milione e 400mila euro. A tali cifre, bisogna poi aggiungere gli introiti degli sponsor. Tra i giornalisti della tv pubblica, il più “ricco” risulta Bruno Vespa, con un compenso di circa 600mila euro; al conduttore di Ballarò Giovanni Floris, invece, andrebbero 550mila euro. Il cachet stagionale di Mara Venier, regina del pomeriggio televisivo con La vita in diretta, sarebbe di 500mila euro. Sempre secondo Il Giornale, altre conduttrici come Elisa Isoardi e Veronica Maya avrebbero un contratto di circa 200mila euro. Di per sé, le cifre elencate non stupiscono né scandalizzano: il mercato televisivo si attesta infatti a quei livelli, e laddove si ottengano dei buoni risultati è giusto che essi vengano premiati. Tuttavia, sarebbe opportuno che gli abbonati Rai potessero conoscere le cifre ufficiali destinate a ricompensare le star del servizio pubblico. Lo impone la legge, peraltro, e di recente anche l’ex ministro Renato Brunetta è tornato a battere sul punto. I tempi e i modi per farlo potrebbero essere stabiliti in modo da non regalare dati sensibili alla concorrenza. La trasparenza paga, paga sempre: come la Rai.

RAI: ECCO I COMPENSI GIORNALIERI DEI BIG. FABIO FAZIO PIU’ RICCO DI VESPA E GUBITOSI, continua sabato 28 dicembre 2013 Marco Leardi. Il bilancio di fine anno lo fai dal commercialista. Del resto, quando incassi certe cifre, mica è facile tenere il conto. Fanno sempre girare la testa – più dei brindisi ripetuti di questi giorni – i compensi percepiti da alcuni volti noti del piccolo schermo. E, ovviamente, l’attenzione cade sui cachet elargiti da Viale Mazzini, il servizio pubblico sovvenzionato (anche) dai contribuenti. Stavolta, a far notizia sono i guadagni giornalieri intascati da alcuni conduttori Rai, che in 24 ore percepiscono più di un professionista in un mese. A divulgare i compensi giornalieri (ufficiosi) era stato il portale Raiwatch, vicino a Renato Brunetta, noto fustigatore degli stipendiati d’oro del servizio pubblico. Così, stando alle cifre riportate, si apprende che il Direttore Generale Rai Luigi Gubitosi guadagnerebbe 1.780 al giorno, mentre la Presidente di Viale Mazzini Anna Maria Tarantola ne percepirebbe ’solo’ 1.095. Come il cantante e showman Pupo. Cachet ben più sostanziosi sono quelli assegnati ai conduttori più in vista della tv pubblica, a partire da Fabio Fazio. Al giorno, il presentatore del prossimo Festival di Sanremo intascherebbe 5.479 euro. Il buon Fabio, lo ricordiamo, si era già distinto per quel discusso contratto da 5,4 milioni di euro (cifra mai confermata né smentita dal diretto interessato) siglato con la Rai. Stando alle cifre divulgate, il conduttore de L’Eredità e di Tale e quale Show, Carlo Conti, percepirebbe invece 3.561. Meno di Antonella Clerici, con i suoi 4.000 euro circa al giorno. E Bruno Vespa? Anche il cerimoniere di Porta a Porta compare tra i volti Rai più pagati. Il giornalista, inossidabile timoniere del suo talk show, guadagnerebbe 3.287 euro giornalieri. Di recente, Vespa era stato criticato proprio dallo stesso Brunetta in riferimento al suo stipendio: “guadagna 6 milioni. Vespa è come Fazio, è inaccettabile”, aveva attaccato il capogruppo alla Camera di Forza Italia. Si tratta di cifre ufficiose, non confermate, che tuttavia riaccendono il dibattito sull’entità dei compensi elargiti dalla Rai ai suoi professionisti, e sulla loro pubblicazione. Sulla questione era intervenuto lo stesso DG Gubitosi, che per motivi concorrenziali si era dichiarato contrario all’obbligo di divulgazione delle cifre pattuite con gli artisti. Di parere opposto, invece, il Presidente della Vigilanza Roberto Fico, teorico della trasparenza. E il braccio di ferro continua.

Tutti quelli che lavorano in Rai (e soprattutto, quanto guadagnano), scrive il 6 marzo 2015 "Bergamo Post”. La Rai ha recentemente inviato un documento contenente la mappa dell’organico aziendale al Ministero dell’Economia (essendo quest’ultimo suo azionista di controllo), da cui è possibile desumere tutti i dati circa le remunerazioni dei dipendenti della televisione di Stato italiana. Ne è emerso un quadro estremamente sfaccettato, fatto di contratti a tempo indeterminato, lavoratori che di anno in anno devono guadagnarsi la riconferma, cachet da capogiro e stipendi che vanno dal minimo sindacale all’addirittura illegale. In quanti lavorano in Rai, e chi sono. Da un punto di vista globale, la Rai offre lavoro a 12mila dipendenti, più altri 10mila che però ricoprono il ruolo di collaboratori, con quindi i dovuti distinguo a livello contrattuale. Degli appartenenti alla prima categoria, quella dei dipendenti, 1.581 sono giornalisti con contratto a tempo indeterminato, dei quali 303 rivestono ruoli dirigenziali, a fronte di un effettivo, e calcolato, bisogno di sole 262 unità. Sempre nel computo dei giornalisti professionisti senza contratti a termine, altri 688 rivestono normali figure di redattori, mentre i restanti sono perlopiù invitati speciali. Il resto dei dipendenti si divide in varie mansioni: 2.466 impiegati d’ufficio, 470 funzionari semplici, 293 funzionari di fascia superiore e diverse migliaia di impiegati di regia e produzione. Il prospetto rendiconta anche le spese di 11 medici e 108 orchestrali. Complessivamente, fra i circa 12mila dipendenti, 1.360 dispongono di un contratto a tempo determinato, rinnovabile di anno in anno, ma senza certezza. Per quanto riguarda invece i circa 10mila collaboratori (10.019, per la precisione), per la maggior parte si tratta di lavoratori precari, nonostante il loro fondamentale ruolo nell’azione dell’azienda. Nello specifico, di questi 10mila, 9.800 vivono su contratti a termine e con poche tutele, mentre i (pochissimi) restanti possono dormire sonni più che sereni, trattandosi di collaboratori affermati e che la Rai ingolosisce con retribuzioni decisamente elevate. Quanto guadagnano quelli che lavorano in Rai. La nostra tv di Stato dispone di ricavi annuali pari a circa 2,3 miliardi di euro, derivanti soprattutto da pubblicità e canone, pur soffrendo un elevato tasso di evasione da parte di molti cittadini che comunque usufruiscono del servizio (circa il 30 percento, in crescita di 5 punti rispetto allo scorso anno); si spiega facilmente allora la piccola sovrattassa introdotta quest’anno. Di questi ricavi, 905 milioni vengono spesi in stipendi e retribuzioni. Di quei citati 1.581 giornalisti professionisti con contratto a tempo indeterminato, la metà circa guadagna 105 mila euro l’anno (si parla sempre, anche nel proseguo, di cifre lorde), e coloro che invece rivestono ruoli dirigenziali (303) incamerano cifre oscillanti fra i 120mila e i 240mila euro. Nonostante quest’ultimo sia il tetto massimo stabilito dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, alcuni dei giornalisti più affermati arrivano addirittura a 310mila euro all’anno. Un inviato speciale può arrivare anche a 126mila euro, un redattore a tempo indeterminato a 85mila, mentre uno a tempo determinato si ferma a 54mila euro. Per quanto riguarda invece i dipendenti d’ufficio, di regia, e in generale dell’amministrazione, la media è di 67mila euro annui. Mentre 800 milioni di quella parte dei ricavi destinata agli stipendi è riservata ai dipendenti, solo 105 milioni è invece indirizzata ai collaboratori, per quanto il numero (12mila e 10mila) sia pressoché analogo. Anche per quanto riguarda questa categoria, la forbice è parecchio larga, passando da poche decine di migliaia di euro per arrivare anche ad alcune centinaia. Per la precisione, 175 oscillano fra gli 80 e i 240mila, 31 superano anche i 300mila, mentre i restanti 9.800 devono accontentarsi di quanto rimane. Posto tutto questo, occorre sottolineare che non vengono computati i maxi cachet dei conduttori più affermati, come ad esempio Fabio Fazio, che per la trasmissione domenicale Che tempo che fa guadagna 2 milioni l’anno, o Bruno Vespa, che con il solo Porta a Porta incamera più di 4 milioni, a cui vanno sommati gli extra per i vari speciali elettorali o di qualsiasi genere, che fanno lievitare la cifra annuale a 6,3 milioni di euro. Il caso del G20 in Australia. Recentemente, si è sollevato un gran polverone circa presunti sprechi economici, in termini di remunerazioni, compiuti dalla Rai: l’occasione è stato il G20 tenutosi in Australia, per il quale vennero inviati 13 professionisti. Fra biglietti aerei, alberghi, pranzi e costi tecnici, vennero spesi 60mila euro per un evento di due giorni. Luigi Gubitosi, direttore generale di via Mazzini, ha avuto modo di sottolineare come questa cifra spropositata certifichi la presenza di anomalie nel sistema retributivo della Rai, a cui la dirigenza della tv di Stato, insieme al Governo, sta cercando di far fronte con, ad esempio, l’unificazione dei telegiornali delle reti principali. Ma si prospettano, per l’immediato futuro, numerosi altri interventi.

«Ecco quanto guadagna un giornalista Rai». Il Fatto Quotidiano pubblica le presunte cifre degli stipendi dei dipendenti della tv pubblica. 303 dirigenti giornalisti guadagnano tra i 120mila e i 240mila euro l’anno. 688 redattori ordinari invece ne portano a casa mediamente 85mila. Sono alcune delle cifre sugli stipendi Rai diffuse oggi dal Fatto Quotidiano in un articolo a firma Carlo Tecce. I numeri sono ripresi dalla mappa dell’organico che l’azienda televisiva pubblica ha inviato al suo azionista di controllo, il Ministero dell’Economia, aggiornata al 31 dicembre 2013: Viale Mazzini dispone di 1.581 giornalisti con un contratto a tempo indeterminato, la metà guadagna più di 105.000 euro l’anno e può sfoggiare almeno la qualifica di caposervizio (sono 279). I dirigenti giornalisti, dai capiredattori in su, sono 303 e vanno dai 120.000 euro ai 240.000 euro, il limite imposto alle società partecipate dal Tesoro. Un anno fa, sei giornalisti superavano i 310.000 euro. I telegiornali Rai, che stanno per subire la riforma approvata in Cda, possono muovere 64 inviati speciali, 126.000 euro ciascuno è il prezzo per Viale Mazzini. I vice capiredattori sono 150, tradotti in milioni fanno 18. I redattori ordinari con buste paga che non rispecchiano il mercato odierno – la media è di 85.000 euro – sono 688; chi ha un lavoro a termine riceve non più di 54.000 euro.

E ancora, continua Tecce sul Fatto Quotidiano: Viale Mazzini per funzionare ha bisogno di 262 dirigenti, una decina lambisce il tetto dei 240.000 euro. Nel 2013, gestione di Gubitosi, la Rai ha assunto 13 dirigenti e ha fatto 35 promozioni con adeguamento della retribuzione. Il personale, esclusi i giornalisti, conta 8.501 dipendenti: 2.466 impiegati, 470 funzionari semplici, 293 funzionari di fascia superiore (media di 67.000 euro). Il prospetto rendiconta anche le spese per 11 medici, 108 orchestrali, 1.537 impiegati di produzione, 1.624 addetti alla regia, 870 operai e 142 tecnici. Vanno poi considerati a parte i 1.360 lavoratori a tempo determinato, di cui 262 giornalisti e 349 addetti alla regia. Ed anche i collaboratori con contratto di lavoro autonomo, ovvero cocopro e partite Iva, un esercito di 10.019 precari che costano 110 milioni di euro e sono indispensabili per mandare in onda i programmi Rai: Per la precisione, i precari senza tutele vanno rintracciati nel gruppo di 9.800 lavoratori su 10.019 che guadagnano da poche decine di migliaia di euro a un massimo di 80.000. Il resto ha ingaggi elevati: 175 oscillano tra gli 80.000 e i 240.000 euro e in 31, fino al 2013, sforavano quota 310.000 euro. Concludendo la Rai dà lavoro ad oltre 12mila dipendenti e 10mila collaboratori per un costo del lavoro di 905 milioni di euro.

Una triste gara tra bugiardi. Per la seconda settimana Panorama inchioda i protagonisti della vicenda Boschi. Ma la vicenda viene ignorata. E cade nel silenzio, scrive il 29 gennaio 2016 Giorgio Mulè su Panorama”. Per la seconda settimana ci occupiamo con la storia di copertina del caso Boschi. Lo facciamo perché nuovi documenti e nuove circostanze inchiodano i protagonisti di questa vicenda alle loro responsabilità. Ai lettori di Panorama non sarà sfuggito che i telegiornali nazionali, al contrario di tutti i quotidiani, hanno ignorato la vicenda. Il perché è chiaro anche a un bambino: la narrazione renziana non accetta alcuna nota stonata che possa disturbare la dolce e fallace melodia del premier. Decidere di assecondare questa marcetta è problema di coscienza (deontologica e personale) che ognuno vedrà di risolvere con se stesso. Di certo è assai significativo che non una parola, foss'anche per accusare Panorama di aver montato strumentalmente un caso (un classico, insieme alla sempiterna gnagnera della "macchina del fango"), sia stata pronunciata sulla vicenda dai prolifici gendarmi renziani. Anche in questo caso il busillis è di assai facile soluzione: i fatti non si possono smentire neppure con una spericolata arrampicata semantica. I nuovi elementi che offriamo in questo numero stanno lì, copiosi, a suggerire ai protagonisti di trarre ognuno per la propria parte le conclusioni. L'immagine che ritrae il 24 ottobre 2013 Pier Luigi Boschi, all'epoca indagato dalla Procura di Arezzo per estorsione, in platea a seguire un convegno organizzato dalla stessa Procura mentre il suo "inquisitore" Roberto Rossi disquisisce di "imprese e legalità" con l'onorevole Maria Elena Boschi in prima fila, vale più di ogni editoriale. In quell'istantanea manca solo l'avvocato aretino Giuseppe Fanfani, difensore di Boschi, che ritroviamo oggi al Consiglio superiore della magistratura - indicato dal Pd di Matteo Renzi e Maria Elena Boschi - nella veste di "giudice" che dovrà decidere se trasferire ad altra sede il magistrato che indagò sul suo assistito. Il Csm è organo indipendente di rilevanza costituzionale ed è la sede dove va tutelata l'autonomia e l'indipendenza della magistratura: l'avvocato Fanfani, a fronte del diniego assoluto di Rossi pronunciato proprio davanti alla prima commissione del Csm di conoscere alcun membro della famiglia Boschi, avrebbe avuto il dovere di segnalare che la circostanza era quantomeno inesatta essendo stato lui "controparte" di Rossi nei procedimenti penali che coinvolgevano Pier Luigi Boschi. Non lo ha fatto e così è venuto meno al suo ruolo di "garante": non basta adesso cavarsela magari con una pilatesca astensione quando il plenum del Csm (che solo grazie a Panorama ha evitato in extremis di archiviare tutto) sarà chiamato a votare se trasferire o meno Rossi. Su Fanfani pesa l'ombra di un favoritismo (familismo, stavo per dire), rileggendo oggi chi lo ha voluto al Csm, francamente insopportabile per il decoro delle istituzioni. Va da sé che anche la presenza di Rossi come titolare delle indagini su Banca Etruria (di cui Pier Luigi Boschi è stato vicepresidente già sanzionato da Banca d'Italia con una multa di 144 mila euro) è imbarazzante alla luce delle rivelazioni di Panorama e non garantisce la serenità delle parti offese, cioè i risparmiatori, rispetto alla sua autonomia e indipendenza. E in ultimo eccoci al ministro Maria Elena Boschi, silente dopo il nostro scoop. Atteniamoci alla sua versione sulla totale "purezza" del padre, che però presuppone che: nulla sapesse che il babbo aveva definito nell'aprile 2014 un procedimento penale per dichiarazione infedele (volgarmente chiamata evasione fiscale) grazie al pagamento di una multa a fronte di un versamento in nero di 250 mila euro; nulla sapesse che quella multa era legata a un'inchiesta iniziata nel 2010 e condotta dal procuratore Rossi il quale aveva fatto anche perquisire la casa dove lei risiedeva con il padre. Mi fermo qui e mi chiedo: come può governare l'Italia un ministro che non sa quello che succede a casa sua?

"Se comanda la sinistra si perdona tutto". Fabrizio Del Noce, lo storico volto del Tg1: "Dopo l'editto bulgaro si riempirono le piazze, oggi poche voci contrarie al Pd", scrive Laura Rio, Sabato 30/01/2016, su "Il Giornale".

Laura Rio - Fabrizio Del Noce, lei è stato per anni direttore di Raiuno (2002-2009) quando premier era Berlusconi. Cosa sarebbe successo a quell'epoca se il segretario della commissione di vigilanza Rai avesse chiesto il licenziamento di un conduttore come ha fatto Michele Anzaldi nei confronti di Massimo Giannini?

«Si sarebbero riempite le piazze contro di noi. Come ha detto Saviano c'è un nuovo editto bulgaro e ciò che sotto Berlusconi era inaccettabile adesso è grammatica del potere. Solo che quando al potere c'era il centrodestra non veniva perdonato niente, adesso si levano poche voci contrarie».

Però, all'epoca, l'editto bulgaro venne portato a termine e chiusi i programmi di Biagi, Santoro, Luttazzi e di altri giornalisti e comici che osavano criticare il governo.

«E infatti fummo massacrati, non per giorni, non per mesi, ma per anni. Ci uno scontro durissimo a qualsiasi livello, mediatico e politico, come se avessero buttato una bomba atomica. Per questo vedo ancora di più due pesi e due misure. Non mi pare ci siano sollevazioni popolari ora». Anche perché a dilaniarsi sono gli esponenti politici della stessa area politica...«Infatti: mi pare che non venga ammessa neanche la critica interna oltre a soffocare quella esterna. Vedo una insofferenza per ogni tipo di lesa maestà».

Vuol sostenere che ai tempi di Berlusconi la Rai era più libera?

«La Tv di Stato è sempre stata soggetta alla politica, da molto tempo prima dell'arrivo di Forza Italia. E di episodi di censura, da Grillo a Tognazzi a Vianello ne possiamo ricordare tanti. Ma sinceramente ora mi sembra che sia calata una cappa di convenzionalismo».

A distanza di anni, non si rimprovera nulla per la chiusura del Fatto di Biagi?

«Come ha ammesso anche Berlusconi, i modi e i tempi forse non furono appropriati. Del resto quando sei in quelle situazioni qualcosa ti può sfuggire di mano. E comunque abbiamo pagato un prezzo altissimo di immagine. Ma ricordiamo che fu Biagi alla fine che scelse di andare via perché non c'erano più le condizioni per fare una trasmissione in serenità, qualunque cosa avesse fatto e detto sarebbe stato un inferno».

Che differenza trova tra la sua Rai e quella di oggi?

«Berlusconi a volte esagerava, usava delle espressioni di cui poi magari si pentiva e che lo mettevano in situazioni difficili. Renzi è più insofferente di Berlusconi ma anche più accorto, agisce in maniera meno plateale ma efficace».

All'epoca voi foste accusati di fare il gioco di Mediaset...

«I risultati parlano chiaro: nei sette anni in cui sono stato direttore, Raiuno, e la Rai in genere, ha avuto la leadership negli ascolti e nel prestigio. Ancora oggi il primo canale è retto dai programmi che feci io».

Che effetto le fa leggere Santoro che si lamenta che i suoi programmi non trovano collocazione in nessuna tv ricordando gli anni delle furiose battaglie?

«I tempi cambiano: lui è rimasto in auge per oltre un ventennio, un giornalismo aggressivo come il suo si consuma presto. Io l'ho sempre apprezzato per il coraggio di esporsi. E oggi di talk ce ne sono troppi e troppo simili».

Lo spoils system è una pratica accettata da anni: il neo direttore generale sta azzerando la vecchia linea dirigenziale, così successe anche ai suoi tempi.

«Sì, solo che a quei tempi esistevano misure di controbilanciamento. In base alla legge Gasparri c'era un cda in cui sedevano quattro membri nominati dalla maggioranza e quattro dalla minoranza e il presidente era un esponente della minoranza. Io ho lavorato con presidenti come Petruccioli e Garimberti con cui avevo duri ma rispettosi confronti. Adesso, invece, il potere è stato concentrato nelle sole mani del direttore generale».

Campo Dall'Orto sta prendendo la direzione giusta?

«Sinceramente non è stato fatto ancora nulla di significativo. Aspettiamo di vedere le nomine nelle reti e nelle testate e i nuovi programmi. La Rai deve pensare al futuro: la sfida di oggi si gioca sui new media e sulla competizione con Sky».

Lei lo avrebbe licenziato Azzalini (per il countdown di Capodanno)?

«Quello che ha fatto è assurdo. Ha tentato pure di dire che anche ai miei tempi si anticipava il conteggio, cosa falsa. In ogni caso, io da direttore di Raiuno mi sarei preso la responsabilità. In passato, in un caso del genere si sarebbe scelto il trasferimento a un'altra area».

E Giannini?

«Da direttore lo avrei difeso strenuamente. Poi magari in privato avremmo fatto quattro chiacchiere».

Rai, Sciarelli fa la delatrice e chiede di chiudere "Virus". La conduttrice di "Chi l'ha visto?" difende la Berlinguer e si scaglia contro Raidue e Porro: "Perché hanno scelto lui?". L'atteggiamento da "Telekabul" non è cambiato negli anni, scrive Fabrizio Boschi, Sabato 03/10/2015, su "Il Giornale". Esiste una Federica Sciarelli ante Renzi e una Federica Sciarelli post. Il disturbo bipolare è provocato dal fatto che una volta il maggiore partito della sinistra era dalla parte di quella che era conosciuta come Telekabul , ovvero Rai3 , mentre oggi l'offensiva arriva proprio da ambienti vicini al presidente del Consiglio, nonché segretario del maggiore partito della sinistra. La conduttrice di Chi l'ha visto? ha stirato i panni sgualciti da consigliere dell'Ordine dei giornalisti, per lanciarsi a pesce nella mischia, da inossidabile aziendalista, per difendere colleghi e Rai. Pardon, per difendere certi colleghi e una certa Rai. Intervistata dal Fatto quotidiano la maestrina della libertà di espressione (quella che sta bene a lei) si scaglia su Renzi per le bordate dei giorni scorsi sui talk show sempre più noiosi «che fanno meno ascolti di Rambo». Guai attaccare la compagna Bianca Berlinguer che azzarda battaglie per la Rai libera dai partiti solo perché ora rischia di perdere il posto. La Sciarelli si schiera dalla sua parte e del suo Tg3 passando come un bulldozer sopra i colleghi della rete sorella (Rai2) che non gli vanno a genio. «Perché si parla degli ascolti di Rai3 e di Ballarò e non quelli di Rai2 e di Virus, che non fa numeri tanto diversi? Perché non chiediamo al direttore di Rai2 come mai al posto di Porro non è stato messo Dario Laruffa, assunto per concorso alla Rai e preparatissimo? Voglio dire: se si vuol fare una riflessione deve valere per tutti». Mica tanto per tutti a dire il vero. Secondo la ex pupilla di Telekabul , the original , quella di Sandro Curzi direttore agli inizi degli anni Novanta, di tutti i talk che fanno «il 4 e qualcosa per cento», l'unico da dover far fuori sarebbe Virus , dando pure del raccomandato al suo conduttore. Spende parole di stima nei confronti dei colleghi Floris e Giannini, ma non esita a scaraventare giù dalla torre proprio Nicola Porro. Se poi i talk non vanno oltre il 4 per cento, secondo la Sciarelli non c'è problema, e prende in prestito una frase di Giulio Andreotti. Durante la prima Repubblica iniziò la carriera giornalistica proprio al Tg3, occupandosi di politica, e quando ci fu il cosiddetto «editto bulgaro» di Berlusconi contro Santoro, Biagi e Luttazzi, lei insieme ad altri, sollecitarono l'allora premier Andreotti, che col suo noto sarcasmo rispose: «C'è il telecomando». Anche secondo la Sciarelli «se non ti piace un programma, basta non guardarlo». Ma nel caso di Virus sarebbe meglio che non andasse proprio in onda. Così il problema sarebbe bello che risolto. Ecco la lezione di giornalismo e di libertà di informazione della compagna Sciarelli che nella stessa intervista si pone una domanda: «È davvero tutta colpa dei conduttori? O sono i politici che annoiano e sono meno appetibili di Rambo?». E se il deputato del Pd e membro della Vigilanza Rai, Michele Anzaldi, accusa Rai3 di «trattare il Pd peggio di Berlusconi» («Rai3 e Tg3 sono un problema»), la Sciarelli non rimane zitta e si scaglia velenosissima contro Virus e Porro. Dove sia il nesso fra le due cose non si sa, ma secondo lei ci sta bene. Evidentemente Telekabul ha cambiato il pelo ma non il vizio. Sono lontani i tempi delle epurazioni eppure Renzi ha parlato di «racconto pigro e mediocre» della realtà fatto dai talk show, dimostrando di non gradire come il partito e il governo vengono trattati nei programmi tv. Ma com'è nel suo stile dare un colpo al cerchio e uno alla botte, giura davanti al microfono della guerrigliera Bianca Berlinguer che «non c'è alcun editto bulgaro. Non c'è nessuna volontà di mandare a casa nessuno. C'è un signor direttore generale, farà lui le scelte». Quel signore è Antonio Campo Dall'Orto, renziano fino al midollo, che ha insegnato a Renzi a parlare. Berlinguer, Sciarelli&co. Possono, dunque, dormire sonni sereni. Con o senza Virus.

Il tramonto dei comunisti tv tra ristoranti e giardinaggio. Il teletribuno lancia un inserto sui ristoranti, la Dandini si occupa di piante, scrive Daniele Abbiati, Venerdì 22/01/2016, su "Il Giornale".  Dal Rosso di sera al rosso d'uovo. Michele Santoro è uno abituato ad andare al centro dei problemi. Il contorno, l'albume lo lascia agli altri, a quelli che una volta si chiamavano benpensanti, anche perché è appunto bianco, un non colore, quindi non allineato. Sono passati sette mesi dalla kermesse con cui il giornalista chiuse Servizio pubblico per dedicarsi, suo malgrado, al privato. Sette mesi, quasi l'invecchiamento di un vinello leggero, mica roba da palati forti come il suo. Non l'ha ancora metabolizzato, il Nostro, lo stop al programma. Lo si capisce da come inizia il pezzo uscito ieri sul Fatto Quotidiano, locale di riferimento del santorismo. «Curiosamente, da quando siamo usciti di scena, non si parla più di crisi dei talk. Segno che i talk sono tutti uguali, ma ce n'era uno che evidentemente era più uguale degli altri». Pluralis maiestatis a parte, Santoro va come di consueto al cuore del problema. Che però nel frattempo è diventato un non problema, un albume colloso. L'articolessa, dopo aver (ri)saltato in padella le accuse alla Rai, colpevole di aver dimenticato nel freezer per anni il film Processo all'Olocausto, serve l'antipasto del nuovo progetto. Si chiama Buono! e viene portato in edicola da oggi proprio sul giornale diretto da Marco Travaglio. Di che si tratta? Di cibo, è un inserto stellato, ma i pentastellati grillini non c'entrano un fico secco. Le stelle sono quelle Michelin di grandi cuochi come Gualtiero Marchesi. «Mangiare è un diritto, digerire è un dovere», diceva un altro stimabilissimo Marchesi, cioè Marcello. E Santoro, con quel peso sullo stomaco, ha deciso di farsi un'alka seltzer dedicandosi al buon gusto. Non è il primo, fra i celebri volti televisivi schierati à gauche, con o senza caviar, a cercare strade alternative che non portino a Roma, viale Mazzini o Saxa Rubra. Serena Dandini, per esempio, si è da tempo data al giardinaggio. Dai diamanti non nasce niente, ammoniva il suo libro su Storie di vita e giardini, citando De André. Per fertilizzare, il letame cantato da Faber è molto meglio del famigerato fango destrorso. Un concetto, questo, che fiorisce puntualmente anche nel blog Il pane & le rose targato Io donna. Molta acqua è passata sotto i ponti e negli annaffiatoi da quando Serena era nella squadra sbarazzina della Tv delle ragazze, e molte ragazze hanno preso il posto delle ex ragazze come lei. Tipo Giulia Innocenzi, volgarmente appellata «santorina», con quella desinenza in «ina» che fa pensare a «olgettina». Lei, «incurante dei consigli per gli acquisti - scrive il suo mentore nell'articolessa sopra citata - continua a occuparsi dei diritti degli animali e, a dire il vero, anche di quelli umani». Ecco, dopo cucina e giardinaggio, nella nuova fattoria della sinistra stanno benissimo anche gli animali.

De Bortoli, contro il giornalismo copia e incolla servo del potere, scrive Giuseppe Oddo su “Il Sole 24 ore" del 2 ottobre 2008. Segnalo un libro fresco di stampa di Ferruccio de Bortoli, direttore del "Sole-24 Ore", giornale per il quale lavoro. Il libro, dal titolo "L’informazione che cambia", scaturisce da un lungo colloquio con Stefano Natoli ed è stato pubblicato dall’Editrice La Scuola. Nel mentre che vado a comperalo, e in attesa di poterlo leggere e commentare con voi, vi propongo l’anticipazione diffusa ieri mattina dell’agenzia di stampa Adn Kronos. Per la prima volta, il direttore di uno dei maggiori e più autorevoli giornali italiani, che ha anche guidato il "Corriere della sera", denuncia apertamente, senza ipocrisie, il degrado del giornalismo, il concubinaggio stampa-potere, la contiguità tra il giornalista e le fonti, il tentativo di questo Governo di imbavagliare l’informazione attraverso la famigerata legge sulle intercettazioni.  Ritorneremo presto e più approfonditamente sull’argomento. 

ADN KRONOS, 1° OTTOBRE 2008: «Siamo diventati più servi e concubini del potere, facciamo più parte del gioco. Vogliamo fare politica, influenzare la formazione di nuovi partiti e coalizioni, rifare la legge elettorale. Dovremmo invece tornare a fare esclusivamente i giornalisti, che è già tanto». L’invito – perentorio – arriva da Ferruccio de Bortoli, direttore del «Sole-24 Ore», un protagonista del mondo dell’informazione nel nostro paese, del quale arriva ora in libreria «L’informazione che cambia», un lungo colloquio con il giornalista Stefano Natoli (Editrice La Scuola, nella collana «Interviste» diretta da Paola Bignardi). Centoventi pagine – precedute da una prefazione del presidente dell’Ordine, Lorenzo del Boca – che fotografano la situazione difficile dei media in Italia, l’accesso alle fonti e la loro verifica, il giornalismo multimediale, le potenzialità legate al connubio rete e carta, ma che a tratti diventano un j’accuse contro la categoria. «Il dramma di fondo» – sottolinea de Bortoli – «è che a volte non siamo più neanche tanto giornalisti, ma un grande ufficio stampa». Giudizi taglienti. Inequivocabili. Come quello su un modo purtroppo sempre più diffuso di lavorare: «Sempre più un copia e incolla. Acritico, distratto, sciatto». Di inviti ai giornalisti de Bortoli ne fa tanti. Ad esempio a sbagliare di meno, a difendere con più forza il valore dell´indipendenza delle redazioni e a presidiare con più convinzione il web «prima che sia troppo tardi: il tentativo degli editori, infatti, è quello di fare a meno dei giornalisti, per un problema di costi, ma non solo». Non mancano le denunce. Agli editori – che non di rado hanno gli interessi al di fuori dell´editoria e usano la stampa per «dare lustro a tutta una serie di posizioni personali o come scudo in vicende giudiziarie o ancora come arma di pressione nei confronti di enti locali» – ma anche ai politici che, in modo assolutamente bipartisan, resistono raramente alla tentazione di mettere un bavaglio alla stampa. Come dimostra il disegno di legge sulle intercettazioni: «trovo scandaloso» – dice de Bortoli nell’intervista – «cercare di impedire che si scriva di inchieste nel loro formarsi, cioè che si possa parlare di indagini penali soltanto nel momento in cui queste vengono completate. In base a questa logica, non avremmo potuto parlare tre anni fa delle indagini sui "furbetti del quartierino" e più recentemente dello scandalo delle cliniche». Lapidari alcuni giudizi, come quello sulla free press: «mi domando che cosa sarebbe un mondo fatto solo di free press, di notizie in pillole, prese nella maggior parte dei casi dalle agenzie e senza la minima caratterizzazione» – o sul contributo del cosiddetto citizen journalism, importante ma non alternativo al giornalismo tradizionale: «non tutto quello che gonfia la rete è ispirato da accuracy and fairness». Vibrante la difesa dei giornali a pagamento: «pezzo costitutivo dell'identità e della storia nazionale», rappresentanti «della vivacità intellettuale e delle aspirazioni del Paese». Non mancano le proposte, come quella – audace – di superare la situazione di irresponsabilità finanziaria delle redazioni»: l´idea di de Bortoli è che il direttore debba avere anche una responsabilità di tipo gestionale: «debba fare un budget», anche per sottrarre al marketing e alla pubblicità il potere di «aprire o chiudere il rubinetto delle risorse di un giornale a suo piacimento». Circa il tema «informazione e potere politico», dopo aver ricordato l’anomalia italiana («il principale possessore di televisioni private o l’azionista di maggioranza di uno dei più grandi gruppi editoriali italiani è nello stesso tempo il capo del governo e il principale esponente della maggioranza»), aggiunge: «Si sbaglia a pensare che l’informazione televisiva di Mediaset sia un’informazione schiacciata sulle posizioni del Cavaliere. Ci possono essere alcuni eccessi, ma ci sono tantissime persone che svolgono tranquillamente e correttamente il proprio lavoro. Anzi, diciamo che non di rado lo stesso editore si è fatto forza della diversità e indipendenza delle redazioni presentandole come elementi di pluralismo. Berlusconi del resto si è dimostrato un buon editore. Sa che i giornali che appaiono house organ finiscono per valere poco sia presso il pubblico sia presso l’utenza pubblicitaria, che lui conosce meglio di tutti. Resto convinto che non si possa essere contemporaneamente buoni editori e buoni politici, ma questo è un altro discorso». E la Rai? «Gode della pessima immagine di essere penetrata dal potere politico. E oggi, fra l’altro, di essere ostaggio del suo principale concorrente. L’azienda, che è il più ricco – ma anche il più disordinato – deposito di intelligenze del Paese, esprime in maniera rapsodica delle grandissime individualità accanto a preoccupanti forme di conformismo e di puro compiacimento del potere», risponde De Bortoli a Natoli. Aggiungendo: «Bisogna però riconoscere che qualsiasi altra azienda martoriata nella propria gestione da elementi politici e da oneri impropri, come è stata la Rai, probabilmente oggi non esisterebbe più. Ciò vuol dire che – pur nelle divisioni – all’interno di quel mondo esiste un forte spirito di squadra, un grande valore intangibile». Nel libro in pubblicazione per i tipi dell’Editrice La Scuola anche una curiosa remarque sull«’effetto terrazza romana». Confida De Bortoli all’intervistatore: «Trovo insopportabile questa contiguità così forte fra stampa e potere al punto che tutti si danno del tu, tutti frequentano gli stessi locali e le stesse case. C’è questo effetto da terrazza romana, dove tutti sono amici di tutti e dove, soprattutto coloro che non fanno i giornalisti, si aspettano che il giornalista col quale hanno riso e mangiato insieme non debba scrivere delle cose a loro non gradite.  Credo che una maggiore separazione farebbe bene alla stampa, ma farebbe bene anche alla politica. Perché la politica spesso si rilassa, peggiorando, nell’intimità con i media».

Secondo i più livorosi, De Bortoli ha trasformato il “Corriere” da Bibbia della notizia (“L’ha scritto il Corriere”) in cattedrale dell’ipocrisia e lascia un giornale in perdita di copie cartacee (secondo Caizzi la più alta mai accaduta), dominato da collaboratori inamovibili e giovani che lavorano sottobanco in redazione…3 maggio 2015. DAGOANALISI. Dire che cosa sia stato per il giornalismo il ventennio debortoliano sarà compito degli storici; ma sul Ferruccio che prende posto ai giardinetti con due milioni e mezzo di euro in saccoccia, magari ai Giardini pubblici, cercando di allungare la sua ombra sulla statua di Montanelli (che per la libertà di stampa si dimise due volte: dal “Corriere” diventato comunista e dal “Giornale” diventato berlusconiano), si può anticipare qualcosa. De Bortoli pare aver impersonato quella fase decadente del giornalismo italiano che si potrà forse chiamare “giornalismo di relazione”, il corrispettivo mediatico del “capitalismo di relazione” (rappresentato dagli azionisti del “Corriere”). Se questa forma di capitalismo non contava le azioni ma le pesava, nel corrispettivo giornalistico le notizie non si davano, ma si soppesavano. E, se necessario, si evitavano o si marginalizzava chi le voleva dare. Di famiglia originaria del bellunese, vacanze da ragazzo dalla zia a Morbegno, Ferruccio De Bortoli (con la D maiuscola all’origine) potrebbe celebrare la sua vita come quella di un self-made-man se la sua carriera, a un certo punto, non avesse intrapreso, dicono i detrattori, la strada dell’ipocrisia, cancellando le tracce per fingersi altro da sè. Il padre lavorava nella segreteria del rettore dell’Università Statale di Milano, la madre era casalinga. Lui studia all’Istituto Feltrinelli e vivrà sempre male questi studi tecnici maturando un rapporto con la cultura sospeso tra arte da salotto, esibizione di nomi ottuagenari che non hanno nulla da dire e tentativi di aggrapparsi a novità “social”. Mai la cultura trattata come disciplina con competenze. Da qui la lamentela per i suoi giornalisti che scrivono libri. Per fdb i libri sono prodotti tutti uguali, ma non gli autori: se a scrivere sono amici suoi, allora i libri si possono scrivere e lui fa l’introduzione e li presenta. Con il padre in Statale, iscriversi all’Università era doveroso. Così si laurea in quella che era la laurea di quelli che non sapevano cosa scegliere: Giurisprudenza. E a laurea conseguita c’è da pensare al lavoro. Dicono che sia stata una zia a indirizzarlo verso il “Corriere dei piccoli”, come praticante. A fine anni Sessanta FDB – al pari di Carlito Rossella - era un ragazzo gruppettaro, non girava in grisaglia e cravatta Ferragamo o maglioncini di cachemire, ma vestito come quelli di sinistra che andavano in manifestazione con Capanna. Ma l’uomo è disciplinato e astuto. Il primo balzo è al “Corriere d’informazioni”, palestra pomeridiana del “Corrierone”. Lui fa il cronista assieme a molti altri colleghi che, pochi anni fa, ha messo alla porta con gli stati di crisi del giornale. Vicino (con cautela) alla sinistra, entra nel sindacato, palestra di lancio per molti giornalisti. Infatti fa carriera anche per la sua capacità di controllare il sindacato e di presentarsi ai colleghi come “uno di loro” (molti hanno sempre creduto in questa leggenda). Inizia anche il sodalizio con lo storico sindacalista del “Corriere” Raffaele Fiengo: apparentemente oppositori, Fiengo in eschimo e lui in grisaglia; ma sottobanco la co-gestione è stata a tratti strisciante. De Bortoli, passata l’età del “Corriere dei Piccoli”, diventa il corrierino dei banchieri e degli industriali. Soprattutto del salvatore del gruppo dopo la P2: Abramo Bazoli. Passa a occuparsi così di economia al “Corriere”, poi a un settimanale del gruppo, quindi ancora al “Corriere” come capo della redazione e come vicedirettore. Controllerà sempre l’economia e chi non capisce che le notizie le seleziona lui in base a quel che si deve (vedi il libro “Il direttore” di Bisignani) viene silenziato o esiliato a Bruxelles. Se commette un errore, si scusa con i lettori uno a uno, al telefono o con laconiche mail con scritto “scusi” oppure “grazie”. Solo un bresciano bazoliano gli sfugge di mano, Massimo Mucchetti (ora senatore Pd), il giornalista che voleva “Licenziare i padroni”. Dal punto di vista privato, gli incidenti familiari sono gravi, ma chi è senza peccato? Tuttavia, anni dopo de Bortoli (che nel frattempo si è abbassato la d per rendersi più nobile) si trova a discettare di famiglia con i cardinali e a imporre al giornale una svolta femminista ispirata al boldrinismo più duro e conformista: aveva la patente per farlo? Permalosissimo dietro al bel ciuffo, “debole coi forti e forte coi deboli” e capace di esclusioni immotivate (dice chi l’ha provato), un po’ snob (memorabile quando da Vespa disse a Berlusconi che non era consono farsi fotografare con un pizzaiolo di Casoria), de Bortoli segue il potere. Lascia perdere il tifo milanista (Berlusconi non è chic) e prende a frequentare le cene romane a casa dell’Angelillo con Bisignani, Letta, i politici, poi il Premio Strega, i salotti, i presidenti della Repubblica (re Giorgio, suo sostenitore)… Se la d minuscola lo fa più nobiliare, la presidenza di Binario 21 lo consacra agli occhi della comunità ebraica dalle cui fila escono da sempre direttori e proprietari dei giornali (anche quello di via Solferino). A questo punto è diventato tutto: nobile senza esserlo, ebreo senza esserlo, banchiere senza esserlo. In redazione vuol fare piazza pulita con chi lo conosce, con i vecchi corrieristi milanesi simili a lui (oggi il Corriere è romano-campano); per dirla alla Pigi Battista vuole “cancellare le tracce”. Così, quando a furia di mail di Caizzi che segnala la “caduta delle copie” un giorno fdb si decide ad andare in assemblea si mette a ricordare a una banda di timorosissimi giornalisti che loro sono stati assunti quasi tutti da lui e che ha dato loro diversi aumenti. Questi si intimoriscono e fdb finisce l’assemblea invitandoli a sostenere economicamente l’azienda (già nelle mani di John Elkann), che veniva dallo scandaloso affare Recoletas. Secondo i più livorosi, De Bortoli ha trasformato il “Corriere” da Bibbia della notizia (“L’ha scritto il Corriere”) in cattedrale dell’ipocrisia e lascia un giornale in perdita di copie cartacee (secondo Caizzi la più alta mai accaduta), dominato da collaboratori inamovibili e giovani che lavorano sottobanco in redazione, colleghi marginalizzati e clan che si autosostengono, che promuovono mogli e mariti, che hanno piazzato una carrettata di “figli di…”, di amici (appartenenti a varie élite e lobby) e che quasi mai hanno favorito merito e competenza (lobbismo, familismo, appartenenze e il resto lo lasciamo immaginare). Le promozioni? Lo stesso: conformismo, finto allineamento. Con fdb hanno comandato, dicono i suoi critici, il clan dell’ex “Unità”, il clan neofemminista-modaiolo-boldrinesco, quello che traffica con il Cdr, gli amici dei giudici e dei servizi e il gruppo dell’on-line costituito da giornalisti poco integrati con i colleghi nati della carta (e viceversa) e da questi accusati di realizzare da dieci anni un prodotto che fa traffico ma non reddito (con tanto di disastroso restyling) e che a furia di copia/incolla ha contribuito a cancellare il core-business del giornale di via Solferino: la reputazione. Cosa sia stato de Bortoli lo dirà, se lo dirà, la piccola storia del giornalismo: il recupero della Fallaci, la lotta a Berlusconi (i due non si parlavano e il cavaliere lo saluto un giorno dicendogli. “Ecco il direttore del manifesto”)...Una dozzina di anni fa, alla fine del suo primo quinquennio di direzione, i “suoi” giornalisti scioperarono per difenderlo e difendere con lui la libertà di stampa contro l’aggressione di Tremonti che, si diceva, ne avesse chiesto la testa a Romiti. Questa volta nessun sciopero. Non c’è più il cattivo Berlusconi e in pochi credono che se ne vada un difensore della libertà di stampa. Per qualcuno è un 25 aprile, ma senza speranze di libertà.

ELOGIO DEL PLAGIO. CHI, COME, E PERCHÉ IL “COPIA E INCOLLA” È LA BASE – NASCOSTA – DELLA LETTERATURA. Di Luigi Mascheroni del 29 agosto 2014. Pubblichiamo, in anteprima, il capitolo introduttivo del saggio che Luigi Mascheroni sta scrivendo sul plagio letterario e giornalistico, e che sarà pubblicato nella primavera del prossimo anno. Il titolo non è ancora definito. Si tratta di un work in progess. L’autore chiede a chiunque voglia aiutarlo consigli, indicazioni, suggerimenti. Nel 1988 David Foster Wallace, considerato oggi uno degli scrittori più originali della nostra epoca, sta per pubblicare il suo secondo libro, La ragazza dai capelli strani, una raccolta di racconti tra i quali ne figura uno, destinato a diventare leggendario, intitolato La mia apparizione. Parla del potere dei media (e della televisione in particolare, di cui lo scrittore americano era dipendente forse più dell’alcol e della marjuana) che nella società dello spettacolo arrivano a colonizzare ogni aspetto dell’esistenza umana, fino ai nostri pensieri più intimi. La fonte diretta dell’ “ispirazione” della storia di David Foster Wallace è una puntata del popolare programma Late Night with David Letterman nella quale è ospite l’attrice Susan Saint James. Poco prima dell’uscita in volume, il racconto viene concesso, come lancio, a Playboy. Ma mentre sta per andare in stampa, un editor della rivista, una sera, per puro caso, s’imbatte proprio in una replica di quella puntata e riconosce nelle parole dell’attrice alcuni brandelli dei dialoghi presenti nel racconto. Allarmato, avverte subito l’editor di Wallace e l’ufficio legale della propria redazione. Ormai è troppo tardi per modificare il testo e La mia apparizione esce comunque sul numero di giugno del 1988 di Playboy. Ma, ormai dubbiosa della reale originalità del talento creativo dello scrittore, la casa editrice che avrebbe dovuto pubblicare la raccolta, Viking Penguin, si tira indietro. E Alice Turner, l’editor di David Foster Wallace, furiosa, scrive una lettera di fuoco al suo pupillo in cui lo avverte che la sua reputazione è in pericolo: gli scrittori americani che si macchiano di plagio non vengono mai perdonati. Ma proprio il fatto che David Foster Wallace non sia mai stato dimenticato, tanto meno dopo il suicidio, dimostra che Alice Turner, editor eccellente ma troppo rigorosa, si sbagliava. Non solo l’autore di Infinite Jest è (rimasto) immortale nonostante il suo plagio (ammesso che lo si possa reputare tale: chiunque di noi considererebbe tutto ciò pura e legittima ispirazione). Ma addirittura ha contagiato e influenzato molti altri scrittori. In un lungo reportage letterario, da San Francisco a Los Angeles, “per scoprire quanto manca David Foster Wallace”, Paolo Giordano, devoto all’autore-culto americano, confessa che “I libri mi spingono a scrivere come lui. Con una forza di attrazione plagiatoria che nessun altro autore ha mai più esercitato su di me”. Dice proprio così: “una forza di attrazione plagiatoria”. Certo, David Foster Wallace era ed è un genio fuori dagli schemi, e non fa testo. Ma rimane il fatto che moltissimi scrittori s’ispirano alla realtà, o addirittura la copiano. Si nutrono – e nutrono le proprie pagine – di brani, dialoghi, momenti di vita, “pezzi” di idee: tutti altrui. E non potrebbero farne a meno. La scrittura creativa vive di ispirazioni e imitazioni. Qualcuno deve averlo pur detto – e anche scritto da qualche parte – che la letteratura è tutto un inseguirsi, un mimetizzarsi, un cercarsi, un compenetrarsi, un fondersi, un assimilarsi e, infine, un citarsi. Appunto. E non per questo le “nuove” opere appaiono meno originali. Anzi: ri-creando, re-inventando, ri-scrivendo, ri-plasmando parole e pensieri (di chi ci ha preceduti) la realtà spesso appare migliore, e la narrazione ci guadagna. Anche quando – addirittura – un’opera letteraria s’ispira – o emula, o riscrive, o copia, o plagia – le pagine di un altro narratore. Il poeta catalano, nato a Barcellona nel 1945, Pere Gimferrer, in un breve saggio dal titolo I segreti del plagio, cita due scrittori originali e misteriosi. Il primo è lo spagnolo Josep Pla i Casadevall (1897-1981), il quale a proposito dei libri italiani di Stendhal sosteneva fossero “puro e semplice plagio: gli aneddoti che contengono sono un meraviglioso plagio. Ho sempre sostenuto che la buona letteratura è un plagio”; e il secondo è Isidore Lucien Ducasse, noto al mondo come Conte di Lautréamont (1846-1870), metà uruguaiano metà francese, che prima di morire, giovanissimo, lasciò alcune Poésies epigrammatiche e sarcastiche, di fatto paradossali aforismi in prosa, il più impressionante dei quali recita: “Il plagio è necessario. Il progresso lo implica. Il plagio cattura la frase d’un autore, si serve delle sue espressioni, cancella un’idea falsa, la sostituisce con l’idea giusta”. Sintetizza Pere Gimferrer: “Il plagio è la chiave di volta della letteratura e, al tempo stesso, il suo massimo mistero. Il plagio d’argomenti è ancora poco importante: Fedra, Medea, Antigone, sono archetipi mitici, morali, non aneddoti. Ma il plagio dei dettagli letterali, dei dati, delle espressioni, ci turba di più, perché è, certamente, la base della grande letteratura. Si potrebbe dire che la cattiva letteratura è semplicemente un cattivo plagio, un plagio non riuscito. E la buona letteratura? La buona letteratura, io credo, ha scoperto l’essenza del buon plagio. Il quale, essendo buono, già non è più plagio. Il buon plagio sa che il materiale letterario esistente è parte della porzione di realtà alla portata dello scrittore”. Come dimostra la storia di tutte le letterature e la cronaca di ogni giorno, tutti rubano. Senza copiare, i giornali non uscirebbero. E senza plagio, la letteratura sarebbe più povera. Anche il più originale degli autori – (in)consciamente – ruba frasi, idee, trame, contesti, personaggi, versi, battute. La letteratura è furto. E come diceva Voltaire, uno che in materia la sapeva lunga, “Tra tutti i crimini il plagio è il meno pericoloso per la società”. Anzi, l’intera società è un furto. Gli scrittori si ispirano, i giornalisti copiano (anche se dicono di usare “ritagli d’archivio”), i saggisti ri-copiano (spesso interi paragrafi di Wikipedia), gli artisti citano, gli architetti rifanno, i musicisti orecchiano, i comici riprendono, gli sceneggiatori adattano (testi “originali”), gli autori televisivi ri-adattano (i format), i pubblicitari mixano (idee degli altri), i politici fotocopiano (tesi e programmi altrui). Si fa man bassa dell’immaginario condiviso, si riscrive ciò che non si ricorda di aver letto, si ripete ciò che non ci si ricorda più di aver udito, si riproduce – con varianti – ciò che non ci si ricorda di aver già visto. Si ripete ciò che senza accorgerci si è appena ritwittato. Disponiamo dell’altrui come se fosse nostro. E infatti è nostro. Anche se non ci appartiene. Anche su un capolavoro assoluto come Il vecchio e il mare di Ernest Hemingway, un romanzo che ha ispirato intere generazioni di scrittori, sono state ventilate illazioni in merito alla non originalità della storia. Ma, come rispose Fernanda Pivano, che conosceva benissimo sia l’autore che il romanzo, “Il libro fu scritto nel 1951, ma una prima versione della storia si trova in un racconto del ’36. Si sa che all’origine c’è un resoconto orale di un amico di Hemingway, Carlos Gutierrez, ma questo fa parte del metodo di lavoro dello scrittore: a partire dalla cronaca, da personaggi, da fatti reali, per costruire romanzi a tesi”. Si deve sempre partire da qualcosa. Che non è mai nostro. Charles Nodier (1780-1844), novelliere molto famoso nella propria epoca e grande bibliofilo (e egli stesso squisito plagiatore: un suo racconto deriva quasi integralmente dalla “Decima giornata” del celebre Manoscritto trovato a Saragozza di Jean Potocki), autore nel 1812 di una curiosa inchiesta (era figlio di un magistrato…) sui “Crimini letterari” dove si occupa, tra le altre cose, di falsi, citazioni, allusioni, appropriazioni e plagi, di fatto sostiene l’idea che la Repubblica delle Lettere è fatta soprattutto di criminali, perché anche il più originale degli autori ruba. Certo, occorre misura, come in tutte le cose. “Quando si saccheggia un autore moderno – suggerisce Nodier – prudenza vuole che si nasconda il bottino. Ma guai al plagiario se è troppo grande la sproporzione tra quel che ruba e ciò a cui lo incolla”. Insomma, se William Shakespeare rubacchiava (eccome se rubacchiava) nel sacco dei poeti suoi contemporanei, e il risultato sono le sue opere immortali, è la Letteratura che ci guadagna. Ma se un oscuro scribacchino si appropria delle parole di un classico per appiccicarle al proprio romanzetto, a perderci sono entrambi. Poi, c’è chi ne fa una semplice questione linguistica, considerando l’ “appropriazione” da un autore straniero più un’utilità sociale, al pari della traduzione, che un furto. Perciò il poeta barocco Giambattista Marino (1569-1625), il quale di citazioni, allusioni, pastiche e plagi ne sapeva parecchio (era il primo ad ammettere candidamente di leggere le opere altrui “col rampino”), non aveva difficoltà a sostenere che “prendere dai connazionali è fare bottino, ma prendere dagli stranieri è fare conquiste”. Scrivere è anche ri-scrivere, è omaggiare la tradizione. Se serve, anche assassinarla. In fondo, faceva notare qualcuno, scrivere è un’arte combinatoria fra 22 modestissime lettere dell’alfabeto. E come sosteneva Jorge Luis Borges dentro quel pugno di simboli ci sono tutti i libri, passati, presenti e futuri. Le figure, le trame e le situazioni narrative sono migliaia di migliaia, ma una volta inventate emigrano da un inconscio all’altro e riaffiorano qua e là, con minime varianti. “La musica orecchiabile, proprio perché tale, assomiglia a qualche cosa già scritta, già proposta alla gente. Se non fosse stata udita non avrebbe successo”, disse una volta il maestro Ennio Morricone. E la stessa cosa lo si può sostenere per la narrativa, e non solo per quella più “pop”, di consumo, di genere. I poemi epici, le favole antiche, i grandi classici, le saghe: tutte storie già “orecchiate”, già udite, già sedimentate nel ricordo (inconscio) dei popoli, e dei loro bardi. Da Omero a Virgilio, da Virgilio a Dante, dai tragici greci a Racine e Corneille, non escludendo (anzi!) Shakespeare, le medesime “storie” sono state raccontate infinite volte, senza mai tradire le attese del pubblico. A fare la differenza, non è mai stato il “cosa” si racconta, ma il “come”. Questione di stile.

Qualsiasi artista o creativo o intellettuale trae ispirazione da opere altrui. Dagli antichi ai post-postmoderni, passando per la nota querelle accademica dell’imitazione letteraria degli ‘antichi’ da parte dei ‘moderni’ (pratica che un tempo veniva considerata una vera e propria scuola di scrittura e idee), è una lunga storia di calchi, prestiti, saccheggi, imitazioni, scippi, cover, citazioni, echi, allusioni, appropriazioni, similitudini, analogie, coincidenze, omaggi, campionature, somiglianze, contaminazioni, debiti, cloni, furti, cut-up, copia-e-incolla. Come hanno scritto: “Il plagio è un’arte, non un delitto”. La letteratura non può farne a meno, il giornalismo ne ha fatto la propria essenza, la Rete – “un’enorme cava a cielo aperto di materiali da plagiare” – lo ha universalizzato, sottraendolo a qualsiasi giurisdizione. Dall’italiano plagio al francese plagiat, dall’inglese plagiarism al tedesco plagiat: siamo tutti pirati di parole. Dagli autori classici alla narrativa di consumo fino ai bestseller, tutti in qualche modo “copiano”: alcuni in maniera elegante, altri con dolo, altri ancora applicando il furto con destrezza. Ma è davvero un crimine? “Il plagio è la base di tutte le letterature – disse Jean Giraudoux (1882-1944) – eccetto la prima, che ci è sconosciuta”. Mentre Federico Fellini, che sul tema era molto à la page (ne sanno qualcosa i cinefili), diceva: “I veri geni copiano”. La storia della letteratura, o meglio, della creatività umana, mostra un continuo ed esteso processo di riscrittura, commistione, ricombinazione, ovverosia di plagio nelle sue infinite sfumature. E’ una lunga battaglia. Da una parte legislatori, autorità ed enti che amministrano il copyright, “diritto d’autore”, e si battono per tutelare e difendere da furti e abusi la “proprietà intellettuale”. Dall’altra i “pirati” del copyleft, i paladini dell’open source, della libera circolazione e del ri-uso delle idee, che quella “proprietà” contestano e assaltano, in nome della “libertà di copiare”. Come scrive un membro del collettivo anti-copyright Wu Ming: “Per decine di millenni la civiltà umana ha fatto a meno del copyright (…). Se fosse esistita la proprietà intellettuale, l’umanità non avrebbe conosciuto l’epopea di Gilgamesh, il Mahabharata e il Ramayana, l’Iliade e l’Odissea, il Popol Vuh, la Bibbia e il Corano, le leggende del Graal e del ciclo arturiano, l’Orlando Innamorato e l’Orlando Furioso, Gargantua e Pantagruel, tutti felicissimi esiti di un esteso processo di commistione e ricombinazione, riscrittura e trasformazione, insomma di plagio, nonché di libera diffusione e performance dal vivo (senza l’interferenza degli ispettori Siae)”. E così, mentre ogni giorno e ogni notte, milioni di persone combattono la loro battaglia per la libertà contro gli occhiuti vigilantes dei governi e delle corporation dell’entertainment, scaricando, riproducendo, distribuendo, condividendo, masterizzando, in un processo continuo di erosione dei confini tra originale e copia, tra intuizioni semioriginali e imitazioni smaccate, finisce che inevitabilmente, più o meno (il)legalmente, tutti copiano tutto, in tutti i campi dello scibile. Nella letteratura (si iniziò nel mondo greco e romano, si continua con i bestseller digitali), nella poesia (dai Nobel come Eugenio Montale ai poetastri della domenica a corto di illuminazioni), nel giornalismo (dal leggendario Jayson Blair al nostro Roberto Saviano), nella saggistica (dalla storia alla scienza, dalla filosofia alla teologia, spesso succhiando dalla Rete intere frasi, paragrafi, capitoli, conclusioni, spesso senza citare), nel cinema (ormai in crisi creativa e che si affida sempre di più a film tratti dai libri: quasi una duplicazione narrativa), nel teatro (a partire dal gigante Bertolt Brecht) e nei testi comici (il caso di Daniele Luttazzi, il quale ri-faceva battute di colleghi americani, travolto dalla furia iconoclasta di Internet, a Maurizio Crozza che ha rubato con disinvoltura battute da Twitter), nei fumetti (il caso del disegnatore della Panini Comics Giuseppe Ferrario, autore delle tavole de Le Cronache del Mondo emerso tratto dalla saga di Licia Troisi, sospeso dall’azienda perché replicava personaggi, pose, sfondi, panorami del maestro di manga e anime Hayao Miyazaki), nei serial e nei format televisivi (dalla serie culto New Girl a Ballando sotto le stelle), nella musica (l’ultimo caso, eclatante, è quello di Sergio Endrigo che post mortem si è visto riconoscere dal compositore Luis Bacalov la co-paternità della colonna sonora del film Il postino, Oscar nel 1996; ma si calcola che le cause di plagio musicale pendenti negli uffici giudiziari italiani siano non meno di tremila), nell’arte (dove il “citazionismo” è esso stesso un’arte, e dove da Andy Warhol in poi la “riproducibiltà” – o plagio d’autore- di cui si lamentava Walter Benjamin è arrivata a livelli imprevisti). E poi nella moda (la Maison Chanel, accusata di aver copiato un modello da una ditta appaltatrice, nel 2012 fu condannata dal tribunale di Parigi a pagare un risarcimento di 200mila euro), nell’architettura (quanti edifici fotocopia, anche firmati da archi-star), nelle tesi di laurea (tanti studenti, spesso futuri politici), nella pubblicità (il gruppo dolciario Ferrero che per il manifesto del Kinder Bueno nel 2013 copiò l’autoritratto di una liceale di Pavia diventato la locandina della manifestazione Scienza Under 18), insomma ovunque ci sia da lavorare con le idee (altrui). Ispirarsi a modelli preesistenti, nell’arte e in letteratura, è inevitabile. Chiunque scriva o crei, finisce per rubare qualcosa a qualcun altro. Siamo immersi in un universo culturale, in una marmellata di parole, suoni e immagini, che assimiliamo, modifichiamo e riproponiamo a un ritmo sempre più frenetico e in dosi sempre più massicce (e la Rete offre una proliferazione esponenziale di materiale da plagiare) credendo nuovo e originale ciò che ha già una (lunga) storia. “La letteratura si nutre di calchi e imitazioni. Dagli antichi ai postmoderni, i plagi appaiono frequentissimi – ha scritto Giovanni Mariotti, che tempo fa beccò un verso di Umberto Saba rubato a un poesia di Jean Cocteau -. E tuttavia si potrebbe anche sostenere, con buoni argomenti, che nessuno ha mai plagiato nessuno, perché plagiare è impossibile. Passando da un autore a un altro, un segmento di testo, un’immagine, un motivo mutano timbro, colore, significato. Il riverbero del contesto li rende cangianti”. Insomma, quando è “ripresa” e non mero “copia-e-incolla”, il plagio è un “illecito di serie B”. Ma – ci si chiede – dove finisce l’ispirazione, l’imitazione creativa, l’omaggio, la cover, la “reiterazione” consapevole o meno di modelli (tutti atti artistici sempre esistiti e impossibili da eliminare del tutto); e dove inizia il furto vero e proprio? Dove finisce la creatività e dove inizia il saccheggio ideologico? Il concetto di “plagio”, sul quale si accapigliano avvocati, giudici e copywtiter resta oggi molto vago, attorno al quale aleggia una vasta zona grigia. Dove non è compito di questo libro addentrarsi. Non saremo noi a provare una definizione culturale e/o giuridica di plagio (reato per il quale le condanne peraltro si contano sulle dita di una mano). Né saremo noi a giudicare quando e come un romanzo è banalmente e illegalmente la copia di un altro, e quando è una accettabile ispirazione, o una colta citazione. Lasciamo la difficile impresa a critici e giuristi. Noi ci limiteremo a raccontare i casi più eclatanti, divertenti, curiosi e tragici di libri che sono entrati a vario titolo in quell’area indefinita e sfumata chiamata “plagio”. Per dimostrare, se mai ce ne fosse bisogno, che la letteratura vive, e prolifera, di parole già dette. E già lette. Letteratura, cinema, arte, giornalismo. Nessuno può prescindere dal plagio (e dall’auto-plagio: quanti Venerati Maestri, da Claudio Magris a Pietro Citati, riciclano i propri pezzi a giornali differenti, o allo stesso giornale in tempi diversi?). La creatività non è un’illuminazione che viene dal nulla, ma si nutre di “ispirazioni” e imitazioni. Del resto, inventare deriva dal latino “invenire”, che significa immaginare, ma anche trovare. Di solito qualcosa “perso” da altri… E spesso chi copia ottiene successi creativi superiori al (presunto) originale, con effetti e cortocircuiti sorprendenti… Tre curiosi esempi, molto indicativi. Quentin Tarantino è stato accusato di aver copiato molte scene del celeberrimo Le Iene (1992) dal molto meno noto (anzi, in Occidente quasi sconosciuto) City on Fire (1987) film degli esordi del regista Ringo Lam, poi diventato famoso negli Stati Uniti: il triello finale (che c’è già nel cinema di Sergio Leone…), la rapina andata male, un uomo torturato da un membro della banda; molte delle sequenze in cui è presente Mr. White sono state direttamente spostate dal titolo cinese e trasferite in Le Iene. In pratica, è come se Tarantino avesse copiato l’ultima parte di City on Fire per creare però un film autonomo e americano al cento per cento. In risposta alle accuse di plagio, Tarantino – il cui genio cinefilo ha partorito schiere di emuli votati al copia-incolla – disse: “I grandi artisti non copiano: rubano”, plagiando a sua volta una frase del compositore Igor’ Strainskij. Il secondo esempio. La filosofia che è alla base di Anche le formiche nel loro piccolo s’incazzano, la storica antologia di Gino&Michele che debuttò nei Tascabili Einaudi nel 1991, per fare poi la fortuna della Baldini&Castoldi, è l’esaltazione del frammento editoriale e del “furto culturale”, che gli autori stessi sintetizzano con la più celebre fra le citazioni sul plagio, ovvero “Se copi da uno è plagio, se copi da molti è ricerca”. Il libro, un mosaico di pensieri e di battute (di altri), divenne un fenomeno di culto. Copiatissimo. Il terzo esempio. Il saggio del 2013 di Fabio Macaluso E Mozart finì in una fossa comune (sottotitolo: “Vizi e virtù del copyright”) contiene una prefazione di Aldo Grasso in cui il celebre critico televisivo “copia” da un proprio precedente scritto del 2010, dove parlava delle gag copiate dal comico Daniele Luttazzi… Non solo. Il testo di Aldo Grasso fu “rubato” anni prima, inserendolo come prefazione di un pamphlet underground di cui si sono perse le tracce. Ma che (sembra) iniziava così: “Alzi la mano chi non ha mai copiato!”. Appunto.

BARBANO ALESSANDRO. L'ITALIA DEI GIORNALI FOTOCOPIA. Sono passati 4 anni da quando ho scritto questo articolo, ma le cose non sono cambiate. Solo peggiorate, scrive Antonio Benforte il 25/01/2009. “Sosteneva Hegel che «la lettura del giornale è la preghiera dell’uomo moderno». Può darsi che avesse ragione. […] Ma c’è preghiera e preghiera. C’è una preghiera che fa toccare e interpretare la realtà e una preghiera ripetitiva, ritualizzata, scontata, noiosa, priva quindi di aura e di credibilità. Questo secondo tipo di preghiera sembra prevalere in Italia. Come mai?”. (Franco Ferrarotti, prefazione a “L’Italia dei giornali fotocopia”). La riflessione di Alessandro Barbano, caporedattore de “Il Messaggero”, prende il via da questo interrogativo triste e pessimista, ma di fondamentale attualità nella società moderna, quotidianamente immersa in un flusso continuo ed estenuante di messaggi e bombardata da un numero insostenibile di input difficili da interpretare. Il giornalista romano pubblica, per la collana “La società” della casa editrice Franco Angeli, “L’Italia dei giornali fotocopia”, un libro necessario per comprendere lo stato della stampa quotidiana in Italia. Un testo breve ma essenziale per capire, al di là di facili osservazione e scontate critiche, come funziona e dove è diretto il mondo dell’informazione nel nostro paese. L’autore, con uno stile semplice, diretto e lineare analizza, come un rigoroso anatomo-patologo, quell’enorme corpo, ormai privo di vita, rappresentato dal giornalismo italiano. Un corpo pesante, vecchio, che ha ormai perso la parola, che non ha più nulla di interessante da dire, che non fa altro che ripetere, in maniera sterile e acritica, la mole di notizie che arriva quotidianamente dalle principali agenzie stampa della penisola. “Viaggio nella crisi di una professione”: è questo il sottotitolo del libro, in grado di delineare in maniera precisa l’effettivo stato comatoso in cui versano i giornali, i giornalisti e, di conseguenza, i lettori dei quotidiani italiani. Una situazione imbarazzante e demoralizzante, senza dubbio, che Barbano cerca di esaminare adottando un efficace, particolare e doppio punto di vista: quello interno, derivante dall’esperienza ventennale all’interno di varie redazioni, e quello esterno, della persona qualunque che si ritrova, ogni mattina, ad acquistare il giornale, e desidererebbe ottenere, da quell’acquisto, soprattutto una contropartita di informazione, approfondimento e analisi critica della realtà, ma che è costretto, invece, a sorbirsi una inutile e vuota riproduzione delle stesse, identiche notizie su ciascuna delle maggiori testate nazionali. Questo è un dato di fatto, non ci sono dubbi. C’è ben poca differenza, ormai, nell’aprire un quotidiano o sfogliarne un altro. Certo, cambiano le firme, le tendenze politiche, alcuni modi di vedere la realtà, ma per il resto, per quello che riguarda la vera informazione, quella a 360 gradi sul mondo, che vada al di là del semplice dato, della dichiarazione eclatante, del gossip politico, c’è davvero poca differenza, e sembra di avere realmente a che fare con dei quotidiani fotocopiati. Ce ne possiamo accorgere benissimo da soli, ogni mattina, accendendo la televisione per osservare la rassegna stampa realizzata da uno qualsiasi dei giornalisti del telegiornale: il malcapitato di turno, celandosi dietro un tono della voce sicuro e volto ad attirare l’attenzione dello spettatore, in realtà non fa altro che ripetere tre o quattro titoli, per decine di volte, a partire dai quotidiani leader, il “Corriere della Sera” o “La Repubblica”, passando per i quotidiani regionali, fino ad arrivare ai giornali locali, che dovrebbero, in teoria, essere maggiormente radicati nel territorio e più vicini alle esigenze, ai bisogni e alle richieste dei cittadini. Nulla di tutto questo accade, purtroppo, e la lettura del giornale, consuetudine e normalità in molti paesi, diventa in Italia, giorno dopo giorno, un qualcosa di sempre più elitario e ristretto, quasi un rituale di nicchia, riservato a quei pochi che ancora sperano di trovare, tra le pagine di un quotidiano, un’offerta culturale interessante e formativa. Secondo un’autorevole associazione giornalistica mondiale che periodicamente fotografa le abitudini di lettura all’interno dei singoli paesi, l’Italia si trova al trentatreesimo posto nella classifica degli indici di lettura, dietro nazioni come la Slovenia, la Croazia, la Turchia, addirittura la Cina e la Malesia. E, ad uno sguardo più approfondito, ci si rende conto che, al confronto con gli altri stati europei, l’Italia risulta essere tremendamente indietro. Si legge poco, anzi pochissimo. Ed i giornali sembrano non essere in grado di coinvolgere e fidelizzare nuovi lettori. Ci provano, con gadget, allegati, libri a metà prezzo, ma non ci riescono. I giornali restano lì, letti da poche persone che, spesso, non capiscono granché di tutta quella politica presente sulle prime pagine. Una “ipertrofia politica”, così la definisce Barbano, che caratterizza la cultura editoriale di quasi tutte le principali testate nazionali, e che si aggiunge agli altri sintomi evidenti della profonda crisi che attanaglia i quotidiani italiani: innanzitutto l’omologazione culturale sempre più diffusa, aggravata dall’incontenibile sviluppo delle nuove tecnologie, soprattutto di Internet, che si rivelano una pericolosa arma a doppio taglio (“Il problema della nostra modernità è di evitare che il massimo di libertà garantito dallo sviluppo delle nuove tecnologie si traduca nel massimo di omologazione culturale”). In secondo luogo, ed è questa una conseguenza dell’espansione tecnologica, in Italia si registra, in maniera fin troppo accentuato, lo sconfortante fenomeno della “rincorsa emulativa”, che porta i giornali ad imitarsi l’uno con l’altro, a cercare di prevedere ed avvicinarsi il più possibile alle notizie pubblicate dai giornali leader del settore, “La Repubblica” ed il “Corriere della Sera”, ad utilizzare acriticamente le notizie che giungono dall’agenzie di stampa principali e sperare che tutti gli altri facciano lo stesso. La voglia di completezza, naturalmente connessa alle incredibili possibilità del web, non diventa altro che “mero stereotipo culturale”, finendo in secondo piano rispetto alle quattro tappe che governano il processo di omologazione dei quotidiani: l’intuizione, per comprendere le scelte dei giornali concorrenti, la sorveglianza esercitata sugli altri quotidiani, l’adeguamento alla scaletta e alle notizie presenti nei telegiornali principali e, infine, il controllo a posteriori, effettuato il giorno dopo, la verifica che si mette in moto durante la riunione delle undici, per vedere se l’imitazione degli altri giornali è andata a buon fine, e si è offerto al lettore un prodotto equilibrato ed identico a tutti gli altri. Ancora, l’autore continua a scavare tra le cause di questa “monotonia informativa”. Barbano osserva come la mancanza di competenze in alcuni campi, l’improvvisazione e il pressappochismo con cui si risponde ai grandi interrogativi che vengono posti nell’epoca moderna, sia un’altra delle principali ragioni della crisi. Passività, mancanza di approfondimento e ignoranza, da un lato, presenza forte di stereotipi inesatti, di valori-notizia tendenti al catastrofismo e alla drammaticità – continua a vigere il motto per cui “bad news is a good news” – e mancanza di un’analisi dettagliata del passato dall’altro, rendono i quotidiani sempre più lontani dai bisogni e dalle aspettative dei lettori, sempre più distanti dalla realtà vicina al normale cittadino, che vorrebbe conoscere la verità dei fatti che gli accadono attorno, non una serie di notizie incomprensibili e senza agganci con la quotidianità, figlie di una tecnica e di una tecnologia che privano l’informazione di una qualsiasi osservazione approfondita della società. Questa è la malattia del giornalismo italiano, Barbano sembra conoscerla bene, e continua nella sua ricerca con l’analisi della crisi che affligge la professione giornalistica, aggiungendo ai sintomi interni, quelli esterni: la “sfida dei new media”, alla quale il mondo della carta stampata spesso non riesce a rispondere a dovere. Internet, i servizi via sms o umts, il fenomeno dilagante della free press, hanno inferto un altro colpo pesante alla carcassa del giornalismo stampato. La stampa gratuita, con “Leggo”, “City” e “Metro”, raggiunge coinvolge sempre più persone, che trovano, in queste pubblicazioni, agevoli e semplici sintesi delle notizie del giorno, di facile fruizione per chi non può dedicare molto tempo alla lettura, e per di più gratuite: perché spendere, dunque, per avere le stesse notizie sui quotidiani a pagamento, anche se – ovviamente – più approfondite? Una bella domanda, senza dubbio. A questo interrogativo dovranno rispondere soprattutto le redazioni dei giornali, che dovranno capire i bisogni e le necessità dei lettori, instaurare una sorta di dialogo con loro, per offrire un prodotto migliore, che non sia autoreferenziale, difficile, noioso, banale, ma sappia osservare e analizzare la realtà con occhio sempre curioso, desideroso di conoscere e di offrire conoscenza al lettore; un giornale che abbia una propria identità, che si differenzi per vivacità e spessore critico, che diventi, oltre che analisi del giorno prima, soprattutto riflessione sul futuro. È una prospettiva che tutti noi ci auguriamo, e che Barbano vede realizzata solo grazie ad uno “svecchiamento delle redazioni, una parcellizzazione del lavoro in piccoli gruppi, ma soprattutto una frantumazione della vecchia agenda-setting in un progetto di idee affluenti dal diretto contatto dei giornalisti con la società che rappresentano”. Belle parole, insomma. Tutto sta a far diventare questi consigli realtà, al più presto possibile. EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE. Alessandro Barbano (1961), giornalista italiano. Laureato in giurisprudenza, è caporedattore de “Il Messaggero”, ha un’esperienza quasi trentennale nel mondo del giornalismo, locale e nazionale. Ha scritto numerosi saggi e libri sul mondo del giornalismo e su tutti i pro ed i contro di questa affascinante professione. Alessandro Barbano, “L’Italia dei giornali fotocopia – viaggio nella crisi di una professione”, Franco Angeli Editore, Milano, 2003. Antonio Benforte, 2 febbraio 2005.

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE. Per il pontefice “il clima mediatico ha le sue forme di inquinamento, i suoi veleni. La gente lo sa, se ne accorge, ma poi purtroppo si abitua a respirare dalla radio e dalla televisione un’aria sporca, che non fa bene.  C’è bisogno di far circolare aria pulita. Per me i peccati dei media più grossi sono quelli che vanno sulla strada della bugia e della menzogna, e sono tre: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione. Dare attenzione a tematiche importanti per la vita delle persone, delle famiglie, della società, e trattare questi argomenti non in maniera sensazionalistica, ma responsabile, con sincera passione per il bene comune e per la verità. Spesso nelle grandi emittenti questi temi sono affrontati senza il dovuto rispetto per le persone e per i valori in causa, in modo spettacolare. Invece è essenziale che nelle vostre trasmissioni si percepisca questo rispetto, che le storie umane non vanno mai strumentalizzate”.  Infatti nessuno delle tv ed i giornali ne hanno parlato di questo intervento.

"Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione". E' l'esortazione che rivolge al mondo dell'informazione e della comunicazione Papa Francesco, cogliendo l'occasione dell'udienza del 15 dicembre 2014 in Aula Paolo VI dei dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Chiesa italiana. «Di questi tre peccati, la calunnia sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all'errore, ti porta a credere solo a una parte della verità. La disinformazione, in particolare spinge a dire la metà delle cose e questo porta a non potersi fare un giudizio preciso sulla realtà. Una comunicazione autentica non è preoccupata di colpire: l'alternanza tra allarmismo catastrofico e disimpegno consolatorio, due estremi che continuamente vediamo riproposti nella comunicazione odierna, non è un buon servizio che i media possono offrire alle persone. Occorre parlare alle persone “intere”, alla loro mente e al loro cuore, perché sappiano vedere oltre l'immediato, oltre un presente che rischia di essere smemorato e timoroso del futuro. I media cattolici hanno una missione molto impegnativa nei confronti della comunicazione sociale cercare di preservarla da tutto ciò che la stravolge e la piega ad altri fini. Spesso la comunicazione è stata sottomessa alla propaganda, alle ideologie, a fini politici o di controllo dell'economia e della tecnica. Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la “parresia”, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà. Se siamo veramente convinti di ciò che abbiamo da dire, le parole vengono. Se invece siamo preoccupati di aspetti tattici, il nostro parlare sarà artefatto e poco comunicativo, insipido. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare. Risvegliare le parole: ecco il primo compito del comunicatore. La buona comunicazione in particolare evita sia di "riempire" che di "chiudere". Si riempie quando si tende a saturare la nostra percezione con un eccesso di slogan che, invece di mettere in moto il pensiero, lo annullano. Si chiude quando alla via lunga della comprensione si preferisce quella breve di presentare singole persone come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui scaricare ogni responsabilità. Correre subito alla soluzione, senza concedersi la fatica di rappresentare la complessità della vita reale è un errore frequente dentro una comunicazione sempre più veloce e poco riflessiva. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare».

Questa sub cultura artefatta dai media crea una massa indistinta ed omologata. Un gregge di pecore. A questo punto vien meno il concetto di democrazia e prende forma l’esigenza di un uomo forte alla giuda del gregge che sappia prendersi la responsabilità del necessario cambiamento nell’afasia e nell’apatia totale. Sembra necessario il concetto che è meglio far decidere al buon e capace pastore dove far andare il gregge che far decidere alle pecore il loro destino rivolto all’inevitabile dispersione. 

Francesco di Sales, appena ordinato sacerdote, nel 1593, lo mandarono nel Chablais, che poi sarebbe il Chiablese, dato che sta nell’Alta Savoia, ma l’avevano invaso gli Svizzeri e tutti si erano convertiti al calvinismo, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Insomma, doveva essere proprio tosto predicare il cattolicesimo lì. Però, lui aveva studiato dai Gesuiti e poi si era laureato a Padova, perciò poteva con capacità d’argomentazione affrontare qualunque disputa teologica. Era uno che lavorava di fino, Francesco di Sales. Solo che tutto quello che diceva dal pulpito non sortiva grande effetto in quei cuori e quelle menti montanare, e allora per raggiungerli e scaldarli meglio con le sue parole gli venne l’idea di far affiggere nei luoghi pubblici dei “manifesti”, composti con uno stile agile e di grande efficacia, e di far infilare dei “volantini” sotto le porte.  Il risultato fu straordinario. È per questo che san Francesco di Sales è il santo patrono dei giornalisti. Per lo stile e l’efficacia, per la capacità di argomentare la verità. Almeno fino a ieri. Perché da ieri c’è un altro Francesco che ha steso le sue mani benedette sul giornalismo, ed è papa Bergoglio. «Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione». È l’esortazione che papa Francesco ha rivolto al mondo dell’informazione e della comunicazione, cogliendo l’occasione dell’udienza in Aula Paolo VI di dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Cei, conferenza episcopale italiana. In realtà, ne aveva già parlato il 22 marzo, incontrando nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, i membri dell’Associazione “Corallo”, network di emittenti locali di ispirazione cattolica presenti in tutte le regioni italiane. Ora c’è tornato sopra, ora ci batte il chiodo. Si vede che gli sta a cuore la cosa, e come dargli torto. Evidentemente non parlava solo ai giornalisti cattolici, papa Francesco, e quindi siamo tutti chiamati in causa. «Di questi tre peccati, la calunnia – ha continuato Francesco – sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all’errore, ti porta a credere solo a una parte della verità». Era stato anche più dettagliato nell’argomentazione il 22 marzo: «La calunnia è peccato mortale, ma si può chiarire e arrivare a conoscere che quella è una calunnia. La diffamazione è peccato mortale, ma si può arrivare a dire: questa è un’ingiustizia, perché questa persona ha fatto quella cosa in quel tempo, poi si è pentita, ha cambiato vita.  Ma la disinformazione è dire la metà delle cose, quelle che sono per me più convenienti, e non dire l’altra metà. E così, quello che vede la tv o quello che sente la radio non può fare un giudizio perfetto, perché non ha gli elementi e non glieli danno».

Sono i falsari dell’informazione, i peccatori più gravi.

«E io a lui: “Chi son li due tapini

che fumman come man bagnate ’l verno,

giacendo stretti a’ tuoi destri confini?”.

L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;

l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:

per febbre aguta gittan tanto leppo».

Così Dante descrive nel Canto XXX dell’Inferno la sorte di due “falsari”, la moglie di Putifarre e Sinone. Sinone è quello che convinse i Troiani raccontando un sacco di panzane che quelli si bevvero come acqua fresca e fecero entrare il cavallo di legno, dentro cui si erano nascosti gli Achei che così presero la città. La moglie di Putifarre, ricco signore d’Egitto – così si racconta nella Genesi –, invece, s’era incapricciata del giovane schiavo Giuseppe, cercando di sedurlo. Solo che Giuseppe non ci sentiva da quell’orecchio. Offesa dal rifiuto del giovane, la donna si vendicò accusandolo di aver tentato di farle violenza. Per questa falsa accusa Giuseppe fu gettato nelle prigioni del Faraone. Eccolo, il “leppo” dantesco, che è un fumo puzzolente. E fumo puzzolente si leva dalle pagine dei giornali di disinformacija all’italiana.

Durante la Guerra fredda i russi si erano specializzati nel diffondere informazioni false e mezze verità: raccontavano un sacco di balle sui propri progressi, o magnificavano le sorti delle nazioni che erano sotto l’orbita del comunismo, e nello stesso tempo imbrogliavano le carte su quello che succedeva nell’Occidente maledettamente capitalistico. Pure gli americani avevano la loro disinformacija. Le loro porcherie diventavano battaglie di libertà e le puttanate che compivano erano gesti necessari per difendere la democrazia dall’orso russo e dai cavalli cosacchi. Fare disinformaciija non è banale, non è che ti metti a strillare le stronzate, è un lavoro sottile. Quel cervellone di Chomsky – e ne capisce della questione, visto che è un linguista – riferendosi alle falsificazioni delle prove e delle fonti l’ha definita “ingegneria storica”. Devi orientare l’opinione pubblica, mescolando verità e menzogna; devi sminuire l’importanza e l’attenzione su un evento dandogli una scarsa visibilità e, all’opposto, ingigantire gli spazi informativi su questioni di secondaria importanza; devi negare l’evidenza inducendo al dubbio e all’incredulità. Insomma, è un lavoraccio, che presuppone una vera e propria “macchina disinformativa”. Cioè, i giornali. «Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la parresia, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà», ha aggiunto papa Francesco. Ha ragione papa Francesco, ragione da vendere. Qualunque direttore di giornale, qualunque editore, qualunque comitato di redazione, qualunque corso dell’ordine dei giornalisti, ti dirà che questi, della franchezza e della libertà, sono i cardini del lavoro dell’informazione. Ma sono chiacchiere. Francesco, invece, non fa chiacchiere. E magari succede che domani troveremo in qualche piazza dei dazebao o dei volantini sotto le nostre porte con la sua firma.

Dalla prova scientifica a quella dichiarativa, passando per il legame tra magistratura e giornalismo. Il dibattito sul processo penale organizzato il 12 dicembre 2014 a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, nell’auditorium della Casa della Cultura intitolata a Leonida Repaci dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con la collaborazione del Comune e della Camera penale, è stato molto più di un semplice dibattito, andato oltre gli aspetti prettamente giuridici, scrive Viviana Minasi su “Il Garantista”. Si è infatti parlato a lungo del legame che esiste tra la magistratura e il giornalismo, quel giornalismo che molto spesso trasforma in veri e propri eventi mediatici alcuni processi penali o fatti di cronaca nera. Se ne è parlato con il direttore de Il Garantista Piero Sansonetti, il Procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, il presidente del Tribunale di Palmi Maria Grazia Arena, l’onorevole Armando Veneto, presidente della Camera penale di Palmi e con il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Francesco Napoli. Tanti gli ospiti presenti in questa due giorni dedicata al processo penale. Al direttore Sansonetti il compito di entrare nel vivo del dibattito, puntando quindi l’attenzione su quella sorta di “alleanza” tra magistratura e giornalismo, a volte tacita. «Mi piacerebbe apportare una correzione alla locandina di questo evento, ha detto ironicamente Sansonetti – scrivendo “Giornalismo è giustizia”, invece che “Giornalismo e giustizia”. Perché? Perché molto spesso, soprattutto negli ultimi decenni, è successo che i processi li ha fatti il giornalismo, li abbiamo fatti noi insieme ai magistrati». Fatti di cronaca quali il disastro della Concordia, Cogne, andando indietro negli anni anche Tangentopoli, fino a giungere all’evento che ha catalizzato l’attenzione dei media nazionali negli ultimi giorni, l’inchiesta su Mafia Capitale, sono stati portati alla ribalta dal giornalismo, magari a danno di altri eventi altrettanto importanti che però quasi cadono nell’oblio. «Ci sono eventi di cronaca che diventano spettacolo – ha proseguito il direttore Sansonetti – e questo accade quando alla stampa un fatto interessa, quando noi giornalisti fiutiamo “l’affare”». Sansonetti ha poi parlato di un principio importante tutelato dall’articolo 111 della Costituzione, l’articolo che parla del cosiddetto “giusto processo”, che in Italia sarebbe sempre meno applicato, soprattutto nella parte in cui si parla dell’informazione di reato a carico di un indagato. «Sempre più spesso accade che l’indagato scopre di essere indagato leggendo un giornale, o ascoltando un servizio in televisione, e non da un magistrato». Su Mafia Capitale, Sansonetti ha lanciato una frecciata al Procuratore capo di Roma Pignatone, definendo un «autointralcio alla giustizia» la comunicazione data in conferenza stampa, relativa a possibili altri blitz delle forze dell’ordine, a carico di altri soggetti che farebbero parte della “cupola”. Suggestivo anche l’intervento di Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia forense all’università di Padova, che ha relazionato su “tecniche di analisi scientifica del testimone”. Secondo quanto affermato da Sartori, le testimonianze nei processi, ma non solo, sono quasi sempre inattendibili. Il punto di partenza di questa affermazione è uno studio scientifico condotto su circa 1500 persone, che ha dimostrato come la testimonianza è deviata e deviabile, sia dal ricordo sia dalle domande che vengono poste al testimone. Un caso che si sarebbe evidenziato soprattutto nelle vicende che riguardano le molestie sessuali, nelle quali il ricordo è fortemente suggestionabile dal modo in cui vengono poste le domande. Il convegno era stato introdotto dall’ex sottosegretario del primo governo Prodi ed ex europarlamentare Armando Veneto, figura di primo piano della Camera penale di Palmi. L’associazione dei penalisti da anni è in prima linea per controbilanciare il “potere” (secondo gli avvocati) che la magistratura inquirente avrebbe nel distretto giudiziario di Reggio Calabria e il peso preponderante di cui la pubblica accusa godrebbe nelle aule di giustizia. Le posizione espresse da Veneto, anche all’interno della camera penale di Palmi, sono ormai state recepite da due generazioni di avvocati penalisti.

Purtroppo, però, in Italia non cambierà mai nulla.

Don Matteo, Maria De Filippi, la Serie A: benvenuti nel Bel Paese (dei balocchi), scrive Simone Cosimelli il 16 gennaio 2016. La statistica è una delle chiavi d’interpretazione di una data situazione, di un dato momento storico. Sono i numeri a decretare una ripresa o una congiuntura felice. Così come sono i numeri, al di là della metodologia e dei criteri di misurazione, a disvelare presentimenti negativi che possono arrivare a pesare come macigni. Alla discussa e scandalosa statistica, riportata dall’Istat giorni fa, secondo cui sei italiani su dieci non hanno letto neanche un libro nell’arco del 2015, il 18,5% non ha svolto alcuna attività culturale né sportiva, il 63% snobba i musei, al 78% non interessa la musica contemporanea (e tanto altro), vanno, per contrasto, affiancate due eccellenze: secondo il libro del Prof. Giovanni Solimine Senza Sapere, come fa notare sull’Internazionale lo scrittore Crhistian Raimo, l’89,7% della popolazione guarda attivamente e quotidianamente la TV e in nessun altro Paese europeo c’è una percentuale così alta di “teledipendenti”. Inoltre, gennaio si è aperto con il felice e avveniristico esordio di Don Matteo 10, capace, grazie alla presenza straordinaria di Lady Rodriguez, di sbancare l’auditel con quasi 10 milioni di fedeli incollati allo schermo, nella prima come nella seconda puntata. Il sito BlogoTV, efferatissimo sulle tendenze catodiche, centra il punto e scrive: “Un successo davvero trasversale quello di Don Matteo, che risponde appieno alla voglia di ‘normalità’, nell’accezione migliore del termine, che gli italiani sembrano voler ricercare a margine dei tempi che stiamo vivendo”. Nell’accezione migliore del termine, quindi, la bicicletta di un prete cui ormai manca solo un fedele Watson, e il sorriso di una show girl a cui tutti invidiano le forme chirurgiche e il talento viscerale, cattura la passione dei “normali” d’Italia. Per l’accezione peggiore, invece, si aspetta impaziente il giudizio lapidario di chi snobba Terence Hill per seguire invece figure decisamente più regali: sua maestà Maria de Filippi. Con quel profilo socievole ma quasi altezzoso, elegante e casual insieme della serie “guarda che qui ci sono capitata, mica è colpa mia”, la zarina di Mediaset mette a segno una tripletta di tutto rispetto: Amici, Uomini e Donne, C’è Posta per te. Programmi verso cui tutti si dicono pronti ad indire una crociata mediatica, quando in realtà – tra un preparativo e l’altro, tra una stoccata e una constatazione – ne scoprono l’intrinseco significato valoriale: non serve infatti l’Istat per coronare il successo di certi salotti. Ma dove non arrivavo Mediaset e Rai, c’è la serie A. Sembra che Matteo Renzi, ottimista intransigente e bacchettone, abbia paura per le sorti italiche solo in periodo di pausa nazionali, quando il campionato non riempie il week end: è lì, mica nelle scuole e nella piccola imprenditoria, che il Paese si blocca, quasi traumatizzato, attonito, scosso. Incapace di privarsi delle radiografie della partita di turno. In un’Italia di tronisti, arrivisti, furbi, allenatori, rapper e fashion blogger, la cultura (in tutte le accezioni, s’intende) è una passione da lasciare a chi ce l’ha. Gli altri, quelli seri, quelli impegnati, lavorano o governano. Ulteriori dati: per il 59% degli italiani che non leggono nemmeno un libro all’anno, ci sono il doppio degli inglesi e dei tedeschi pronti a farlo, e anche i cugini francesi non si fanno mancare romanzi e opere saggistiche in quantità superiore la nostra; d’altro canto, è da tempo stata evidenziata la stretta relazione che c’è tra predisposizione culturale (incluso il fatto di leggere regolarmente) ed emancipazione professionale (chi legge lavora di più, meglio, guadagnando anche bene). Non finisce qui: negli ultimi 5 anni la percentuale di chi è solito posizionarsi davanti alla televisione “con abitudine regolare” non è mai scesa, da noi, sotto il 91%. Pochi, pochissimi libri quindi, ma parecchia TV: anche se fa schifo. Basta che tocchi le corde della nostra “normalità”, cioè l’attitudine a non interessarsi, all’accidia, a lasciar le cose come stanno, al menefreghismo. Naturalmente, non mancano, e non sono mai mancati in questo Paese, moralisti, protagonisti, pseudo intellettuali, chi urla per rivoluzione storica, sociale, militante, necessaria, eternamente incipiente: da fare e non da annunciare. Per ricostruire quello che altri hanno distrutto, che altri minacciano, che altri deturpano, che altri non hanno saputo valorizzare. Ma gli altri chi? L’Italia è una meravigliosa speranza, che gli italiani hanno interesse nel far rimanere tale. E lo è, contro mitizzazioni del passato e vanagloriose posizioni reazionarie, dal dopo guerra ad oggi. I numeri impietosi che da anni emergono, e che tanto fanno storcere il naso, non possono e non devono essere discriminatori e circostanziali: cioè non c’è un popolo che studia e uno no, non c’è chi guarda dall’alto e chi dal basso, non c’è chi legge Calvino e chi vota per il GF. C’è l’Italia: un posto dove si attacca la politica, ma si invidiano i politici; un posto dove il tira’ a campa vale più della convivenza civile; dove se tutti rubano rubo pure io, perché mica so’ fesso; dove si vive, nel bene o nel male, in una grande famiglia di figli unici. Rivoluzione? In Italia no. In Italia manca prima la cultura della cultura. C’è qualcosa da costruire e poco da distruggere. Analfabetismo funzionale (47%), Questione Meridionale, scarsa valorizzazione formativa e universitaria, servilismo, qualunquismo: sono effetti, non cause. Che poi, inevitabilmente, portano le loro conseguenze.

I "tribunali televisivi" ridotti a lavare la biancheria intima. Da parecchi anni la televisione sfrutta la materia giudiziaria a scopi spettacolari e coglie nel segno, scrive Vittorio Feltri, Domenica 17/01/2016, su "Il Giornale". Da parecchi anni la televisione sfrutta la materia giudiziaria a scopi spettacolari e coglie nel segno, riuscendo ad ottenere buoni se non ottimi ascolti. La prima antenna che trasformò i tribunali in miniere d'oro fu, se non ricordo male, Raitre con una iniziativa di incredibile successo dal titolo esplicito: Un giorno in pretura. Il pubblico poteva seguire, grazie a questo programma, le vicende più appassionanti affrontate dalla Giustizia. D'altronde, da quando le tragedie greche sono passate di moda, le scene offerte dalle austere aule in cui si svolgono interrogatori, scontri tra difesa e accusa, sono le sole in grado di suscitare forti emozioni in chi le guarda sul video, il mezzo di comunicazione più popolare e diffuso, altro che teatro. Ecco perché dopo breve tempo anche una emittente privata di Mediaset trovò il modo di inventarsi dei processi in proprio basandosi sulle liti familiari, le più comuni e frequenti, nelle quali chiunque può specchiarsi. L'artificio funzionò a meraviglia. Si prendeva, ad esempio, una coppia di sposi in bega su una questione, la si invitava in uno studio arredato secondo lo stile tribunalizio e si avviavano i duelli davanti a un giudice togato le cui sentenze, se accettate dai contendenti, avevano un certo valore. La trasmissione era egregiamente condotta da Rita Dalla Chiesa, garbata e capace di dipanare matasse complicatissime, intrise di rancori come sono molti matrimoni inaciditi. I protagonisti delle battaglie pseudo legali si avvalevano di avvocati di fiducia. Insomma il copione era identico a quello dei processi veri, cosicchè il divertimento per i telespettatori era garantito. Anche in questa versione, la materia giudiziaria fece lievitare l'audience al punto che oggi, a distanza di lustri, persino Raiuno considera conveniente trattarla con le telecamere in una rubrica quotidiana (Torto o ragione?) i cui fili sono tenuti da Monica Leofreddi con lodevole disinvoltura. C'è solo un problema da segnalare agli autori. I quali pur di tener vivo l'interesse sul programma, un po' troppo antico per non essersi logorato, nella scelta dei litiganti hanno raschiato il fondo del barile e selezionato personaggi improbabili, gente che gode a lavare la biancheria intima, direi intimissima, in piazza. Il risultato talvolta è desolante. Giorni orsono è andato in onda un intrico di corna, un triangolo di cui era un'impresa sovrumana capire chi fosse il principale cornuto e chi il principale fedifrago. Lo scambio di battute velenose tra i protagonisti tuttavia ha confermato che se il vino va in aceto, l'amore va quasi sempre a puttane e dintorni. E che quando marito e moglie non si reggono più la colpa è di tutti e tre o, meglio, di tutti e quattro. Torto o ragione? se procede così nella ricerca della porcata sensazionale, rischia di ridursi al solo torto. Provare a inventare qualcosa di fresco? Non c'è pericolo. I dirigenti sono troppo impegnati nella lotta per accaparrarsi i posti di comando e non badano al prodotto, che si vende comunque perché il pecoreccio tira. Quanto ai politici che avrebbero facoltà di cambiare la Rai, poverini, cosa si può pretendere da loro che sono morti e non se ne sono ancora accorti?

La retorica colpevolista della giustizia mediatica, scrive il 17 dicembre 2015 l’Unione delle Camere Penali Italiane. "La giustizia mediatica ha assunto dimensioni e incisività tali da offrire uno scenario processuale alternativo a quello legale, capace di radicarsi profondamente nell’immaginario collettivo." Nel suo inedito editoriale il Prof. Amodio interviene sulla degenerazione della giustizia mediatica analizzandone le cause e la necessità di porre limiti alla invadenza del giornalismo giudiziario. La retorica colpevolista della giustizia mediatica. L’onda impetuosa dei media si abbatte sul processo penale e ne deforma lo scenario fino a renderlo irriconoscibile persino a chi, come difensore, ha vissuto in prima persona le vicende giudiziarie che la stampa e la televisione scelgono di raccontare. E’ un fenomeno ben noto e da anni sottoposto al filtro di un dibattito tanto serrato, quanto improduttivo. Per di più negli ultimi tempi sta crescendo attorno alle distorsioni della giustizia mediatica una barriera protettiva che talvolta lascia il posto ad una sorta di filosofia della rassegnazione, quasi che si avesse a che fare con calamità naturali, al pari delle periodiche alluvioni generatrici di smottamenti di terreno fangoso. Tra i paladini della intangibilità della cronaca giudiziaria, c’è una parte del ceto politico che denuncia come intollerabile bavaglio qualsiasi proposta di arginare l’invadenza dei media. E nel partito dei rassegnati bisogna registrare quei giuristi che, pur riconoscendo gli effetti devastanti dell’informazione giudiziaria, alzano le braccia al cielo e auspicano un’autodisciplina dei giornalisti, ritenendo inconcepibile qualsiasi divieto. Infine, c’è una giurisprudenza a dir poco paradossale che fissa una regola azzeratrice di ogni possibile reazione di fronte alle deformazioni del giornalismo giudiziario perché esse sarebbero prive di qualsiasi impatto negativo sulle garanzie processuali. Siamo quindi di fronte ad un ventaglio di veti, rinunce e miopie che culminano nella negazione della patologia: i media alterano, stravolgono, sfigurano l’estetica della giustizia penale, ma non fanno male. Lo ha detto di recente una sentenza della Corte di cassazione in tema di rimessione del procedimento affermando che «le campagne stampa quantunque astiose, accese e martellanti o le pressioni dell’opinione pubblica non sono di per sé idonee a condizionare il giudice, abituato ad essere oggetto di attenzione e critica senza che sia menomata la sua indipendenza» (Cass. Sez. V, 12.5.2015, Fiesoli). E’ lo stereotipo del giudice con la corazza, insensibile ad ogni perturbazione esterna perché protetto dalla sua olimpica saggezza. Ma non basta. La stessa sentenza continua sostenendo che «anche il debordare della cosiddetta giustizia spettacolo, il vedere pagine di giornali o intere puntate di talk show occupate da vicende giudiziarie ancora in corso in cui si sviscerano tesi su tesi, talvolta fantasiose spesso l’una contraria all’altra, ha finito per diventare un fenomeno talmente normale che nessuno ci fa più caso». Qui c’è la sterilizzazione dell’inquinamento da overdose di informazione giudiziaria anche con riguardo all’opinione pubblica, che si immagina rinchiusa nel bozzolo di una assoluta imperturbabilità. Il nostro paese sarebbe dunque sul piano mediatico l’isola dell’ingiusto processo. Per tutto il resto dell’Europa valgono le regole messe a punto dalla Corte di Strasburgo secondo cui l’imparzialità dei tribunali garantita dall’art. 6 CEDU non consente ai giornalisti di formulare «dichiarazioni che risulterebbero idonee, intenzionalmente o no, a ridurre le chances per una persona di beneficiare di un processo equo» (sentenza Worm c. Austria, 29 agosto 1997) e tali da scalzare la fiducia dei cittadini nella amministrazione della giustizia. A configurare la violazione del diritto al fair trial basta il pericolo concreto di una lesione della imparzialità del giudice (Dupuis c. Francia, 7 giugno 2007, § 44). In Inghilterra, poi, è prevalente il modello della presunzione di offensività conseguente al solo fatto della pubblicazione di notizie rilevanti per il processo penale, in base alla disciplina del contempt of court, mentre nella common law statunitense si ritiene necessario l’accertamento in concreto dell’effetto lesivo delle notizie divulgate, anche se è ancora vivo l’insegnamento del giudice Brennan secondo cui «non si può seriamente dubitare che l’incontrollata pregiudizievole pubblicità prima del dibattimento possa distruggere la fairness di un processo penale» (Nebraska Press Association v. Stuart, 1976). Si può davvero pensare, dunque, che solo in Italia il giudice sia insensibile alla stampa colpevolista e il pubblico legga i giornali e guardi la tv con l’animo distaccato di chi finisce per sonnecchiare davanti allo spettacolo della marcia vittoriosa dei pubblici ministeri verso la sconfitta del crimine? E’ proprio vero invece che nel nostro paese la giustizia mediatica ha assunto dimensioni e incisività tali da offrire uno scenario processuale alternativo a quello legale, capace di radicarsi profondamente nell’immaginario collettivo. Basta pensare alla crescita esponenziale dell’agire comunicativo, ormai affrancato dai canoni della oggettività in una sequenza evolutiva impressionante: dalla cronaca al commento; dal commento alle ricostruzioni; dalle ricostruzioni alle inchieste parallele che si sovrappongono alle indagini della magistratura e nelle quali prevale lo spettacolo in ossequio alla tirannia dell’audience. Ormai con la sua invadenza il giornalismo giudiziario ruba la scena alla giustizia in toga. E impone il suo «statuto» che ribalta i principi su cui si regge il giusto processo. Anzitutto mediante la delocalizzazione, che privilegia le investigazioni rispetto al dibattimento, una fase troppo piena di oscillazioni causate dalla dialettica tra accusa e difesa per essere rappresentata come monolite colpevolista. La giustizia mediatica si nutre così di approssimazioni conoscitive e le trasforma in verità consacrate istillando nell’opinione pubblica l’idea della certezza a proposito di risultati che sono invece provvisori e non spendibili nel giudizio. In questo modo trionfa la retorica della colpevolezza che si alimenta della farina tratta dal sacco del pubblico ministero, nella ricerca di una perentorietà espressiva sulle acquisizioni delle indagini volta a placare l’ansia collettiva generata dall’allarme per i fatti criminosi. Deviazione del campo visivo e artificiosa rappresentazione di congetture elevate a verità sono i due pilastri su cui è edificata la presunzione di colpevolezza nella giustizia mediatica. Mentre la magistratura indaga e affronta con paziente analisi la lettura del quadro indiziario, la stampa lancia i suoi titoli in cui l’inquisito è «inchiodato» dal video di un anonimo furgone che attraversa un incrocio, dai monosillabi captati in una intercettazione telefonica ovvero dalle risultanze di uno screening di massa del DNA. Come si può negare l’impatto del convincimento mediatico colpevolista? Ne ha riconosciuto la portata deviante persino la stessa Cassazione nella sentenza sul processo di Perugia quando ha affermato, annullando la condanna di Amanda Knox e Raffaele Sollecito, che proprio la pressione mediatica aveva indotto gli inquirenti ad imboccare scorciatoie per consegnare al luccichio dello schermo televisivo l’immagine dei due ragazzi colpevoli. E’ dunque ormai tempo di mettere mano ad una politica dei limiti e dei divieti nei confronti dei media. Lo sappiamo tutti che ai pubblici ministeri fa comodo giovarsi della cronaca colpevolista, ma i togati della giudicante non sono sulla stessa lunghezza d’onda. Essi avvertono il fastidio e il disagio di veder offuscato il loro ruolo quando la televisione investe di funzioni oracolari il conduttore del talk show che pronuncia la sentenza di condanna in nome del popolo dei telespettatori. Cominciamo a chiudere le porte di quei salotti televisivi in cui sedicenti esperti ovvero familiari delle vittime, animati da comprensibile revench punitiva, si esibiscono in un coro colpevolista contro indagati in processi pendenti. Poi si potrà pensare a misure appropriate a ricondurre il giornalismo giudiziario al pieno esercizio del suo potere di esercitare una penetrante attenzione critica sulle modalità di funzionamento della giustizia penale con un equilibrio che impedisca alla libertà di stampa di trasformarsi nella pietra tombale della presunzione di innocenza.

«Colleghe brave mai nei talk Rai» Accuse sulla politica dell’avvenenza. Il dem Anzaldi: danneggiati anche i maschi competenti, il partito si ribelli, scrive Monica Guerzoni su “Il Corriere della Sera” del 20 gennaio 2016. I talk show della Rai invitano le parlamentari giovani e carine, anche se incompetenti. E sbarrano le porte degli studi tv a deputate e senatrici che non hanno nella bellezza il loro punto di forza. Rilancia la denuncia, rivolgendosi anche al suo partito, Michele Anzaldi del Pd. Che in passato aveva già posto la questione in commissione di Vigilanza: «L’ho detto davanti al presidente Fico e a tutti i commissari e nessuno mi ha ascoltato. È sbagliatissimo e visto che si parla di censure è ora di affrontarlo». Il count down di Capodanno, la bestemmia, la black list del M5S.... C’è dell’altro? «Ha ragione l’Osservatore romano, con la scusa dello share la Rai è ormai fuori controllo. I politici ospiti dei talk show, soprattutto donne, spesso vengono scelti solo in base a canoni estetici». Competenza e bellezza? «No, bellezza e basta. Capita sempre più spesso che il padre o la madre di una legge restino fuori dai programmi, dove vengono invitati altri miei colleghi». Con che criterio? «Spesso sono bellissime ragazze. Premia il valore estetico, non i contenuti».  Verbali della Vigilanza alla mano, la prima volta che il segretario della commissione ha sollevato il caso era il 17 dicembre 2013. La seconda, l’8 gennaio 2014. In entrambe le audizioni Anzaldi prova a spezzare il legame tra audience e canoni estetici. E spiega come, per illustrare un provvedimento, non venga chiamata l’autrice o la relatrice, «bensì una donna più avvenente, anche se meno esperta». Un esempio? «La giustizia. La nostra presidente di commissione è Donatella Ferranti, preparatissima, ex magistrato. L’ha mai vista? Viene il sospetto che non la chiamino perché ha superato la trentina». Donatella Ferranti, presidente della commissione Giustizia della Camera. Ha 58 anni, ex magistrato, milita nel Pd. Al suo posto, chi invitano? «Vediamo molto la giovane Anna Ascani, mentre la relatrice della legge sulle unioni civili, Monica Cirinnà, poco o nulla». Capita anche ai maschi? «Sì. David Ermini, responsabile Giustizia del Pd, non lo chiamano mai e al posto di parlamentari preparati come lui vanno sempre le solite tre o quattro dem, belle e aggressive». Moretti? Serracchiani? Picierno? Bonafé? «Niente nomi. Ma insisto, gli uffici stampa Rai ti dicono “mandami una più giovane e carina che ci alza l’ascolto”». Lo fanno tutte le tv, purtroppo. «Sì, ma la cosa grave è che gli italiani pagano il canone per vedere in Rai delle parlamentari che, dieci minuti prima di andare in onda, vengono “briffate” dai colleghi competenti». Briffate? «Chi conosce i provvedimenti viene chiamato a fare un breve briefing alla collega che sarà intervistata e che, magari, di quella materia non sa nulla. Una pratica che abbassa il livello». La colpa è anche dei partiti, a cominciare dal Pd. E qui Anzaldi non si sottrae: «È vero, se una donna esperta di Europa come la Bonafé viene mandata a parlare di ambiente o di immigrazione è colpa anche nostra. Ma cosa possiamo fare se i conduttori non vogliono sentire storie e dicono “per lo share ci serve una ragazza”? Finisce che ti arrendi». Nelle due audizioni c’erano delle esperte di questione femminile, le quali avvalorarono la denuncia. Elisa Manna del Censis citò ricerche da cui emergeva «come una percentuale molto alta di opinioniste siano selezionate sulla base di caratteristiche di avvenenza». E adesso Anzaldi chiede al Pd di ribaltare le priorità: prima la competenza, poi l’estetica. 

Le Iene annunciano servizio sugli scontrini di Renzi. Poi Mediaset fa dietrofront: non va in onda. Programmate per andare in onda lunedì 23 novembre 2015 nuove rivelazioni sulle spese del presidente del Consiglio. Il contenuto diffuso da Giuseppe Cruciani su Radio 24: "Il premier si sarebbe fatto pagare dalla provincia di Firenze una cena familiare da 80 euro, con la moglie che era incinta della terza figlia", nata nel 2006, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 25 novembre 2015. Il servizio era già pronto. Tagliato, confezionato e approvato per la messa in onda lunedì 23 novembre. Poi il dietrofront: Mediaset decide che non deve andare. E così sparisce anche il post che sulla pagina ufficiale delle Iene aveva annunciato nuove rivelazioni sugli scontrini di Matteo Renzi. “Anteprima del servizio Gli scontrini di Renzi #escili di Iena Dino – Dino Giarrusso in onda questa sera #LeIene“, si leggeva online. Oggi, cliccando su quel post, il risultato è una pagina vuota in cui si legge: “Spiacenti, questo contenuto non è al momento disponibile”. Sulla vicenda degli scontrini di Renzi sindaco (2009-2014) oggi si è pronunciata la Corte dei Conti, che ha archiviato l’inchiesta. Stesso destino anche per quella che riguardava le spese quando era presidente della Provincia (2004-2009). La mancata messa in onda è stata rilanciata anche da diversi utenti su Twitter, specie dopo l’intervento – riportato anche daDagospia – di Giuseppe Cruciani, conduttore de la Zanzara suRadio 24. “Perché ieri sera non è andato in onda il servizio delleIene di Dino Giarrusso sugli scontrini di Renzi quando era sindaco e presidente della Provincia? – ha detto durante la trasmissione del 24 novembre – Sul sito Facebook del programma era uscita persino un’anteprima di trenta secondi in cui si annunciavano nuove rivelazioni imbarazzanti per il premier. E il pezzo era regolarmente in scaletta. Cosa è successo?”. E prosegue ancora: “E’ intervenuta una manina dall’alto o l’ufficio legale Mediaset ha bloccato tutto per fare ulteriori verifiche? Nel servizio si parlava di una cena familiare di Renzi al ristorante da Lino interamente rimborsata dalla Provincia, con tanto di fattura”. Cruciani, si legge sul sito di Radio 24, rivela anche il contenuto del servizio: “La iena aveva scoperto – ho poi saputo da altre fonti – che Renzi si sarebbe fatto pagare dalla provincia di Firenze una cena familiare da 80 euro, con la moglie che era incinta della terza figlia (nata nel 2006, ndr). Hanno pure scoperto che la scusa ridicola del sindaco Nardella di non rendere trasparente le spese di Renzi al comune – c’è un’inchiesta della Corte dei Conti – non regge da un punto di vista legislativo”.

IL VIDEO DEL SERVIZIO CHE “LE IENE” SONO STATE OBBLIGATE A CENSURARE: LA PROVA DELL'ESISTENZA DI... Il video che sta facendo tremare i palazzi dei potenti. Una denuncia unica nel suo genere, tremendamente reale, documentata ed incontrovertibile del golpe che stiamo subendo dai poteri forti, con la prova dell’esistenza di un governo invisibile e di una truffa ben congeniata da banchieri mondialisti ai danni del popolo. Testimonianze autorevoli come quella di Daniel Estulin autore del best seller “il Club Bilderberg” che svela i legami tra i nostri politici e la potente e controversa lobby. Il tutto condito dalle interviste strappate da Francesco Amodeo e Alessandro Carluccio ai nostri ministri e parlamentari. Le confessioni di avvocati, economisti, scrittori che confermano l’esistenza di un progetto occulto per la distruzione degli stati nazionali. Le prove della crisi economica usata come truffa ai danni del popolo. La fuga degli inviati della trasmissione “le iene” davanti alle scomode domande di Amodeo. Frammenti di video shock con testimonianze che vi metteranno davanti al più grande di tutti i complotti. Un video assemblato e girato in maniera amatoriale, con mezzi rudimentali ed una tempistica da record. Un montaggio improvvisato ma che è stato volutamente, in alcuni punti, una parodia della nostra finta tv d’inchiesta, che per prima si è rifiutata di usare i mezzi professionali di cui dispongono per denunciare agli italiani quanto sta accadendo.

Strage di Srebrenica, l'errore della giovane Milena Gabanelli: scambiò le vittime con i carnefici, scrive Antonio Amorosi il 14 luglio 2015 su "Libero Quotidiano" con il video “Le figuracce di Milena Gabanelli a Mixer, il 2 dicembre 1991 su Rai 2 conflitto serbo croato. Rai condannata a rettifica”. Giorni fa si è ricordata la strage di Srebrenica, ad opera dei serbi. Tra gli autori il comandante Arkan. Un'altra strage importante è quella di Vukovar che venne raccontata a Rai 2 da Milena Gabanelli, allora inviata di Mixer di Giovanni Minoli, oggi, considerata la punta del giornalismo d'inchiesta italiano. Anche lì imperversava il serbo Arkan, uno dei maggiori criminali di guerra ricercati dall'Interpol, responsabile di numerose stragi, compreso il massacro di degenti inermi in un ospedale. Un video su youtube di quel reportage domanda da anni: «Ha mai chiesto “perdono” Milena Gabanelli per la trasmissione del 2 Dicembre 1991 andata in onda su Rai 2 in prima serata, dedicata all'aggressione serba alla Croazia, dove si mostrava in compagnia di Arkan a Vukovar?» Novembre 1991. Vukovar, cittadina a maggioranza croata, è assediata dalle truppe serbo-jugoslave. Minoli ha dato alla Gabanelli l'incarico di seguire il conflitto sul fronte serbo. Lei ha 37 anni. Il 20 novembre l’agenzia Reuters batte il comunicato «miliziani croati avrebbero massacrato 41 bambini serbi, testimone oculare il fotografo Goran Mikic». Le agenzie di tutto il mondo smentiscono duramente ma Gabanelli si propone come unica testimone oculare. «Il fotografo ha ritrattato dicendo di non averli visti con i propri occhi, diversamente da qualcuno che c’era, qualcuno che ha visto, ed ha anche protestato» dice Mixer. Scoop. È la Gabanelli. Parte il video. È stata portata sul posto proprio da Arkan. Lo incontra in un bar. «Un tipo», lei stessa scrive due anni dopo nel libro La sconfitta dei media, del suo amico Marco Guidi, «con la faccia più da barista che da guerriero». Lui si offre di farle da Virgilio in quell’inferno. «Te la senti di filmare dei bambini morti? Perché c’è stato un massacro…», le dice. Sul posto Gabanelli dice di aver visto la distesa dei corpicini ma non li riprende, impressionata dalla scena e ostacolata dagli spari di un soldato. Si torna in studio, Minoli le chiede di raccontare. Seguono istanti di Gabanelli ad occhi bassi che con pathos parla di un bambino con la gola tagliata. Nel reportage i bimbi croati uccisi, probabilmente trucidati proprio da Arkan, invece vengono fatti passare per serbi. Errore grossolano. Minoli ha lo scrupolo di chiederle perché il fotografo Mikic ha ritrattato. Lei: «Se la notizia fosse stata confermata, nel popolo serbo si sarebbe alimentato ancor di più l’odio etnico». Il video passa sulla Gabanelli al fronte con i soldati serbi, poi mentre interroga una prigioniera di Arkan, con gli occhi tumefatti. Noncurante dello stato di terrore e sottomissione della donna, le chiede: «Per quale ragione ammazza il popolo serbo?». Nella scena successiva la donna, circondata da soldati di Arkan, scava una fossa per trovare uno dei bambini. Fossa dove forse lei stessa «sparirà». La Gabanelli non riprende oltre. Spegne la telecamera e si allontana. Fine. Nel 2010 il presidente serbo Tadic ha chiesto perdono per le stragi di Arkan a Vukovar. Ricorda il video su youtube: «Per il contenuto di questo report televisivo la Rai è stata condannata il 13 gennaio 1992 dal garante per l'Editoria in quanto contenente falsità», sanzione che la stessa Gabanelli menziona nel libro di Guidi. L'Ordine dei giornalisti la ammonisce e la definisce giornalista «anomala e occasionale». Lei reagisce: «Avevo un compito, ho cercato di svolgerlo nel migliore dei modi». Scompare dalla Rai per qualche anno per riapparire nel 1997 con Report. Questo video le chiede da anni le scuse. Ma per Gabanelli non è mai successo niente. E nessuno si permette di farglielo notare.

Quando Milena Gabanelli collezionava figuracce a “Mixer”, scrive il 15/10/2014 Emiliano Stella su “L’Ultima Ribattuta”. La trasmissione “Report” è giunta alla 18ma stagione, ed ha già fatto parlare di sé per una videoinchiesta sull’Istituto Superiore della Sanità, sfociata nel clamoroso blitz della Guardia di Finanza nella struttura di Viale Regina Elena a Roma. Gongola Milena Gabanelli, conduttrice di un programma di successo, uno dei più longevi del panorama televisivo italiano. La Giovanna D’Arco nostrana è non a torto considerata la massima espressione del giornalismo d’inchiesta italiano, e in quanto tale è osannata per la misura e l’attendibilità del suo prodotto. Ma pochi sanno che agli albori della sua carriera è inciampata maldestramente in una brutta storia di malainformazione e faziosità. Una vicenda che merita di essere raccontata sin dal principio, quando la conduttrice di “Report” fu scagliata da Giovanni Minoli, all’epoca autore e volto di “Mixer”, sul fronte di guerra jugoslavo. Era il 1991, e la guerra nei Balcani era divampata da pochi mesi, a causa della volontà secessionista dei paesi che componevano la vecchia Repubblica Federale, ed una città in particolare, Vukovar, fu al centro di un’aspra contesa tra serbi e croati. Solo in seguito si sarebbe appreso dei feroci ed indiscriminati massacri compiuti in quei giorni, di cui la Gabanelli non volle o non poté attribuire con certezza la responsabilità. Un video di 12 minuti scovato su Youtube (vedi in fondo al pezzo), dal titolo “Milena Gabanelli a Mixer, il 2 dicembre 1991 su Rai 2 sul conflitto serbo-croato”, mostra in sintesi il reportage da lei confezionato appena due settimane prima della messa in onda quando, su richiesta del direttore Minoli, fu incaricata di seguire le sorti del conflitto dalla parte serba. Una scelta che in seguito si rivelò infelice, non essendo (come dichiarato dalla stessa giornalista) “le faccende della Jugoslavia il mio punto di interesse. Semplicemente non le capivo”. La conduttrice di “Report”, all’epoca 37enne, era una pubblicista freelance che da anni si cimentava nel videogiornalismo. Respinta all’esame per diventare professionista, era già stata in Cina, in Vietnam ed in Cambogia. Aree complesse, certo, ma non teatri di guerra come quello balcanico. Minoli la reputò lo stesso adatta al compito, chiedendole di andare a Belgrado. Voleva un pezzo sul conflitto serbo-croato visto dalla parte dei serbi. “Vanno tutti a Zagabria – le disse –perché non tentiamo di vedere cosa succede sull’altro fronte?”. La incaricò di raccogliere materiale alla TV di Belgrado e, solo se fosse stata in possesso di sufficienti garanzie di protezione, di documentare la situazione al fronte. Nel video, da subito, viene mostrata eloquentemente la posizione di chi l’ha caricato su Youtube. In sovrimpressione compare la scritta “per il contenuto di questo report televisivo la Rai è stata condannata il 13 gennaio 1992 dal garante per l’editoria, in quanto contenente falsità. Per gli orrori compiuti dai serbi a Vukovar il presidente serbo Tadic ha chiesto il perdono ai croati. Hai mai chiesto e chiederà mai il perdono Milena Gabanelli? Chi era e chi è costei?”. Poi parte la voce off di Mixer, riportando che il 20 novembre l’agenzia di stampa Reuters aveva battuto il comunicato: “miliziani croati avrebbero massacrato 41 bambini serbi, testimone oculare il fotografo Goran Mikic”. Poi sullo schermo appaiono le prime pagine dei quotidiani che hanno ripreso la notizia, mentre la voce ci informa che “il fotografo ha ritrattato dicendo di non averli visti con i propri occhi, diversamente da qualcuno che c’era, qualcuno che ha visto, ed ha anche protestato”. Compare quindi la Gabanelli, che rivolta ad un indistinto interlocutore, dice in inglese: “dov’è la comunità internazionale? Dov’è Amnesty International? Dov’è il Vaticano? Qui non c’è nessuno…” Poi Minoli, in primissimo piano in pieno stile Mixer, annuncia trionfalmente: “la testimone oculare di questo massacro è la nostra inviata sul fronte di guerra, Milena Gabanelli”. A quanto pare di capire la giornalista sarebbe tornata da Vukovar con un documento esclusivo. Ma come ha fatto ad arrivare fino alla città martoriata una semplice freelance? Qui torna utile, per comprendere appieno la vicenda, il racconto della stessa Milena Gabanelli presente nel libro “La sconfitta dei media”, di Marco Guidi, edito nel 1993, appena due anni dopo lo svolgimento dei fatti. Una volta arrivata a Belgrado, la conduttrice di “Report” si recò nel bar dove venivano reclutati i volontari delle milizie paramilitari. E’ lì che fece conoscenza con il comandante Arkan, da lei descritto come “un tipo con la faccia più da barista che da guerriero, nonostante il suo torbido passato”. E sì, perché colui il quale nei giorni successivi la traghettò come Caronte all’inferno, negli anni a seguire sarebbe salito agli onori delle cronache come il capo delle “Tigri”, un corpo responsabile di aver seminato terrore e morte in Croazia ed in Bosnia. Da subito, racconta la Gabanelli, Arkan si offrì di portarla al fronte. “Te la senti di filmare dei bambini morti? Perché c’è stato un massacro…”, le disse. Lei accettò, lo scoop era a portata di mano. Senza pensare che con un accompagnatore del genere l’imparzialità del reportage era già andata a farsi strabenedire. Lo si vede sin dalle prime immagini, Arkan, tra le sue milizie. Lei invece racconta di non poter disporre di una troupe, portando con sé solo una Video8 il cui funzionamento aveva spiegato ad un soldato, in quanto non se la sarebbe sentita di filmare quelle scene. Poi il racconto si fa confuso. Nel video racconta di essere stata spinta dietro un muro da un soldato, allo scopo di proteggerla dai proiettili, e di aver visto la distesa dei corpicini senza poterli riprendere, impressionata dalla scena. Si torna in studio e Minoli chiede alla Gabanelli di raccontare cosa avesse visto. Seguono interminabili istanti di pathos artificiale, poi dopo il silenzio la giornalista racconta ad occhi bassi di aver visto la faccia di un bambino con la gola tagliata. Due anni dopo racconterà invece di aver tentato di effettuare delle riprese, ma di non esserci riuscita perché trascinata via a forza e messa in sicurezza, lontana dalla sparatoria in atto. Resta il fatto che non esiste alcuna testimonianza filmata dell’accaduto, né la prova che i bambini in questione fossero serbi. I dubbi si fanno sempre più pressanti sapendo cosa le tigri di Arkan stessero combinando in quei giorni a Vukovar. Eccidi inauditi, tra i quali il massacro degli inermi degenti dell’ospedale cittadino. Ma la Gabanelli non lo sapeva, o non si curava affatto di approfondire e scavare. Per lei, quei bambini, erano sicuramente serbi, glielo aveva detto Arkan, mica Topo Gigio. In effetti a Minoli lo scrupolo del chiedersi perché l’altro testimone oculare della strage, il fotografo Mikic, avesse ritrattato, era venuto. E lo aveva chiesto alla giornalista. Che aveva replicato: “se la notizia fosse stata confermata, nel popolo serbo, fortemente emotivo, si sarebbe alimentato ancor di più l’odio etnico”. La motivazione, onestamente, ci sembra poco credibile. Di solito, su eventi come questo, la propaganda bellica ci ricama su, e poi non è che i serbi si fossero presentati a Vukovar con i mazzi di fiori in mano… Ma la parte più stucchevole doveva ancora arrivare. Riparte il filmato, e la scena si sposta all’interno di un carro armato, dove ad essere intervistato è un soldato croato appena catturato, che si dimostra fortemente critico nei confronti delle scelte politiche del suo paese. Ma cosa avrebbe potuto dire di diverso, in quelle condizioni? Idem per la sequenza successiva, in cui la Gabanelli veste i panni del commissario politico al cospetto di una ragazza croata con il volto palesemente tumefatto, accusata di aver ucciso dei civili serbi, tra cui un bambino. Noncurante del suo shock psicologico, la conduttrice di “Report” la incalza intimandogli di riferirle il nome del prete che ha aizzato la popolazione contro i serbi in Kraijna, ed il perché la chiesa cattolica sia accusata di fomentare l’odio etnico. Le immagini saltano al mattino successivo, quando la donna viene costretta a scavare in un terreno, forse per riesumare i corpi delle sue vittime, o più probabilmente per ricavare la fossa dove sarebbe stata sepolta dopo la sua fucilazione. Non lo sapremo mai, perché la propria sensibilità impone alla Gabanelli di spegnere la camera ed allontanarsi. Subito dopo la messa in onda del servizio, fioccarono le proteste da parte croata. La Gabanelli si difese sostenendo di “aver seguito, con convinzione, le indicazioni del Direttore della testata per cui stava lavorando”. Partirono campagne di protesta indirizzate al Direttore e al Presidente della Rai, e venne presentato un esposto alla Commissione Parlamentare di vigilanza che ebbe come effetto un pronunciamento del garante per l’Editoria, Giuseppe Santaniello, che il 13 gennaio 1991 ordinò alla Concessionaria per il servizio radiotelevisivo la rettifica di quanto esposto nel reportage. Sul caso si espresse anche il Consiglio dell’Ordine Regionale dei Giornalisti di appartenenza, che non comminò alla giornalista alcuna sanzione disciplinare, ma considerò tuttavia che “Mixer, forse con eccessiva precipitazione, ha calato Milena Gabanelli, giornalista senza una specifica scorza da inviato, in una realtà bellica “anomala e confusa” che pertanto ha avuto come relatrice televisiva “una cronista altrettanto anomala e sicuramente occasionale”. Decisamente non un complimento di cui fregiarsi in futuro. Dopo un periodo di “oscuramento mediatico” la conduttrice di “Report” risalì in sella dopo pochi anni, ed il suo rendimento, considerato il seguito e la qualità del programma che conduce, non è stato affatto malaccio. Gli attacchi alle inchieste sue e dei suoi collaboratori non terminarono affatto però. In un’intervista rilasciata a Gian Antonio Stella, Milena Gabanelli ha raccontato che in più di 15 anni ha perso soltanto una causa civile (per 30mila euro, ma non c’è ancora la condanna definitiva) sulle 60 intentate contro “Report”. “Io non credo che il giornalista debba godere di una particolare clemenza – ha dichiarato – un conto è l’errore in buona fede che è sempre dimostrabile, un altro è sputtanare volontariamente qualcuno senza fare i dovuti controlli”. Che a noi, sembra, più di 20 anni fa in Jugoslavia non vennero fatti. Ma rimane l’ingenuità e la buona fede. “Avevo un compito, ho cercato di svolgerlo nel migliore dei modi. Poi, sono passata ad altro”, ha dichiarato la Gabanelli chiudendo il caso. E visti i risultati, ci sentiamo di dire che ha fatto decisamente bene.

“Porta a Porta” programma della Rai condotto per anni da Bruno Vespa. Il salotto buono dove la mafia è di casa. E’ prerogativa della politica dire “è cosa nostra”. Guai quando essi sono spodestati e le interviste dedicate all’altra sponda.

Porta a Porta Rai 1 del 6 aprile 2016 alle ore 23.35. Il vero giornalismo racconta i fatti, non promuove opinioni ideologiche culturalmente conformate. Ciononostante l’intervista ha suscitato l’indignazione dei mafiosi antimafiosi. Perché in Italia secondo i cittadini “onesti”, che ogni giorno salgono agli onori della cronaca, i mafiosi son sempre gli altri.

Tempa Rossa. Petrolio e mafia. Potenza, Corleto Perticara e la Basilicata. Voti di scambio mafiosi. No. Voti PD antimafiosi.

Bruno Vespa: tutte le interviste che hanno fatto scalpore. Dai Casamonica al padre di Manuel Foffo fino al figlio di Totò Riina: per "Porta a Porta" vent'anni di grandi esclusive e polemiche infuocate, scrive il 7 aprile 2016 "Panorama".

I plastici dei delitti. Ormai sono entrati di diritto nell'immaginario televisivo collettivo: sono i plastici di Vespa, modellini realizzati per ricostruire la scena dei casi di cronaca più famosi. Molti hanno scatenato critiche durissime e, ancora a distanza di anni, sono motivo di ironie e discussioni. Il più famoso è senza dubbio quello della villetta di Cogne dove il 30 gennaio del 2002 fu consumato l'omicidio del piccolo Samuele Lorenzi di tre anni per cui è stata condannata, con sentenza passata in giudicato, la madre Anna Maria Franzoni. Nella lista di quelli che hanno riscontrato il maggiore successo il plastico dell'omicidio di Meredith Kercher, uccisa a Perugia nella notte del 1º novembre 2007 mentre si trovava nella sua camera da letto, nella casa che condivideva con altri studenti; la villetta di Garlasco teatro dell'assassinio di Chiara Poggi avvenuto nell'agosto del 2007; l'abitazione di Brenda, la transessuale brasiliana coinvolta nella vicenda di sesso, droga e ricatti che costò la carriera politica all'ex presidente del Lazio Piero Marrazzo e la morte della stessa Brenda. In quel caso fu proprio l'amica della vittima, invitata da Vespa in studio a bocciare il plastico dell'appartamento. Non sono mancati nemmeno il modellino della nave da crociera Concordia, affondata nei pressi dell'Isola del Giglio con 33 passeggeri rimasti vittime e quello della casa di Avetrana, dove abitava la piccola Sarah Scazzi, uccisa nel garage dalla cugina Sabrina Misseri insieme alla madre Cosima.

Vent'anni al centro della scena televisiva italiana. Vent'anni di interviste e dirette che hanno fatto buona parte della storia della Rai degli ultimi due decenni.

Vent'anni di momenti indimenticabili come la telefonata a sorpresa di Papa Giovanni Paolo II durante la puntata del 13 ottobre 1998 dedicata al ventennale del pontificato Wojtyla.

Vent'anni di trovate a effetto: dalla scrivania che ospitò la firma del contratto con gli italiani di Silvio Berlusconi ai plastici creati ad hoc per tutti i principali casi di cronaca.

Vent'anni che hanno consacrato Porta a Porta a "terza camera del Parlamento" e regalato a tanti personaggi (avvocati, magistrati, criminologhi, cuochi, ballerini, sportivi e così via) fama e visibilità grazie allo spazio offerto loro da Bruno Vespa.

Ma anche vent'anni di polemiche per le interviste, spesso in esclusiva, realizzate dal giornalista più criticato, imitato e corteggiato d'Italia. Scorri la lista delle puntate che hanno fatto più discutere.

Il figlio di Totò Riina. L'ultimo caso risale a ieri sera. Il protagonista è Salvo Riina, figlio del boss della mafia Totò e autore di un libro in cui descrive un padre “premuroso e amorevole”. L'intervista è andata in onda nonostante le proteste infuocate rimbalzate sulle agenzie, i siti, i social per tutta la giornata. I vertici di Viale Mazzini hanno infatti dato il via libera alla scelta di Vespa: "è informazione". Ma la lista degli insorti contro l'ospitata tv del figlio del più sanguinario dei capi di Cosa Nostra è lunga: dal presidente del Senato Pietro Grasso alla presidente della Commissione parlamentare Antimafia Rosy Bindi, dai parenti delle vittime della mafia (Maria Falcone, sorella di Giovanni ucciso a Capaci, si è detta “costernata”, Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, ha parlato di caso “vergognoso”) a un ampio schieramento bipartisan di politici (invitato in studio l'ex segretario dem Pier Luigi Bersani ha disertato), dal sindacato Usigrai alla Fnsi. Già scattata la richiesta di convocazione dei vertici della Rai in Commissione parlamentare di vigilanza e, da parte di alcuni, quella di dimissioni per Bruno Vespa. Ma cosa ha detto in onda Salvo Riina? L'uomo ha rievocato la sera del 23 maggio del 1992, quando, all'altezza di Capaci, mille chili di tritolo fanno saltare in aria la strada che collega l'aeroporto di Punta Raisi a Palermo uccidendo il giudice Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tutta la scorta. “Eravamo a Palermo e sentivamo tante ambulanze e sirene, abbiamo cominciato a chiederci il perché e il titolare del bar ci disse che avevano ammazzato Falcone, eravamo tutti ammutoliti. La sera tornai a casa, c'era mio padre che guardava i telegiornali. Non mi venne mai il sospetto che lui potesse essere dietro quell'attentato”. A proposito dell'arresto del genitore ha aggiunto di non poterlo condividere.

Il padre dell'assassino di Luca Varani. Il 7 marzo è la volta di Valter Foffo. L'uomo è il padre di Manuel, uno dei due giovani che confessarono il brutale omicidio di Luca Varani, il giovane di 23 anni che, prima di essere ucciso in un appartamento a Roma, venne torturato per almeno due ore dai due che si trovavano sotto l'effetto della cocaina. A sollevare polemiche furono, anche in questo caso le parole dell'uomo, apparso ai telespettatori inspiegabilmente troppo tranquillo, che ha descritto il figlio come “un ragazzo modello, forse eccessivamente buono, con un quoziente intellettivo superiore alla media. Non uno sbandato”. Parole di affetto respinte anche dal figlio che, interrogato a Regina Coeli, confesserà di aver sfogato sul povero Luca la rabbia covata proprio contro il padre. Ma a finire sul banco degli imputati sarà soprattutto Vespa, accusato di aver offerto un palcoscenico a una tesi difensiva basata sul presupposto che a scatenare la furia omicida dell'assassino fosse stata in realtà, non un'indole criminale, ma solo l'assunzione di stupefacenti. In questo caso a scatenarsi furono soprattutto i social che accusarono il programma di Rai1 di “sciacallaggio”.

I Casamonica. Non era trascorso nemmeno un mese dal funerale di Vittorio Casamonica che bloccò un intero quartiere di Roma sollevando un vespaio di critiche e polemiche non solo sulle prime pagine di tutti i quotidiani romani ma anche sulla stampa di mezzo mondo, che ecco apparire nel salotto di Bruno Vespa figlia e nipote. I Casamonica sono una famiglia di etnia nomade originaria dell'Abruzzo che ormai si è stabilizzata da anni nella Capitale dove si è specializzata in attività criminali quali, in particolare, racket, usura e spaccio di stupefacenti. Il 20 agosto del 2015 Vittorio Casamonica viene omaggiato da una gran folla che segue il corteo funebre, con tanto di carrozza trainata dai cavalli neri, note del Padrino intonate dalla banda e lancio di petali di rosa da un elicottero in volo a pochi metri dai tetti della abitazioni, fino alla Chiesa addobbata con una gigantografia del boss in abiti papali salutato come “re di Roma”. La stessa chiesa, per altro, che rifiutò di celebrar ei funerali di Piergiorgio Welby. L'8 settembre Vera e Vittorino Casamonica, figlia e nipote di Vittorio, si presentano a “Porta a Porta” per raccontare la loro “verità” e difendere il loro congiunto dalle “tante bugie e calunnie” dette sul conto di un uomo “che tutti chiamavano Papa perché era troppo buono, come Francesco” e su quello della loro famiglia, “gente onesta”. Pd, Campidoglio, Vigilanza e Antimafia, M5S e Sel partono all'attacco. La direzione di Rai1 si schiera con il conduttore, ma decide di programmare, a scopo risarcitorio, un'intervista con l'assessore alla Legalità del Comune di Roma Alfonso Sabella. Vespa si difende: “Lasciateci fare il nostro mestiere. Quando Biagi ha intervistato Sindona, c'erano forse le vittime? E c'erano le vittime quando è stato intervistato Buscetta o quando Santoro ha intervistato Ciancimino?”.

Il nuovo fidanzato di Erika. Nel dicembre del 2001 sbarca in Commissione di vigilanza Rai il caso “Mario Gugole”. Di chi si tratta? Mario Gugole è un giovane di 24 anni, di professione meccanico con il sogno di diventare dj che fin dai primi giorni di prigionia della 16enneErika De Nardo, arrestata per aver ucciso madre e fratellino la sera del 21 febbraio del 2001 a Novi Ligure, insieme al fidanzatino di allora Omar Favaro, comincia a scriverle lettere d'amore in carcere. I due non si erano mai conosciuti prima ma nel giro di qualche mese il loro rapporto epistolare si trasforma in una sorta di relazione a distanza. Quando la storia viene svelata dai media, tutte le principali testate giornalistiche fanno a gara per intervistare Gugole. Il quale è ben contento di mettersi a disposizione ma di certo non a titolo gratuito. Le sue apparizioni a Domenica in e Porta e Porta sarebbero costate infatti alla Rai ben 25 milioni di vecchie lire. Ma non è solo questo aspetto ad attirare contro Vespa le solite critiche. Secondo l'Osservatorio sui Minori il ragazzo sarebbe infatti “accomunato ad Erika da un atteggiamento antigenitoriale che la Rai non dovrebbe diffondere”. Bruno Vespa però non ci sta e ricorda che Gugole è stato intervistato da Tg1 e Tg5, e da molti giornali: “Perché solo noi non potremmo ascoltarlo?”.

Gli assassini di Marta Russo. A tre anni dall'apertura del programma, Bruno Vespa finisce nel polverone per una puntata di “Porta a Porta” dedicata all'omicidio della studentessa romana Marta Russo avvenuto il 9 maggio del 1997 in un viale dell'Università di Roma La Sapienza. Marta rimane uccisa da un colpo di pistola sparato da una finestra dell'aula assistenti dell'istituto di filosofia del diritto. A premere il grilletto un giovane assistente, Giovanni Scattone, affiancato dall'amico Salvatore Ferraro. Entrambi vengono invitati da Vespa nel giugno del 1999 dopo la condanna in primo grado. I genitori della ragazza chiedono di bloccare la messa in onda. Non comprendono come sia possibile offrire loro “ulteriore spazio del servizio pubblico televisivo” nonostante la vicenda sia stata già ampiamente documentata dai media. In molti sono dalla loro parte ma il giornalista decide di andare dritto per la sua strada: “Bloccarci - disse allora Vespa - sarebbe un precedente mortale”. Ma le polemiche riguardarono anche il presunto cachet riservato ai due ospiti.

I plastici dei delitti. Ormai sono entrati di diritto nell'immaginario televisivo collettivo: sono i plastici di Vespa, modellini realizzati per ricostruire la scena dei casi di cronaca più famosi. Molti hanno scatenato critiche durissime e, ancora a distanza di anni, sono motivo di ironie e discussioni. Il più famoso è senza dubbio quello della villetta di Cogne dove il 30 gennaio del 2002 fu consumato l'omicidio del piccolo Samuele Lorenzi di tre anni per cui è stata condannata, con sentenza passata in giudicato, la madre Anna Maria Franzoni. Nella lista di quelli che hanno riscontrato il maggiore successo il plastico dell'omicidio di Meredith Kercher, uccisa a Perugia nella notte del 1º novembre 2007 mentre si trovava nella sua camera da letto, nella casa che condivideva con altri studenti; la villetta di Garlasco teatro dell'assassinio di Chiara Poggi avvenuto nell'agosto del 2007; l'abitazione di Brenda, la transessuale brasiliana coinvolta nella vicenda di sesso, droga e ricatti che costò la carriera politica all'ex presidente del Lazio Piero Marrazzo e la morte della stessa Brenda. In quel caso fu proprio l'amica della vittima, invitata da Vespa in studio a bocciare il plastico dell'appartamento. Non sono mancati nemmeno il modellino della nave da crociera Concordia, affondata nei pressi dell'Isola del Giglio con 33 passeggeri rimasti vittime e quello della casa di Avetrana, dove abitava la piccola Sarah Scazzi, uccisa nel garage dalla cugina Sabrina Misseri insieme alla madre Cosima.

Da Sindona a Riina jr: i volti della mafia in tv.

Enzo Biagi intervista Michele Sindona in America, nel carcere di Otisville (New York): è il 24 ottobre 1980.

Il boss Luciano Liggio con Enzo Biagi il 20 marzo del 1989: l’intervista va in onda a «Linea Diretta» su RaiUno.

Nel 1986 Enzo Biagi intervista Raffaele Cutolo in un’aula del tribunale di Napoli dove stavano processando il capo camorrista.

Nel 1991 Michele Santoro ospita a «Samarcanda» il mafioso Rosario Spatola.

Il 24 luglio 1992 Enzo Biagi intervista negli Stati Uniti per «Speciale Tg7» Tommaso Buscetta, che rifiuta di essere considerato un pentito e parla di Giovanni Falcone: «Doveva morire, voleva intraprendere una strada che parlasse di politica».

Nel 1998 Michele Santoro intervista a «Moby Dick», su Canale 5, il pentito Enzo Brusca che diede l’ordine di strangolare e sciogliere nell’acido il bambino Giuseppe Di Matteo.

Il 14 marzo 2012 Angelo Provenzano, figlio del boss di Cosa Nostra Bernardo Provenzano, è intervistato dalla giornalista Dina Lauricella per «Servizio Pubblico», la trasmissione di Michele Santoro su La7.

Sempre per «Servizio pubblico», nel marzo 2012 Sandro Ruotolo intervista Massimo Ciancimino, figlio di Vito Ciancimino: testimone di giustizia, indagato per calunnia, concorso in associazione mafiosa e concorso in riciclaggio di denaro.

Il 24 agosto 2013 Carmine Schiavone viene intervistato da SkyTg24: «Le istituzioni ci hanno abbandonato», dice l’ex boss del clan dei Casalesi e collaboratore di giustizia.

Il 30 gennaio 2014 è ospite di Michele Santoro, nello studio di «Servizio Pubblico», Vincenzo Scarantino, il pentito che con false accuse fece condannare persone innocenti per la strage di via D’Amelio. Fu arrestato alla fine della puntata.

L’8 settembre 2015 Bruno Vespa ospita a «Porta a Porta» Vera e Vittorino Casamonica, figlia e nipote del defunto boss Vittorio celebrato con esequie-kolossal a Roma il 20 agosto.

La puntata del 6 aprile 2016 di «Porta a Porta» con l’intervista a Giuseppe Salvatore Riina, figlio del superboss corleonese Totò Riina e condannato a 8 anni e 10 mesi per associazione mafiosa (pena già scontata).

Caso Vespa, l'editto della Rai "Supervisione sui giornalisti". Dopo la puntata con Riina jr, i vertici della tv di Stato scaricano il conduttore. Il dg Campo Dall'Orto: da settembre informazione controllata, scrive Fabrizio De Feo, Venerdì 8/04/2016, su "Il Giornale". Il giorno dopo la discussa intervista a Salvo Riina, figlio del boss dei boss, in commissione Antimafia va in scena il processo a Bruno Vespa. Convocati di fronte al parlamentino sono il presidente della Rai Monica Maggioni e l'amministratore delegato Antonio Campo Dall'Orto. Un appuntamento che si trasforma in un'occasione per emettere da parte dei parlamentari del Pd, di Sel e di M5S una sorta di condanna senza appello del conduttore, privo a loro dire del pedigree giornalistico per una intervista di inchiesta. Ma anche e soprattutto nel palcoscenico davanti al quale Antonio Campo Dall'Orto annuncia un cambio di rotta per il servizio pubblico radiotelevisivo e una stretta sulla libertà consentita alle trasmissioni giornalistiche di trattare determinati temi. «È una fase di transizione dove il direttore editoriale Verdelli è in carica da circa tre mesi. Prima abbiamo deciso di occuparci dell'informazione giornalistica in senso stretto, ovvero delle testate. Poi da inizio settembre bisognerà riuscire ad avere una supervisione che lavori sui contenuti giornalistici. Da quel momento si dovrà decidere insieme». Una facoltà di intervento da parte dei vertici Rai sull'autonomia delle singole trasmissioni potenzialmente foriera di pericolose implicazioni che in altri tempi avrebbe provocato inevitabili polemiche e proteste. Campo Dall'Orto spiega come dopo l'ospitata dei Casamonica e i fatti di Parigi sia nata la decisione di istituire una «direzione per l'informazione». «Non è più pensabile distinguere l'informazione dall'infotainment», dice l'ad ricordando che il direttore Carlo Verdelli è in carica da circa tre mesi. «In questo caso Verdelli ha preso una decisione su un contenuto che si è trovato sul suo tavolo, domani bisognerà agire all'origine sulla scelta di cosa fare o non fare». Rispetto al «caso Vespa» il presidente Rosy Bindi assume subito un profilo di attacco frontale, criticando un'intervista «che ha prestato il fianco al negazionismo e al riduzionismo». Una linea su cui si attestano sia il Pd che il Movimento cinquestelle concentrati su alcuni tasti ricorrenti. In particolare se le domande fossero state concordate, se ci fossero «regole di ingaggio» pre-ordinate e se il figlio di Riina sia stato pagato. Viene anche contestata l'idea di una puntata riparatrice, ma i vertici Rai spiegano che non si tratta di questo ma «di un ulteriore approfondimento sul tema della mafia». Sia Campo Dall'Orto che la Maggioni chiariscono che per l'intervista «non è stato corrisposto alcun pagamento. Le domande sono state fatte in libertà. La liberatoria è stata firmata soltanto alla fine», un punto questo che solleva diverse polemiche. Il presidente della Rai condanna, comunque, il tono complessivo dell'intervista. Tante cose «rendono insopportabile il contenuto. Dall'inizio alla fine è stata un'intervista da mafioso, quale è il signor Riina». La Maggioni, però, ferma la sortita polemica di Lucrezia Ricchiuti del Pd: «Non posso sentir dire da quest'aula che Bruno Vespa è un portavoce della mafia. È inaccettabile».

Vespa libero non piace al Pd. A Porta a Porta l'intervista ai Casamonica. La sinistra insorge, ma i "suoi" conduttori portavano i boss in studio, scrive Alessandro Sallusti, Giovedì 10/09/2015, su "Il Giornale".  Ne abbiamo viste tante ma sentire una serie di politici di seconda fila voler insegnare a Bruno Vespa come si deve fare il mestiere di giornalista è davvero troppo. Gente che non sa fare il suo di mestiere, prova ne è lo stato in cui sono ridotti il paese, il parlamento e i partiti, ha aperto ieri un processo politico contro il conduttore di Porta a Porta colpevole di aver ospitato in studio l'altra sera, nella puntata che ha inaugurato la stagione, i figli (incensurati) di Casamonica, il boss mafioso il cui funerale in pompa magna è stato il caso dell'estate. Il Pd, che di cosche romane se ne intende al punto da averci fatto affari d'oro come si evince dalle carte dell'inchiesta «mafia capitale», chiede che del caso se ne occupi il Parlamento. Il sindaco(dimezzato) Marino, uomo senza vergogna, si dice scandalizzato: cosa grave, pretendo le scuse di Vespa a Roma, ha detto tralasciando che quel famoso funerale è avvenuto con la sua autorizzazione, o comunque sotto il suo naso, e che se c'era uno che avrebbe dovuto occuparsi del Casamonica (in vita) invece che lasciarlo spadroneggiare su un pezzo di città, questi è proprio lui. In questi anni la tv ci ha propinato le peggio schifezze senza che la sinistra avesse nulla da obiettare. Anzi, spesso ha applaudito alla «libera informazione» di Santoro e compagnia che durante l'assalto a Berlusconi hanno portato in video, dal vero o in fiction, mafiosi conclamati (Spatuzza, quelli scioglieva i bambini nell'acido), pregiudicati figli di mafiosi (Ciancimino), escort e balordi a go go solo per screditare una parte politica. Qualcuno può obiettare: era tv privata, non servizio pubblico. A parte che la libertà non è privata né pubblica, ma è o non è, nella bacheca dei trofei Rai fanno giustamente ancora bella mostra le interviste di Enzo Biagi a Buscetta, cassiere della mafia, e a Sindona (il grande corruttore della finanza italiana) come quelle di Sergio Zavoli agli assassini di Aldo Moro e ai terroristi che insanguinarono l'Italia. A confronto i Casamonica sono niente, ma comunque parliamo di giornalismo di serie A. Scandaloso non è mai l'intervistato, al massimo può esserlo lo spirito che anima l'intervistatore. Non è il caso di Vespa, il cui unico giudice è il suo pubblico, non il Pd o la politica che sul caso Casamonica hanno una coda di paglia assai lunga.

Riina in tv è giornalismo, scrive Domenico Ferrara il 6 aprile 2016 su "Il Giornale". Quando è stata l’ultima volta che si è parlato di mafia in tv? Chiedetevelo. Io non me lo ricordo. Potrei azzardare quando il figlio di Vito Ciancimino faceva le sue comparsate nel salotto di Santoro. Ma parliamo già di anni fa. Non voglio comunque fare come Gasparri che, a torto o ragione, per difendere l’intervista di Vespa al figlio di Riina cita quelle dell’ex conduttore di Servizio Pubblico. Non sono i conduttori il punto, bensì gli intervistati. La mafia è una realtà atroce ma è fatta da una pluralità di racconto e quella dei figli dei mafiosi è una delle voci del racconto. Non sentirla o non trasmetterla sarebbero queste la vera forma di negazionismo della mafia. E, giornalisticamente, sapere come viveva uno dei più atroci criminali della storia mondiale durante la sua latitanza è una notizia. Seppur raccontata dal figlio. Di cosa si lamenta la Bindi? Non si lamentò per Ciancimino jr. e per il figlio di Bernardo Provenzano intervistati da Santoro e lo fa adesso per Riina? Lei, presidente della commissione antimafia, che ha dichiarato di non essere un’esperta di mafia? Ecco, Vespa le sta dando l’occasione di conoscerne un aspetto, una angolatura. Che colpa ha il conduttore di Porta a Porta? Nessuna. Come nessuna colpa ebbe Enzo Biagi quando intervistò Luciano Liggio in prima serata o come il giornalista Rai Giuseppe Marrazzo quando intervistò il camorrista Raffaele Cutolo o la rivista Rolling Stones quando ha intervistato El Chapo o SkyTg24 quando ha intervistato Carmine Schiavone. È il giornalismo, bellezza. Mentre la mafia è una montagna di merda. E non sarà il figlio di un mafioso (peraltro condannato con pena già scontata per associazione mafiosa) a ripulirla.

Quelle interviste della tv pubblica a ergastolani e terroristi rossi e neri. Chi oggi si scandalizza ha rimosso i colloqui con Cutolo, Badalamenti, Moretti, Peci, Delle Chiaie e Sindona, scrive Fabrizio De Feo, Venerdì 08/04/2016, su "Il Giornale". Indignazione, raccapriccio, condanna, richieste di sanzioni, con una morbida gradualità che va dal licenziamento, alla richiesta di radiazione dall'Ordine dei Giornalisti fino alla cancellazione hic et nunc di «Porta a Porta». L'intervista di Bruno Vespa al figlio di Totò Riina scatena una vera e propria tempesta di polemiche e di attacchi che sfociano anche nl personale. Il «reato» è quello di avere ospitato il figlio di un mafioso (anche lui condannato per associazione mafiosa) sugli schermi del servizio pubblico. Una circostanza mai avvenuta prima? Ovviamente no, perché la Rai in passato ha dato spazio e ospitalità a figure condannate e condannabili, a boss mafiosi e capi delle Brigate rosse senza alzate di scudi e tempeste politico-mediatiche. L'elenco è lungo e variegato. Nel corso della sua carriera, Enzo Biagi ha incontrato la «primula rossa di Corleone», Luciano Liggio, Raffaele Cutolo e Tommaso Buscetta. Gioe Marrazzo si è confrontato con il boss calabrese Momo Piromalli, oltre alla celebre intervista a Raffaele Cutolo. Nel 1991 Michele Santoro ospita un mafioso come Rosario Spatola. Tra le celebri interviste anche quella di don Tano Badalamenti, nel 1997 a Ennio Remondino, durante la sua detenzione negli Stati Uniti. Un incontro che Remondino ebbe modo di spiegare così: «Per arrivare a un mafioso del calibro di Badalamenti, anche se in carcere, giocano tanti fattori. Il primo, che lui abbia qualche interesse a rendere noto qualcosa, poi, che possa fidarsi di te». Un altro capitolo è quelle delle interviste di Sergio Zavoli che nel 1990 realizzò una celeberrima serie che titolò La Notte della Repubblica. Puntata dopo puntata passarono sugli schermi Rai gli ex della lotta armata, rossi e neri, che ragionavano sul loro passato, spesso senza dissociarsene. Tra questi Mario Moretti, la mente del rapimento Moro che ammise il fallimento della lotta armata senza mai collaborare con gli inquirenti. Senza dimenticare le interviste di Biagi a Michele Sindona, condannato all'ergastolo quale mandante dell'omicidio Ambrosoli. O a Stefano Delle Chiaie, fondatore di Avanguardia nazionale, ai brigatisti Patrizio Peci e Alberto Franceschini e al «cattivo maestro» Toni Negri. Interviste che hanno contribuito a tenere viva e trasmettere la memoria del Novecento e degli anni di piombo.

Le polemiche su Riina jr. Quando parla il figlio del boss, scrive Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia” il 7 aprile 2016. Icone, pentiti e irriducibili. Ma, quando parlano certi figli, è sempre polemica. Quando parlano i figli dei boss si scatena il putiferio. Sempre e comunque. A torto o a ragione. Da giorni la scena è tutta di Salvuccio Riina che prima sulle colonne del Corriere della Sera e poi su Rai 1, a Porta a Porta, ottiene un battage pubblicitario di lusso per il suo libro. Non si parla d'altro. In tanti si sono mossi per lanciare la crociata contro il male. Per molti, per carità, è davvero un problema di coscienza e di inquietudine provocata dalla vista del figlio del carnefice. Per altri, però, è una ghiotta vetrina. Un balcone a cui affacciarsi per gridare la propria antimafiosità di mestiere. Era già accaduto quando si seppe che Angelo Provenzano, figlio di Bernardo, su iniziativa di un tour operator americano spiegava la mafia ai turisti in visita in Sicilia. Non tutti i figli sono uguali. A cominciare dal curriculum. Giuseppe Salvatore Riina mafioso lo è pure lui per via di una condanna a otto e passa anni che ha finito di scontare. Angelo Provenzano è incensurato. Hanno seguito strade diverse nella vita, ma entrambi si sono definiti fieri dei rispettivi padri e hanno raccontato la loro esistenza in cattività. Lontano da tutto e tutti, ma soprattutto lontani dalla verità che non si voleva vedere. Anche per Angelo Provenzano si sollevò il coro dello sdegno, con qualche voce isolata di dissenso. Si chiede loro, giustamente, di andare oltre il naturale amore di un figlio nei confronti di un padre. Si chiede loro, giustamente, di abiurare ciò che il padre è stato. E poi ci sono i figli che mettono d'accordo tutti. Ai quali si crede per fede. Come Massimo Ciancimino, la quasi icona dell'antimafia. Ha condannato pubblicamente il padre, si dirà. È un testimone chiave in alcuni processi, si spiegherà. Si è autoaccusato di reati, si aggiungerà. Tanto basta per perdonargli gli errori e le condanne del passato, gli scivoloni, le dimenticanze, le dichiarazioni a rate e le bugie, almeno così le definisce chi lo sta processando per calunnia. Per lui abbracci e baci. Come quello che gli riservò Salvatore Borsellino, fratello di Paolo. Lo stesso fratello del magistrato che ha consegnato a Facebook l'indignazione per l'intervista a Riina jr, “figlio di un criminale, criminale a sua volta” sugli schermi del servizio pubblico.

Da ''la Zanzara - Radio24'' del 6 aprile 2016. “La Bindi è un esponente organizzata della mafia, una che ha fatto la cosa immonda di usare il suo potere contro De Luca poi scagionato. Non è un deputato, è un mafioso. Il suo è un comportamento mafioso”. Lo dice Vittorio Sgarbi a La Zanzara su Radio 24 sulle critiche del Presidente della commissione antimafia per la presenza di Salvo Riina a Porta a Porta. “Usare il proprio potere, essendo all’antimafia – dice Sgarbi -  accusare uno che non ha fatto niente, è un abuso di potere tipico del rapporto tra politica e mafia. Dovrebbe essere cacciata dal Parlamento, non ha alcuna competenza di mafia, invece ancora parla”. “Unica competenza che ha la Bindi – dice ancora - è quella di tacere, sulla mafia ha già fatto cose immonde, la sua nomina è stata una regalia, si deve vergognare”. Ma stai accostando la Bindi alla mafia, ti rendi conto? “La accosto alla mafia perché l’atteggiamento mafioso è proprio questo, abusare del proprio potere per avere un vantaggio ed è quello che ha fatto lei. Ha un comportamento tipicamente mafioso. E’ dello stesso partito di Ciancimino, la Dc.” Ciancimino è un politico condannato nel 1992 per associazione mafiosa e corruzione, ricorda Cruciani per far comprendere il paragone agli ascoltatori. Ma, secondo Sgarbi, Ciancimino fu "arrestato e condannato solo per il suo cognome".

La lettera di Bruno Vespa pubblicata su "Il Corriere della Sera" del 7 aprile 2016. «Biagi intervistò Sindona e Liggio. Ma allora nessuno batté ciglio». Bruno Vespa interviene sulle polemiche sollevate sulla sua trasmissione che ha visto ospite il figlio di Totò Riina. «Era utile che il pubblico lo conoscesse». "Caro Direttore, se Adolf Hitler risalisse per un giorno dall’inferno e mi offrisse di intervistarlo, temo che dovrei rifiutare. Vedo, infatti, che dopo il «caso Riina» vengono messi in discussione i parametri di base del giornalismo. La Storia è stata in larga parte scritta dai Cattivi. Compito dei cronisti è intervistarli per approfondire e mostrare l’immagine della Cattiveria. Aveva ragione nel gennaio del ’91 il governo Andreotti a voler bloccare (senza riuscirci) la mia intervista a Saddam Hussein alla immediata vigilia della prima Guerra del Golfo perché il dittatore iracheno era un nostro nemico? Chi ha intervistato per la Rai il dittatore libico Gheddafi o quello siriano Assad avrebbe dovuto puntare sui crimini commessi da entrambi invece di focalizzare il colloquio sulla loro politica estera? Quando l’editore del libro di Salvo Riina ha offerto una intervista esclusiva alCorriere della Sera, a Oggi e a Porta a porta, non immaginavo né di fare il colpo della vita, né di creare un turbamento sensazionale. Ho letto il libro, ho detto ai miei colleghi che era l’opera di un mafioso a 24 carati e ho informato quell’eccellente professionista che è il nuovo direttore di Raiuno che avremmo potuto mostrare per la prima volta il ritratto della più importante famiglia mafiosa della storia italiana vista dall’interno. Decidemmo allora di far seguire all’intervista un dibattito con parenti delle vittime di Riina e con dirigenti di associazioni che coraggiosamente si battono contro la mafia. Così è avvenuto. Ciascun giornalista farebbe una intervista in modo diverso. In coscienza, credo di aver mosso al giovane Riina le obiezioni di una persona di buonsenso mostrandogli anche le immagini delle stragi di Capaci e di via D’Amelio e dell’arresto di suo padre. Ho riportato dall’incontro l’impressione che avevo riportato dal libro: un mafioso con l’orgoglio di esserlo. Era utile che il pubblico conoscesse il volto della nuova mafia? A mio giudizio sì, perché solo conoscendo la mafia la gente acquisisce la consapevolezza di doverla combattere. Ho rivisto i precedenti. Guardate su Internet l’attacco dell’intervista del 1982 di Enzo Biagi a Michele Sindona. Prima di entrare nel merito ci fu una piacevole introduzione sui pasti del detenuto e sulla qualità delle sue letture. L’avvocato Ambrosoli era stato ucciso tre anni prima. La Commissione antimafia — che già esisteva — non batté ciglio. Lo stesso Biagi intervistò liberamente Luciano Liggio, il maestro di Totò Riina, il capo dei capi dei primi anni Sessanta. E Tommaso Buscetta, che spiegò come funzionava la Cupola, ma non pianse certo pentito sulla spalla del grande giornalista. Altra intervista famosa fu quella di Biagi al terrorista nero Stefano Delle Chiaie. Non ricordo che siano stati parallelamente ascoltati i parenti delle vittime. Jo Marrazzo, grande cronista della Rai, intervistò il capo della ‘ndrangheta Giuseppe Piromalli e il capo della camorra Raffaele Cutolo. Ricevette meritati complimenti. Come li ricevette Sergio Zavoli per aver intervistato tutti i terroristi (non pentiti) disposti a rispondere alle sue domande. Trascuro l’esempio più recente e discutibile: Massimo Ciancimino, figlio di Vito, è stato a lungo ospite d’onore di Michele Santoro con ampia libertà di dire l’indicibile, prima di essere arrestato nel 2013. Mi piacerebbe che tutte queste interviste fossero riviste insieme per un sereno confronto. Forse avremmo qualche sorpresa. In ogni caso, il tema è chi si può intervistare nella Rai di oggi. 

Se Riina padre fosse disponibile, pioverebbero giornalisti da mezzo mondo. E noi?"

Giù le mani da Vespa. L’intervista a Riina jr è grande televisione. Facciamo la tara all'anti-vespismo: abbiamo visto episodi di infotainment molto peggiori. E alla poca opportunità di mostrare Salvo Riina, un luogo comune censorio. Porta a porta di ieri sera ci ha portato, in maniera ben poco rassicurante, nel cuore dell'ambiguità di cosa nostra, scrive Bruno Giurato il 7 Aprile 2016 su “L’Inkiesta”. L'apparizione di Salvo Riina a Porta a Porta è la tempesta informativa perfetta, perché riassume e fa scontrare due perturbazioni dell'intelligenza comune, due correnti d'opinione che sembrano difficilmente discutibili. La prima si è formata negli anni d'oro dell'anti-berlusconismo come unica forma possibile di militanza civile. E' quella che considera Bruno Vespa il non minus ultra del giornalismo non solo televisivo. Vespa, secondo molti, è esclusivamente quello dei plastici della villetta di Cogne, quello che ha lanciato la comfort-criminologist Bruzzone, quello che da sempre intrattiene rapporti tutt'altro che schiena dritta col Potere - berlusconiano prima, renziano ora -. Quello che ha avuto l'ardire di invitare in trasmissione i Casamonica nell'after show funeralesco. L'emblema dell'informazione spazzatura, insomma. E quindi il contenitore meno adatto per mettere in scena un'intervista al figlio del mammasantissima dei mammasantissima, Totò "u curtu". Ma a favore di Vespa sarebbe il caso di dire che i modelli dell'infotainment (e anche dell'informazione pura) hanno dato parecchi esempi anche peggiori di quello che abbiamo visto su Raiuno ieri sera. L'apparizione del figlio di Ciancimino da Michele Santoro qualche anno fa, per esempio, e non come narratore di esperienze umane, ma come rivelatore di torbidi intrecci, era già assai criticabile. Per non parlare della notizia della morte di Sarah Scazzi data in diretta da Federica Sciarelli alla madre: infotainment per infotainment un esempio di televisione, oggettivamente, pessimo. Sarebbe il caso di dire che i modelli dell'infotainment (e anche dell'informazione pura) hanno dato parecchi esempi anche peggiori di Vespa: da Ciancimino con Santoro, alla Sciarelli che dà in diretta alla madre la notizia della morte di Sarah Scazzi. L'altra corrente d'opinione esiste da molto più tempo. E' quella secondo la mitizzazione dei mafiosi è il miglior alleato della mafia. E' l'idea contenutista e francamente censoria secondo cui non bisogna "dare visibilità", parole e immagini, alla delinquenza organizzata perché si rischia non solo di mancare di rispetto alle vittime, ma di suscitare compassione, emulazione, identificazione nello spettatore. È la critica che viene fuori quasi ad ogni puntata della serie Gomorra; che ha accompagnato il romanzo/film/serie Tv Romanzo Criminale. È il mugugno legalista intorno a Il Padrino, tra l'altro amatissimo anche dagli gli uomini d'onore. E, si parva licet, è anche la critica che da sempre ha seguito i libri di Leonardo Sciascia (tra l'altro gliela fece anche Camilleri): aver fornito mitologia e storytelling alla mafia. Chissà se tutti ricordano una antica puntata di Un giorno in pretura, in cui Totò Riina (lui!) sotto processo raccontava ai giudici «in carcere tutti leggevamo Sciascia». Quindi sì, il rischio di mitizzare la mafia c'è. Ma è un rischio da correre, sempre. Perché il lettore-spettatore non ha bisogno di tutor ideologici, né di "confezioni" eticamente sostenibili ai problemi. Sarebbe ora di finirla con il pensiero secondo cui la lotta alla mafia si fa con i film, in televisione e con gli ingredienti dell'immaginario. La mafia si affronta con la guerra al suo potere militare e finanziario. Il resto è appunto chiacchiera, fiction contro fiction o peggio: autoassoluzione linguistico-culturale da magagne reali. Pura rassicurazione ideologica a costo (ed effetto) zero. Sarebbe ora di finirla con il pensiero secondo cui la lotta alla mafia si fa con i film, in televisione e con gli ingredienti dell'immaginario. La mafia si affronta con la guerra al suo potere militare e finanziario. Il resto è appunto chiacchiera, fiction contro fiction o peggio: autoassoluzione linguistico-culturale da magagne reali. E quindi si torna alla tempesta perfetta, alla puntata di ieri di Porta a Porta. A Salvo Riina in studio, camicia bianca, giacca grigia, sembra un co. co. co., un precario dell'università, un praticante di studio legale nel giorno in cui non c'è udienza. È anche uno che ha scontato 8 anni e dieci mesi per mafia ed figlio di chi ha ordinato l'attentato di Capaci. È banalità del male. Con una certa "calata" palermitana nella voce, nella quale lo spettatore non può non cogliere (o proiettare) qualche ictus ambiguo, dice cose come: «c'era un tacito accordo familiare» e «Non ci facevamo mai domande, eravamo una sorta di famiglia diversa». E ancora: «era anche un divertimento non andare a scuola». E infine: «Il nostro cursus vitae ci ha portato a vivere in modo molto differente dagli altri. E anche, devo dire, in maniera molto piacevole». Molto piacevole, signori. Ecco perché, fatta la tara agli anti-vespismi, agli eventuali spaventi ideologici, e in breve alle perturbazioni dell'opinione comune, quello di ieri sera è stato un ottimo pezzo di televisione. Ottimo perché restituisce tutta l'ambiguità e i paradossi della zona grigia. E il male, innanzitutto e per lo più, è grigio.

Mafia. "Papà li scannò tutti", così parlava Riina jr prima di scrivere libri. Le frasi non dette in tv dal figlio del capo dei capi. Nelle intercettazioni esaltava la ferocia della cosca, di quelli che definiva "uomini che hanno fatto la storia della Sicilia". "Ci fu una stagione di vampe, 65 morti in una sola estate", scrive Salvo Palazzolo il 15 aprile 2016 su “La Repubblica”. "Io vengo dalla scuola di Corleone", dice nella premessa. "Oh, mio padre di Corleone è, mia madre di Corleone, che scuola posso avere?". E inizia il suo lungo racconto: "Di uomini che hanno fatto la storia della Sicilia... linea dura, ne pagano le conseguenze, però sono stati uomini, alla fin fine. E io... sulla mia pelle brucia ancora di più". Eccole, le vere parole di Giuseppe Salvatore Riina detto Salvo, il figlio del capo di Cosa nostra. Le parole che si è ben guardato dal pronunciare a Porta a Porta durante l'intervista con Bruno Vespa, le parole che non ha scritto nel suo libro. Le vere parole di Salvo Riina sono in un altro libro, conservato negli archivi polverosi del palazzo di giustizia di Palermo. Si trova in cima a uno scaffale, "Riina + 23" è scritto sulla copertina, di certo titolo meno accattivante di quello dato dalle edizioni "Anordest". Ma è in queste 1.129 pagine che ci sono le parole autentiche del giovane Riina, le parole che pronunciò dal 2000 al 2002, quando non sospettava di essere intercettato (a casa e in auto) dalla squadra mobile su ordine del pm Maurizio de Lucia, e parlava in libertà mentre organizzava la sua cosca.

L'INIZIO DELLA GUERRA. Capitolo uno: "Totuccio si fumò a tutti, li scannò". Ovvero, la guerra di mafia. Non poteva che iniziare con le gesta criminali di suo padre, Totuccio Riina. Perché quelle parole che proponeva ogni giorno ai giovani adepti del suo clan erano delle vere e proprie lezioni di mafia. E la storia bisogna conoscerla. Salvo Riina la conosce alla perfezione, nonostante in tv abbia recitato tutt'altra parte. Racconta: "C'era quel cornuto, Di Cristina, che era malantrinu e spiuni ... era uno della Cupola, un pezzo storico alleato di quelli, i Badalamenti, minchia, Totuccio si fumò a tutti, li scannò". Correva il 1978: così partì la guerra di mafia scatenata dai corleonesi, era l'inizio della loro inarrestabile ascesa. L'inizio della carneficina. "E chi doveva vincere? - dice Salvo Riina - in Sicilia, in tutta l'Italia chi sono quelli che hanno vinto sempre? I corleonesi. E allora, chi doveva vincere?".

I RIBELLI. È davvero un libro istruttivo quello che nessun editore ha ancora pubblicato, conservato nei sotterranei del palazzo di giustizia di Palermo. Riina junior racconta la verità anche su un'altra guerra di mafia, quella del 1990, quella scatenata contro gli stiddari, i ribelli di Cosa nostra. Capitolo due. "Quando gli hanno sminchiato le corna agli stiddari che c'erano in tutta la Sicilia". Da Gela a Marsala, da Riesi a Palma di Montechiaro, un racconto terribile. "Ci fu un'estate di vampe - spiega il giovane boss con grande naturalezza - Ferro e fuoco. Qualche sessantacinque morti ci furono qua, solo in un'estate". E giù con il suo racconto sugli stiddari: "Che razza - dice - qua ci vuole il revolver sempre messo dietro, ma non il revolver quello normale, qua ci vuole il 357, che con ogni revolverata ci 'a scippari u craniu". Totò Riina ordinò un vero e proprio sterminio. Anche questo racconta il figlio: "Ci fu un'estate che le revolverate... non si sapeva più chi le doveva ammazzare prima le persone". E ancora: "Minchia, appena ne sono morti due di quello, partiamo, tre morti di quell'altro... Appena gli hanno ammazzato a quelli tre, gliene andavano ad ammazzare altri cinque. Pure a Marsala gli ha dato vastunate ... era una fazione di boss perdenti... si erano messi in testa che loro dovevano rivoltare il mondo".

BUSINESS E STRAGI. Capitolo quattro: "I piccioli": "Se tu pensi quello che ha fatto mio padre di pizzo, oggi noialtri neanche possiamo fare l'uno per cento. Capitolo cinque: "I cornuti", ovvero i collaboratori di giustizia. "Quando arriva un cornuto di questi e ci leva tutto il benessere, ci fa sequestrare beni immobili, materie prime e soldi". Capitolo sei, il cuore del libro: "Le stragi Falcone e Borsellino". "Un colonnello deve sempre decidere lui e avere sempre la responsabilità lui. Deve pigliare una decisione, e la decisione fu quella: "Abbattiamoli" E sono stati abbattuti".

RITRATTO DI FAMIGLIA. Ma non è solo un libro di sangue e complotti quello che il giovane Riina ha inconsapevolmente scritto, firmando la sua condanna a 8 anni per associazione mafiosa. Ci sono anche i dialoghi in famiglia, pure questi ben lontani dalla descrizione proposta a Porta a Porta. È il capitolo finale di questo libro verità: la scena è ambientata nella sala colloqui del carcere dov'è detenuto il primogenito di casa Riina, Gianni. Sei dicembre 2000. Ninetta Bagarella si rivolge ai figli maschi: "Siete stati sempre catu e corda... ma quello che ti tirava era sempre Gianni". E Salvo: "Papà diceva che lui era il più...". La mamma chiosa: "Il più agguerrito". E non a caso il quarantenne Gianni Riina è già all'ergastolo da vent'anni, condannato per quattro omicidi. "Tu facevi il trend ", dice Salvo al fratello. E la sorella Maria Concetta corregge: "Il trainer, non il trend". Gianni ricorda una frase del padre: "Una volta mi ha detto una cosa. Che non ho mai dimenticato: "Tu hai sempre ragione per me, perciò, quale problema c'è"". Quella era un'investitura. Che anche Salvo Riina rivendicava: "Vedi che io vengo dalla scuola corleonese". E la madre certificò: "Sangue puro".

Art. 21 della Costituzione: "Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione…" (questo vale anche per i figli dei mafiosi, come anche per i mafiosi stessi) "La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure...". Mentre l'art. 33, comma 1, afferma che: «L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento».

In questa Italia che ci propinano i diritti, come si sa, son privilegi ad uso e consumo solo di chi detiene un potere.

Enzo Tortora era innocente. La Rai invece no, scrive “Il Dubbio” il 17 maggio 2016. «Signora Presidente, signor Ministro, signori colleghi, mezz’ora fa è mancato all’affetto della sua famiglia il nostro Enzo Tortora. Mi si consenta, pur non essendo stato un nostro collega, ma essendo stato un rappresentante del nostro popolo - e quale, e come, e in che circostanze - nel Parlamento Europeo, mi consenta, signora Presidente, senza usare violenza di sorta, di tacere per mezzo minuto». Così Marco Pannella, con voce rotta dalla commozione – vera - alla Camera dei Deputati il mattino del 18 maggio 1988, esattamente 28 anni fa. Cinque anni prima, il 17 giugno 1983, Tortora era stato arrestato come un volgare e pericoloso delinquente. Un arresto spettacolare per supportare accuse infondate, infamanti quanto assurde: appartenenza alla camorra, traffico di droga e - inchiesta facendo - altre invenzioni. Ad accusarlo un manipolo di delinquenti che, con il nobile quanto inappropriato titolo di “collaboratori di giustizia”, era stato assunto a servizio della Procura di Napoli dai procuratori Felice Di Persia e Lucio di Pietro. Le farneticanti dichiarazioni di 17 gaglioffi e il libero convincimento di quei magistrati rivoluzionano la vita di un uomo perbene: non uno straccio di prova, non un riscontro, non un’indagine alla ricerca della verità, non una intercettazione ma solo menzogne, calunnie, false accuse precostituite e propagandate da giornalisti complici e asserviti alla procura. Perché? Perché Tortora deve essere colpevole. Enzo è un personaggio amato da milioni di telespettatori, una icona del giornalismo italiano fino a quando un’assurda accusa lo trasforma da grande giornalista in grande spacciatore di droga, da uomo di cultura in uomo di malavita. Enzo vive la gogna di una campagna di informazione pilotata dalla procura napoletana che ha bisogno di compensare la mancanza di prove con la costruzione del “colpevole”. Ma anche da imputato, da detenuto, Enzo Tortora non rinuncia ad essere se stesso, ad agire con la dignità e la forza di un uomo perbene. Lo vogliono vittima? Lui si fa protagonista di una nobile battaglia per la giustizia giusta, tesa a risolvere non soltanto il suo processo, ma il ben più grave “caso Italia”. Lo vogliono camorrista e spacciatore con una condanna a 10 anni di galera scritta da Luigi Sansone (presidente della corte) e suggerita da Diego Marmo (quel Pubblico Ministero che recentemente ha chiesto scusa per aver commesso una grave errore giudiziario)? Lui si conferma galantuomo, si dimette dal Parlamento Europeo per tornare in galera e presentarsi ai suoi giudici come semplice cittadino. Innocente. Tortora è innocente, gli altri no. Tortora non ha nulla da rimproverarsi, i magistrati sì. Tortora potrà tornare al suo pubblico a testa alta, tanti altri giornalisti no. Dopo aver affermato la verità e aver portato nelle sedi istituzionali la denuncia del degrado giuridico italiano, Enzo muore per un tumore al polmone “che mi hanno fatto scoppiare come una bomba al cobalto” in quel dannato giorno di metà giugno 1983. Quei magistrati che hanno firmato la più brutta pagina della storia della giustizia italiana potranno invece godere di note di merito e promozioni di carriera (Felice Di Persia viene addirittura eletto al Consiglio superiore della magistratura). Ancora oggi c’è un problema “magistratura” da riformare: gli errori giudiziari sono ancora tanti, la legge sulla responsabilità dei magistrati – pur nella sua inadeguatezza - non trova applicazione, esiste un libero convincimento del giudice che si scontra con il sistema accusatorio, c’è una stretta correlazione tra la magistratura giudicante e quella inquirente, e sia l’una che l’altra sono troppo politicizzate. È una verità incontestabile. Così come è vero che tanti magistrati concordano però sull’esigenza di una vera, sana e profonda riforma. Per intervenire contro i mali reali del sistema, facendosi garanti di una riforma a favore della giustizia giusta e non a dispetto di qualcuno, tantomeno a dispetto della magistratura, alla quale vanno ridati quella dignità e quel rispetto che la Costituzione le assegna ma che la stessa magistratura deve guadagnare e mantenere sul campo. Per questo credo che non sia più rinviabile un confronto con l’Anm per trovare la giusta quadratura, per garantire a tutti giudizi equi e celeri, certezza della prova e giusto processo. E invece assistiamo a una contrapposizione pretestuosa, a un interminabile scontro – tanto frontale quanto volgare - che genera mostri e impedisce ogni modifica legislativa, ponendo una pietra tombale su ogni possibile e necessaria riforma. Confermando - ahimè, ahinoi - che il “sonno della ragione genera mostri”. Per ricordare Enzo nel ventottesimo della sua morte, uno Speciale del TG5 firmato da Andrea Pamparana è stato titolato “Quella giustizia che uccise un galantuomo”. Un servizio giornalistico equilibrato e vero, che ha reso la giusta memoria a Tortora. Mediaset se ne è ricordato, d’altronde è stato proprio Enzo il “papà” delle televisioni libere. Ma è stato soprattutto “figlio” di quella Rai alla quale tantissimo ha dato in termini di cultura, spettacolo e “guadagni”. Eppure quest’ultima tace (nonostante i miei solleciti a diversi consiglieri di amministrazione), perchè parlare di Tortora dà ancora fastidio: qualcuno potrebbe indispettirsi, c’è il rischio di sollevare qualche suscettibilità. Tortora è stato ed è un personaggio da dimenticare per non svegliare le coscienze. “... Hai visto la Tv? La Tv alla quale ho dato quasi tutta la mia vita, beh, hai visto se, nella disgustosa celebrazione dei suoi 30 anni ha ricordato una sola volta me, un mio programma? Silenzio. E` il Potere, Francesca. E` questo, che ha deciso di stritolarmi”. Così mi scrive Enzo dal carcere in una lettera del gennaio 1984: parole profetiche. Quel silenzio dura da ben 28 anni. Mamma Rai ingrata e distratta? No, perché non rinuncia a ricordare, giustamente, gli altri suoi figli. Ma Tortora è il figlio ribelle, troppo liberal per le paludate consuetudini della Tv di Stato, troppo innocente nella inchiesta napoletana per richiamare alla memoria i carnefici, troppo “antipatico” per meritare una citazione. Insomma, sembra proprio che il principio costituzionale dell’uguaglianza dei cittadini non valga in Rai e allora mi chiedo: ma se il servizio pubblico viola un sacrosanto e semplice principio, perchè io devo pagare il canone? P. S. Subito dopo aver consegnato questo articolo, ricevo una telefonata di RaiNews in cui mi si informa che, giorno 18 alle 18, il direttore Antonio Di Bella dedicherà la sua trasmissione “Telegram” alla memoria di Enzo Tortora. Ne sono felice: è una ennesima conferma della sensibilità del direttore Di Bella sulla vicenda di Enzo. Plaudo quindi a lui, mentre mantengo il mio giudizio sulla Rai.

QUANDO I MEDIA FALSIFICANO LA REALTA'.

X Factor, la sacrosanta denuncia di Danilo D’Ambrosio e il potere del montaggio (VIDEO). Capita, come è capitato a D'Ambrosio, che un'esibizione riuscita si trasformi in un fiasco, magari solo perché c'era da rimpolpare lo spezzone sui freak. È giusto? No, non lo è. Ma, e non vuole affatto essere una giustificazione, funziona così dappertutto. Il montaggio è il migliore amico degli autori televisivi di questa fase storica del piccolo schermo, scrive Domenico Naso l'11 ottobre 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Non c’è niente da fare: in Italia siamo bravissimi a scoprire l’acqua calda. Meriteremmo un Nobel, per questo talento innato. L’ultimo esempio viene dal dorato mondo della tv e dei talent show e riguarda Danilo D’Ambrosio, giovane cantante che si è presentato alle audizioni per la nuova edizione di X Factor, il talent di SkyUno condotto da Alessandro Cattelan. Ebbene, in un lungo video pubblicato su YouTube, D’Ambrosio ha denunciato il “taroccamento” della sua esibizione sul palco del Forum di Assago, di fronte ai giudici Fedez, Arisa, Alvaro Soler e Manuel Agnelli. In sintesi, la cosa è andata così: lui si è esibito, ha ricevuto applausi e ovazioni dal pubblico, ha incassato anche il sì di 3 giudici su 4, conquistando dunque l’accesso alla fase successiva delle selezioni. A guardare il montaggio dell’esibizione andato in onda su SkyUno, però, sembrerebbe tutt’altro. D’Ambrosio viene dipinto come una sorta di freak, uno dei tanti personaggi bizzarri che si presentano alle audizioni per fare la solita figura barbina. E da quello che si è visto in tv, lo spettatore ha creduto che il giovane cantante fosse stato eliminato e trattato a pesci in faccia. La polemica è ovviamente montata sui social network, soprattutto grazie al video molto dettagliato dello stesso D’Ambrosio, e alla fine è arrivato anche un post su Facebook degli autori di X Factor, che hanno tentato di spiegare come sono andate le cose: “L’esibizione di Danilo è stata montata all’interno di un segmento di programma dedicato ad alcuni dei concorrenti più originali che si sono presentati alle audizioni, un momento di intrattenimento e alleggerimento il cui racconto prescinde dall’esito della singola performance. In questo caso l’esito è stato positivo per 3 giudici su 4, e infatti Danilo ha regolarmente partecipato alle Room Audition mostrate nella puntata andata in onda il 6 ottobre”. Tutto è bene quel che finisce bene, dunque? Nì, perché le spiegazioni dello staff della trasmissione spiegano poco, o almeno spiegano poco a chi mastica poca tv. Il prosieguo del post su Facebook forse può aiutarci a capire meglio: “Il centro di X Factor è e rimane la musica ma X Factor è un programma televisivo che in quanto tale diverte e intrattiene il pubblico attraverso un montaggio serrato e un trattamento unico che, pur rispettando il risultato dell’audizione, riesce a coinvolgere il pubblico che ci segue. Il numero di aspiranti concorrenti che si presenta a ogni edizione è tale per cui è impossibile valorizzare e accontentare tutti”. Ecco il punto centrale della vicenda, fermo restando che sì, Danilo D’Ambrosio ha ragione a lamentarsi, perché per un ragazzo giovane come lui, l’esperienza a X Factor rappresenta uno snodo potenzialmente cruciale per il prosieguo della carriera musicale. E allora è sacrosanto che venga trasmesso in tv esattamente quello che è successo sul palco. Detto questo, però, il punto fondamentale è il “montaggio”. Dimenticate il leggendario “montaggio analogico” della Corazzata di fantozziana memoria, però, perché il montaggio di cui parliamo è il protagonista assoluto (e per nulla noioso) della televisione contemporanea. I programmi in diretta, a parte rare e preziose eccezioni, funzionano sempre meno. Siamo ormai abituati a una postproduzione che non solo valorizza un format, ma a volte lo stravolge completamente, rendendolo quello che alla fine appare agli spettatori. X Factor, uno dei programmi dal linguaggio più contemporaneo della tv di oggi, ovviamente non fa eccezione. Ma è anche il caso di Pechino Express su RaiDue, di Tu sì que vales su Canale5, Italia’s got Talent ancora su Sky, così come dei tanti e a volte pregevoli docureality che ormai imperversano sui canali tematici del digitale terrestre e del satellite (Il boss delle cerimonie, Il contadino cerca moglie eccetera). Il montaggio ormai vale quanto e più del conduttore di una trasmissione. Il pubblico cerca davvero il ritmo serrato di cui parla lo staff di X Factor su Facebook, così come cerca un linguaggio moderno, a volte frenetico, che sia in sintonia con i nuovi modi di fruizione dei media. Un montaggio fatto bene o male pregiudica il successo di un format e sull’altare del montaggio si sacrificano spesso alcuni scampoli di verità. L’importante, per chi fa tv, è che sia tutto verosimile, non necessariamente vero. E allora capita, come è capitato a D’Ambrosio, che un’esibizione riuscita si trasformi in un fiasco, magari solo perché c’era da rimpolpare lo spezzone sui freak. È giusto? No, non lo è. Ma, e non vuole affatto essere una giustificazione, funziona così dappertutto. Se ne sono accorti persino a Mediaset, che finalmente sta mostrando un certo talento nel montaggio degli spezzoni mandati in onda in programmi come l’Isola dei Famosi e il Grande Fratello Vip. Il montaggio è il migliore amico degli autori televisivi di questa fase storica del piccolo schermo. La (sacrosanta) denuncia pubblica di Danilo D’Ambrosio ha il merito di aver spiegato anche ai profani quello che gli addetti ai lavori sanno perfettamente da tempo. Ma la domanda, dato al giovane cantante quel che era del giovane cantante, adesso diventa un’altra: i trucchetti del montaggio trasformano X Factor o qualsiasi altro programma in tv in una totale menzogna, non meritevole della fiducia dello spettatore? No, nemmeno per sogno. Buttare il bambino con l’acqua sporca, altro sport molto praticato dalle nostre parti, sarebbe una grande sciocchezza. Dobbiamo solo diventare consapevoli e consci degli espedienti che la tv usa per mostrarsi più attraente di quanto non sia in realtà. Una volta compresi questi meccanismi, possiamo tranquillamente perdonarli in quanto vezzi fastidiosi ma non certo pericolosi e continuare a goderci i nostri programmi preferiti. Quando si esagera, come è successo con D’Ambrosio, è giusto dirlo, sottolinearlo, farlo sapere a chi non lo sapeva, ma poi si continua con il montaggio di sempre. Perché la tv è reale fino a un certo punto. E credere che debba essere tutto vero, tutto genuino, è molto naif.

Liberali italiani alla prova del Trump. Guardando la Clinton vs. The Donald, riflessioni sull’offerta politica a destra nel nostro paese e sul surrogato renziano. Parlano l’economista Alesina, l’avvocato De Nicola, il direttore Ostellino e lo storico Orsina, scrive Luciano Capone il 28 Settembre 2016 su “Il Foglio”. Il confronto televisivo tra Donald Trump e Hillary Clinton, la coppia di candidati alla Casa Bianca più impopolare della storia degli Stati Uniti, ha forse chiarito le idee all’elettorato americano. Per i liberali duri e puri, orfani di Ronald Reagan e a cui di questi tempi non dispiacerebbe neppure la terza via di Bill Clinton, la decisione è ancora più complicata. Visto dall’Italia, poi, dove la rappresentanza politica liberale è quanto mai frastagliata (per non dire eterea), quel confronto americano può causare invidie ma anche fornire spunti ideali per un domani possibilmente più radioso. Parla Alesina: “Trump sta depurando il Partito repubblicano dalle infiltrazioni liberal” Uberizzare il pil. Un’idea (renziana). Abbiamo chiesto ad alcuni opinionisti italiani di rifletterci su. Meglio Hillary o The Donald? “Penso che Trump non sia adatto a fare il presidente degli Stati Uniti, ha idee protezionistiche pericolose, non ha mai espresso politiche credibili, ma solo slogan populisti – dice Alberto Alesina, economista a Harvard e visiting professor alla Bocconi – Dall’altro lato la Clinton continuerà a fare ciò che è stato fatto finora, anzi, propone di aumentare le tasse e la spesa pubblica. Se vince non sarebbe una catastrofe immediata, ma non farà molto per risolvere i due grandi problemi del paese: un debito pubblico enorme e il rallentamento della crescita”. Alesina, che in passato ha appoggiato Mitt Romney contro Barack Obama, dice che questa volta “manca un candidato liberal sui diritti civili ma conservatore e pro market in economia, a causa della crisi del Partito repubblicano”. E’ più o meno lo stesso scenario che si trova di fronte l’elettorato italiano? “In Italia, per un liberale l’unico sbocco è attualmente nell’area centrista della sinistra, un po’ come accade negli Stati Uniti, dato che i repubblicani sono nelle mani di estremisti religiosi e populisti”. Di fronte all’alternativa Trump-Clinton, Alessandro De Nicola, presidente dell’Adam Smith Society, preferisce il candidato libertario: “Se fossi americano voterei per Gary Johnson. E’ un candidato leggerino e un po’ matto ma bisogna evitare l’elezione di Trump, sarebbe la rovina degli Stati Uniti e un grave colpo alla stabilità mondiale”. Perché non votare per Hillary allora? “La Clinton è un Nixon in gonnella con politiche più deleterie di Nixon, ma è un male rimediabile. Spero che venga eletta con un mandato debole, così che il paese rinsavisca e tra quattro anni non riproponga i candidati peggiori di sempre”. Per un liberale è la stessa crisi di coscienza che si presenta in Italia? “Renzi, con tutti i suoi difetti, è meno peggio della Clinton: mentre la prima sposta l’asse dei democratici verso sinistra, lui sposta il partito lievemente verso l’area liberale e centrista. In un ballottaggio con Grillo o Salvini non avrei dubbi: voterei per Renzi”. Piero Ostellino, editorialista del Giornale, si è fatto un’altra idea. “Trump viene delegittimato perché populista, ma la sua immagine è distorta da una stampa schierata con la Clinton. Trump in realtà rappresenta una posizione diffusa nel mondo occidentale, su temi che riguardano la gente comune”. Il magnate americano quindi incarna una frattura reale tra popolo e élite che viene oscurata dai media: “Le élite sono tutte con la Clinton, mentre Trump nella sua rozzezza rappresenta l’opinione pubblica americana meglio di un prodotto artificiale della cultura di sinistra, che è tanto vicina agli intellettuali quanto lontana dall’uomo comune”. Per l’ex direttore del Corriere della Sera non ci sarà l’Apocalisse se dovesse vincere il candidato repubblicano: “Perché non c’è stata una mutazione genetica dell’elettorato, gli americani sono gli stessi e l’America resterebbe la guida dell’occidente”. Anche per Giovanni Orsina, storico all’Università Luiss, l’irruzione di The Donald è il segnale di sommovimenti più profondi: “Il confronto Trump-Clinton è una riproduzione perfetta del conflitto che stanno vivendo tutte le democrazie. E’ in corso una ribellione delle masse contro un establishment che non è più capace di dire nulla sull’attualità e sul futuro. L’élite deve guidare e dirigere, ma qui non dirige più nessuno. Anche il Santo padre dice “Chi sono io per giudicare?”. Si vede il giudicare come un’accusa a qualcuno, ma il giudizio deriva da un senso del bene e del male”. E mentre nessuno giudica, Trump fa una campagna elettorale tutta basata su giudizi netti. “Trump dice che i valori americani devono essere salvaguardati dagli immigrati, c’è il bene e il male. Ortega y Gasset nel 1930 descriveva a cosa avrebbe portato la crisi delle élite: ‘Fra poco si udrà un grido in tutto il pianeta, come l’ululato di innumerevoli mastini, fino alle stelle, chiedendo qualcuno che comandi’”. Insomma, il fenomeno Trump non è passeggero. “Se milioni di persone votano per qualcuno non è uno scherzo. Trump affronta problemi seri con una ricetta seria: l’America first, la chiusura. Da liberali possiamo dire che non è la ricetta giusta, ma dobbiamo cercare di capire per quale motivo il partito di Reagan è finito in mano a lui”.

Perchè i media di tutto il mondo parteggiano per la Hillary Clinton?

Clinton confessa nelle mail rubate: “Aiuto le banche a crescere”, scrive “Azione Tradizionale” il 12 ottobre 2016. Se ti stavi chiedendo perchè i media italiani stiano spingendo la Clinton e infangando Trump come se gli italiani avessero diritto di votare alle presidenziali americane, ecco la risposta che cercavi. Perchè Hillary è legata a doppio filo con banche e finanza. La prova? Lo dice lei stessa nelle e-mail trafugate. Il peggior nemico di Hillary Clinton è la posta elettronica. Dopo lo scandalo del server privato usato per la corrispondenza al dipartimento di Stato e i messaggi per mettere fuori gioco Bernie Sanders da parte del Dnc, è ora la volta delle email trafugate da Wikileaks a John Podesta, capo della campagna della candidata democratica, per un totale di 2060 messaggi e 170 mila allegati. Email che conformano la «distanza» tra la candidata democratica e la gente comune, ovvero gli elettori. Lo dice lei stessa durante una serie di simposi di Goldman Sachs, Morgan Stanley, Deutsche Bank e grandi Corporation Usa, per i quali la signora Clinton era pagata 225 mila dollari l’uno, per un totale di 22 milioni di dollari intascati dalla fine della sua direzione a Foggy Bottom. «Clinton ha ammesso di aver perso il contatto con la realtà», scrive Tony Carrk, direttore delle ricerche della campagna Dem a Podesta. «Sono ben lontana dai sacrifici della classe media per la vita e l’agio in cui sono vissuta, capite, per la fortuna che mio marito ed io ci godiamo», ammette Hillary ad un evento di Goldman Sachs del 4 febbraio 2014. A un altro simposio di Goldman Sachs del 24 ottobre 2013, Hillary dice che il fatto di considerare le banche Usa responsabili della crisi finanziaria del 2007 era una convenienza politica. Quasi a voler chiedere scusa alle «vecchie signore» di Wall Street per le critiche ricevute. L’indomani, allo stesso simposio, e qualche giorno prima davanti ai vertici di Deutsche Bank, Clinton spiega invece che dovrebbero essere proprio le banche le autrici della riforma finanziaria perché «solo Wall Street sa cosa fare per mettere a posto Wall Street». Mentre alcuni mesi dopo si professa strenua sostenitrice del Keystone, il controverso oleodotto, e a favore dei grandi accordi di libero scambio. Non mancano gli ammiccamenti: «Clinton ammette di avere bisogno dei soldi di Wall Street», scrive Podesta. «Sapete – spiega la futura candidata a un convegno di General Electric del 6 gennaio 2014 a Boca Raton, in Florida – sarebbe difficile correre per la presidenza senza una enorme quantità di denaro». E a chiosa «ricorda le note relazioni con Wall Street di quando era senatrice», scrive Podesta. «Ho rappresentato e lavorato con molti a Wall Street – afferma Hillary ai banchieri –. E ho fatto tutto quello che ho potuto per fare in modo che continuassero a prosperare». Affermazioni distanti da quelle pronunciate per catturare i voti del popolo dell’ex rivale socialdemocratico Bernie Sanders. O per conquistare la collega Elizabeth Warren, lo sceriffo di Wall Street, che dandole il suo sostegno parlò di Hillary come il presidente che si opporrà agli accordi di libero scambio, si batterà contro le lobby di Capitol Hill e metterà in riga banche e grande finanza. 

Clinton, Isis e sauditi: una rivelazione clamorosa, scrive Giampaolo Rossi su “Il Giornale” il 12 ottobre 2016. “I governi di Qatar e Arabia Saudita stanno fornendo supporto finanziario e logistico clandestino all’Isis e ad altri gruppi sunniti radicali nella regione”. A scriverlo è Hillary Clinton in una mail indirizzata nell’agosto del 2014 a John Podesta (da sempre uno dei più stretti collaboratori della famiglia Clinton ed oggi a capo della sua campagna elettorale). La mail, rilasciata da Wikileaks, è clamorosa. Se l’America fosse ancora una democrazia sana e non sottomessa ad un’élite tecnocratica e finanziaria che pilota crisi internazionali e guerre umanitarie (di cui la Clinton è la rappresentante), lo scandalo di questa mail costringerebbe la candidata Presidente al ritiro. Il motivo è evidente: nonostante fosse a conoscenza dell’appoggio che i regimi del Golfo alleati degli Usa danno all’Isis, la Clinton ha continuato ad accettare milioni di dollari di finanziamento per la sua Fondazione proprio da questi regimi che lei stessa riconosce essere sponsor del terrorismo islamista. Dell’imbarazzante finanziamento saudita alla signora abbiamo ampiamente parlato in questo articolo dell’agosto scorso che invito a rileggere per sopperire alle “distrazioni” del mainstream democratico. In altre parole: la candidata alla Presidenza degli Stati Uniti riceve enormi quantità di denaro da “stati canaglia” che lei stessa sa essere fiancheggiatori del terrorismo e ispiratori di coloro che poi in Usa e in Europa uccidono cittadini americani ed europei. Basterebbe questo per capire l’ipocrisia che alimenta la retorica occidentale della “lotta al terrorismo” e della difesa delle democrazie dal pericolo di coloro che le vogliono distruggere. Difficile difendersi quando sei sul libro paga dall’amico del tuo nemico; e l’eventualità che su questo libro paga ci possa essere un futuro Presidente degli Stati Uniti rende oscuro il futuro dell’America. In questa campagna elettorale per le Presidenziali, Trump, il rivale della Clinton, è stato ripetutamente attaccato per il suo atteggiamento non ostile nei confronti della Russia di Putin; è stato dipinto come una sorta di Manchurian Candidate manipolabile da potenze straniere. Nell’ultimo dibattito televisivo, la Clinton è arrivata ad affermare: “non è mai successo prima che un avversario(Putin) si adoperasse così tanto per influenzare il risultato delle elezioni”. Ma Putin non finanzia la campagna elettorale di Trump; e la Russia è impegnata a combattere l’Isis e il terrorismo islamista sia in Siria che in Asia centrale. Al contrario, i sauditi amici della Clinton finanziano la sua Fondazione di famiglia con la stessa mano con cui finanziano l’Isis, Al Qaeda e diffondono l’integralismo islamico in Europa. Questo cinismo, questa spregiudicatezza nell’uso di un potere senza regole, nella manipolazione dei media sui quali non troverete queste notizia, sommati ad una visione (da lei incarnata quando è stata Segretario di Stato) del ruolo degli Stati Uniti come gendarmi del mondo ed autorizzati a scatenare guerre umanitarie dietro pretesti inventati (come nel caso della Libia), ad orchestrare crisi nazionali e “colpi di Stato democratici” (come nel caso dell’Ucraina), rendono la Clinton un pericolo reale per l’America e per il mondo. Nel suo appello agli elettori, la Clinton ha ammonito con tono profetico: “io sono l’ultima cosa tra voi e l’Apocalisse”. Sarà, ma per ora lei è la prima cosa tra i tiranni sauditi e i tagliagole dell’Isis; questo dovrebbe preoccupare l’America.

La cronaca raccontata dai media è diversa dalla realtà.

TRUMP HA VINTO? “DI BRUTTO”. Scrive Maurizio Blondet l'11 ottobre 2016. (Dialogo via Whatsapp con un amico di Washington dopo il faccia a faccia Trump-Hillary).

Io: Trump ha vinto?

Lui: Di brutto. L’ha fatta nera. (Pausa) Non capisco perché al primo dibattito ha fatto il cretino.

Io: vado ad accendere un cero…Per la gente è andata così.

Lui: O era minacciato o gli hanno fatto fare le strategia sbagliata. Di fare il gentile e rompere l’immagine di duro. Lo avevano snaturato. GROSSO errore. Ora ristabilirà la sua egemonia politica e morale. Tutti i punti deboli di Hitlary dovranno essere colpiti senza remissione.

Io: che intendi?

Lui: Hitlary ha fatto l’attacco subdolo attraverso i suoi agenti sui media sul video del 2005 [quello dove Trump dice cosacce sulle donne, tipo che dai ricchi si lasciano fare di tutto…]

Io: Capirai, col Bill che si ritrova – era meglio se non toccava l’argomento.

Lui: “Ora Trump può attaccare sullo stesso terreno e nessuno potrà accusarlo di bullismo.

Io: Palate di sesso…Bill Clinton violentatore…è opportuno scendere così in basso?

Lui: Per i consigliori di Hitler e i media Trump è debole, è finito, ha perso, è in imbarazzo...

Io: stessa cosa sui media italiani. Per CNN, è andata così.

Lui: Quindi un under dog: in un certo senso, un’ottima posizione per Trump per scatenarsi.

Io: anche qui i media riconoscono che “Trump ha fatto un po’ meno peggio dell’altra volta”, anche se aggiungono: ma la Clinton ha stravinto.

Lui: è incredibile come la stampa sta perdendo ogni credibilità.

Io: Dici?

Lui: Ormai è una guerra tra la popolazione e la stampa di regime. La popolazione resiste quasi in segreto.

Io: come, resiste?

Lui: “Non lo posso dire in pubblico. Non mi far parlare. Ma io vado a votare e la fotto, lui, il marito e tutta questa razza impunita”: idea di quel che pensa l’americano medio non cultural-chic.

Io: E’ la stessa cosa che ha detto Michael Moore: la gente ha adottato Trump come una “molotov umana da lanciare in faccia all’Establishment. La gente s’è innamorata dell’idea di far saltare il sistema.”. (Anche Pat Buchanan e Angelo Codevilla, senatore ed uomo dei servizi, evocano un clima “rivoluzionario” nel pubblico americano. Quando Donald ha detto a Hillary “Dovresti essere in prigione”, il pubblico ha festeggiato rumorosamente). Ciò non significa che Trump vincerà le elezioni.  Se il pubblico non voterà bene, soccorreranno i brogli elettorali. Come mostra la mappa, Sedici stati, dove abita il 38 per cento della popolazione, non chiedono alcun documento di identità a chi si presenta al voto; in altri dove abita il 16% dei cittadini, si può esibire un documento senza foto. Così si vota nella Nazione che dà lezioni di democrazia al mondo.

La macchina del fango contro Donald Trump. Scrive Massimo Mazzucco il 15 Maggio 2016. Provate ad immaginare se i tre più importanti quotidiani italiani - Corriere, Stampa e Repubblica -decidessero tutti insieme di scatenare una campagna mediatica di discredito contro un singolo personaggio politico: persino i morti si accorgerebbero che c'è qualcosa di poco "giornalistico" in un'operazione del genere. Ebbene, è proprio quello che sta succedendo negli Stati Uniti in questi giorni: i tre più importanti quotidiani americani, e cioè il New York Times, il Washington Post e il Los Angeles Times, hanno deciso di sparare ad alzo zero contro Donald Trump. Già da tempo il Los Angeles Times usciva con articoli apertamente denigratori contro il magnate americano, definendolo ripetutamente un ciarlatano, un buffone senza credibilità, oppure addirittura una star da soap-opera. Adesso si sono aggiunti il New York Times e il Washington Post, che in un'azione chiaramente concertata stanno cercando di distruggere la credibilità dell'uomo che nell'arco di pochi mesi ha completamente stravolto le regole delle elezioni presidenziali. Il Washington post ha pubblicato un paginone nel quale raccoglie tutte le presunte bugie e false affermazioni pronunciate da Trump negli ultimi mesi. Naturalmente, pur di aumentare il volume delle presunte "bugie", il Washington Post non si fa scrupoli nell'elencare anche delle semplici opinioni di Donald Trump, che fa passare come "falsità" solo perché non sono supportate dai fatti ("unsupported claim"). Il New York Times è andato addirittura oltre, mettendo insieme una squadra di 20 giornalisti che sono stati incaricati di scavare nel passato di Trump, pur di far saltare fuori qualcosa di spiacevole sul suo conto. Ne è uscita una lista con dozzine di donne che sostengono di aver avuto con Trump un rapporto "ambiguo", dove lui le avrebbe "usate" e contemporaneamente "denigrate" per il solo fatto di essere donne.

Naturalmente, a nessuno del New York Times è venuto in mente che in certi casi possa essere la donna stessa a cercare questi rapporti "ambigui", per ottenerne un chiaro vantaggio personale. Si chiama dare per avere. Berlusconi docet. Insomma, lo sbilanciamento contro Trump da parte delle testate più importanti è talmente evidente che porta a fare una riflessione: come mai in media di sistema temono così tanto un personaggio come Trump? Lo detestano semplicemente perchè è razzista e maschilista, o c'è sotto qualcosa di ben più grosso? (Di certo una presidenza Trump metterebbe un grosso freno alla politica imperialista espansionistica di USA e Israele in Medio Oriente, tanto per dirne una). Ma la cosa più divertente è che i direttori di tutte queste testate si sono dimenticati di una cosa fondamentale: chi vota Donald Trump non legge certo né il Los Angeles Times, né il New York Times o il Washington Post. All'elettore razzista e xenofobo dell'Alabama non può fregar di meno di come Trump tratti le donne, e gliene frega ancor di meno del fatto che racconti bugie, visto che queste bugie coincidono regolarmente con quello che l'elettore repubblicano vuole sentirsi raccontare. Abbiamo quindi una totale spaccatura, sia a livello mediatico che a livello popolare, fra l' "intellighenzia" americana (localizzata sulle coste dell'Atlantico e del Pacifico) e il cuore profondo degli Stati Uniti, localizzato nel grande Mid-West, che ancora batte per veder sventolare in cima al Campidoglio la bandiera dei confederati. In America la Guerra Civile non è ancora finita. Quella di novembre sarà certamente una elezione che va ben oltre la semplice scelta fra un candidato democratico e uno repubblicano.

Tutta la stampa al servizio di Hillary: ecco le prove, scrive Marcello Foa il 13 ottobre 2016 su “Il Giornale”. Comunque finisca il duello Trump-Clinton, c’è sicuramente un grande sconfitto: la stampa americana. La pubblicazione delle email di John Podesta, il responsabile della campagna elettorale di Hillary, sta rivelando un quadro che definire sconcertante è riduttivo. Per decenni qualunque giornalista occidentale si è avvicinato alla professione con il mito del Watergate, la straordinaria inchiesta giornalistica del Washington Post che costrinse il presidente Nixon alle dimissioni. Un giornale che fa cadere il capo della Casa Bianca, che storia! E, in genere, che forza i media a stelle e strisce! Chi non conosce il Premio Pulitzer? Chi non ha visto i tanti film di Hollywood che magnificano l’indipendenza e la rettitudine dei reporter? E invece…Lo scoop di Wikileaks fa emergere una realtà ben diversa. Ad esempio la firma del New York Times Nick Kristoff che anticipa a Bill Clinton le domande di un’intervista o la cronista del Washington Post che scrive un pezzo sui lobbisti nella capitale e, prima della pubblicazione, fa sapere a un preoccupatissimo Podesta che “è citato solo in una riga in mezzo al pezzo”. E che dire del responsabile della pagina dei commenti del Boston Globe, Marjorie Pritchard, che la scorsa primavera si prodigava a dare consigli “per massimizzare la presenza di Hillary durante le primarie”? Di nuovo la Signora in grigio, come viene chiamato il New York Times, appare in un messaggio che riguarda il reporter Mark Leibovich, il quale ottiene un’intervista con la Clinton in cambio… di un diritto di veto sulle sue dichiarazioni prima della pubblicazione. Un volto notissimo, il conduttore televisivo della rete televisiva Cnbc John Harwood (nonché editorialista del New York Times) in un’email a Podesta svela che sta “scrivendo un pezzo come vuole Hillary” e in un’altra gli consiglia di “fare attenzione al candidato repubblicano Ben Carson”. E’ lo stesso Harwood che ha moderato, naturalmente come giornalista indipendente, un dibattito televisivo durante le primarie, durante il quale provocò Trump definendolo “una versione da fumetto della campagna presidenziale”. Dimenticavo: la Cnn è sospettata di aver passato in anteprima al presidente del partito democratico alcune domande del pubblico, mentre qualche settimana fa il sito The Daily Beast ha rivelato che la Clinton organizzò il 10 aprile 2015 un cocktail off-the-record, ovvero riservato, con 37 giornalisti di 14 testate quali BC, Bloomberg, CBS, CNN, Daily Beast, Huffington Post, MSNBC, NBC, New Yorker, New York Times, People, Politico, Vice, and Vox. Lo scopo? Preparare i media all’annuncio formale della candidatura. E, ancora una volta, il New York Times brilla nei cuori della campagna elettorale di Hillary, che passa “storie preparate” alla reporter Maggie Haberman, la quale “non ha mai deluso”. Cosa dicevamo? Ah sì che c’era una volta la stampa americana, quella stampa che un osservatore autorevole e coraggioso come Paul Craig Roberts da tempo sferza con il neologismo di “Presstitute” da press (stampa) e prostitute, parola che non necessita traduzione. Una esagerazione, certo; ma con un fondo di verità sapendo che il 70% degli americani dichiara di non aver più fiducia nelle grandi testate tradizionali. Le trova poco credibili.

Bombe di New York, media italiani preoccupati… da Trump, scrive Giorgio Nigra su Il Primato Nazionale il 19 settembre 2016. Esplodono una bomba a New York e torna la paura. Del terrorismo? No, di Donald Trump. A sentire i giornali italiani, il principale effetto negativo di quello che sembrerebbe a tutti gli effetti un attentato sarebbe dato dal possibile effetto di tale attacco sul consenso riscosso dal candidato repubblicano. Il picco del teatro dell’assurdo è rappresentato dal pezzo di Repubblica, che immagina una sorta di sdegno civile generalizzato degli abitanti di Chelsea – quartiere benestante e, viene sottolineato, a forte presenza gay – contro Trump. Ecco quindi che vengono intervistati borghesi alle prese con lo jogging, che pure trovano il tempo di inveire contro il politico conservatore: “Donald Trump farebbe meglio a non utilizzare le bombe di New York per farsi campagna elettorale. Non vincerà facendo paura alla gente. Può cavalcare l’onda emotiva oggi, ma a novembre gli elettori penseranno solo a cose concrete. E lui, finora, non ne ha detta nessuna”, dice a Repubblica un passante diretto in sinagoga. “Trump ha detto delle cose scontate: proprio quelle che ci si aspetterebbe da lui. Ma tanto chi lo sta a sentire?”, aggiunge un’altra tizia, tale Tonia. E alla fine anche l’inviato del giornale di De Benedetti è costretto a chiosare che in realtà è “quasi mezza America” quella che sta a sentire il candidato della destra. Segue commentino video svogliato di Federico Rampini. Anche l’inviato del Corriere della Sera non può esimersi dal raccontare di come “Donald Trump ha parlato delle bombe di New York ancor prima della polizia e ha subito cavalcato l’allarme provocato dal nuovo attacco”, aggiungendo che la sua sortita “tocca corde emotive che anche stavolta potrebbero rendere il suo messaggio più efficace di quello della candidata democratica”. E, par di capire, il vero dramma del terrorismo è questo. Riotta, sulla Stampa, spiega che “Trump è stato invece lesto a cercare consensi nella paura, mentre Clinton, come ormai sembra fare da troppo tempo, s’è limitata a una dichiarazione di maniera, chiedendo chiarezza e prudenza”. Curiosa analisi, che stigmatizza chiaramente l’atteggiamento dell’uno per poi quasi rimproverare all’altra di non fare altrettanto. Titolo de La Stampa? “La violenza irrompe sulle elezioni, così Trump cavalca rabbia e paura”. Corriere: “Ora Trump cavalca le paure”. Rampini su Repubblica: “Trump cavalca la paura, Clinton prudente”. È appena andato in onda il giornale unico del potere.

Secondo i nostri media la Clinton ha vinto il dibattito con Trump...COL CAZZO! Scrive Gianni Fraschetti su “Informare” il 27 Settembre 2016. In tutti i media (Rai, Mediaset, Sky e La7, più tutti i quotidiani) troviamo che Hillary Clinton" secondo i sondaggi" avrebbe "vinto" il dibattito di stanotte contro Donald Trump. Non che le balle dei media italiani contino nulla, ma è utile sapere per capire quanto i media ci disinformino. Tutti questi media propinano, per avvalorare la loro tesi, il "sondaggio" della CNN. Intanto quello della CNN non è un sondaggio, ma è l'opinione dei lettori online che hanno votato (che sappiamo tutti non avere valore statistico), ma poi va ricordato che la CNN è il canale di sinistra americano e nessuno che non sia un democratico clintoniano convinto segue la CNN (come RAI 3 in Italia). Tant'è che i sondaggi della FOX, della CNBC e di quasi tutte le altre TV e testate dicono l'esatto contrario. CIOE' che TRUMP ha vinto il dibattito... Non per niente siamo in fondo alla classifica della libertà di stampa. Servi, venduti, spacciatori di falsità

Il trionfo tv della Clinton su Trump (che non c’è stato), scrive Giuliano Guzzo il 28 settembre 2016. Ieri mattina l’Italia intera si è svegliata con una notizia – quella della vittoria, nel primo duello tv Clinton-Trump, di Hillary – che i principali media italiani, con titoli sprizzanti entusiasmo, hanno presentato quale verità indubitabile, quasi un dogma. Ebbene, a prescindere da come la si pensi sulle elezioni presidenziali, quei titoloni erano, molto semplicemente, falsi. Non perché la signora Clinton abbia in realtà fatto figuracce o abbia perso il match, che invece ha affrontato in modo brillante, ma perché l’esito del confronto televisivo è stato diverso dal tonfo di Trump, somigliando invece ad un pareggio. Di «sostanziale pareggio» ha difatti parlato, per esempio, Federico Rampini di Repubblica, valido giornalista ma tutto fuorché un simpatizzante del candidato repubblicano, e lo stesso New York Times, smaccatamente e da alcune ore dichiaratamente pro-Hillary, ha offerto un resoconto tutto sommato bilanciato dell’attesissimo duello tv. Non solo: nelle ore successive, quando secondo molti giornalisti italiani Donald Trump sarebbe dovuto essere tra la disperazione e il pianto, sono stati diffusi sondaggi di provenienza non secondaria – Time, CNBC, Fortune solo per fare tre nomi – e dall’esito opposto: una vittoria del magnate repubblicano. Proprio così: secondo molti americani, anche se non secondo tutti, ovvio, a spuntarla nel dibattito da noi presentato come la sua Caporetto, è stato lui, l’Impresentabile. Ora, che significa tutto ciò? Che Trump sarà il nuovo Presidente Usa? No. E nessuno, tanto meno il sottoscritto, osa avventurarsi in pronostici simili. Tuttavia un paio di considerazioni è comunque possibile svolgerle. La prima: esiste uno spaventoso servilismo dei media italiani al Pensiero Unico. Sai che scoperta, potrebbe ribattere qualcuno; in effetti non è certo uno scoop. Che però i nostri Corriere e Repubblica tendano a deformare la realtà in chiave pro-Hillary più degli stessi giornali americani che la sostengono, è significativo e preoccupante al tempo stesso. Soprattutto considerando che stiamo parlando degli stessi giornali che, da qui al 4 dicembre prossimo, data del referendum costituzionale nonché appuntamento-chiave del Governo Renzi, dovrebbero fornire un’informazione equilibrata. Se il buongiorno si vede dal mattino, e se pensiamo che gli Usa sono assai favorevoli alla riforma Boschi-Verdini, stiamo freschi. Una seconda considerazione credo utile, tornando alle elezioni Usa, è questa: Hillary non entusiasma (quasi) nessuno, incluse fette importanti sia dell’elettorato progressista sia dei suoi simpatizzanti più celebri, da Susan Sarandon, («Molto pericolosa, è un’interventista accanita che non ha imparato nulla dall’Iraq. E’ una donna che ha commesso cose orribili») a Michael Moore («Accettiamo la realtà dei fatti: il nostro problema principale non è Trump, è Hillary […] quasi il 70% degli elettori pensa che sia disonesta e inaffidabile. Rappresentante della vecchia politica, che non crede a niente se non a farsi eleggere»). Certo, la signora Clinton piace ai Bush, specie a George H.W. Bush, ma non sono sicuro sia una bella cosa. Eppure da noi già la incensano come una dea; figurarsi se Hillary venisse eletta veramente: avremmo conduttori televisivi, editorialisti ed opinionisti delle principali testate in estasi permanente, i suoi interventi sarebbero presentati come apparizioni miracolose, con tanto di musichette strappalacrime, e le sue parole come Vangelo 2.0. E poco importa che si stia parlando di una donna in politica da una vita – una specie di Mastella d’Oltreoceano -, guerrafondaia, abortista e con un passato costellato da episodi inquietanti (significativo, in tal senso, il video in cui sghignazza della sorte toccata a Gheddafi, linciato da una folla di barbari): l’imperativo dei pennivendoli tricolore è parlarne bene, a prescindere. Fortuna che si tratta degli stessi cervelloni che, anni fa, s’interrogavano ironicamente sull’esistenza degli elettori di Berlusconi, prima che le loro sciocchezze fossero travolte alle urne. La professionalità, evidentemente, è la stessa. Giuliano Guzzo

La censura della stampa italiana su Trump. In Italia diverse testate giornalistiche applicano la censura sul candidato repubblicano. Nonostante ciò, Donald Trump anticipa problematiche di frattura sociale di cui l’Italia è parte. In qualità di free lance invio in Italia un pezzo sulle elezioni presidenziali 2016. Il Redattore capo risponde esprimendo delle sue preferenze politiche, scrive Giovanni Carlini.

L’ARTICOLO PROPOSTO SCARTATO PER ASPETTI POLITICI: Elezioni presidenziali americane: cosa sta accadendo. By Giovanni Carlini.

"Ad agosto inoltrato è possibile iniziare a proiettarsi su novembre 2016 all’atto delle elezioni presidenziali. Nonostante i candidati siano 2, in realtà ci sono 3 anime politiche. La prima è quella più aggressiva, riconducibile a Donald Trump. Segue la più conservatrice del partito democratico. Infine la posizione di Bernie Sanders. E’ saggio anticipare come: Donal Trump sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti. Sarà Presidente, Trump perchè è stato capace di dare un volto al bisogno di frattura. Rompere con la globalizzazione che si è rivelata un male. Frantumare con una pubblica amministrazione anonima. Porre a nudo i problemi razziali esistenti. Il punto debole di Trump non è nella sua capacità di far emergere i problemi, quanto risolverli! Putroppo Sanders, un uomo molto genuino, pur restando nel cuore degli americani è un socialista. Essere socialista nelle elezioni presidenziali americane è un male. Significa, ad esempio, offrire un salario statale ai disoccupati anzichè un lavoro. Una posizione del genere potrebbe anche essere condivisa in Europa non in America. Tornando alla posizione di Trump e della Signora Clinton, purtroppo entrambe sono nebulose. Vuol dire che in questa elezione NON CI SONO PROGRAMMI. Quali sono le rispettive idee sulla scuola, la sanità, difesa, politica estera? Non è dato sapersi. Solo nei dibattiti potrà emergere qualcosa. Questo è sempre accaduto nella storia americana. Lo stesso Presidente Obama si è limitato al “yes we can” privo di contenuti. Non è quindi una novità che si eleggano dei personaggi sull’onda emotiva, senza progetti politici definiti. Una proiezione così personalizzata sulle elezioni è simbolo di superficialità? In effetti si. Tant’è vero che di 8 anni d’amministrazione Obama non resta nulla. Cosa ha fatto il Presidente Obama per gli Stati Uniti? Nessuno lo sa. Certo si parla dell’Obama-care come di una riforma incompiuta. Tutto qui? Ecco i frutti di un’elezione basata sull’effetto emotivo e mediatico. Lo stesso che ora spinge Donald Trump alla Presidenza. Sarà Trump un altro buco nell’acqua come Obama? Ovviamente non è dato sapersi, soprattutto in assenza di un programma politico. Intanto, ad esempio, la California resta senza acqua. Certamente, dicono tutti è un problema della California non della Nazione. Ragionando in questo modo anche le sparatorie contro e dalla polizia sono un limitato fatto razziale. Nel futuro degli Stati Uniti al momento c’è Trump. Il resto è tutto da discutere. Si spera che l’effetto mediatico di un’altra elezione non ripeta gli errori degli ultimi 8 anni".

QUELLO CHE RISPONDE IL REDATTORE CAPO: "Buongiorno carissimo. Come stai? Scusa se rispondo solo ora ma sono partito il 29 luglio per stare un po’ di tempo con i miei e ho proprio staccato nelle ultime due settimane. Ho letto il tuo articolo che purtroppo non posso pubblicare perché mi pare una presa di posizione troppo netta nei confronti di un candidato che personalmente mi inorridisce e che ogni giorno viene abbandonato anche dai suoi più stretti collaboratori. Pur con tutte le sue magagne (ma chi non le ha ormai in politica?) io direi Clinton tutta la vita".

LA RISPOSTA AL REDATTORE: "Il mio ruolo non è quello di stare nel coro ma studiare gli eventi e anticiparne lo sviluppo. Così è stato per la Brexit (occasione perduta per la tua testata se avesse pubblicato i miei studi) e così sarà ancora per Donald Trump. Trump e la Clinton sono 2 cretini. Tu scegli la cretina o il cretino? C’è un movimento che preferisce “votare la pizza”. Di fatto tra 2 cretini, vincerà quello che farà più spettacolo e indovina chi sarà il giocoliere più audace che entrerà alla Casa Bianca? A te la scelta (non perdere anche questa seconda opportunità), Giovanni."

CONCLUSIONI: Ecco applicata la censura. L’Italia non riesce a capire il fenomeno Trump e quindi a fare autocritica. Peccato. Esploderanno i problemi senza far tesoro dell’esperienza altrui.

Il Paraculismo ed il leccaculismo vien da lontano...

E L' ITALIA TIFA CLINTON...E' L' UOMO GIUSTO, scrive Sebastiano Messina l'1 novembre 1992 su “La Repubblica”. Siamo tutti clintoniani. Se dipendesse dagli italiani, Bill Clinton stravincerebbe. Democristiani e pidiessini, leader di partito e referendari, industriali e ambientalisti, direttori di Tg e show-men, uomini Rai e uomini Fininvest, registi e attori: la netta maggioranza sceglierebbe martedì il candidato democratico alla Casa Bianca. Repubblica ha chiesto a venti di loro per quale dei tre candidati voterebbero, se fossero cittadini americani. Ebbene, tre vip su quattro sono dalla parte di Clinton, anche se a favore di Bush c' è uno schieramento trasversale che va dall' eterno Giulio Andreotti alla biondissima Lorella Cuccarini. Gianni Agnelli, in questi giorni a New York, preferisce non schierarsi né con l'uno né con l'altro. Risponde con una battuta: "Non sono americano, quindi non posso votare. Anzi, come non-americano non posso neanche diventare presidente degli Stati Uniti...". Il suo pronostico tuttavia è per i democratici: "Sì, credo che vincerà Clinton, nonostante la rimonta di Bush". Anche Carlo De Benedetti prevede un trionfo democratico. Perchè? "Perché dopo il fallimento economico della politica reaganiana, in un mondo che negli ultimi tre anni è completamente cambiato nelle sue speranze e nelle sue minacce, in un mondo che non ha vincitori ma al momento ha soprattutto perdenti, occorre comunque un cambiamento prima di tutto generazionale, ma anche di freschezza di approccio a problemi nuovi. E poiché l'America è la più grande democrazia del mondo, la più giovane, la più interrazziale sarà comunque dall' America che deve venire il segno del cambiamento. Auguriamoci che questo cambiamento tenga conto della più antica delle aspirazioni: benessere nell' equità". Se gli imprenditori preferiscono restare neutrali, il capogruppo verde a Montecitorio Francesco Rutelli è schieratissimo: "Voterei Clinton per il cambiamento, ma anche per la fortissima componente ambientalista del ticket Clinton-Gore: grazie ad Al Gore, che ha posizioni molto vicine a quelle dei verdi. Bush invece sull' ecologia ha un approccio vecchio, reaganiano: sostiene che il problema lo risolve da sé il mercato. E questo è falso". "Io voterei per George Bush, senza la minima esitazione" risponde Giulio Andreotti. "Ho seguito da vicino il suo quadriennio e penso che l'America debba essergli grata per ciò che ha fatto". Il pidiessino Walter Veltroni, direttore dell'Unità, contesta anche questa scelta di Giulio l'Inossidabile: "Io sono un clintoniano della prima ora. Quando andai alla convention democratica di New York, nessuno scommetteva su di lui. E io scrissi: per la prima volta in dodici anni un candidato democratico può farcela". Vittorio Sgarbi non conosce i programmi dei tre candidati, ma si fida del suo istinto: "Uno degli elementi più attendibili per giudicare un uomo è la sua faccia. E la faccia di Bush è segnata bene. Quella di Clinton mi sembra uscita da una puntata di Dallas. Dunque voterei Bush". Guardiamo in casa dc: cosa dicono Mino Martinazzoli e Mario Segni? Il leader dei referendum risponde di getto: "Se fossi un cittadino americano voterei per Clinton. Perché credo nei benefici dell'alternanza, e dopo dodici anni di presidenti repubblicani non mi meraviglio che gli americani siano stufi". Il segretario del partito, invece, si mantiene più in equilibrio: "Da lontano sarebbe presuntuoso dare giudizi sull' uno o sull' altro. Certo Bush è stato protagonista di cambiamenti epocali, ma Clinton interpreta il desiderio di traguardi diversi, e questo fa prevedere un cambiamento". Abbandoniamo le diplomazie dei politici e passiamo ai re dell'audience. Maurizio Costanzo è un clintoniano: "Bush mi sembra molto attento ai problemi internazionali e poco a quelli interni: non sarà facile far dimenticare agli americani le immagini della rivolta di Los Angeles". Stavolta il solco non passa tra la Rai e Berlusconi, visto che anche Corrado Augias giudica "una scelta obbligata" quella per Clinton. "Noi italiani di un certo tipo siamo sempre stati per i democratici. Per una simpatia genetica, più che altro, perché poi l'atteggiamento americano nei nostri confronti non cambia granché, tra democratici e repubblicani. Ricordo che quando Carter salì alla Casa Bianca, nel ' 76, io andai a intervistarlo sull' eurocomunismo, aspettandomi un segnale di interesse. E invece lui mi rispose, durissimo: la parola comunismo sbarra ogni strada". Clintoniano è pure Pippo Baudo, la star di RaiUno: "La stella di Bush è cadente, dopo la guerra del Golfo. Io un tentativo di cambiamento con Clinton lo farei". Che dicono i direttori dei Tg, quelli che filtrano per noi le notizie del giorno? Tre su quattro tifano per i democratici. Bruno Vespa (Tg1) è il più cauto: "Istintivamente direi Clinton. Però non credo che lui abbia dato una affidabilità tale da coprire tutte le incognite, dovendo diventare l'uomo più potente del mondo. E capisco quelli che arrivano alla cabina elettorale e pensano che chi lascia la strada vecchia per la nuova...". Senza dubbi la scelta di Sandro Curzi (Tg3): "Voterei democratico per molte ragioni. Prima di tutto perché gli Stati Uniti hanno bisogno, come molti altri paesi, di profondi cambiamenti. E poi perché Bush mi ricorda il quadripartito, che tenta di rimanere a galla ma ormai è senza fiato". Secche e veloci, stile Fininvest, le risposte di Emilio Fede (Tg4) ed Enrico Mentana (Tg5). Dice il primo: "Tra i due preferisco Bush. E' credibile, simpatico, solido". Dice il secondo: "Io sono per Clinton. Bush è un conservatore, non condivido i suoi programmi". Le duellanti della domenica pomeriggio sono divise anche dalle presidenziali. Lorella Cuccarini tifa per il presidente, sia pure senza entusiasmo: "Nessuno dei tre mi fa impazzire. Ma visto che non c' è di meglio, credo che sceglierei Bush: mi dà l'impressione di essere più preparato, specialmente sulla politica internazionale. Mi piace il savoir faire che ha dimostrato nei suoi viaggi all' estero". Alba Parietti, al contrario, parteggia per lo sfidante: "Sì, sto dalla parte di Clinton, che finalmente dovrebbe portare un po' di aria nuova nella società americana". Scegliamo due grandi registi, e vediamo se si scontrano anche sugli Usa. La risposta è sì. Franco Zeffirelli è con il candidato repubblicano: "Non solo voterei Bush, ma prevedo che vincerà lui, per fortuna dell'America e del mondo intero. Clinton è un bluff tragico, pericolosissimo. Fa proprio paura per la sua inconsistenza totale. E' una brutta espressione di giovanilismo americano. Un finto Kennedy. Intendiamoci: non è che Bush sia un grande presidente, ma è sicuramente un uomo sul quale il Paese può contare". Alberto Lattuada non la pensa affatto così: "L' azione di Bush è decisamente esaurita: i suoi interventi mi sembrano sempre più deboli".

Dove va l’informazione in Italia...sembra oggi, ma è Giovedì 27 agosto 1992, ore 15 al Meeting di Rimini.

Moderatore Alberto Savorana: Carl Bernstein ha aperto su New Republic, una rivista statunitense, un dibattito sulla cultura popolare e sull’informazione; l’articolo, ripreso e rilanciato in Italia dalle colonne dell’Unità, parlava di una "cultura idiota". Ai nostri ospiti vorrei chiedere quale opinione hanno del loro lavoro, della responsabilità che esercitano per l’informazione in Italia e se l’informazione e i mass media contribuiscono in qualche modo ad aumentare il deserto di solitudine e di violenza della nostra società, o, all’opposto, collaborano e lavorano per favorire un risveglio, una coscienza popolare.

Paolo Liguori, direttore de Il Giorno: Quali sono oggi i problemi da affrontare a viso aperto nel campo della comunicazione e dell’informazione? Io sono parzialmente d’accordo con la definizione di "idiota", riferita alla cultura dei giornali e all’informazione: è certamente una cultura idiota nel senso che è una cultura molto spesso sorda, che poche volte percepisce e raccoglie la realtà e che, più spesso, fa centro su se stessa. Credo che ci sia una cultura dell’informazione specifica, se si può definire cultura quella che esce dai giornali. Essa è molto autocentrica, si autolegittima per trovare, con le persone e con la realtà, un continuo alimento. Il problema esiste e questo problema è dato dalla velocità della comunicazione che è già aumentata ed è impossibile che venga seguita a pari passo dall’impegno e dal lavoro dei giornali e dei mezzi di comunicazione. Così, la velocità della comunicazione e la lentezza degli addetti alla comunicazione producono inevitabilmente un concentrato culturale di opinioni trasmesse all’interno di questo circuito, senza che questo comporti una verifica costante all’esterno. Idiota, perciò è questa cultura, cioè fessa, sorda. La cosa grave è che, però, essa non ci viene proposta come stupida, semplicistica o superficiale, ma ci viene trasmessa dai mezzi di comunicazione come un modello culturale. E’ una cultura intelligente quella dei giornali che contrappone le persone del Meeting alla realtà dell’Italia moderna, pretendendo che le prime siano una folla di retrogradi, persone che guardano il passato mentre fuori c’è l’Italia moderna che va avanti? A voi sembra intelligente che i giornali considerino progressista chi tiene per Bush e conservatore, reazionario, uomo del passato chi parteggia per Clinton? A voi sembra una cosa intelligente che le ragioni della guerra in Irak siano ragioni di modernità? Questo è sui giornali tutti i giorni, questo è il filo con cui i giornali e i giornalisti, una cultura, leggono l’attività quotidiana, leggono i giorni del Meeting, leggono le parole, le frasi. E’ un’operazione culturale profonda, un’operazione culturale totalitaria e sui giornali è presentata come una operazione scontata e acquisita, anzi, come punto di partenza per qualsiasi ragionamento. E chi non parte da questo punto acquisito è fuori dalla cultura dominante dei giornali, dunque è arretrato, retrogrado, è una persona che vuole portare il mondo indietro. Questa non è una cultura idiota, questa purtroppo è una cultura intelligente, troppo intelligente, di una intelligenza basata sul nulla, una intelligenza che sfugge alla realtà, alla pratica, al contatto con le persone. Ed è una cultura semidittatoriale che crea un’esclusione dalla quale ci si può salvare solo chiedendo scusa e chiedendo di essere riammessi nel cerchio. Ma ci si può difendere scegliendo un modo di informare che prescinde da tutto questo e mette al primo posto quello che si pensa e i valori che si vogliono sottolineare. Naturalmente, inevitabilmente in un panorama come il nostro, questa diventa una cultura di parte, una cultura faziosa, ma in realtà diventa un modo di fare educazione e un modo di portare avanti non solo le informazioni basate sulla notizia, ma anche le cose che uno sente, crede e vuole affermare mettendole in prima fila, dando un volto, sapore e odore a quello che si vuole far conoscere. Questo tipo di informazione oggi è una informazione di parte, partigiana, faziosa e non può essere altrimenti; non si può altrimenti convivere con questo regime dell’informazione se non assumendo una delle parti in causa. Per quanto mi riguarda sono convinto che ciò sia necessario e indispensabile. Oggi non si sono ristrette le quantità di informazioni, si sono ristretti gli spazi di penetrazione in questo modello abbastanza chiuso. Si può fare buona informazione se si ha qualcosa da dire, se si ha una esperienza da comunicare. Credo che questo valga per i mezzi, per i giornali e per le televisioni, ma credo che questo valga per i singoli giornalisti. Dalla mia esperienza posso dire che questo vale anche per i direttori di giornali.

Walter Veltroni, direttore de L’Unità: Bernstein indica un rischio reale nella situazione italiana. Tuttavia vorrei sottolineare che a mio parere i giornali italiani non sono assimilabili al panorama dei giornali che caratterizza il mercato europeo: i giornali italiani sono molto più ricchi, più colti, più attenti alle cose che accadono nella sfera della politica dell’economia e della società, più cosmopoliti di quanto non lo siano altri giornali. Per quanto riguarda i giornali vedo tre difetti: uno è quello della semplificazione e la semplificazione è anche costantemente schematizzazione: bisogna sempre ridurre in Guelfi e Ghibellini, in bianco e nero, in modo tale che la complessità delle cose, degli argomenti, venga il più possibile frantumata e ridotta al suo osso attraverso un processo che è di riduzione. Secondo difetto è la tentazione di raccontare le cose che accadono attraverso un’unica chiave che è il commento: noi abbondiamo di commenti, tutti i nostri giornali sono stracolmi di opinioni, di valutazioni! Quello che manca nei giornali italiani è raccontare le storie, le storie delle persone, le storie che in qualche modo possono nel loro stesso svolgersi meglio testimoniare, rappresentare un problema di carattere generale. Ad esempio a noi dell’Unità è capitato di raccontare la storia di un bambino di 13 anni profugo da Sarajevo e ci è sembrato che quella storia per la sua forza e anche per i contenuti che dentro di essa erano racchiusi potesse raccontare il dramma, non sufficientemente ascoltato e capito di quello che sta accadendo in Jugoslavia molto più di quanto non avessero fatto tanti saggi e tanti opinioni. Terzo difetto: l’informazione è una macchina micidiale, uccide ma non restituisce la vita; l’informazione può avere la forza di costruire un mostro in 24 ore, ma non ha la forza né, tante volte, la volontà di stabilire una dignità perduta. Sento molto il dovere di rispetto della persona, sento molto la delicatezza e la forza dello strumento che abbiamo in mano, tanto delicato e tanto forte da doverlo usare con parsimonia, con attenzione, da dover tener sempre presente che si sta parlando di persone in carne ed ossa, persone delle quali una parola su un giornale può in qualche modo decidere il senso e il destino di una esistenza. Un ultimo problema che in Italia ha una rilevanza del tutto superiore rispetto agli U.S.A. è la concentrazione dell’informazione: la stragrande maggioranza dei mezzi di comunicazione di questo Paese sono in mano a grandi concentrazioni economiche finanziarie, coloro che possiedono grande parte della ricchezza nazionale. Questo determina il fatto che in Italia sostanzialmente solo pochi gruppi parlano attraverso gli organi di informazione in particolare attraverso la TV. Tale processo è visibile anche per ciò che riguarda l’informazione su carta stampata. Negli USA esiste un sistema di leggi che regolano il sistema di informazione, fondate su principi come il rispetto della libertà di informazione. In un Paese moderno la libertà di informazione c’è non se io posso attaccare un cartello con su scritto che il governo è cattivo, ma se c’è una reale pluralità dei soggetti di informazione. E l’unica forma attraverso la quale si può garantire la pluralità dell’informazione è che ci siano tanti soggetti, tanti punti di vista, tanti linguaggi, tanti editori piccoli medi e grandi, tante voci diverse nelle quali il cittadino legge e sa scegliere per farsi la sua opinione. Dalle suggestioni di Bernstein ricavo questo: la consapevolezza di alcune tendenze pericolose che ci sono, di alcune tendenze alla imbecillizzazione in particolare nella TV, che si verificano e che si misurano. Io non riesco a rassegnarmi al fatto che per anni in questo Paese, abbiamo pensato a indovinare quanti fagioli ci fossero in un barattolo che teneva sul tavolo la Carrà e che chi indovinava vinceva milioni. Questa idea che più c’è ascolto e più il programma è bello è un’idea che va contestata in radice. Io credo che, per esempio, sarà un bel giorno quando per rilevare la televisione si istituirà l’indice di gradimento. Anche evitare che l’informazione venga triturata all’interno di un mondo e di una modernità che finisce per essere, come dice Calvino, cimitero di macchine arrugginite.

Paolo Mieli, direttore de La Stampa: La storia del giornalismo italiano è la storia di un giornalismo partigiano a Nord, nel Piemonte, in Lombardia, ma anche in Campania, a Roma, un giornalismo di forte tendenza, di piccoli giornali molto determinati a sostenere la loro causa. Giornalismo partigiano teso a diventare giornalismo di regime durante la prima guerra mondiale perché la patria chiamava, e toccava avere dei comportamenti autocensori e poi ovviamente durante il regime fascista e anche nel lungo regime non solo democristiano seguito al regime fascista: una stampa abbastanza monocorde, ovviamente con eccezioni, salvo riprendere verso la fine degli anni ‘60 e durante gli anni ‘70, una propria identità più battagliera. Mentre ritornava a essere giornalismo partigiano trovando in ciò la sua modernizzazione e la sua evoluzione, incrociò il lavoro fatto da Bernstein, incrociò il mito del caso Watergate. In Italia fu poco conosciuto nei suoi dettagli giornalistici di ricerca, di fatica della ricerca e venne interpretato come un giornalismo prevalentemente giudiziario fatto a soffiate di giudici amici e di carabinieri, poliziotti o amici nell’amministrazione volti a demolire chi era antipatico. In quegli anni lavoravo ad un settimanale molto esposto a questo tipo di giornalismo, L’Espresso. Si cercava di fare una sorta di Watergate quotidiano in cui si faceva un lavoro che era in realtà molto comodo e gratificante. Si andava dal giudice o carabiniere amico, si faceva una carta che si verificava fino a un certo punto, si dava addosso in un modo selvaggio a qualcuno e si era coperti, perché la carta esisteva; quando il magistrato chiamava a deporre si mostrava la carta e ci si nascondeva dietro il segreto professionale. Purtroppo la nostra generazione professionale è cresciuta anche così. Poi si sono creati in Italia anche esperimenti di successo di un giornalismo che mischiava questo modo di essere tendenzioso e partigiano con una serie di amenità, cose che inclinavano verso la cultura idiota, nel senso letterale del termine; tale misto ha poi formato invece quella cultura idiota nel senso metaforico del termine, e cioè un misto di giornalismo partigiano, non onesto, una sorta di partigianeria di stupidaggini. Io mi sforzo di realizzare un giornalismo che esalta il conflitto e che ha il conflitto come tema principale presentato nel modo più chiaro possibile al proprio pubblico, scavando non in modo unidirezionale e scavando alle radici dei conflitti cercando di spiegarli e presentarli in modo che la gente possa orientarsi, capire e poi scegliere dopo aver capito. Il mio ideale di giornale è un giornale che abbia una fisionomia precisa, che si sappia quello che vuol dire! Ad esempio, sulla guerra del Golfo abbiamo preso una posizione netta e impopolare; Il Sabato, allora, fece un censimento degli articoli pubblicati a favore e contro la guerra: risultò che La Stampa era il giornale che aveva pubblicato il maggior numero di articoli a favore ma anche il maggior numero di articoli contro. Non vogliamo dissimulare e fare un giornale che finga di essere buono per tutti che si presenti in modo imbroglione ai lettori. Vogliamo presentarci come un giornale che dice quello che pensa in maniera pacata, comprensibile intelligente argomentata e poi dare anche forti argomentazioni espresse in totale libertà. La prima pagina è la pagina che dà l’identità e il modo di essere del giornale. Se ho qualcosa da dire, su qualsiasi argomento, la dico, la sostengo, non mi voglio nascondere dietro l’obbiettività; essa la si fa vivere dando l’opportunità, a chi non è d’accordo con quello che ha letto in prima pagina, di leggere altro. Apprezzo un giornalismo d’inchiesta di lavoro di scavo, capace di tirar fuori aspetti inediti della società; diffido del giornalismo di anatema, del giornalismo di scomunica, del giornalismo violento, del giornalismo che si scatena, cerca di distruggere l’avversario. Secondo me, nei giornali italiani, negli ultimi anni si sono fatti notevoli passi in questa direzione.

Alessandro Banfi, direttore de Il Sabato: Oggi, probabilmente i quotidiani italiani sono straordinariamente migliori dei quotidiani del resto del mondo, e probabilmente la stampa italiana è ancora di qualità. Ogni giorno arrivano 150 periodici diversi in ogni edicola, però con i ciucci, i chewingum, e tutto questo porta un decadimento reale. Perché? Perché oggi l’America è il centro di un nuovo ordine mondiale, di un mondo senza più l’altra metà, senza più il Comunismo. In questo mondo i punti di vista sono sempre minori, si restringono; c’è il fenomeno delle concentrazioni, il fenomeno dell’omologazione, c’è il fenomeno dell’instupidimento dell’informazione. La stampa è il termometro del grado di libertà e di democrazia in cui i Paesi vivono. Nel mondo c’è la tendenza a portare il livello del ragionamento della gente sempre più in basso. Certamente sono fenomeni utili al sistema di mercato quelli che spingono alla concentrazione e all’instupidimento, che spingono a dire tutti la stessa cosa, all’omologazione. Però l’articolo di Carl è una speranza, perché è il segno che c’è la voglia di qualcosa di diverso, proprio là dove questo fenomeno è più forte. C’è voglia di qualcosa di diverso, c’è voglia di una nuova frontiera, c’è voglia di aumentare i punti di vista, c’è voglia di tornare a pensare un po’ di più, c’è voglia di uscire dall’instupidimento. Ecco, la cosa straordinaria è che i pubblicitari di Milano che probabilmente non hanno fatto un ragionamento molto teorico su questo, sorprendentemente chiedono a noi, operatori dell’informazione, di dire qualche cosa di più alla gente. Io sono ottimista partendo dall’idea che siamo in una situazione di passaggio. Si è aperta una grande vertenza nel mondo oggi; dove dobbiamo andare dopo la fine del Comunismo, dopo la fine di una cosa che ha ingessato tutti? Dobbiamo ingessarci tutti in un unico modo di vedere le cose o dobbiamo aumentare i punti di vista? Il saggio di Carl su New Republic ed anche il dibattito che ne è seguito in Italia, esprimono la voglia di rompere una cappa che sta diventando sempre più soffocante. Il Sabato è quasi solamente un punto di vista, però è un punto di vista importante ed ha il suo peso perché in questo paese c’è ancora la possibilità di ragionare, di discutere, di dibattere e di fare polemica. Noi in Italia, anche nell’informazione, sosteniamo una posizione molto chiara. Di fronte a questa vertenza ci appelliamo al meglio che c’è nelle tradizioni di questo paese perché reagisca alla normalizzazione, al processo di omologazione, alla cultura dei ciucci, all’instupidimento collettivo. La nostra polemica fortissima è con i poteri forti che vogliono ristrutturare questo paese, e l’informazione, in modo sempre più verticistico. La polemica con la P2, ad esempio, è la polemica col golpismo, cioè con un modo, molto chiaro, molto sfacciato, di commissariare l’Italia in un nuovo assetto, buttando a mare il meglio che può ancora avere una grossa carta da giocare. La vertenza è globale, ma la vertenza sull’informazione è aumentare i punti di vista, e per aumentare i diversi punti di vista bisogna che anche da diverse parti, le persone che hanno a cuore questo principio di libertà e di democrazia, coloro che hanno a cuore l’interesse generale, devono almeno in una frase trovare un punto di accordo, e affrontare responsabilmente la situazione. L’altra strada è chiarissima, l’altra strada è la ristrutturazione selvaggia, è la privatizzazione selvaggia, è il golpismo, è un fatto che in qualche modo violenta la nostra storia, la nostra tradizione. Noi portiamo avanti questo discorso con grande forza, e pensiamo che la partita che si è aperta nel dibattito italiano, sia politico che culturale, non sia ancora chiusa.

Carl Bernstein: Nel passato, tradizionalmente, si ottenevano informazioni che provenivano dai giornali, dalla radio, dalla televisione, dai libri, dal cinema. C’erano degli standards che andavano dai punti più alti, rappresentati dall’informazione come veniva data sul New York Times o sul Washington Post, scendendo fino ad una forma di giornalismo più popolare, di minor valore, quella che si trovava su Life o sul Time, o anche in alcuni casi, nei telegiornali. Nel corso degli ultimi dieci anni si è cominciato a vedere qualche cambiamento. Mi riferisco ad un’intera cultura dell’informazione completamente nuova, una cultura che proveniva da spettacoli televisivi, radiofonici. Non era semplicemente fornire delle informazioni attraverso degli strumenti di tipo più popolare, ma in modo scioccante, sensazionale, in un modo anche strano, a volte, in un modo che alla fin fine potremmo anche chiamare ignorante. Questo tipo di spettacoli sono diventati strumenti per fornire al pubblico un tipo di informazione assolutamente irresponsabile, che ha ben poco a che fare con la tradizione della stampa, del giornalismo popolare responsabile. La tragedia che abbiamo dinanzi agli occhi in America è costituita dal fatto che questo tipo di trasmissioni e di programmi, una volta ambito soltanto da un gruppo ristretto di giornali che non avevano nessun valore, è diventato ormai purtroppo il modo dominante con cui in America viene fornita l’informazione al pubblico. Se uno si siede davanti al televisore la sera, ci sono cose orribili, drammi che hanno interessato il pubblico nel modo più negativo, programmi lunghissimi che parlano della vita sessuale condotta dagli attori e dalle attrici più famosi. Allora, questo tipo di neo giornalismo, o non-giornalismo ha cominciato ormai a diffondersi in un modo tale da mettere in secondo piano quello che è il giornalismo responsabile, acquisendo cioè un potere molto maggiore. Purtroppo il numero di persone che si interessano a questa spazzatura sta aumentando sempre più, e questo sta portando delle modifiche enormi a tutto il discorso sociale-intellettuale dell’America. Questo tipo di informazione ha cominciato a dominare anche il dibattito politico in vista delle elezioni del nuovo presidente dell’America. Molti spettacoli non sono stati nient’altro che un’occasione per una serie di discussioni assurde, ridicole, senza nessuna importanza. Tutto questo è sensazionalismo e in questo modo si finisce per escludere sempre più ogni dibattito serio sui problemi più profondi che il paese vive.

Quale deve essere il nostro ruolo? Noi dobbiamo fornire informazioni che devono essere il modo di riprodurre la realtà nella forma più vera possibile. Come giornalista ho paura che, soprattutto in America, ci si stia allontanando sempre più dalla verità più perfetta possibile tra quelle ottenibili. E questo avviene in seguito ad una eccessiva semplificazione del risultato per il fatto che non si riportano sulla stampa o alla televisione gli eventi, con tutta la complessità che li contraddistingue, come contraddistingue ogni avvenimento di cui l’uomo è protagonista, proprio perché si vuole fare sensazione col risultato di non lavorare abbastanza duramente per conoscere i fatti per quello che sono. Chiunque si occupi di informazione deve tener presente che deve capire la realtà nella sua radice, e questo ovviamente richiede un lavoro lungo e difficile. Forse al cuore della versione più corretta della realtà c’è proprio questo. In America purtroppo alcuni di coloro che si occupano di informazioni sembrano essere molto più interessati ad apparire in televisione e sui giornali il più spesso possibile, che ad occuparsi del loro lavoro nel senso più profondo del termine. E dimenticano di cercare di riflettere tutta la complessità della realtà. Vorrei fare un esempio. Il giornalismo si occupa di quello che noi vogliamo chiamare notizia. Nelle ultime due settimane in tutto il mondo abbiamo visto un numero infinito di video e di giornali che hanno parlato fino alla nausea del problema di Woody Allen e di Mia Farrow. Questa è una notizia che riguarda una delle figure più popolari della nostra cultura popolare, e lo stesso vale per tutte le storie in cui si racconta del Principe Carlo e della Principessa Diana, o di analoghe figure di una certa rilevanza. Molti giornali e reti televisive, però, hanno focalizzato la maggior parte della loro attenzione su questi personaggi: questa è la cultura idiota, un trionfo delle sciocchezze rispetto a ciò che veramente è importante! Quando parlo di cultura idiota, mi riferisco proprio a questo. Se questa cultura finisce per assumere una posizione dominante, invece che rimanere in secondo piano, all’interno di un Paese, all’interno di una società, questo è un pericolo immenso, per il tessuto sociale. Mentre un Paese, soprattutto un Paese democratico ha bisogno di avere una stampa e delle informazioni che vengono fornite in maniera veramente responsabile e corretta.

Savorana: E’ stata sottolineata la necessità dell’urgenza di guardare in faccia la realtà. Credo che tornare a guardare la realtà senza il filtro degli steccati o delle teorie preconfezionate sia un grande contributo che l’informazione nel nostro Paese può dare ad una maggiore libertà e democrazia per tutti.

L’ITALIA DEGLI ONESTI. SANITA’ E VOLONTARIATO. AMBULANZE 118. LAVORO NERO CON SOLDI PUBBLICI.

 Scandalo 118, le Iene ricevono centinaia di segnalazioni su finte Onlus in tutta Italia. Il ministro della salute Beatrice Lorenzin chiede alla trasmissione di Italia1 tutta la documentazione per avviare una ispezione su tutto il territorio nazionale. L'ombra della Mafia dietro gli appalti dell'emergenza/urgenza, scrive Angelo Riky Del Vecchio su “Nurse 24” del 17 aprile 2016. Le Iene, la trasmissione d’inchiesta di Italia1, torna a parlare di finte Onlus e dei volontari pagati in nero (Infermieri, autisti e soccorritori a vario titolo), senza contributi, senza ferie e senza malattia. Nella puntata andata in onda poco fa sulla rete Mediaset è stata presa di petto anche il ministro della salute Beatrice Lorenzin che si è detta stupita di quanto scoperto dalle Iene e di essere pronta ad avviare in tutta Italia una indagine conoscitiva per scovare i finti volontari e chi li gestisce. La trasmissione di Italia1, che nei giorni scorsi aveva fatto emergere lo scandalo del 118 nel Lazio, ora torna sull’argomenti parlando di centinaia di segnalazioni piombate in redazione da tutta la nazione e avente come unico filo conduttore lo sfruttamento e il lavoro nero. Denunce alle Iene sono pervenute da tutta Italia: è uno sfruttamento diffuso e le finte Onlus del 118 sono tantissime in tutta la nazione. In pratica, con due servizi televisivi le Iene hanno dimostrato che vi è un sommerso (che poi tanto sommerso non è) dietro al servizio dell’emergenza/urgenza affidato al volontariato: lavoratori pagati con rimborsi spese fino a 1.500 euro al mese e operanti nella completa clandestinità indossando divise e firmando documenti in qualità di volontari. Volontari non lo sono e dietro il loro utilizzo si pensa che ci siano anche organizzazioni malavitose. In tutto lo Stivale è sempre la stessa melma: segnalazioni di sfruttamento sono pervenute dal Lazio, dalla Toscana, dalla Calabria, dalla Sicilia, dalla Liguria, dalla Sardegna, dalla Puglia, dall’Umbria e dal resto delle regioni italiane. Infermieri, autisti e soccorritori vengono pagati in Calabria addirittura 1 euro all’ora per 12 ore continue di attività. Nei casi più fortunati si arriva a 3,5/4,5 euro. Per questo le Iene hanno contattato ed incontrato la Lorenzin per chiederle di intervenire e mettere fine a queste situazioni scandalose che stanno distruggendo il volontariato e mortificando tantissimi neo-laureati in Infermieristica (va ricordato che lo sfruttamento continua ad avvenire sotto gli occhi di tutti e con fondi dello Stato Italiano).

Le Iene denunciano casi di lavoro nero nel 118, legati a finte Onlus, scrive il 18 aprile 2016 Michele Calabrese su “Nurse Times”. Il servizio lungo nove minuti, quello proposto dal programma televisivo in onda su Italia 1 in cui la “Iena” Gaetano Pecoraro parla dei volontari del servizio di soccorso territoriale 118. Una mera logica lucrativa da un lato ed una sinistra assenza di controlli dall’altro. Succede nel Sistema del 118 qualora il servizio venga “consegnato” nelle mani delle associazioni di volontariato: minorenni sulle ambulanze, professionisti sottopagati e/o costretti a turni massacranti, senza sorveglianza tanto garantista della propria incolumità quanto previdenziale. È quanto si evince dal servizio proposto dalle “Iene”. Può suonar strana l’equazione volontariato=contributi per fondo pensionistico. Ma non è così! In talune realtà, in barba ai turni estenuanti e alle logiche di corretta allocazione di personale idoneo al servizio, i “volontari” percepiscono gettoni di presenza, rigorosamente NON TASSSATI, mediante buoni pasto, buoni benzina e quant’altro… Ragionevole il pensiero secondo il quale il volontario che impiega il suo tempo per una associazione non deve rimetterci di spese, ma rimborsare forfettariamente di 5, 10, 30 o addirittura 40, 50 € a turno diviene tutto ampiamente distante dalla logica di una attività filantropica. Welcome nella forma legalizzata di lavoro nero! Al workshop dello scorso Febbraio 2015 sui servizi di Emergenza Territoriale 118 tenutosi presso il Ministero della salute si sosteneva di “garantire il riconoscimento del valore sociale del volontariato. Soprattutto in questa fase di riflessione sul ddl del terzo settore, bisogna dare segnali di garanzia sul sistema di accreditamento, certificazione e controllo del volontariato, per evitare le zone grigie in cui i nuovi soggetti del profit (o peggio ancora di qualche onlus), sfruttino il lavoro nero, abbassando gli standard qualitativi di un servizio “. La stima dei costi per sostenere il sistema del soccorso extra-ospedaliero è stata quantizzata, segnalando che il personale incide dal 75 all’89% sul totale dei costi. A ben vedere l’elevata spesa tenderebbe a lievitare per la mancanza del turnover del personale. Lo studio promosso dalla FIASO e con la collaborazione scientifica dell’Università di Trento, ha avuto come pionieri della ricerca i servizi di emergenza di quattro Regioni: Lazio, Lombardia, Basilicata (il cui sistema non è affidato ad Associazioni di Volontariato) ed Emilia-Romagna, per un totale di oltre 20 milioni di potenziali utenti. Ecco brevemente come funziona il sistema di pagamento del 118: si basa sulla remunerazione dei costi mediante una erogazione prospettica di denaro pubblico (Per gli altri insiemi di prestazioni le modalità di remunerazione attualmente adottate non corrispondono alla regola già definita nel D.Lgs 502/92, riconfermata nel successivo D.Lgs 229/99.). Per intenderci gli elementi caratterizzanti del sistema di pagamento prospettico sono: complessità assistenziale e costo standard. Delegare una associazione no profit alla gestione di mezzi e uomini da dedicare alla assistenza sanitaria extra-ospedaliera 118 non ha nulla di illegale, tant’è vero che la normativa quadro di istituzione del 118 avvenuta con il DPR 27 marzo 1992 prevede che “Le Regioni possono avvalersi del concorso di enti e di associazioni pubbliche e private, […] sulla base di uno schema di convenzione definito dalla Conferenza Stato-Regioni, su proposta del Ministro della Sanità”. Ciò che non quadra è che se la “Legge n. 266/1991 prevede che le Organizzazioni di Volontariato si avvalgano in modo determinante e prevalente delle prestazioni personali, volontarie e gratuite dei propri aderenti ai quali possono essere soltanto rimborsate le spese effettivamente sostenute per l’attività prestata. Tale requisito è correlato al mantenimento dell’iscrizione ai registri del volontariato”, come mai chi fornisce la propria attività filantropica percepisce rimborsi esorbitanti (RIGOROSAMENTE NON TASSATI), non ha tutele previdenziali (alcuni operatori lavorano oltre le 8 ore per turno) pur chiare e palesi le molteplicità di scenari ai quali i suddetti vanno incontro? Quanto di etico, morale e giuridicamente rilevante vi è assegnando una risorsa umana su un mezzo di soccorso sanitario senza tutelarne l’incolumità a 360 gradi e speculando sulle prestazioni di chi offre il suo tempo e le sue energie (vuoi per propensione al volontariato, vuoi per un tornaconto economico: disoccupato, cassaintegrato, depositario di salario insufficiente ecc. ecc.)? Nella mappa delle segnalazioni del “sommerso”, due arrivano dalla provincia di Arezzo, una particolarmente specifica. Una persona, finta volontaria, spiega di prestare servizio per 320 ore mensili con una paga da 2,77 euro all’ora. Il servizio delle Iene si chiude con l’inviato Pecoraro che informa delle presunte irregolarità il ministro della Sanità Beatrice Lorenzin. Quanti sono gli infermieri vittime di questa forma di sfruttamento professionale e che vista la contingenza del momento si trovano loro malgrado ad accettare proposte lavorative che hanno superato abbondantemente il limite della legge? Nurse Times si è occupata della problematica denunciando la situazione degli infermieri in partita Iva impiegati dalle cooperative anche nel servizio emergenziale 118 nella regione Lazio, producendo anche una interrogazione regionale che purtroppo non ha avuto un seguito. 

PARLIAMO DI MASSONERIA, MAFIA ED ANTIMAFIA.

Il caso Cucchi e i segreti della massoneria. Del collegio di esperti che dovrà fare la nuova perizia sul corpo di Stefano fa parte un professore ex massone. "In sonno" dal 1983. Sulla vicenda è stata aperta un'indagine, ora archiviata. Ma la procura ha acquisito i documenti ufficiali della Loggia di Bari. Dal giuramento alla costituzione massonica. Materiale inedito e segreto che apre le porte del Grande oriente, scrive Giovanni Tizian il 12 aprile 2016 su "L'Espresso". «Certificato di apprendista numero 33547. Loggia Saggezza Trionfante 984 Bari. Grande Oriente d'Italia. Con fraterni saluti». Il documento del 1980 attesta l'affiliazione di Francesco Introna, ordinario di Medicina Legale dell'Università di Bari. Perito in importanti processi, come il caso Claps, consulente di parte per Raffaele Sollecito. E nominato nel collegio dei periti per l'incidente probatorio nell'inchiesta bis sulla morte di Stefano Cucchi che vede indagati cinque carabinieri. E proprio in quest'ultima sede, durante la prima udienza, l'avvocato Fabio Anselmo della famiglia Cucchi ha sollevato la questione dell'incompatibilità di Introna vista la sua presunta fede massonica e la passata candidatura nel 2009 nelle fila del Pdl alle comunali di Bari. Fazione politica che su Stefano Cucchi ha dimostrato, con dichiarazioni e prese di posizione, una profonda ostilità. L'affiliazione massonica del perito è finita così in una denuncia presentata in procura dalla famiglia del geometra romano. Dopo un'approfondita verifica di atti e documenti, l'indagine è stata chiusa e per Introna è stata richiesta l'archiviazione: «L'accusa non potrebbe essere sostenuta in giudizio per evidente carenza dell'elemento soggettivo del delitto ipotizzato». In pratica, Introna, ha sì dichiarato il falso davanti al giudice, affermando di non essere nemmeno più “in sonno”, ma l'ha fatto senza dolo. Perché convinto di quella sua affermazione. Introna è stato un libero muratore ufficialmente fino al 1983. Poi, come emerge dai documenti acquisiti dai magistrati, risulta “assonnato”. Non c'è dunque motivo per dubitare della buona fede del professore. Potrà così continuare a fare parte del pool che dovrà svolgere una nuova perizia sul corpo di Stefano Cucchi, morto nell'ottobre 2009 dopo l'arresto per possesso di droga. Messa da parte la vicenda specifica, il materiale inviato dal Grande Oriente ai pm del caso Cucchi apre le porte di un mondo misterioso e segreto. Tessere di iscrizione, codici scritti, la costituzione massonica, elenchi, simboli esoterici e timbri ufficiali di maestri venerabili. Tutto materiale che “l'Espresso” ha potuto consultare. «Mi laureai nel 1979, e quell'anno all'interno dell'istituto di Medicina Legale di Bari conobbi due colleghi, i quali erano iscritti alla Loggia Saggezza Trionfante. Uno di questi si chiamava Roberto Gagliano Candela (medico luminare ndr). Sentendoli parlare della Loggia ritenni l'argomento interessante e, presentato, da questi due colleghi mi iscrissi alla medesima nel 1980». Francesco Introna ripercorre davanti ai magistrati romani i giorni del reclutamento massonico. «Aggiungo che la mia convinzione di essere stato espulso dalla massoneria risultava confermata dal fatto che un paio di anni fa ricevetti l'onorificenze di Commendatore per meriti professionali e in questo caso la mia persona fu oggetto di accertamenti da parte dei carabinieri su incarico della prefettura. Perciò ritengo che se io fossi stato in “sonno” questa circostanza sarebbe venuta fuori. Invece i carabinieri non mi chiesero nulla». Sul significato dell'essere “assonnato” gli inquirenti chiedono spiegazioni al gran maestro del Goi, Stefano Bisi. Convocato a piazzala Clodio negli uffici della procura risponde dettagliatamente alle domande. «La collocazione in “sonno” viene comunicata con raccomandata con ricevuta di ritorno. I fratelli attivi partecipano alle riunioni e pagano una quota, il fratello in “sonno” e quello depennato hanno comunque l'obbligo di lealtà nei confronti degli altri fratelli, così come risulta dall'articolo 9 della Costituzione del Grande oriente d'Italia». Poi, Bisi, riferisce delle quote d'iscrizione: «L'importo dovuto è predeterminato, non si tratta comunque di importi considerevoli, vari da 400 a 500 euro l'anno, a seconda della singola loggia. «Io Francesco Introna liberamente, spontaneamente, con piano e profondo convincimento dell'animo, con assoluta e irremovibile volontà, alla presenza del Grande Architetto dell'Universo, sul mio onore e in piena coscienza solennemente giuro: di non palesare i segreti dell'iniziazione muratoria, di aver sacri l'onore e la vita di tutti; di soccorrere, confortare e difendere i miei fratelli; di non professare principi che osteggiano quelli propugnati dalla Libera Muratoria». Il giuramento è impresso su una pergamena con la firma del venerabile maestro. E risale al 1980. L'atto ufficiale è successivo alla votazione, con scrutinio delle schede su cui ogni fratello vota il “gradimento” del nuovo adepto. A seguire il testamento, altro passaggio fondamentale per entrare a far parte della loggia. Si tratta di una seconda pergamena in cui l'iniziato risponde alle domande sulle regole di comportamento generale che i fratelli devono tenere: «Quali sono i doveri dell'uomo verso se stesso? Migliorarsi in continuazione; Quali sono i doveri verso la Patria? Amarla. Rispettarla; Quali sono i doveri verso l'umanità? Porsi al suo servizio per essere utile». Di Dio e la religione; Del magistrato civile supremo e subordinato; Delle Logge; Dei maestri, sorveglianti, compagni e apprendisti; Della condotta dell'Arte nel lavoro; Del Comportamento. Questi sono i titoli generali della Costituzione della libera muratoria del Goi. Al punto 3 del capitolo sul Comportamento è spiegato l'atteggiamento da tenere nel caso in cui due “fratelli” si incontrano non in una loggia e senza estranei: «Vi dovete salutare l'un l'altro in modo cortese, chiamandovi fratello l'un l'altro, liberamente fornendovi scambievoli istruzioni che possano essere utili, senza essere visti o uditi e senza prevalere l'uno sull'altro o venendo meno al rispetto dovuto a ogni fratello». Al punto successivo, invece, le istruzioni sul come comportarsi in presenza di non massoni: «Sarete cauti nelle vostre parole e nel vostro portamento affinché l'estraneo più accorto non possa scoprire o trovare quando non è conveniente che apprenda; e talvolta dovrete sviare un discorso e manipolarlo prudentemente per l'onore della rispettabile Fratellanza». Ma cosa fare davanti a uno straniero? «Lo esaminerete cautamente, conducendovi secondo un metodo di prudenza, affinché non siate ingannati da un ignorante falso pretendente, che dovrete respingere con disprezzo e derisione». Se lo straniero è degno di affiliazione, invece, cambia tutto: «Dovete allora rispettarlo e se egli ha bisogno dovete aiutarlo se potete oppure indirizzarlo dove possa venire aiutato: dovete occuparlo per qualche giornata di lavoro oppure raccomandarlo perché venga occupato. Ma non siete obbligato a fare oltre la vostra possibilità». Può anche succedere però un litigio tra fratelli o tra affiliati e “stranieri”. Che fare? Anche per questo il regolamento è chiaro: «Non consentite agli altri di diffamare qualsiasi onesto fratello...E se qualcuno vi ingiuria dovete rivolgervi alla vostra o alla sua loggia e dopo appellarvi alla Gran Loggia annuale, come è stato l'antico lodevole costume dei nostri antenati in ogni nazione. Non dovete intraprendere un processo legale a meno che il caso non possa venire risolto in altro modo e pazientemente affidatevi all'onesto e amichevole consiglio del Maestro e dei Compagni, allorché essi vogliono evitare che voi compariate in giudizio contro estranei...Amen così sia». Insomma, le questioni è meglio risolverle in Loggia. Tra fratelli. I liberi muratori una volta giurato sono sottoposti alla giustizia massonica dell'Ordine: «E vi restano soggetti anche se non più attivi». È l'articolo 56 del titolo X, “Della Giustizia massonica”, della costituzione del Goi. I fratelli possono sbagliare, come tutti gli esseri umani. Perciò il regolamento prevede delle “colpe massoniche” e pene collegate. «Costituiscono colpa massonica: ogni azione contraria alla lealtà, all'onore o alla dignità della persona umana». I provvedimenti sono tre: Espulsione, censura solenne e censura semplice. A giudicare i cattivi massoni sono gli organi interni: il tribunale della loggia; tribunale dei Colleggi dei maestri venerabili; la corte centrale del Grande oriente. Fidarsi l'uno dell'altro. Per chi è dentro una loggia, questo è un presupposto imprescindibile. La fiducia deriva dalla modalità “sicura” di affiliazione. Il neofita è sempre presentato da almeno tre fratelli anziani. Ognuno dei quali deve mettere per iscritto, su un modulo, le motivazioni della scelta. Tendendo però presente le regole del buon massone: «Moralità, costumi e reputazione; probità costante nel corso della vita; esattezza nel disimpegno dei doveri del proprio stato; fermezza di carattere nei principi professati; cultura, impegno, attitudini a penetrare e assimilare la dottrina massonica». Inoltre, chi presenta il nuovo arrivato deve specificare se questo appartiene «ad associazioni di carattere ricreativo, filantropico, benefico, religioso, politico, culturale o di altra natura; se ha avuto eventuali cariche in enti e altre notizie eventuali sulla persona». La radiografia del pretendente è approfondita. Ma spesso, come ha insegnato la storia passata e recente, non è stata sufficiente a rintracciare “l'intruso”, con interessi che poco hanno a che fare con la il rispetto dell'umanità.

Papà Boschi e l'ombra della massoneria. Da vicepresidente di Etruria per scegliere il suo dg incontrò Carboni, coinvolto nel caso P3. Ma ha sostenuto di non avere deleghe operative, scrive Massimo Malpica, Domenica 17/01/2016, su "Il Giornale". Non bastasse il caos prodotto dal crac di Banca Etruria e dal successivo decreto salva banche del governo che ha lasciato in mutande i risparmiatori, ora saltano fuori anche le «consulenze» a Bpel in odore di grembiulini e servizi richieste e ottenute - da papà Boschi per individuare il nuovo dg dell'istituto da nominare al posto di Luca Bronchi. L'ex vicedirettore di Banca Etruria e papà del ministro per le riforme Maria Elena, a metà 2014, chiese dunque una mano nientemeno che a Flavio Carboni, uomo di affari (spesso chiacchierati), indagato per la presunta loggia P3 e il cui nome è emerso in tutti i gialli del Bel Paese degli ultimi lustri. L'altro consulente non ortodosso era un caro amico comune, che risponde al nome di Valeriano Mureddu. Vicino di casa della famiglia Renzi a Rignano e figlio di un pastore sardo emigrato in Toscana a fine anni '60, anche Mureddu che sostiene tra l'altro di aver lavorato per la nostra intelligence - ha qualche magagna con la giustizia, sia per una sospetta maxievasione fiscale (con tanto di dossieraggio a carico di vari personaggi ritrovati nella sede aretina della sua società che si occupa di materie plastiche) risalente all'inizio del 2014, che per violazione della legge Anselmi. A Repubblica, Mureddu nega di essere Massone, mentre intervistato dalla Nazione ammette di aver «lavorato» per conto delle nostre barbe finte. Nel 2010, peraltro, di Mureddu si parlò già per un abbocco con il suocero di Fini, Sergio Tulliani, relativo agli affari nel fotovoltaico (tra l'altro proprio il settore al centro di uno dei filoni delle indagini sulla presunta P3). Quando nell'estate del 2014 Boschi senior si affida a questo curioso duo, incontrando Mureddu nell'ufficio romano a disposizione di Carboni, il nome che salta fuori è quello di Matteo Arpe. A suggerirlo a Carboni sarebbe stato l'ex leghista Gianmario Ferramonti. Ma la consulenza al gusto di massoneria (per la verità non certo una novità per Bpel, sempre divisa tra cattolici e grembiulini) non porterà frutti, visto che ad agosto dello scorso anno la poltrona di dg andò a Daniele Cabiati, rimasto in carica fino allo scorso giugno.Zero risultati, appunto, ma nuovi scenari imbarazzanti per il governo a margine del patatrac di Banca Etruria. Boschi senior, più che un vicepresidente senza deleghe e senza potere, appare come uno dei capi effettivi della banca, proprio come indicato dalle relazioni di Bankitalia che parlavano di un «direttivo» ristretto che di fatto comandava dentro Bpel. Tanto che, stando ai racconti di Carboni e dello stesso Mureddu, il papà della Boschi s'era messo a lavorare informalmente all'individuazione di un ruolo chiave per l'istituto di credito che stava affondando. Incaricando dopo una cena proprio Mureddu, che sarà anche figlio di un pastore e dunque coerente con il quadretto bucolico tracciato dalla figlia nella appassionata autodifesa di famiglia in occasione del voto di sfiducia ma che è anche vicino di Tiziano Renzi, amicissimo di Carboni e legato, secondo quanto Carboni ha raccontato a Libero, anche dell'ex presidente di Bpel Lorenzo Rosi. Sempre Carboni, precisando che a darsi da fare sarebbe stato soprattutto Mureddu, aggiunge anche che oltre alla nomina del direttore generale ci sarebbe anche stata una richiesta per individuare «qualche stato estero che intervenisse a favore di questo gruppo».Si delinea insomma un nuovo fronte temporalesco per il governo, in particolare per la Boschi, che appena qualche mese fa al capogruppo M5S Gianluca Castaldi che evocava «indicibili accordi massonici» dietro alla riforma costituzionale, urlò: «Massone lo dici a tua sorella». Beccandosi una bacchettata del Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia, Stefano Bisi: «Frase sgradevole, mi sorprende che sia stata proprio lei a pronunciarla». Ma oltre ai guai per l'esecutivo, sembrano confermati anche gli scenari ancora in parte oscuri celati dietro ai freddi numeri (fallimentari) che raccontano la storia di Banca Etruria. Da sempre, come detto, divisa tra l'anima cattolica e quella massonica che per anni, durante la gestione di Elio Faralli, aveva imperversato nel governo della ex mutua dell'oro, prima di lasciare le redini al gruppo dirigente espressione della ex democrazia cristiana. Ma, a quanto pare, le cointeressenze non si sono mai spezzate.

La strana loggia top secret dell'amico dei papà illustri. Il massone Mureddu è legato ai padri di Renzi e della Boschi. E la sua società occulta è nel mirino dei pm di Perugia da 2 anni, scrive Luca Fazzo, Lunedì 18/01/2016, su "Il Giornale".  Ci sono logge e logge: quelle che al primo inciampo in una inchiesta finiscono in prima pagina sui giornali, e altre la cui esistenza viene invece tenuta rispettosamente lontano dai riflettori, anche dopo il loro ingresso in un fascicolo processuale. A restare a lungo sotto traccia è stata, per esempio, la associazione segreta che ruota intorno all'imprenditore aretino Valeriano Mureddu, buon amico sia del padre di Matteo Renzi, presidente del Consiglio, che di quello di Maria Elena Boschi, ministro delle Riforme.Degli intrecci tra Mureddu e i due illustri papà si parla finalmente da qualche giorno, e negli ambienti governativi l'imbarazzo è pari solo al silenzio. Ma ora si scopre che da quasi due anni, da marzo 2014, la procura di Perugia ha in mano tutte le carte relative alla società occulta guidata da Mureddu, avendole trovate nel corso di una perquisizione presso la sua azienda a Civitella Val di Chiana, una dittarella di nome Geovision specializzata nel commercio di sacchetti e altri articoli in plastica. Ma la modestia dei suoi affari ufficiali non impedisce a Mureddu di allacciare amicizie importanti. Con Tiziano Renzi è praticamente compaesano, avendo vissuto a lungo a Rignano sull'Arno, mentre con Pierluigi Boschi ha stretto amicizia quando il padre di Maria Elena invece che di banche si occupava di vini e cantine sociali. E nei due anni trascorsi dalla scoperta delle carte segrete, gli amiconi di Mureddu hanno continuato a fare carriera. Compresi Tiziano Renzi, Pierluigi Boschi, e soprattutto i loro brillanti figlioli. Eppure nella carte dell'inchiesta della procura umbra compaiono nomi che sono presenze fisse delle indagini che periodicamente, dagli anni '80 in poi, portano alla ribalta l'esistenza di consorterie segrete. Nei contatti di Mureddu c'è per esempio quel Gianmario Ferramonti, politico di insuccesso in area leghista, che esattamente 20 anni fa fu indicato in una indagine della procura di Aosta (battezzata Phoney Money, e finita in nulla) come uomo-cerniera di affari leciti e illeciti che coinvolgevano mezzo firmamento politico dall'Italia all'America; e tra i contatti c'è anche quel Flavio Carboni che era già nelle liste P2, che fu condannato per il crac del Banco Ambrosiano, e che a 84 anni continua a mantenere buoni rapporti con l'Italia che conta: compreso uno dei grandi alleati di Renzi, l'ex coordinatore di Forza Italia Denis Verdini, imputato insieme a lui nel processo P3. Cosa facciano tutti insieme Mureddu, Ferramonti, Carboni e i loro amici, quale sia il core business della nuova loggia scoperta dalla procura di Perugia, è tema un po' fumoso: Mareddu si proclama massone e si vanta di avere lavorato per i servizi segreti, non si capisce per quali e in che veste. «Ho relazioni in giro per il mondo - dice di sé - mi vengono proposti degli affari e io a mia volta li propongo a chi penso che possa portarli a termine». Un faccendiere, insomma. Affari non sempre fortunati e cristallini, visto che anche la procura di Arezzo ha messo il 46enne sardo nel mirino per evasione fiscale. E tra gli affari di Mureddu, quello che ora lo ha portato alla ribalta è quello combinato per conto di Pierluigi Boschi, all'epoca in cui il padre della ministra cercava un direttore generale da piazzare nella Banca dell'Etruria. Come e perché babbo Boschi si sia ridotto a cercare la consulenza di uno come Mureddu è allo stato inspiegabile, e ancora di più lo è la circostanza che si sia fatto convincere a partecipare a un summit nell'ufficio romano di Carboni. E ad accogliere l'idea suggerita dalla coppia Mureddu-Carboni, quella del banchiere Fabio Arpe, portata all'esame del cda, ma bloccata poi dall'ufficio di vigilanza della Banca d'Italia.

L'imprenditore Starace a Libero: "Vi spiego come Flavio Carboni lavorava per papà Boschi", scrive di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano del 20 gennaio 2016. Da ragazzo spaccava ossa giocando a rugby nelle Fiamme oro della Polizia di Stato, oggi le aggiusta nei centri di riabilitazione di cui è proprietario. La voce è gioviale: «Premetto: non sono massone. Io non c’entro nulla». Inizia così la conversazione con il quarantaduenne romano Riccardo Starace, l’uomo che avrebbe dovuto trovare un direttore generale e un fondo arabo per salvare la Banca dell’Etruria. 

Lei conosce Valeriano Mureddu, il «grembiulino» indagato a Perugia per associazione segreta e amico di Flavio Carboni?

«Non l’ho mai visto. Carboni invece lo avevo conosciuto, due settimane prima degli incontri dell’estate del 2014 di cui voi di Libero state scrivendo in questi giorni, al Piccolo mondo antico, un ristorante vicino al suo ufficio romano di via Ludovisi. Il proprietario del locale mi presentò questo signore anziano... era con la figliola». 

Lei sapeva chi fosse Carboni?

«All’inizio no, ammetto la mia ignoranza (ride ndr). Il mio amico mi disse: “Guarda Riccardo è una persona con una grande esperienza, ti può essere utile conoscerlo”. Ho detto: “Va bene”. È cominciata così questa storia».

Perché è rimasto in contatto con Carboni?

«Chiacchierando gli dissi che avevo rapporti con un fondo impegnato nel settore della sanità, l’Enterprises di Sheikh Bin Ahmed Al Hamed. Allora mi parlò subito di un suo progetto, il grafene, un materiale rivoluzionario che dovrebbe servire a pulire e rendere potabile l’acqua, risolvendo il problema della sete in Africa, e mi disse di andare a trovarlo in ufficio. Il suo fu in pratica un monologo. Però prima di andare controllai su Internet chi fosse e vidi che era una persona di un certo peso per la storia dell’Italia, nel bene e nel male».

Ha una condanna di tipo definitivo per il crac del Banco Ambrosiano ed è imputato per la P3...

«Ecco... appunto. Si trattava di cose abbastanza delicate e visto che io ho lavorato sette anni nella Polizia di Stato, ci andai cauto. In ufficio mi coinvolse subito riparlandomi di questa storia del grafene e chiedendomi informazioni sul fondo di Abu Dhabi. Poi mi disse che c’era una banca in difficoltà finanziaria e io gli risposi: “M’informo con gli arabi”».

Non doveva andarci cauto?

«La verità è che io non ho avuto nemmeno il coraggio di parlare di questa cosa a Sheik Alamed, ma con Carboni non potevo essere scortese. Con me fu subito gentilissimo, avvolgente, non avevo motivo per essere scortese con lui. L’avevo visto dieci minuti al tavolo e improvvisamente mi chiedeva di salvare una banca. Le sembrerò un ballista, ma è andata così».

Però lei non parlò solo del fondo con Carboni, ma anche del nuovo direttore generale...

«A un certo punto, in quella chiacchierata di mezz’ora, Carboni mi accennò a una nomina da fare per la banca. Quindi mi chiese il numero di telefono e io a una persona tanto gentile come potevo negarlo? Pensavo che avrei saputo difendermi dalla sue avances... Invece iniziò a bombardarmi di telefonate, anche la domenica: mi chiedeva di questo fondo e poi di ritornare nel suo ufficio. Mia moglie in quel periodo non mi telefonava così tante volte. Poi un giorno ci siamo rivisti, casualmente, in via Ludovisi, subito dopo pranzo. Mi acchiappò sul marciapiede e mi disse: “Come stai carissimo, sali un attimo con me, ti devo parlare della posizione della banca”. E io salii con lui...».

In ufficio c’era anche lo scienziato russo, il presunto coinquilino di Carboni?

«Non ho mai incontrato russi in quello studio. Quando entrammo mi disse: ho delle persone che mi attendono, vieni che te le presento. Io ero nell’imbarazzo più totale».

Chi c’era insieme a Carboni in ufficio?

«Tutti quelli che ha raccontato nell’articolo, così facciamo prima».

L’ex presidente Lorenzo Rosi, il suo vice Pier Luigi Boschi e l’imprenditore Mauro Cervini?

«Sì c’erano loro tre».

E Gianmario Ferramonti, l’imprenditore amico di Licio Gelli?

«Non in quell’occasione, forse in altre...»

Dove erano Boschi e Rosi?

«Erano seduti amabilmente in una grande sala riunioni e Carboni mi ha presentato come un amico imprenditore con ottimi contatti con un fondo arabo».

I due banchieri che persone le sembrarono?

«Timidi e taciturni. Ricordo che erano vestiti elegantemente, con l’abito. Sembravano stupiti, quasi imbarazzati per la mia età. Probabilmente non si immaginavano un “salvatore” così giovane. Quando Boschi mi ha detto il suo cognome, visto che la figlia era appena stata nominata ministro, ho fatto due più due e ho intuito chi fosse».

Che cosa vi siete detti?

«Ci siamo solo salutati. Anche in quell’occasione ci fu quasi un monologo di Carboni».

Perché hanno chiesto a lei il nome del direttore generale?

«Non ne ho idea, ma la cosa mi lasciò incredulo. Era come se mi dicessero: tu ci trovi il fondo che porta i soldi e noi facciamo un favore a un tuo amico».

Lei propose il vicedirettore generale della Popolare del Frusinate Gaetano Sannolo...

«L’ho conosciuto quando era direttore della filiale della Cassa di risparmio di Firenze di cui ero cliente. Con me è sempre stato carino e corretto. Io feci il suo nome così, in modo quasi goliardico, anche se pensavo che fosse una persona giovane e dinamica. Inizialmente non avevo dato peso a quella richiesta».

Neanche quando le presentarono Pier Luigi Boschi?

«In quel caso rimasi veramente stupito. Dentro di me pensai: “Andiamo bene”, perché non aveva senso tutto quello che stava accadendo. Capisco che le possa sembrare assurdo, ma andò così».

Che spiegazione si è dato?

«Forse venni presentato a Rosi e Boschi come una persona più importante di quella che in realtà fossi. A Carboni, invece, devo essere entrato in simpatia e per questo fatto del fondo mi si era pure un po’ attaccato, questo sì».

Quanto durò l’incontro con Boschi e Rosi?

«Pochi minuti, meno di una decina. Poi andai via».

Avete discusso anche del direttore generale?

«Sulla questione venne fatto un accenno, ma non ne parlammo approfonditamente in quell’occasione».

E quando lo avete fatto?

«In un terzo incontro, in cui presentai il mio amico Gaetano al dottor Carboni. Sorridendo gli dissi: “Dai andiamo a sentire”. Ma successivamente Sannolo fu chiamato davvero a fare il colloquio ad Arezzo. Non ci potevamo credere. In quei giorni ci sentivamo in continuazione per scherzare. Gli suggerii di chiedere un super stipendio, pensavamo che il mondo si fosse capovolto. Il suo nome è uscito pure sul Sole24ore».

Quella mi risulta sia stata una fuga di notizie orchestrata all’interno della banca per bruciare il nome del suo amico...

«Lo immaginavo. In ogni caso Carboni improvvisamente cambiò atteggiamento».

Forse perché lei gli aveva detto che il fondo non era disponibile...

«Infatti. Da quel momento iniziò a diradare le chiamate, quindi ha proprio smesso. Non lo vedo e non lo sento più dalla fine di quell’estate».

Non la stupì che Rosi e Boschi si fossero messi nelle mani di Carboni?

«Molto. Mi sembrò una situazione surreale».

Quando capì che il padre della ministra era lì a farsi consigliare il direttore generale della sua banca da lei che cosa pensò?

«“Non è possibile”. Non ci volevo credere, era inverosimile...».

Ha conosciuto Ferramonti l’uomo che consigliò il nome dell’altro candidato alla direzione generale, il banchiere Fabio Arpe?

«Sì, nel 2014, a Roma, mentre ero impegnato nel lancio di un neonato movimento politico. Si presentò lui, mostrandosi interessato a quella mia iniziativa. L’ho rivisto qualche volta nella Capitale. In una di quelle occasioni incontrammo casualmente Carboni nel solito ristorante. Sembrava che i due non si vedessero da tempo e si scambiarono il numero di telefono davanti a me. Parlarono anche di questa cosa della banca».

In pratica la Popolare dell’Etruria era una delle ossessioni di Carboni?

«Con me ha discusso solo di quella e del grafene».

E per salvarla si è affidato a due che aveva incontrato al ristorante?

«Lei ride, ma all’epoca ho riso di più io. Certo non vorrei apparire come una persona incapace di intendere e di volere, ma è andata proprio così». Di Giacomo Amadori.

Il terreno di papà Boschi in odore di 'ndrangheta. Il manager nel 2010 venne indagato per estorsione e riciclaggio per l'acquisto di una fattoria: il pm Rossi archiviò tutto ma adesso rischia un'azione disciplinare. La strana compravendita e quei 250mila euro in nero, scrive Anna Maria Greco, Venerdì 22/01/2016, su "Il Giornale". Il procuratore di Arezzo Roberto Rossi ha fatto di tutto per non farsi salvare dal Csm. La prima bugia su Pier Luigi Boschi e Banca Etruria gli è stata perdonata, ma la seconda fa riaprire il suo caso, che sembrava avviato all'archiviazione. E non rischia solo il trasferimento d'ufficio, ma anche un'azione disciplinare. Il procuratore generale della Cassazione ha infatti chiesto gli atti al Csm, evidentemente per una preistruttoria disciplinare. Rossi, infatti, potrebbe aver violato l'obbligo di astensione dall'inchiesta su Banca Etruria ed essere accusato di dichiarazioni infedeli al Csm. Ma i suoi guai potrebbero non fermarsi qui. Perché sembra che da Arezzo stia uscendo nuovo fango dalle vecchie inchieste sul padre del ministro Maria Elena e il pm ha fatto archiviare, forse con troppa facilità. Prima di diventare procuratore e di diventare consulente di Palazzo Chigi. A cambiare le carte in tavola sono le notizie di Panorama sul fatto che il titolare dell'inchiesta su Banca Etruria quando era sostituto procuratore ha indagato Boschi nel 2010 per turbativa d'asta e riciclaggio, poi per estorsione nel 2013. A febbraio il papà viene iscritto nel registro degli indagati e Maria Elena diventava ministro, a luglio Rossi inizia la consulenza con il governo, a novembre archivia tutto. Eppure al Csm Rossi, sotto esame per la possibile incompatibilità tra il suo ruolo di inquirente del padre del ministro e la consulenza con Palazzo Chigi, disse di non conoscere nessuno della famiglia. Ieri il pm è corso ai ripari inviando una lettera a palazzo De' Marescialli, spiegando: «L'ho indagato, ma non lo conoscevo». Troppo tardi. La prima commissione aveva creduto alle sue giustificazioni quando aveva negato che papà Boschi facesse parte del consiglio «informale» della banca che rifiutò l'opa della Banca Popolare di Vicenza senza informare il Cda, mentre Bankitalia sosteneva il contrario. Una confusione tra la prima gestione Forsasari e la seconda Rosi, aveva assicurato. Ma stavolta, la fiducia ottenuta al Csm evapora. E tra i consiglieri c'è molta irritazione per la sua seconda e più pesante bugia. Ha taciuto di aver già indagato Boschi, un personaggio molto noto ad Arezzo anche al di là del ruolo politico della figlia. «Abbiamo preso tutti atto con rammarico di un ennesimo equivoco in cui sembra essere caduto il procuratore», ironizza il laico di Fi Pier Antonio Zanettin. È lui, che aveva voluto l'apertura della pratica su Rossi a chiedere ora una nuova istruttoria. La delibera assolutoria, che aspettava solo l'ok del plenum, viene sospesa. «A tutela della trasparenza e della credibilità dell'operato della magistratura la prima Commissione ha deciso all'unanimità un ulteriore approfondimento sulla vicenda Rossi, alla luce di circostanze che emergerebbero da articoli di stampa», spiegano i togati di Area Piergiorgio Morosini (relatore) e Antonello Ardituro. Gli atti sono già stati inviati al Pg della Cassazione per gli accertamenti disciplinari, mentre per verificare l'incompatibilità il Csm ha chiesto informazioni al procuratore generale di Firenze. La relazione potrebbe arrivare per la riunione di lunedì. E si potrebbe anche convocare di nuovo Rossi. Dovrà spiegare come mai ha dimenticato che 6 anni fa ha indagato Boschi (con altre 8 persone) per irregolarità nell'acquisto della grande tenuta Fattoria di Dorna per 7,5 milioni (era valutata almeno 9), da parte della coop Valdarno superiore che presiedeva, poi diventata una società di cui Pier Luigi aveva il 90 per cento e il resto era del crotonese Francesco Saporito, in odore di 'ndrangheta. E anche di aver indagato una seconda volta nel 2013 Boschi, perché un certo Apolloni che acquistò un podere della tenuta lo accusò di essersi fatto pagare in nero 250mila euro su 460 mila.

Pier Luigi Boschi, già indagato (e prosciolto) sei anni fa. Le archiviazioni per le accuse di turbativa d'asta e estorsione, furono del pm che oggi indaga su Banca Etruria: lo scrive "Panorama" il 20 gennaio 2016. La posizione di Pier Luigi Boschi, ex vicepresidente di Banca Etruria, è al vaglio della Procura di Arezzo insieme a quella di altri membri del disciolto consiglio d’amministrazione. Non sarebbe comunque la prima volta che il padre del ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi, si trova indagato. Nel numero in edicola da domani, giovedì 21 gennaio, il settimanale Panorama ricostruisce nei dettagli una vicenda giudiziaria risalente a sei anni fa, nella quale Boschi padre fu indagato ad Arezzo per i reati di turbativa d’asta ed estorsione, e venne per due volte prosciolto su richiesta del magistrato Roberto Rossi, oggi divenuto procuratore della città toscana, nonché lo stesso magistrato che oggi indaga sul dissesto di Banca Etruria e che è stato consulente del governo Renzi. La vicenda, che fino al 2014 coinvolse Pier Luigi Boschi e altri otto indagati, riguardava la compravendita, nel 2007, di una grande tenuta agricola posseduta dall’Università di Firenze. Malgrado il proscioglimento, restano senza risposta due domande, relative a 250 mila euro in contanti che un successivo acquirente di parte della tenuta affermò di avere personalmente consegnato a Boschi. Da una parte non si sa dove siano effettivamente finiti quei soldi, ma non si sa nemmeno perché la Procura di Arezzo non abbia mai indagato per calunnia chi affermava fossero stati versati.

Boschi: si riapre l'istruttoria sul pm Roberto Rossi, dopo l'inchiesta di Panorama. Il Csm vuole chiarire la posizione del magistrato che, come riportato dal nostro giornale, archiviò le accuse nei confronti del padre del ministro, scrive "Panorama" il 21 gennaio 2016. Giornata nera per il procuratore di Arezzo Roberto Rossi, titolare delle inchieste su Banca Etruria. Il comportamento del pm è finito al vaglio del Procuratore generale della Cassazione Pasquale Ciccolo, titolare dell'azione disciplinare nei confronti dei magistrati. E la Prima Commissione del Csm ha riaperto l'istruttoria sul suo conto. A mettere nei guai il procuratore, le indagini svolte negli anni passati su Pierluigi Boschi, padre del ministro per le Riforme Maria Elena ed ex vice presidente di Banca Etruria. Procedimenti conclusi con due richieste di archiviazione ma di cui il pm non aveva fatto cenno nelle sue audizioni davanti ai consiglieri del Csm, ai quali aveva invece assicurato di non conoscere "nessuno della famiglia Boschi". Poi è arrivato il servizio di copertina del nostro giornale, in edicola da oggi, in cui si racconta delle indagini di Rossi su Pierluigi Boschi per turbativa d'asta e estorsione, andate avanti dal 2007 sino al 2014 e che sarebbero state legate alla compravendita di una grande tenuta agricola dell'Università di Firenze. Venuto a conoscenza del nostro servizio, Rossi ha pensato di giocare d'anticipo inviando una lettera al Csm in cui ha scritto di essersi occupato in passato di procedimenti riguardanti Pierluigi Boschi, padre del ministro per le Riforme Maria Elena ed ex vice presidente di Banca Etruria, ma ha confermato di non aver mai avuto occasione di incontrarlo. Nella sua lettera Rossi parlerebbe di più procedimenti, sui quali ora la Commissione (che solo due giorni fa aveva deciso di archiviare il fascicolo che lo riguarda) intende fare approfondimenti, accogliendo all'unanimità la richiesta del laico di Forza Italia Pierantonio Zanettin: verificare quali vicende hanno riguardato e che esito hanno avuto. Il primo passo sarà a richiesta di informazioni e della documentazione relativa al Procuratore generale di Firenze, l'organo di vertice del distretto. "Ascoltare di nuovo il procuratore Rossi? Per ora no: lo abbiamo sentito due volte e abbiamo ricevuto da lui tre comunicazioni scritte". Lo dice il presidente della Prima Commissione del Csm Renato Balduzzi, che spiega come la lettera fatta recapitare a Palazzo dei Marescialli, in cui Rossi parla di precedenti procedimenti penali riguardanti Pierluigi Boschi dei quali aveva avuto occasione di occuparsi sia il "fatto nuovo", che ha spinto oggi la Commissione a "sospendere la delibera di archiviazione e a procedere ad ulteriori approfondimenti istruttori". "Dobbiamo conoscere quali sono queste vicende e quale esito hanno avuto" dice Balduzzi, precisando che nella lettera il procuratore fornisce anche chiarimenti sul "disallineamento" tra quanto sta emergendo e le sue dichiarazioni nell'audizione di dicembre davanti al Csm. L'ottica dell'intervento della Commissione non cambia: "garantire la massima serenità alla procura di Arezzo". "Non solo Banca Etruria e massoneria deviata. Ora su papà Boschi arrivano anche le ombre, carte della DDA alla mano di aver fatto affari con uomini legati alla 'ndrangheta. A questo punto il ministro Maria Elena Boschi deve rassegnare le dimissioni, perché una pesantissima e insopportabile ombra politica aleggia sulla sua famiglia ed anche su tutte le false riforme che hanno distrutto la Costituzione repubblicana. Del resto la deforma Boschi non sarebbe mai passate senza gli accordi ed i voti del plurinquisito Denis Verdini". Lo scrive in una nota il capogruppo M5S Senato Mario Giarrusso, "dopo la pubblicazione delle notizie che nel 2007 Pierluigi Boschi portò a termine un grosso affare immobiliare insieme a un socio calabrese, Francesco Saporito, che secondo la DDA di Firenze era legato alla 'ndrangheta crotonese". Il senatore pentastellato fa riferimento ad un'inchiesta pubblicata dal settimanale Panorama. "Di questo argomento se ne dovrà far carico anche la Commissione d'inchiesta parlamentare antimafia", conclude il capogruppo M5S. 

Solita sinistra a senso unico...La denuncia di Rosy Bindi: "C'è una mafia che usa l'antimafia". Il j'accuse della presidente della Commissione d’inchiesta nell'intervista esclusiva rilasciata a l'Espresso. Troppi interessi sfruttano la lotta ai clan. Che spesso diventa una facciata per la conquista di potere, scrive Marco Damilano il 28 gennaio 2016 su "L'Espresso". Inchieste, scandali, scontri intestini. Magistrati che accusano le icone antimafia di «monopolio» dei beni confiscati. Il presidente di Confindustria Sicilia Antonello Montante, garante della legalità dell’associazione degli imprenditori a livello nazionale, indagato e perquisito e il presidente del Senato Piero Grasso che parla di «antimafia infangata». È la stagione del malcontento per il movimento anti-mafia, a trent’anni esatti dall’apertura del primo maxi processo a Palermo, voluto da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Con il sospetto che siano gli stessi campioni dell’anti-mafia a infangare se stessi. A Palazzo San Macuto, sede della commissione parlamentare che indaga sui legami tra la criminalità e la politica, la presidente Rosy Bindi non è sorpresa, come spiega a Marco Damilano nell'intervista sull'Espresso in edicola da venerdì 29 gennaio 2016. «Quando un anno fa annunciai a Caltanissetta che avremmo avviato un’inchiesta ci furono molte ironie (l’antimafia che indaga sull’antimafia!) da parte di quei commentatori interessati semplicemente a indebolire il movimento. E invece il nostro obiettivo è riaffermare il valore dell’impegno di associazioni, cittadini, istituzioni e imprenditori che per venti anni ha dato un contributo fondamentale alla lotta contro la criminalità mafiosa. C’è chi vuole delegittimare queste presenze preziose. I soliti negazionisti e chi non ammette che la forza della mafia continua a essere fuori dalla mafia. Nel silenzio, nelle complicità, nelle sue relazioni sociali. Vogliamo rilegittimare l’antimafia. Ma possiamo farlo soltanto smascherando alcune ambiguità che obiettivamente esistono». Quali ambiguità? Fino a qualche mese fa si pensava all’antimafia come a un movimento monolitico. E incontaminato. «Ci muoviamo su più fronti. C’è una mafia che usa l’antimafia per prosperare, l’aspetto più grave e pericoloso. Una mafia, ad esempio, che utilizza la comunicazione per infangare chi lotta contro la mafia. Anche Roberto Saviano ne è stato vittima. C’è poi un’antimafia che dietro l’obiettivo manifesto di combattere i mafiosi nasconde la cura di altri interessi. È quanto sembra emergere in Sicilia, un caso che va approfondito. Al di là dei risvolti penali, lì c’è un movimento antimafia che si è trasformato in un movimento di potere. Cerca di determinare la formazione delle maggioranze in regione, di influenzare le scelte politiche ed economiche. C’è, infine, un’antimafia che diventa un mestiere. Una professione, ma non come intendeva dire Leonardo Sciascia».

C’è del marcio in antimafia. Ma sul “caso Libera” la Bindi fa la gnorri, scrive Francesca De Ambra venerdì 15 gennaio 2016 su “Il Secolo d’Italia”. C’è del marcio in antimafia. Ma l’unica che riesce a non vederlo è proprio l’on. Rosy Bindi. Non che la presidente dell’omonima commissione manchi d’iniziativa, tutt’altro. Se lo ricorda bene Enzo De Luca che a 24 ore dal voto che lo avrebbe eletto governatore della Campania si ritrovò in una lista di “impresentabili” redatta in fretta e furia proprio dall’organismo da lei guidato. O il deputato forzista Carlo Sarro, invitato dalla Pasionaria a dimettersi dall’Antimafia dopo aver ricevuto una richiesta di arresti ai domiciliari poi demolita da un micidiale uno due Riesame-Cassazione. Dove invece la Bindi segna il passo è sulla sempre più inquietante vicenda della gestione dei beni sottratti alle mafie, deflagrata a fine estate con l’inchiesta della procura di Caltanissetta sul giudice Silvana Saguto. Prima della Procura nissena era stato però l’ex-direttore dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso, a denunciare, i presunti conflitti d’interesse dell’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, l’amministratore giudiziario cui la Saguto aveva affidato la gestione di tutti i beni confiscati ricevendone – secondo la tesi dei pm – consulenze per il proprio marito. Nessuno, però, ringraziò Caruso. Neppure la Bindi, che anzi gli rinfacciò di aver innescato un «effetto delegitttimazione» attraverso «un’accusa generalizzata al sistema» e «a magistrati che rischiano la vita». Quando scoppia la bomba dell’inchiesta di Caltanissetta, Caruso si toglie la soddisfazione dell’“avevo detto io” e intervistato da Liberoquotidiano.it rilascia una replica al curaro: «Ora qualcuno dovrebbe confessare come stanno effettivamente le cose e più di qualcuno dovrebbe dimettersi…». Ogni riferimento, ancorché implicito, è puramente voluto. La lezione, tuttavia, non è servita. Tanto è vero che la Bindi rischia ora di ripetere lo stesso errore di superficialità commesso con Caruso. Solo che questa volta a dare l’allarme non è un prefetto ma Catello Maresca, il pm in forze alla Dda di Napoli che ha fatto arrestare boss del calibro di Michele Zagaria e Antonio Iovine, cioè proprio uno di quei «magistrati che rischiano la vita». Intervistato da Panorama, Maresca ha contestato il sistema che regola la gestione dei beni sottratti ai boss esprimendo più di una riserva su Libera di don Luigi Ciotti. Che ha annunciato querele. E la Bindi? Prima ha rivendicato il progetto di riforma della normativa sulla gestione dei patrimoni mafiosi per poi defilarsi rispetto ai rilievi mossi dal pm: «Se Maresca – ha detto – continua a spiegare e magari si incontra con Libera si fa una cosa buona». Davvero? E la commissione Antimafia che ci sta a fare? Non ha forse il dovere di capire e approfondire? O dobbiamo forse pensare che le pesanti critiche mosse da Maresca a don Ciotti siano dovute a vecchie ruggini personale, pronte però a svanire davanti al buon vino che sempre riconcilia i veri amici? Non scherziamo: la faccenda è fin troppo seria per consentire alla presidente Bindi di voltarsi dall’altra parte.

Don Ciotti e Libera osannato da tutta l'Antimafia di Facciata.

Bindi: "Don Ciotti non resterà solo. Pieno sostegno dall'Antimafia", scrive il 31 Agosto 2014 "Live Sicilia". La solidarietà della presidente della commissione parlamentare Antimafia al sacerdote fondatore di Libera. D'Alia: "Minacce da non sottovalutare". Vendola: "Cosa nostra vada all'inferno". Grasso: "Tutti al fianco di don Ciotti". Gelmini: "Non sarà mai solo". "Don Ciotti non è solo e non resterà solo nella battaglia contro i poteri mafiosi". Lo dichiara il presidente della commissione parlamentare Antimafia, Rosy Bindi commentando le intercettazioni riportate dal quotidiano 'La Repubblica', in cui Totò Riina accosta la figura di don Luigi Ciotti a quella di don Puglisi e dice:" Ciotti, Ciotti, putissimu pure ammazzarlo". "E' malvagio e cattivo - aggiunge il padrino al boss Lorusso suo compagno di passeggiate nell'ora d'aria - ha fatto strada questo disgraziato". "A don Luigi la mia affettuosa vicinanza e il pieno sostegno della Commissione parlamentare Antimafia - dice Bindi - Le minacce di Riina intercettate nel carcere di Opera lo scorso anno vanno prese sul serio, soprattutto per l'inquietante accostamento al martirio di don Pino Puglisi". "A don Ciotti - aggiunge - va assicurata tutta la protezione e il sostegno necessari, molti mesi sono passati da quando i magistrati hanno esaminato le intercettazioni e si deve capire che tipo di messaggio vuole inviare il capo di Cosa Nostra mentre inveisce contro un sacerdote così esposto sul fronte della lotta alla mafia". "So che le raccapriccianti parole di Riina - dice ancora Bindi - non faranno arretrare il suo appassionato servizio cristiano per la giustizia e la promozione della dignità umana e da oggi saremo al suo fianco con più determinazione". "L'impegno che insieme a tanti con Libera don Ciotti da anni profonde per promuovere la cultura della legalità, la memoria delle vittime innocenti e lo sviluppo solidale nelle terre confiscate alle mafie - prosegue - sono ormai punto di riferimento della coscienza civile del paese". Ed è proprio il lavoro di Libera che scatena l'odio di Riina, preoccupato per i tanti sequestri di beni alla mafia che poi vengono gestiti dalle cooperative di Libera. "La scomunica di Papa Francesco - aggiunge Rosy Bindi - ha tracciato una linea invalicabile tra la Chiesa e le mafie che dà a tutti, credenti e non credenti, più forza e coraggio nel combattere la cultura dell'omertà e della sopraffazione. Ma non possiamo abbassare la guardia, c'è una mafia silente che moltiplica affari e profitti e penetra in ogni settore della vita del paese approfittando della crisi economica. E c'è - conclude - una mafia violenta che continua a tenere sotto scacco con l'intimidazione e la paura buona parte del Mezzogiorno, dove pesano povertà e disoccupazione ma dove sono anche più vitali e preziose le esperienze di libertà e resistenza create da Libera per strappare il territorio al controllo della criminalità organizzata".

"Un abbraccio affettuoso e di vera solidarietà a Don Luigi Ciotti, ogni giorno in prima linea nella lotta alla mafia. Le minacce di Riina nei suoi confronti non possono essere in alcun modo sottovalutate. Il suo impegno quotidiano, non ultimo quello per i testimoni di giustizia che ho avuto modo di apprezzare da vicino nella mia attività di ministro, merita sostegno e protezione". Lo afferma il deputato e Presidente dell'Udc Gianpiero D'Alia.

"Un forte abbraccio don Luigi! All'inferno la mafia! L'impegno di Don Luigi ci dice che per la lotta alla mafia non servono proclami o moralismi. Bensì ogni giorno, con un umile coraggio, serve condurre la battaglia per affermare i diritti dei più deboli e affermare la legalità con fatti concreti, che anche la politica deve compiere". Così Nichi Vendola, presidente di Sinistra Ecologia Libertà, su Twitter esprime la propria solidarietà al fondatore di Libera coop dopo le minacce di Riina.

Il presidente del Senato, Pietro Grasso, ha pubblicato sulla sua pagina Facebook un messaggio di solidarietà a don Luigi Ciotti in riferimento alle minacce di Riina emerse dagli organi di informazione. "Caro Luigi - si legge nel testo - sono più di venti anni che sfidi la mafia con coraggio e passione. Le minacce di Riina emerse oggi sono l'ennesimo attacco ad una storia di impegno e di memoria che coinvolge ogni anno migliaia di cittadini e che ha contribuito a rendere il nostro Paese più libero e più giusto. Ti conosco da anni e so che non ti sei lasciato intimorire nemmeno per un attimo: continuerai sulla strada della lotta alla criminalità, e tutti noi - conclude Grasso - saremo al tuo fianco. Un abbraccio, Piero".

"Le minacce di Totò Riina all'amico Don Ciotti, preoccupano certo, ma non sorprendono. Un uomo come Luigi, che da anni promuove la cultura della legalità e combatte contro le mafie attraverso azioni concrete, non può che essere un nemico per un boss di Cosa Nostra. Una persona da temere, per aver dimostrato, insieme con Libera, che i beni della criminalità possono essere riutilizzati a scopi sociali". Lo scrive sul suo profilo Fb Laura Boldrini, Presidente della Camera.

"Le parole di Riina sono inquietanti e ci dicono che non bisogna mai abbassare la guardia soprattutto nei confronti di chi si trova in prima linea nella lotta alle mafie, come il magistrato Nino Di Matteo e don Luigi Ciotti ai quali esprimo il mio pieno sostegno". Lo dice il senatore del Pd Giuseppe Lumia, componente della Commissione parlamentare antimafia, commentando le intercettazioni delle conversazione in carcere tra il boss di Cosa nostra ed il boss pugliese Alberto Lorusso. "A Riina - aggiunge - lo Stato deve dare una risposta chiara e netta con l'approvazione in tempi rapidi di un pacchetto di norme che consentano alla lotta alle mafie di far fare un salto di qualità. Alcune di queste, ad esempio il rafforzamento delle misure di prevenzione, l'autoriciclaggio ed il falso in bilancio, sono già contenute nella riforma della giustizia, ma ce ne sono tante altre da adottare. Ecco perchè - conclude Lumia - torno a chiedere una sessione dedicata in Parlamento".

"Don Ciotti non sarà mai solo: fra lui e Riina l'Italia civile ha scelto da che parte stare. Sempre contro la mafia!". Lo scrive su Twitter Mariastella Gelmini, vicecapogruppo vicario di Forza Italia alla Camera.

La capriola della Bindi su don Ciotti prova che Libera è anche una lobby, scrive Venerdì 15 Gennaio 2016 Giuseppe Sottile su Il Foglio. I beni dei mafiosi sono diventati un Tesoro Maledetto. E la bufera della polemica ha investito in pieno anche la creatura di don Ciotti. Ma la politica, prodiga di riverenza, ha preferito squadernare solidarietà incondizionata. Che cosa racconterà questo sanguigno prete torinese ai bambinetti di mezz’Italia che, sotto la sua ala benefica e protettiva, andranno a rendere omaggio anche quest’anno alla memoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino? Con quali preghiere, o con quali giaculatorie, don Luigi Ciotti, uomo di fede e di misericordia, tenterà di allontanare i sospetti che ormai da qualche tempo scuotono e avviliscono il meraviglioso mondo di Libera, l’associazione che, come i bambini forse non sanno, è anche la più potente e denarosa lobby antimafia? E come potrà questo buon sacerdote spiegare, a tutti quei ragazzi, così innocenti e già così innamorati della legalità, che Libera dopo un inizio come sempre difficile è poi diventata troppo grande e si è trovata spesso a giocare col fuoco sugli stessi terreni, sugli stessi feudi, sugli stessi patrimoni sui quali per anni padrini e picciotti avevano sparso sangue e nefandezze? Parliamoci chiaro. Sull’impegno di don Ciotti contro ogni mafia e contro ogni boss nessuno potrà mai sollevare alcun dubbio: come Papa Francesco, il fondatore di Libera conosce la strada e i problemi degli umili; con il suo Gruppo Abele ha fatto il volontariato duro e sa come si aiuta un infelice nel disperato labirinto della droga. Sa anche come si combattono le violenze, come si contrasta una intimidazione, come si restituisce dignità civile a un giovane senza lavoro e tragicamente affascinato dalla vie traverse. Ed è per questo che, dopo le stragi degli anni Novanta, è nata Libera: per sollevare Palermo dallo scoramento, per ridare fiducia a una terra segnata dal martirio e dalle lacrime. Un progetto ambizioso. Che certamente trovava sostegno e conforto in un altro torinese: in quel Gian Carlo Caselli che, di fronte alle mattanze di Capaci e via D’Amelio, aveva chiesto con coraggio al Consiglio superiore della magistratura di trasferirsi nel capoluogo siciliano e di insediarsi come procuratore in un Palazzo di giustizia sventrato prima dalle faide tra gli uffici e poi dalle bombe di Totò Riina, detto ‘u Curtu. Sono stati certamente anni eroici e straordinari quelli di Palermo. E Libera, la cui missione principale (il core business, stavo per dire) è quella di creare cooperative di lavoro sui beni confiscati alla mafia, non ha mai incontrato ostacoli. Anzi: non c’è stata istituzione che non abbia preso a cuore la causa; non c’è stato potere che non abbia guardato con riverenza ai buoni propositi di don Ciotti e non c’è stato partito politico, soprattutto a sinistra, che non abbia mostrato orgoglio nell’accettare candidature ispirate direttamente dall’associazione. Troppa grazia, sant’Antonio, si sarebbe detto una volta. Ma la troppa grazia non sempre è foriera di prosperità. Spesso, troppo spesso, dietro un eccesso di grazia c’è anche un’abbondanza di grasso. E Libera davanti a quella montagna di soldi, oltre trenta miliardi di euro, sequestrati dallo stato alle mafie, non ha saputo atteggiarsi con il necessario distacco né con la necessaria misura: era una semplice associazione antimafia ed è diventata una holding; era fatta da poveri e ora presenta bilanci milionari; era animata da un gruppo di volontari e si ritrova governata da tanti manager e, purtroppo, anche con qualche spregiudicato affarista tra i piedi. Poteva mai succedere che a margine di tanta ricchezza, piovuta come manna dal cielo, non nascessero invidie e risentimenti, gelosie e prese di distanza, storture e due o tre storiacce poco chiare? Sarà doloroso ammetterlo ma i beni dei mafiosi, sia quelli sequestrati in via provvisoria sia quelli confiscati dopo una sentenza definitiva, sono diventati una sorta di Tesoro Maledetto. Una tomba faraonica dentro la quale viene ogni giorno seppellita – cinicamente, inesorabilmente – la credibilità dell’antimafia: non solo di quella che avrebbe dovuto riaccendere una speranza politica ed è finita invece in una insopportabile impostura; ma soprattutto di quella che, dall’interno dei tribunali, avrebbe dovuto garantire rigore e legalità e ha consentito invece a un gruppo di magistrati infedeli di intramare i beni sequestrati con i propri interessi privati: certo l’inchiesta aperta questa estate dalla procura di Caltanissetta è in pieno svolgimento e le responsabilità personali sono ancora tutte da definire, ma le intercettazioni, come sempre ottime e abbondanti, ci dicono con desolante chiarezza come si amministravano fino all’altro ieri le misure di prevenzione a Palermo; con quali disinvolture e con quali coperture i figli e i fraternissimi amici dei più alti papaveri del Palazzo di giustizia affondavano le mani nei patrimoni, ricchi e scellerati, che la dottoressa Silvana Saguto, presidente della sezione, aveva strappato, con mano decisa e irrefrenabile, alla potestà di Cosa Nostra. La maledizione, e non poteva essere diversamente, ha finito per colpire anche Libera, cioè la macchina più grande ed efficiente aggrappata alla grande mammella dei beni confiscati: 1.500 tra associazioni e gruppi collegati, 1.400 ettari di terreno sui quali coltivare ogni ben di dio, 126 dipendenti e un fatturato che supera i sei milioni. Con una aggravante: che le accuse, chiamiamole così, non vengono tanto, come sarebbe persino scontato, dal maleodorante universo mafioso; arrivano piuttosto dai compagni di strada, da personaggi che rivendicano, al pari di don Ciotti, il diritto di parlare a nome dell’antimafia: come Franco La Torre, figlio del segretario del Pci ucciso a Palermo nel 1982, che non ha sopportato il silenzio di Libera sullo scandalo della Saguto e delle altre cricche nascoste dentro le misure di prevenzione; o come Catello Maresca, pubblico ministero della direzione distrettuale antimafia di Napoli e nemico numero uno del clan dei casalesi, il quale, intervistato dal settimanale Panorama, ha lanciato parole roventi: ha detto che “Libera gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili” e ha aggiunto, senza indulgenze di casta, che forse è venuta l’ora di smascherare “gli estremisti dell’antimafia”, cioè quegli strani personaggi accucciati nelle associazioni nate per combattere la mafia ma che “hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione e tendono a farsi mafiose esse stesse”. Queste associazioni, spiega Maresca, “sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti”; e Libera, in particolare, gestisce i patrimoni “in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale”. Inevitabile e inevitata, ovviamente, la risposta di don Ciotti: “Menzogne: Noi questo signore lo denunciamo domani mattina. Ci possono essere degli errori, si può criticare, ma non può essere calpestata la verità”. Più sorprendente, se non addirittura imbarazzante invece l’atteggiamento con cui la Commissione parlamentare antimafia, presieduta da Rosy Bindi, si è posta di fronte alla polemica aperta da Maresca, un magistrato antimafia unanimemente apprezzato sia per il suo equilibrio che per il suo coraggio. Il pm napoletano, nel suo lungo colloquio con Panorama, ha sollevato questioni non secondarie: a suo avviso Libera, dopo avere scalato i vertici della montagna incantata, non ha lasciato e non lascia spazio a nessun altro; e se c’è un concorrente da stroncare lo fa senza problemi: tanto, lavorando su un bene non suo, non ha gli stessi costi del rivale. Non solo: è mai possibile che questo immenso patrimonio, continuiamo a parlare di oltre trenta miliardi di euro, non possa essere sfruttato in termini strettamente imprenditoriali per dare la possibilità allo Stato di sviluppare le aziende e ricavarci pure un ulteriore valore aggiunto? Di fronte a interrogativi così pesanti, ma anche così pertinenti, la commissione parlamentare avrebbe dovuto a dir poco avviare un dibattito, magari ascoltando oltre a don Ciotti, sentito a lungo mercoledì proprio mentre le agenzie di stampa diffondevano l’anteprima di Panorama, pure il magistrato napoletano. Quantomeno per verificare l’eventuale necessità di una modifica alle intricatissime leggi che regolano la materia. Invece no: Rosy Bindi ha preferito definire “offensive” le affermazioni di Maresca e l’ha chiusa lì. Don Ciotti certamente non avrà tutte le colpe che Maresca, più o meno volontariamente gli attribuisce. Ma la solidarietà assoluta e incondizionata squadernata l’altro ieri a San Macuto dalla presidente Bindi, e dai parlamentari che man mano si sono a lei accodati, è la prova provata che Libera è anche e soprattutto una lobby.

Beni confiscati, associazioni, coop. Libera, impero che muove 6 milioni, scrive Lunedì 16 Marzo 2015 Claudio Reale su "Live Sicilia". L'associazione raduna 1.500 sigle, ma il suo cuore economico è "Libera Terra", che fattura 5,8 milioni con i prodotti dei terreni sottratti ai boss e li reinveste per promuovere la legalità e assumere lavoratori svantaggiati. E mentre si prepara il ventesimo compleanno, don Ciotti apre alla collaborazione con il movimento di Maurizio Landini. Vent'anni da compiere fra pochi giorni. E circa 1.500 sigle radunate sotto il cartello dell'“associazione delle associazioni”, con un modello che in fondo richiama la tradizione storica dell'Arci. “Libera” è formalmente un'organizzazione non governativa che si occupa di lotta alle mafie, di promozione della legalità e di uso sociale dei beni confiscati alle mafie: sotto la sua bandiera, però, si muovono attività diversificate nello scopo e nello spazio, coprendo quasi per intero il Paese e con ramificazioni internazionali. Un mondo il cui cuore economico è “Libera Terra”, che gestisce 1.400 ettari di terreni confiscati alla mafia, dà lavoro a 126 persone e muove un fatturato che nel 2013 ha sfiorato i sei milioni di euro. Un impero sotto il segno della legalità. Che fa la parte del leone nell'assegnazione per utilità sociale dei beni confiscati e che non si sottrae allo scontro fra antimafie, in qualche caso – come ha fatto all'inizio del mese don Luigi Ciotti – facendo aleggiare l'imminenza di inchieste: "Mi pare di cogliere – ha detto il 6 marzo il presidente dell'associazione – che fra pochi giorni avremo altre belle sorprese, che sono in arrivo, che ci fanno soffrire. Perché riguardano personaggi che hanno sempre riempito la bocca di antimafia”. Uno scontro fra paladini della legalità, in quel campo minato e denso d'insidie popolato dalle sigle che concorrono all'assegnazione dei terreni sottratti ai boss.

Un mondo che, nel tempo, ha visto in diverse occasioni l'antimafia farsi politica. E se Libera non è stata esente da questo fenomeno - Rita Borsellino, fino alla candidatura alla guida della Regione e poi all'Europarlamento, dell'associazione è stata ispiratrice, fondatrice e vicepresidente – a tenere la barra dritta lontano dalle identificazioni con i partiti ci ha sempre pensato don Ciotti. Almeno fino a qualche giorno fa: sabato, infatti, sulle colonne de “Il Fatto Quotidiano”, il carismatico sacerdote veneto ha aperto a una collaborazione con il nascente movimento di Maurizio Landini. Certo, don Ciotti assicura nella stessa intervista disponibilità al dialogo con tutto l'arco costituzionale ed esclude un coinvolgimento diretto di Libera. Ma le parole di “stima e amicizia” espresse a favore del leader Fiom, osserva chi sa cogliere le sfumature degli interventi del sacerdote antimafia, sono un assoluto inedito nei vent'anni di storia dell'associazione. Ne è passato di tempo, da quel 25 marzo 1995. A fondare il primo nucleo di Libera furono appunto don Ciotti, allora “solo” numero uno del Gruppo Abele, e Rita Borsellino. Da allora l'associazione si è notevolmente diversificata: al filone principale, riconosciuto dal ministero del Welfare come associazione di promozione sociale, si sono via via aggiunti “Libera Formazione”, che raduna le scuole e ne coordina quasi cinquemila, “Libera Internazionale”, che si occupa di contrasto al narcotraffico, “Libera informazione”, che si concentra sulla comunicazione, “Libera Sport”, che organizza iniziative dilettantistiche, “Libera ufficio legale”, che assiste le vittime di mafia, e appunto “Libera Terra”, che raduna le cooperative impegnate sui campi confiscati ed è l'unico troncone a commercializzare prodotti. In Sicilia le cooperative sono sei. Dell'elenco fanno parte la “Placido Rizzotto” e la “Pio La Torre” di San Giuseppe Jato, la “Lavoro e non solo” di Corleone, la “Rosario Livatino” di Naro, la castelvetranese “Rita Atria” e la “Beppe Montana” di Lentini, alle quali si aggiungono le calabresi “Terre Joniche” e “Valle del Marro”, la brindisina “Terre di Puglia” e la campana “Le terre di don Peppe Diana”: ciascuna è destinataria di almeno un bene sottratto alla mafia e produce su quei terreni vino, pasta e altri generi alimentari commercializzati appunto sotto il marchio unico “Libera Terra”. Fuori dal mondo agroalimentare, poi, c'è la new-entry “Calcestruzzi Ericina”, confiscata a Vincenzo Virga e attiva però – col nuovo nome “Calcestruzzi Ericina Libera” – nella produzione di materiali da costruzione. A questa rete di cooperative si aggiunge la distribuzione diretta. Un network fatto di quindici punti vendita, anch'essi ospitati per lo più in immobili confiscati a Cosa nostra, sparpagliati in tutta Italia: a Bolzano, Castelfranco Veneto, Torino, Reggio Emilia, Bologna, Genova, Firenze, Pisa, Siena, Roma, Castel Volturno, Napoli, Mesagne, Reggio Calabria e nel cuore di Palermo, nella centralissima piazza Politeama, dove la bottega ha sede in un negozio confiscato a Gianni Ienna. Non solo: nel pianeta “Libera Terra” trovano posto anche una cantina (la “Centopassi”), due agriturismi (“Portella della Ginestra” e “Terre di Corleone”), un caseificio (“Le Terre” di Castel Volturno), un consorzio di cooperative (“Libera Terra Mediterraneo”, che dà lavoro a nove dipendenti e cinque collaboratori) e un'associazione di supporto (“Cooperare con Libera Terra”, onlus con 74 cooperative socie). Ne viene fuori un universo che nel 2013 ha dato uno stipendio a 126 lavoratori, 38 dei quali svantaggiati, ai quali si sono aggiunti 1.214 volontari. Tutto per produrre circa 70 prodotti – venduti nelle botteghe Libera Terra, ma anche nei punti vendita Coop, Conad e Auchan – che spaziano dalla pasta all'olio, dal vino alla zuppa di ceci in busta: ne è venuto fuori, nel 2013, un fatturato di 5.832.297 euro, proveniente per più di un quinto dalla commercializzazione all'estero. Numeri che fanno delle cooperative il cuore pulsante dell'economia targata Libera: basti pensare che l'intero bilancio dell'associazione-madre muove 2,4 milioni di euro, meno della metà del flusso di denaro che passa dai campi confiscati. Denaro che però non finisce nelle tasche dei 94 soci: se una royalty – nel 2013 di 157 mila euro – viene girata a “Libera”, il resto viene utilizzato per attività sociali come la promozione della legalità, il recupero di beni sottratti ai boss e i campi estivi. Già, perché nei terreni confiscati il clou si raggiunge d'estate. Nei mesi caldi, infatti, le cooperative siciliane (ma anche quelle pugliesi) accolgono giovani da tutta Italia per attività di volontariato sui beni sottratti ai capimafia. Il momento centrale della vita dell'associazione, però, si raggiungerà fra pochi giorni: il 21 marzo, infatti, “Libera” organizza dal 1996 una “Giornata della memoria e dell'impegno” durante la quale vengono ricordate le vittime di mafia. Quest'anno l'appuntamento è a Bologna, con una kermesse iniziata venerdì e destinata a concludersi il 22. A ridosso dei vent'anni dell'associazione. E in un momento di grandi conflitti per le antimafie.

"Fatti di inaudita gravità". Beni confiscati, una ferita aperta, scrive Sabato 30 Gennaio 2016 Riccardo Lo Verso su "Live Sicilia". Anno giudiziario. Nel giorno in cui i magistrati presentano i risultati di un anno di lavoro, a Palermo e Caltanissetta tiene banco l'inchiesta sulle Misure di prevenzione. Nel capoluogo siciliano il ministro Andrea Orlando dice: "La mafia non è vinta". È il caso Saguto a tenere banco nel giorno dell'inaugurazione dell'anno giudizio a Palermo e Caltanissetta. Palermo è la città dove lavorava l'ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale finita sotto inchiesta. A Caltanissetta, invece, lavorano i pubblici ministeri che con la loro indagine hanno fatto esplodere la bomba giudiziaria della gestione dei beni sequestrati alla mafia. A Palermo, davanti al ministro della Giustizia Andrea Orlando. Ha fatto al sua relazione il presidente della Corte d'appello, Gioacchino Natoli. "Se le criticità emerse dai controlli seguiti alle vicende legate all'inchiesta sulla sezione misure di prevenzione dovessero essere confermate - ha detto Natoli - occorrerebbe riflettere sulla sorveglianza esercitata dalla dirigenza locale e dal consiglio giudiziario". Il magistrato ha recitato il mea culpa a nome dell'intera categoria, spiegando che "la prevenzione di certi episodi parte dai controlli a cominciare dalla valutazione della professionalità" e ammettendo che nella gestione della sezione c'erano "criticità e inefficienze nella durata dei procedimenti, nell'organizzazione e nella distribuzione degli incarichi". E il ministro è stato altrettanto duro: "E' necessario perseguire le condotte che hanno offuscato il lavoro di tanti valenti magistrati. Quello dell'aggressione ai beni mafiosi è uno dei terreni che ha dato maggiori risultati nel contrasto a Cosa Nostra". Il ministro, anche richiamando la recente normativa sui tetti ai compensi degli amministratori giudiziari, ha auspicato "una riduzione dei margini di discrezionalità in cui si sono sviluppati fenomeni allarmanti".  Poi, un passaggio dedicato alla lotta a Cosa nostra: "La mafia è stata colpita, ma non è battuta, né si tratta di un'emergenza superata anche se altre se ne profilano all'orizzonte". Nel frattempo, a Caltanissetta, interveniva il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini: "I magistrati della Procura di Caltanissetta, con un'indagine coraggiosa e difficile che è tuttora in corso, hanno consentito che emergessero fatti di inaudita gravità nella gestione delle misure di prevenzione antimafia a Palermo, permettendo che la prima Commissione e la sezione disciplinare del Csm potessero sollecitamente esercitare le funzioni di ripristino del prestigio e dell'autorevolezza di quell'ufficio". Ecco perché Legnini ha detto di avere “scelto di essere presente a Caltanissetta, per testimoniare la mia gratitudine è quella di tutto il Csm verso i magistrati che prestano servizio in questo distretto”. Sulla stessa lunghezza d'onda le parole del procuratore generale di Caltanissetta, Sergio Lari: "Gli scandali che hanno visto coinvolti i magistrati, pur trattandosi di episodi isolati, non possono essere sottovalutati e dimostrano come la massima attenzione debba essere posta alla deontologia ed alla questione morale nella magistratura, essendo inammissibili, soprattutto in un'epoca così degradata in altri ambiti istituzionali, cadute etiche da parte di chi deve svolgere l'alto compito del controllo di legalità".

L’antimafia di facciata ai pm non piace più. Apertura dell'anno giudiziario a Palermo. Il procuratore Lo Voi: persegue affari e carriera, scrive Luca Rocca il 31 gennaio 2016 su “Il Tempo”. Che un giorno anche la procura di Palermo potesse destarsi e puntare il dito contro l’«antimafia di facciata», accusata di perseguire solo «affari e carriera», ci credevano in pochi. Forse nessuno. E invece è accaduto ieri in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, quando il procuratore capo Francesco Lo Voi si è scagliato proprio contro chi, nascondendosi dietro l’intoccabilità di chi quella categoria l’ha usata come una corazza, ha pensato di poter coltivare i propri interessi con la certezza di non essere sfiorato nemmeno dal sospetto. D’altronde, dopo i casi di Silvana Saguto, ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo per la gestione dei beni confiscati indagata per corruzione, abuso d'ufficio e riciclaggio; quello di Roberto Helg, ex presidente della Camera di Commercio di Palermo arrestato per estorsione dopo anni di proclami contro il pizzo; o ancora di Antonello Montante, delegato nazionale per la legalità di Confindustria Sicilia indagato per concorso esterno in associazione mafiosa; oppure Rosy Canale, condannata a quattro anni di carcere per truffa e malversazione dopo aver vestito i panni della paladina anti ’ndrangheta col «Movimento donne di San Luca»; dopo questi «colpi al cuore» al professionismo dell’antimafia, dicevamo, dalla procura che più di ogni altra ha incarnato la lotta alla mafia, «slittando», da un certo momento in poi, verso mete fantasiose e poco concrete, una parola di condanna non poteva più mancare. E così ieri Lo Voi (la cui nomina a capo della procura palermitana è stata resa definitiva, pochi giorni fa, dal Consiglio di Stato, che si è espresso sui ricorsi di Guido Lo Forte e Sergio Lari, procuratori rispettivamente a Messina e Caltanissetta) non ha taciuto, non ha voluto tacere: «Forse c'è stata – ha affermato il procuratore capo di Palermo - una certa rincorsa all'attribuzione del carattere di antimafia, all'auto-attribuzione o alla reciproca attribuzione di patenti di antimafiosità, a persone, gruppi e fenomeni che con l'antimafia nulla avevano e hanno a che vedere». Lo Voi non ci ha girato intorno, e pur senza citare, ovviamente, casi specifici, ha preso di petto la deriva di quell’antimafia che, dopo la sconfitta della mafia stragista, come sostiene da tempo lo storico Salvatore Lupo, ha perso la sua ragione d’essere: «La rincorsa è servita anche a tentare di crearsi aree di intoccabilità – ha scandito il procuratore -, o magari a riscuotere consensi, a guadagnare posizioni, anche a fare affari ed a bollare come inaccettabili eventuali dissensi e opinioni diverse». Parole inequivocabili. Proprio come quelle pronunciate subito dopo e che chiamano in causa le stesse toghe: «E, spiace registrarlo, a questa rincorsa non si è sottratta quasi nessuna categoria sociale e, pur con tutte le cautele del caso derivanti dal rispetto per alcune indagini ancora in corso, forse neanche qualche magistrato». Dato a Cesare quel che è di Cesare, il procuratore capo non poteva, infine, non concedere qualche distinguo: «Antimafia è e significa rispettare le leggi e fare il proprio dovere. Gran parte del resto è sovrastruttura, che è servita a costituire categorie di presunti intoccabili, così rischiando di vanificare l'opera talora pionieristica e sicuramente coraggiosa di chi l'antimafia l'ha fatta veramente. Dire che tutta l'antimafia è inquinata è, ancora una volta, fuori dalla realtà ed è falso».

Lo Voi e l'antimafia di facciata: "È servita per affari e carriere", scrive Sabato 30 Gennaio 2016 "Live Sicilia". Intervento del procuratore all'inaugurazione dell'anno giudiziario di Palermo: "A questa rincorsa non si è sottratta quasi nessuna categoria sociale". Poi, una frecciata agli imprenditori che "pretendono" la restituzione dei beni che sono stati sequestrati per mafia. (Nella foto il procuratore Francesco Lo Voi". "C'è stata forse una certa rincorsa all'attribuzione del carattere di antimafia, all'autoattribuzione o alla reciproca attribuzione di patenti di antimafiosità a persone, gruppi e fenomeni che con l'antimafia nulla avevano e hanno a che vedere. L'antimafia di facciata, che serve a scalare posizioni sociali e fare carriera, finisce "sotto attacco" del procuratore di Palermo Francesco Lo Voi nel corso dell'inaugurazione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario. Ed ancora: "La rincorsa è servita anche a tentare di crearsi aree di intoccabilità, o magari a riscuotere consensi, a guadagnare posizioni, anche a fare affari; ed a bollare come inaccettabili eventuali dissensi o opinioni diverse. E, spiace registrarlo, a questa rincorsa non si è sottratta quasi nessuna categoria sociale e, pur con tutte le cautele del caso derivanti dal rispetto per alcune indagini ancora in corso, forse neanche qualche magistrato". Eppure, secondo Lo Voi, basterebbe poco: "Antimafia è e significa rispettare le leggi e fare il proprio dovere; gran parte del resto è sovrastruttura, che è servita a costituire categorie di presunti intoccabili, così rischiando di vanificare l'opera talora pionieristica e sicuramente coraggiosa di chi l'antimafia l'ha fatta veramente". Poi ha lanciato un monito: "Da un lato dobbiamo essere estremamente vigili, tutti, per evitare che vi siano non soltanto infiltrazioni e sostenendo e supportando coloro che fanno, anziché quelli che dicono di fare. Dall'altro lato, dobbiamo evitare il danno peggiore, che è quello della generalizzazione. Dire che tutta l'antimafia è inquinata è, ancora una volta, fuori dalla realtà ed è falso". "Mettere nel nulla i risultati ottenuti sarebbe assurdo. Pretendere, solo per fare un esempio, la restituzione dei beni sequestrati o confiscati ai mafiosi, addirittura costituendo associazioni ad hoc sarebbe ancora più assurdo", ha concluso riferendosi all'associazione costituita dopo il caso Saguto da imprenditori indiziati di contiguità mafiose ai quali erano stati sequestrati i patrimoni. 

Mea culpa di politica e magistratura, scrive Sabato 30 Gennaio 2016 di Riccardo Lo Verso su "Live Sicilia". La gestione dei beni confiscati alla mafia tiene banco nel giorno dell'inaugurazione dell'anno giudiziario. A Palermo come a Caltanissetta autorevoli voci confermano che lo scandalo andava e poteva essere evitato, ma sono mancati i controlli. Dell'antimafia di mestiere, tutta chiacchiere e distintivo, restano le macerie. Persino la magistratura siciliana ammette i propri errori. E lo fa scegliendo il giorno della parata delle toghe. Per una volta non c'è solo retorica nei discorsi dell'inaugurazione dell'anno giudiziario. È il caso Saguto ad imporlo, senza se e senza ma, sia a Palermo, la città dello scandalo che ha travolto la sezione Misure di prevenzione del Tribunale, che a Caltanissetta, dove lavorano i pm che lo scandalo hanno fatto esplodere con le indagini. Sarà l'inchiesta e l'eventuale processo a stabilire se l'ex presidente Silvana Saguto e gli altri componenti del vecchio collegio che sequestrava i beni ai mafiosi e li assegnava agli amministratori giudiziari abbiano davvero commesso i reati che i finanzieri ipotizzano. Reati pesanti che includono la concussioni, la corruzione e il riciclaggio. Dalle indagini è, però, già emerso uno spaccato di favori e clientele che fa a pugni con l'imparzialità che ci si attende da chi indossa una toga. È Giovanni Legnini, vice presidente del Csm, l'organo di autogoverno della magistratura, oggi a Caltanissetta, a parlare di “fatti di inaudita gravità”. La magistratura ammette gli errori. È lecito chiedersi, però, cosa abbia fatto per evitarli. A Palermo il presidente della corte d'appello Gioacchino Natoli ha spiegato “che se le criticità emerse dai controlli seguiti alle vicende legate all'inchiesta sulla sezione misure di prevenzione di Palermo dovessero essere confermate, occorrerebbe riflettere sulla sorveglianza esercitata dalla dirigenza locale e dal consiglio giudiziario". Insomma, secondo Natoli, chi doveva controllare non lo avrebbe fatto. A livello locale, così come anche nei palazzi romani. Sempre Legnini si è complimentato con "i magistrati della Procura di Caltanissetta” che grazie alla loro indagine "coraggiosa e difficile hanno consentito che emergessero fatti di inaudita gravità nella gestione delle misure di prevenzione antimafia a Palermo, permettendo che il Csm potesse sollecitamente esercitare le funzioni di ripristino del prestigio e dell'autorevolezza di quell'ufficio". Ripristinare, appunto, qualcosa che è venuta meno e non prevenire che ciò accadesse. E la politica? Anch'essa ammette, per bocca del ministro della Giustizia Andrea Orlando, oggi a Palermo, “la timidezza della politica negli anni passati sulla magistratura. Avere lasciato spazi di discrezionalità ampia, per esempio, non regolando attraverso norme i compensi e le modalità di affidamento degli incarichi agli amministratori giudiziari o in altre procedure che prevedano incarichi con ampio margine di discrezionalità, ha consentito che si creassero zone d'ombra. La stagione nuova che si è aperta - conclude il ministro - ci consente di ragionare, grazie anche al rinnovato dialogo con la magistratura, su questi temi allo scopo di tutelare il prestigio della giurisdizione". E così la politica e la magistratura, per bocca dei suoi stessi autorevoli rappresentanti, hanno finito per contribuire a rendere vuota di significato la parola antimafia. L'intervento più duro della giornata è arrivato dal procuratore di Palermo Francesco Lo Voi che fotografia le macerie dell'antimafia: "C'è stata forse una certa rincorsa all'attribuzione del carattere di antimafia, all'autoattribuzione o alla reciproca attribuzione di patenti di antimafiosità a persone, gruppi e fenomeni che con l'antimafia nulla avevano e hanno a che vedere. Rincorsa che è servita anche a tentare di crearsi aree di intoccabilità o magari a riscuotere consensi. Spiace registrarlo a questa rincorsa non si è sottratta quasi nessuna categoria sociale e, pur con tutte le cautele del caso derivanti dal rispetto per indagini ancora in corso, forse neanche qualche magistrato". 

L’Antimafia? Una, nessuna, centomila, scrive Salvo itale il 24 gennaio 2016 su Telejato. C’È QUALCOSA CHE NON FUNZIONA NEL MONDO DELL’ANTIMAFIA, DI SICURO NON FUNZIONA IL FATTO CHE CI SIA IN MEZZO IL DENARO. La vera antimafia, come sosteniamo da anni, tirandoci addosso le ire di tutte le associazioni antimafia, dovrebbe essere gratuita, in nome degli alti ideali cui fa riferimento e in nome di tutti coloro che sono morti per mano della mafia senza avere lucrato una sola lira. Recentemente lo stesso concetto è stato “scoperto” e ripetuto dal garante anticorruzione Raffaele Cantone e da un altro magistrato in prima linea contro la ‘ndrangheta, Nicola Gratteri. Un altro magistrato napoletano, Maresca, ha scatenato le ire di tutta la commissione Antimafia, a partire dalla sua presidente Rosy Bindi, e naturalmente anche di Don Ciotti, per aver affermato che anche in Libera “C’è del marcio”, ovvero che la più prestigiosa associazione antimafia dovrebbe stare un po’ più attenta nella scelta di coloro cui viene affidata la gestione di alcuni affari e di alcuni terreni confiscati alla mafia. La notizia di oggi è che il presidente di Confindustria Sicilia Antonello Montante, bandiera dell’antiracket e strenuo sostenitore del fatto che bisogna denunciare gli estortori, è stato sottoposto a perquisizioni domiciliari disposte dalla procura di Caltanissetta ed è sotto inchiesta, a seguito delle dichiarazioni di alcuni pentiti, con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. L’indagine era partita da un articolo di Riccardo Orioles, scritto qualche anno fa, su “I Siciliani giovani” nel quale si denunciava che Montante era stato testimone di nozze del boss di Serradifalco. Montante, difeso a spada tratta dalla Procura Nazionale Antimafia e da tutti i suoi colleghi industriali, cammina sotto scorta, essendo ritenuto un soggetto esposto a ritorsioni mafiose per la sua costante attività in favore della legalità. Per anni è stato l’anello di collegamento con prefetti, questori, esponenti del governo, magistrati, industriali, tutti d’accordo ad esaltare le sue scelte antimafia e il suo coraggio. Addirittura era stato scelto da Alfano come componente dell’Agenzia Nazionale dei beni confiscati e quindi avrebbe potuto facilmente disporne l’assegnazione agli industriali suoi amici: per fortuna, dopo le polemiche sorte, non ha accettato. Ma Montante ha una serie di precedenti che dimostrano il fallimento dell’Antimafia di facciata, spesso scelta per non avere grane, per non essere sottoposto a indagini o, qualche volta, per coprire certi affari poco puliti. Il caso Helg, anche lui bandiera dell’antimafia, colto con le mani nel sacco, non è diverso da tutta una serie di altri casi che puntano alla spartizione di fondi governativi o europei al mondo delle associazioni antimafia, privilegiando quelle più vicine politicamente a certi uomini di potere. Nell’albo prefettizio, sono iscritte, solo per l’Italia meridionale oltre cento associazioni antiracket. Ma già nel marzo del 2012 le associazioni “La Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” avevano inviato una lettera al ministro Cancellieri, denunciando la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva, mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. Allora i fondi del Pon erano stati destinati soltanto a: “Comitato Addio Pizzo” (1.469.977 euro); Associazione Antiracket Salento (1.862.103 euro) e F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che pur raggruppando una cinquantina di associazioni ottenne finanziamenti per 7 milioni di euro in qualità di soggetto giuridicamente autonomo. Altri 3.101.124 euro erano finiti a Confindustria Caserta e Confindustria Caltanissetta, quella di Montante. Allora si trattava di 13 milioni e 433 mila euro stanziati da Bruxelles che facevano parte del Pon-Sicurezza, al fine di contrastare gli ostacoli allo sviluppo del Mezzogiorno. Quei soldi furono distribuiti, con la benedizione dell’allora ministro Cancellieri e dall’allora sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano, del commissario antiracket Giosuè Marino, poi assessore in Sicilia della giunta dell’ex Governatore Lombardo indagato per mafia e del presidente dell’autorità di gestione del Pon-Sicurezza e al contempo vicecapo della polizia Nicola Izzo, il prefetto dallo scandalo sugli appalti pilotati dal Viminale. È cambiato qualcosa in questi anni? Niente: un mare di denaro pubblico finisce per finanziare progetti di “educazione alla legalità” preparati dalle associazioni antimafia e antiracket che vanno per la maggiore, ma i risultati sono pochi, contraddittori e senza risvolti. Per non parlare dell’antimafia da tribunale, della quale abbiamo detto tante cose, quelle legate alla gestione di Silvana Saguto e dei suoi collaboratori, con una caterva di persone che hanno succhiato a questa mammella senza ritegno, cioè magistrati, amministratori giudiziari curatori fallimentari, avvocati, affaristi, cancellieri, collaboratori a vario titolo, consulenti ecc. Per tornare alla Confindustria, dalle varie situazioni giudiziarie è uscito indenne Catanzaro, altro antimafioso che gestisce la discarica di Siculiana, scippata al comune, assieme al fratello, vicepresidente, sempre di Confindustria Sicilia. Si potrebbe dire ancora tanto, ma facciamo solo un cenno ai politici che dell’antimafia hanno fatto una loro bandiera, che sono presenti a tutte le manifestazioni e agli anniversari, che hanno costruito le loro fortune grazie a questa bandiera, ammainata quasi sempre, ma pronta a sventolare nelle grandi occasioni. Qualcuno direbbe che siamo nella terra di Sciascia, quella dei professionisti dell’antimafia, qualche altro direbbe che siamo in quella del Gattopardo, in cui si fa vedere l’illusione del cambiamento per non cambiare, o nella terra di Pirandello, dove il caciocavallo ha quattro facce, o meglio ne ha una, nessuna, centomila.

Cantone: "C'è chi usa l'antimafia, smascheriamolo". Il presidente dell'Anticorruzione interviene nella polemica sui beni confiscati alle mafie. E su Libera dice: "Ha fatto tanto ma è diventata un brand", scrive il 25 gennaio 2016 Maurizio Tortorella su "Panorama". “C’è chi usa l’antimafia e va smascherato”. Questo dice Raffaele Cantone, oggi presidente dell’Autorità anticorruzione e dal 1999 al 2007 magistrato attivo a Napoli nella lotta alla camorra. In questa intervista, Cantone parla della opaca gestione dei beni confiscati e della durissima denuncia che sulla materia ha lanciato attraverso Panorama Catello Maresca, proprio il pm che di Cantone è stato il successore alla Procura di Napoli.

Dottor Cantone, il pm Maresca attacca “gli estremisti dell’antimafia, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato”. Le sue accuse sono molto gravi. Lei è d’accordo con lui?

«Ho letto l'intervista di Catello Maresca, cui mi legano rapporti di affetto e amicizia, e anche le precisazioni dopo che è scoppiata la polemica con Libera. Condivido gran parte dell’analisi svolta da Catello e ritengo sia stato giusto e opportuno richiamare l’attenzione su cosa sta accadendo in generale nel mondo dell’Antimafia sociale e nella gestione dei beni confiscati».

Che cosa sta accadendo, secondo lei, in quel mondo?

«Si stanno verificando troppi episodi che appannano l’immagine dell’antimafia sociale e troppe volte emergono opacità e scarsa trasparenza sia nell’affidamento che nella gestione di beni confiscati. Questi ultimi, invece, di rappresentare una risorsa per il Paese, spesso finiscono per essere un altro costo; vengono in molti casi affidati a terzi gratuitamente e a questi affidamenti si accompagnano spesso anche sovvenzioni e contributi a carico di enti pubblici. Cosa che può essere anche giusta e condivisibile in astratto ma che richiede un controllo reale in concreto su come i beni e le risorse vengano gestite per evitare abusi e malversazioni. Non sono, però, d’accordo nell’aver individuato quale paradigma di queste distorsioni Libera; e il mio giudizio in questo senso non è influenzato dai rapporti personali con Luigi Ciotti né dal fatto che come Autorità anticorruzione abbiamo avviato una collaborazione con Libera, che rivendichiamo come un risultato importante».

Su Libera, Maresca ha dichiarato a Panorama: «Libera gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa». Ha torto o ha ragione?

«Sono sicuro che in questa parte il ragionamento di Catello sia stato equivocato; non mi risulta che Libera abbia il monopolio dei beni confiscati e che li gestisca in modo anticoncorrenziale; conosco alcune esperienze di gestione di beni da parte di cooperative che si ispirano a Libera (per esempio, le terre di don Peppe Diana) e li ritengo esempi positivi; beni utilizzati in una logica produttiva e che stanno anche dando lavoro a ragazzi dimostrando quale deve essere la reale vocazione dell’utilizzo dei beni confiscati. Condivido, invece, l’idea di fondo di Catello; è necessario che le norme prevedano che anche l’affidamento dei beni confiscati debba seguire procedure competitive e trasparenti, non diverse da quelle che riguardano altri beni pubblici. Ovviamente tenendo conto delle peculiarità dei beni che si affidano».

Ma lei, che alla Direzione distrettuale antimafia di Napoli occupava proprio la stanza che oggi è di Maresca, che cosa pensa di Libera?

«Libera è un’associazione che ha fatto battaglie fondamentali in questo paese; le va riconosciuto il merito di aver compreso quanto fosse utile per la lotta alla mafia l’impegno dei cittadini; e sta provando a fare la stessa cosa anche sul fronte della corruzione, cosa di cui gli siamo grati. Certo Libera è un’associazione che è cresciuta tantissimo ed è diventata sempre più nota e visibile; è diventato anche un “brand” di cui in qualche caso qualche speculatore potrebbe volersi appropriare per ragioni non necessariamente nobili. Credo che questo possa essersi in qualche caso anche verificato. E’ però il rischio di un’associazione che cresce ed è un rischio che ha ben presente anche Luigi Ciotti che in più occasioni non ne ha fatto nemmeno mistero in pubblico».

Don Ciotti ha annunciato querela contro Maresca. Viene un po’ in mente la polemica di Leonardo Sciascia del gennaio 1987 sui «professionisti dell’antimafia»: è possibile criticare l’antimafia?

«Spero che Ciotti possa rivedere la sua posizione. Sono certo che, se parlasse con Maresca, i punti di contatto sarebbero maggiori delle distanze. E lavorerò perchè questo accada. Credo che la reazione a caldo di Ciotti però si giustifichi anche perché in questo momento ci sono attacchi a Libera (che non sono quelli di Catello, sia chiaro!) che giustamente lo preoccupano. Ciò detto, l’antimafia può ben essere criticata se è necessario e parole anche dure, come quelle dette anni fa da Sciascia, non possono essere semplificativamente respinte come provenienti da “nemici”. Sciascia con quella sua frase dimostrò di essere in grado di guardare molto lontano e di aver capito i rischi della professionalizzazione di un impegno civile, anche se aveva sbagliato nettamente l’obiettivo immediato; quelle critiche si riferivano a Paolo Borsellino ed erano nei suoi confronti ingiuste ed ingenerose».

Maresca dice anche che «è necessario smascherare gli estremisti dell’antimafia». La frase è forte: ha ragione?

«Si, anche se io preferisco dire che bisogna smascherare chi l’antimafia la usa e la utilizza per fini che nulla hanno a che vedere con le ragioni di contrasto alla mafia. E negli ultimi tempi di soggetti del genere ne abbiamo visto non pochi!»

Lo scorso settembre il «caso Saguto» ha fatto emergere a Palermo lo scandalo della cattiva gestione dei beni confiscati. Il procedimento è in ancora corso. Ma lei che opinione s’è fatto?

«Il caso Saguto attende le verifiche giudiziarie, come è giusto che sia; lo spaccato che emerge può essere valutato a prescindere dagli aspetti penali ed è decisamente inquietante. Ho sempre pensato che i giudici debbano tenersi lontano dalle gestioni economiche soprattutto quando passano per incarichi lucrosi e discrezionali a terzi professionisti, con cui si rischia di creare rapporti personali oltre che professionali. Da presidente dell’Anac ho chiesto formalmente al Governo di fissare le tariffe per gli amministratori (a cui sono legati gli emolumenti per gli amministratori dei beni da noi commissariati) proprio perchè certe discrezionalità in questo settore possono aprire la strada ad abusi.»

Certi Uffici misure di prevenzione dei Tribunali sono forse diventati "enclave" con troppo potere?

«Può forse essere accaduto in qualche caso, ma le generalizzazioni rischiano di far dimenticare quanto sia stato importante il ruolo di quelle sezioni del tribunale nella lotta alla mafia. La natura temporanea di questi incarichi, prevista opportunamente da regole interne introdotte dal CSM, è un antidoto utile a favore degli stessi magistrati per evitare eccessive personalizzazioni. Ed aggiungo, io non sono affatto favorevole alla norma, in discussione in parlamento, secondo cui le sezioni in questione devono obbligatoriamente occuparsi solo di prevenzione».

Già nel marzo 2012 l’ex direttore dell’Agenzia beni confiscati Giuseppe Caruso diceva che "i beni confiscati sono serviti, in via quasi esclusiva, ad assicurare gli stipendi e gli emolumenti agli amministratori giudiziari, perché allo Stato è arrivato poco o niente". Possibile che per altri tre anni sia prevalso l’immobilismo?

«L’affermazione di Caruso ha un che di vero, ma è comunque esagerata. È vero che ad oggi lo Stato non è riuscito ancora a cogliere l’occasione di utilizzare in modo più proficuo i beni confiscati e che è indispensabile un cambio di passo. Non va, però, dimenticato quanto siano state importanti le confische per indebolire le mafie. Non vorrei che qualcuno pensasse di utilizzare queste criticità per indebolire la lotta alla mafia, che ha invece assoluta necessità di utilizzare le misure di prevenzione patrimoniale».

Più di recente, nel 2014, Caruso aveva denunciato l’esistenza di amministratori giudiziari "intoccabili", di "professionisti che hanno ritenuto di disporre dei beni confiscati per costruire i loro vitalizi" e criticato apertamente l’operato del Tribunale di Palermo. Era stato criticato ferocemente da sinistra: Rosy Bindi disse che aveva "delegittimato i magistrati e l’antimafia". Eppure Caruso aveva ragione: allora, perché è stato isolato?

«Con il senno di poi non si può dire altro che avesse ragione. Non conoscendo, però, con precisione le sue dichiarazioni non so se avesse fornito indicazioni precise che, ovviamente sarebbe stato compito della commissione antimafia approfondire, o avesse fatto affermazioni generiche che potevano essere considerate effettivamente delegittimanti. Del resto Caruso, era un prefetto ed un pubblico ufficiale e se aveva conoscenza di fatti illeciti non doveva limitarsi a segnalarli all’Antimafia, ma denunciarli alla Procura competente!»

Anche l’Associazione nazionale magistrati nel 2014 aveva criticato il prefetto: "I magistrati della sezione misure di prevenzione e i loro collaboratori" si leggeva in un comunicato "operano in difficili condizioni, conseguendo risultati di assoluto rilievo (…). Chiunque ricopre incarichi istituzionali (cioè Caruso, ndr), ha il dovere di denunciare eventuali illeciti alla competente autorità giudiziaria e dovrebbe astenersi dal rilasciare dichiarazioni pubbliche non supportate da elementi di riscontro". Un comunicato che oggi grida vendetta, vero?

«Spesso scatta una sorta di riflesso condizionato, di difesa della magistratura e dei magistrati “a prescindere”. Ma io non voglio altre polemiche con l’Anm. Credo che l’Anm possa e debba svolgere un ruolo importante anche per tenere alta la questione morale in magistratura. Ho fatto parte alcuni anni fa del collegio dei probiviri dell’Anm ed ho verificato quanto fosse difficile applicare le regole deontologiche. Disponemmo un’espulsione di un magistrato dall’associazione ed avviammo altri procedimenti analoghi e per capire anche come stilare il provvedimento di espulsione cercammo precedenti che non trovammo. Fummo sicuramente noi poco diligenti nel non reperirli».

Una domanda da 30 miliardi di euro (tanto si dice sia il valore dei patrimoni sequestrati): che cosa dovrebbe fare lo Stato per gestire al meglio i beni confiscati alle mafie?

«Lo Stato deve capire quale sia la destinazione migliore e farlo anche grazie ad esperti indipendenti. In qualche caso ho avuto l’impressione che certe attività, che funzionavano chiaramente solo perchè gestite da mafiosi, siano state tenute in vita senza una logica e abbiano finito per creare solo inutili perdite. Bisogna preferire le destinazioni economiche dei beni, incentivando l’utilizzo in funzione produttiva piuttosto che destinazioni poco utili.

Per esempio?

«Quante ludoteche e centri per anziani abbiamo in passato aperto in beni confiscati? È per questo che credo che iniziative come quelle citate prima, dell’utilizzo di terreni da parte di cooperative di giovani siano assolutamente da favorire. È un segnale importante che deve dare lo Stato, di essere capace di utilizzare i beni per produrre ricchezza, non lasciandoli deperire. Quando nel mio paese vedo un immobile oggi confiscato, nel quale prima operava una scuola, e oggi è completamente vandalizzato, mi chiedo se questa non sia l’immagine peggiore che riesce a dare l’istituzione pubblica».

Non sarebbe meglio vendere tutto quel che è possibile vendere, come suggerisce Maresca?

«La vendita deve essere ammessa, ma considerata comunque eccezionale e riguardare beni che non possono essere destinati in alcun modo. Il primo impegno deve essere quello di utilizzarli per fini di utilità sociale o per avviare attività economiche a favore di giovani e soggetti svantaggiati».

Come si evita il rischio che poi, a ricomprare, siano gli stessi mafiosi o loro teste di legno?

«Il rischio è reale; ma se si fanno controlli veri, attraverso la Guardia di finanza, su chi li compra e si stabilisce, per esempio, un vincolo di non alienazione per alcuni anni, questo rischio si riduce. Eppoi questo rischio non può giustificare il lasciar andare in malora qualche bene. Meglio è, come provocatoriamente più volte ha detto Nicola Gratteri, abbatterli e destinare per esempio i terreni a parchi pubblici!»

Certo, è più facile alienare beni mobili e immobili confiscati. Lo è meno nel caso delle aziende: qui quale soluzione prospetta?

«È molto più difficile gestire un’impresa appartenuta ad un mafioso, che come ho accennato sopra, spesso si è imposta nel mercato e ha utilizzato il know-how mafioso per ottenere risultati economici. Perciò va fatta una valutazione immediata e preliminare per capire se un'impresa è in grado di funzionare. Se no è meglio chiuderla ed eventualmente vendere i beni che di essa fanno parte. Se l’impresa è sana o comunque riportabile nella legalità, lo Stato può pensare di creare condizioni favorevoli (per esempio esenzioni fiscali e crediti di imposta) per consentirle di operare secondo le regole».

Perché tante aziende mafiose confiscate falliscono (creando tra l’altro un malessere sociale di cui poi le mafie inevitabilmente si approfittano)?

«Perché gli imprenditori mafiosi utilizzano regole diverse nello svolgimento dell’attività; utilizzano i canali mafiosi per imporre i loro prodotti; non hanno bisogno di farsi dare soldi in prestito dalle banche; non devono andare in tribunale per riscuotere i crediti; né rivolgersi a sindacati per i problemi con i lavoratori. Sono imprese "drogate" e quando viene meno il doping criminale non reggono il mercato! Il loro fallimento crea sicuramente malessere sociale ma bisogna stare attenti a salvarle a tutti i costi e fare un’attenta prognosi come dicevo prima. Spesso in esse lavorano persone direttamente collegati alle cosche e si rischia, salvandole a spese pubbliche, di foraggiare indirettamente i clan».

Nel luglio 2015, due mesi prima dell’emersione dello scandalo Saguto, lei aveva chiesto al governo d’intervenire sulle elevatissime retribuzioni degli amministratori giudiziari. Aveva intravisto qualche criticità?

«Ho fatto il pubblico ministero antimafia per otto anni e pur non essendomi occupato di misure di prevenzione, mi era chiaro come un sistema con regole non chiare rischiava di aprire il varco ad abusi. In qualche caso mi era capitato di vedere liquidazioni che mi erano sembrate eccessive. Ammetto, però, che sono sobbalzato quando ho sentito di alcune liquidazioni di onorari fatti ad amministratori giudiziari».

Le leggi e la prassi permettono effettivamente agli amministratori giudiziari dei beni confiscati di raggiungere retribuzioni elevatissime: è un errore da cancellare, oppure con un calo dei compensi nessuno accetterebbe?

«Il rischio c’è: le tariffe introdotte dal provvedimento del governo sicuramente renderanno meno appetibili le amministrazioni e probabilmente allontaneranno alcuni professionisti di valore dal settore. C’è pero una certa elasticità che consente di adeguarle e forse sarà l’occasione per dare spazio a giovani professionisti che non sempre hanno avuto l’occasione di operare in tale ambito».

Non sarebbe più corretto ordinare il sequestro di un bene soltanto quando si è dimostrata, almeno nel primo grado di giudizio, la sua provenienza mafiosa?

«No. Il sequestro resta un provvedimento necessario per togliere subito i beni ai mafiosi. Bisogna invece fare in modo che duri il meno possibile e che sia sostituito da provvedimenti definitivi di confisca».

Non sarebbe bene, anche, svincolare le competenze sui decreti di sequestro e di nomina degli amministratori dalle mani di un solo magistrato, per attribuirla a tutti i magistrati di un pool antimafia?

«Già è competenza collegiale del tribunale, quantomeno nei casi di confische di prevenzione. Il sistema prevede controlli sufficienti anche da parte dei vertici degli uffici. Basta che tutti gli attori siano realmente attenti e scrupolosi rispetto ai loro compiti. Non sempre può dirsi dopo “non me ne ero accorto” o “non avevo capito”.»

Il nuovo Codice antimafia, varato dalla Camera e in attesa di approvazione al Senato, è la soluzione?

«Va nella giusta direzione per molti aspetti. Vuole migliorare la capacità di lavoro dell’Agenzia, un’entità utile che ad oggi ha dovuto fare sforzi enormi, per difficoltà oggettive. Prevede regole più chiare sulla destinazione dei beni. Ci sono delle criticità in quella normativa, come ad esempio l’estensione automatica delle regole della prevenzione ai fatti corruttivi che rischia di creare più problemi di quanti ne risolve. Complessivamente comunque un provvedimento positivo, ma probabilmente saranno opportuni interventi modificativi da parte del Senato».

È una soluzione il divieto giacobino di affidare beni confiscati a un «commensale abituale» del giudice che decide?

«Come magistrato lo sento gravemente offensivo; non avrei mai pensato, anche senza questa regola, di affidare un incarico ad un mio commensale abituale. Certe vicende, però, giustificano persino regole che dovrebbero rientrare nella deontologia minima. Quelle vicende, però, sono l’eccezione, per fortuna, perché di queste regole la maggior parte dei magistrati non ha certo bisogno!»

Torniamo a Catello Maresca: non crede che ora rischi parecchio (e non sto parlando, ovviamente, della querela di Don Ciotti…)?

«Lo escludo. I rischi che ha corso e corre Catello sono legati al suo eccezionale impegno giudiziario e ai risultati ottenuti, quale la cattura del più importante boss dei casalesi. E su quell’aspetto non è stato lasciato solo. Nè lo sarà, assolutamente».

I guai dei paladini antimafia. Rosy Canale condannata a quattro anni. Quattro anni di galera. È la condanna inflitta all’ex paladina antimafia Rosy Canale, la donna che subito dopo la feroce strage di Duisburg del 15 agosto 2007, quando le cosche rivali Nirta-Strangio..., scrive L.R. il 23 gennaio 2016 su “Il Tempo”. Quattro anni di galera. È la condanna inflitta all’ex paladina antimafia Rosy Canale, la donna che subito dopo la feroce strage di Duisburg del 15 agosto 2007, quando le cosche rivali Nirta-Strangio e Pelle-Vottari regolarono i conti in Germania con uno scontro a fuoco che provocò sei morti, fondò, nel piccolo centro aspromontano scenario della faida, il «Movimento donne di San Luca». Un barlume di luce, in apparenza, una speranza, ci si illudeva, che si chiude, tristemente, con la condanna a 4 anni per truffa e malversazione, a fronte dei 7 chiesti dal pm della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, Francesco Tedesco. Dunque, per il Tribunale di Locri che l’ha processata, Rosy Canale, per anni considerata un’icona della lotta alle cosche, ha davvero utilizzato finanziamenti pubblici destinati all’attività del «suo» Movimento per scopi personali. La storia, che getta altre ombre sul mondo dell’antimafia di professione, scosso negli ultimi mesi da micidiali colpi d’immagine, inizia il 12 dicembre del 2013, giorno in cui la Dda reggina, coordinata dal procuratore Federico Cafiero de Raho, fa scattare le manette ai polsi di alcuni ex amministratori comunali, imprenditori e boss. La donna simbolo dell’antimafia, alla quale non viene contestata l’aggravante mafiosa, finisce ai domiciliari. L’inchiesta, non a caso denominata «Inganno», appare subito solida. Alla Canale i magistrati contestano di aver utilizzato 160mila euro per comprare vestiti delle più note marche e una minicar alla figlia, arredamento per la casa e oggetti di lusso. Quando il Tribunale del Riesame revoca l’arresto, la Canale va in tv a parlare di «grande montatura». La sentenza di ieri toglie, per ora, ogni dubbio. Eppure lei, la donna simbolo di San Luca, nei panni della paladina antimafia ci si era calata alla perfezione: vergando libri per raccontare la sua ribellione alla ’ndrangheta, ricevendo il premio «Paolo Borsellino» (poi ritirato). Persino il Los Angeles Times dedicò un reportage alle donne di San Luca. La pessima figura dell’«antimafia di professione», stavolta, ha varcato pure i confini nazionali.

Rosy Canale, 4 anni per truffa alla paladina della lotta alla ’Ndrangheta. La fondatrice delle «Donne di San Luca» accusata d’aver utilizzato 160 mila euro di fondi pubblici per comprare vestiti e beni di lusso: «Me ne fotto, non sono soldi miei», scrive Carlo Macrì il 22 gennaio 2016. Era considerata un'icona dell'Antimafia Rosy Canale, l'imprenditrice reggina condannata venerdì dal tribunale di Locri a quattro anni di carcere, più l'obbligo di risarcire gli Enti che ha truffato attraverso la sua Fondazione «Donne di San Luca». È proprio attraverso questo movimento che la Canale, 42 anni, riuscì a ritagliarsi un ruolo nell'Antimafia, «parlando» alle donne del centro preaspromontano all'indomani della strage di Duisburg (sei morti) dell'agosto 2007. La procura distrettuale di Reggio Calabria l'aveva arrestata a dicembre del 2013 con l'accusa di truffa aggravata e peculato per distrazione. La donna, infatti si era impossessata dei fondi pubblici comunitari e italiani erogati per finanziare la sua fondazione antimafia. Centosessanta mila euro che anziché foraggiare il laboratorio dei saponi artigianali a San Luca, sarebbero finiti nelle tasche dell'imprenditrice che li avrebbe utilizzati per l'acquisto di abiti firmati e un'auto per la figlia, vestiti per il padre e beni di lusso. E quando la madre ha cercato di fermarla - come hanno ascoltato le microspie dei carabinieri - Rosy replicava: «Me ne fotto, non sono soldi miei». Un passato da imprenditrice alle spalle, attività abbandonata dopo aver subito la violenza delle cosche reggine e un futuro da attrice. La sua storia, infatti, è diventata Malaluna, un'opera teatrale con la regia di Guglielmo Ferro e le musiche di Franco Battiato. Nel 2013, proprio per il suo impegno antimafia, aveva ricevuto il premio Borsellino. Quel giorno disse: «Vorrei che Papa Francesco venisse fra gli ultimi e i dimenticati di San Luca». Quando Rosy Canale arrivò a San Luca era una sconosciuta.  Ascoltando in chiesa il perdono di Teresa Strangio che nella strage di Duisburg perse il figlio e il fratello, l'imprenditrice capì che le donne di San Luca alla fine erano propense a rinnegare ogni violenza e a ripartire. La Prefettura le affidò un bene confiscato alla famiglia Pelle per dare inizio alle sue attività culturali. Ricami, cucina tipica, ogni donna a San Luca sembrava muoversi verso una nuova vita.  Tutto svanì. Perchè con «Inganno» l'operazione dei carabinieri che aprì le porte del carcere alla Canale, sfumarono le idee e la rinascita di un popolo per far posto all'arricchimento di una donna considerata sino a quel momento una paladina dell'Antimafia.

Condannata a 4 anni Rosy Canale, fondatrice di "Donne di San Luca". L'ormai ex simbolo dell'antimafia calabrese riconosciuta colpevole di aver utilizzato a scopi privati gran parte dei fondi pubblici destinati al suo movimento, scrive Alessia Candito il 22 gennaio 2016 su “La Repubblica”. Rosy Canale Era divenuta un nome e un volto noto dell'antimafia per le sue campagne in favore delle donne di San Luca, ma con i soldi di enti e fondazioni si viziava con vestiti e borse di marca, mobili per la propria casa, viaggi e persino un'automobile. Per questo motivo, i giudici del Tribunale di Locri hanno condannato a quattro anni di carcere l'ormai ex stellina dell'antimafia Rosy Canale, smascherata dall'inchiesta della procura di Reggio Calabria che ha svelato come la donna tenesse per sé gran parte dei fondi destinati al "Movimento delle donne di San Luca". Ex titolare di una discoteca, dopo anni trascorsi tra gli Stati Uniti e Roma Rosy Canale torna in Calabria all'indomani della strage di Duisburg, l'uccisione di sei persone vicine al clan Pelle-Vottari di San Luca, che nel 2007 svela alla Germania il volto della violenza mafiosa. Anche in Italia, l'episodio impone la 'ndrangheta al centro dell'attenzione nazionale. E Canale fiuta il business. Accreditandosi come imprenditrice "con la schiena dritta", vittima di un pestaggio per aver sbarrato il passo agli spacciatori quando gestiva un noto locale reggino, la donna si precipita a San Luca dove fonda un movimento che - almeno ufficialmente - avrebbe dovuto dare speranza e lavoro alle donne del piccolo centro nei pressi di Reggio Calabria storicamente soffocato dalla 'ndrangheta. In realtà, puntava solo ad arraffare quattrini. Grazie a una strategia mediatica abilmente pianificata, condita da diverse denunce di minacce fasulle, ma strombazzate - scrivono i magistrati - "con l'unico scopo di cavalcare l'allarme sociale in modo da acquisire credibilità sia in campo politico che nel contesto dei rapporti con soggetti istituzionali", Canale si accredita in fretta. Ministero della Gioventù, Presidenza del Consiglio Regionale della Calabria, Prefettura di Reggio Calabria e Fondazione "Enel Cuore" le inviano finanziamenti per centinaia di migliaia di euro. Al centro di San Luca, ottiene anche un immobile confiscato che sarebbe dovuto diventare una ludoteca per le sue "donne di San Luca", ma dopo l'inaugurazione non entrerà mai in funzione. Canale sforna un libro, gira l'Italia con il suo spettacolo teatrale e spende senza freni. A chi, come la madre, le raccomanda prudenza e moderazione - raccontano le intercettazioni - la donna risponde, arrogante: "Me ne fotto". Ma forse, alla luce della sentenza delle Tribunale di Locri, avrebbe fatto meglio a dare ascolto a quei consigli.

La verità di Rosy Canale: "Non ho preso soldi, ma ora sono una persona finita, scrive Claudio Cordova su “Il Dispaccio” del 23 giugno 2014. "Io sono una persona finita perché è stata intaccata la mia credibilità a 360 gradi su quello che io, Dottore, ho lavorato per anni ed ho creduto con tutta me stessa". E, ancora: "Ho una sola amarezza, che ho stimato tante – col cuore, persone che lavorano qua dentro e persona che lavorano qua dentro si sono permessi di dire delle cose che non erano vere, non avevano prove documentali screditandomi a livello nazionale e internazionale". Due interrogatori. Uno al cospetto del Gip Domenico Santoro, l'altro, alcuni mesi dopo, davanti al pm Francesco Tedesco. Interrogatori lunghi e intensi che non hanno permesso, tuttavia, a Rosy Canale, ex eroina antimafia e promotrice del Movimento Donne di San Luca, di evitare l'udienza preliminare davanti al Gup Davide Lauro nell'ambito dell'indagine "Inganno" che, oltre a svelare le ingerenze delle cosche nella vita pubblica del borgo aspromontano della Locride, coinvolgerà anche la stessa Canale che, a detta della Procura, avrebbe utilizzato una parte dei finanziamenti concessi da varie Istituzioni al Movimento per proprie spese personali. A Rosy Canale, gli inquirenti arriveranno grazie ai numerosi contatti che la donna avrà con gli amministratori locali di San Luca, fino al momento dello scioglimento del Comune. Il Movimento "Donne di San Luca" otterrà - per la propria attività di sostegno alle donne vittime della 'ndrangheta – anche un bene confiscato: un immobile sottratto alla potente cosca Pelle "Gambazza" di San Luca, destinato a ludoteca, inaugurata nel 2009, ma mai entrata in funzione. Rosy Canale avrebbe ricevuto finanziamenti da un arco vastissimo di Istituzioni. Ministero della Gioventù, Presidenza del Consiglio Regionale della Calabria, Prefettura di Reggio Calabria e Fondazione "Enel Cuore". E il lungo interrogatorio dal Gip Domenico Santoro, nei giorni successivi all'ordinanza cautelare degli arresti domiciliari nei confronti della donna si sofferma sui vari finanziamenti ricevuti. A cominciare da quello del Consiglio Regionale, in quel periodo presieduto da Giuseppe Bova:

GIUDICE -. Mi dica di come nasce il finanziamento di 5.000 euro da parte della Presidenza del Consiglio Regionale.

INDAGATA CANALE -. Con una telefonata, Dottore, perché era periodo pre-elettorale e c'era gente che regalava soldi, se gliela devo proprio dire tutta in maniera sfacciata.

GIUDICE -. Ma con chi l'ha fatta questa telefonata?

INDAGATA CANALE -. Con Strangio, il segretario di...

GIUDICE -. Con l'Avvocato Giuseppe Strangio.

INDAGATA CANALE -. Esatto.

E però ci sono anche i soldi ricevuti dal Ministero della Gioventù, in quel periodo retto da Giorgia Meloni, "Giorgietta", come la chiama Rosy Canale in alcune intercettazioni. Un finanziamento che sarebbe nato da una telefonata del Capo Dipartimento del Ministero della Gioventù, Andrea Fantoma, interessato, a detta della Canale, alle attività delle Donne di San Luca:

INDAGATA CANALE -. E tra l'altro il Dottore Fantoma mi disse, proprio per chiarezza, che qualunque cosa succedeva e avevo bisogno di qualunque riferimento, l'uomo sul territorio che li rappresentava era Franco... aiutatemi... Franco... il Consigliere Regionale arrestato con l'accusa di avere collusioni...

GIUDICE -. Morelli?

INDAGATA CANALE -. Franco Morelli, esatto. Tra l'altro, Dottore, nel mio cellulare ci sono due o tre messaggi inviati al Dottor Morelli, dove io dico per conto del Dottor Fantoma mi ha detto di contattarla per dire se ci sono delle iniziative a livello regionale che ci possano aiutare in qualche modo, questa persona non mi rispondeva né telefonicamente alle chiamate e né ai messaggi, e poi un giorno mi scrisse: "Guardi, se vuole ci incontriamo" e lo può verificare agli atti, sennò le produco io il cellulare mio e lo può evidenziare, "Se vuole ci vediamo, tanto io non sono... non mi piace avere contatti telefonici" e poi voglio dire è questo.

Nel corso dell'interrogatorio di garanzia, il Gip Santoro contesta all'indagata una serie di conversazioni anche piuttosto imbarazzanti, dalle quali, secondo le indagini condotte dai pm Nicola Gratteri e Francesco Tedesco, emergerebbe l'uso disinvolto per fini personali di soldi destinati al Movimento Donne di San Luca: "Io ho un modo molto goliardico nel parlare a volte, spiritoso, che viene frainteso, è facilmente fraintendibile" si difende Rosy Canale. L'ex pasionaria antimafia, però, nega con forza di essersi appropriata di somme destinate per la lotta alla 'ndrangheta su un territorio difficile, come quello di San Luca: "Si può fare una visura patrimoniale e vedere che cos'ho, si può fare una visura di qualunque tipo, si possono prendere sotto sequestro i miei vestiti, Dottore, e vedere se ci sono cose più costose di 30 euro, vestiti come scarpe, non ho macchine intestate, cioè se io avessi preso questi soldi, che non ho preso Dottore, ci dovrebbe essere, come dire, un cambio di tenore che io non ho mai avuto, Dottore una traccia qualunque. Quando mi viene scritto qua, le ripeto, che io ho pagato una settimana bianca per mia figlia...". A proposito di antimafia e di lotta alla 'ndrangheta, nei propri racconti, spesso a ruota libera, Rosy Canale non disdegna qualche stoccata ad altri movimenti legalitari, quelli sì, a suo dire, fatti di parole e poco altro: "Io non sono stata una di quelle che scende in campo, Dottore, con i fiorellini, che va sottobraccio con i Procuratori per avere i finanziamenti di altro genere e fare le manifestazioni e poi intelligentemente e meno, come dire, sprovvedute di me, mettono le pezze d'appoggio e poi si fanno i fatti loro, io sono stata una di quelle che è scesa in campo a sporcarsi le mani a San Luca, e queste cose se si sarebbero realizzate, e magari il Signore si fossero realizzate, avrebbero cambiato il volto di quel paese, perché questi soldi... se io mettevo in campo una cosa del genere con il Ministero, che doveva fare questa cosa, perché il fatto di cavalcare la legalità molta gente la cavalca, ma la cavalca in altri sensi, Dottore, io sono andata a San Luca, ho vissuto con quella gente, io mi sono battuta lì. L'unica cosa è che Rosy Canale non ha fatto la favoletta, è andata lì sul territorio e oggi è qui a parlare con Lei per questo motivo, invece di fare le passerelle come altri". Lei avrebbe lavorato, lei si sarebbe battuta. E il Movimento sarebbe stato una cosa seria. Rosy Canale lo ribadisce anche lo scorso 30 aprile, quasi cinque mesi dopo l'emissione dell'ordinanza nell'ambito dell'operazione "Inganno": Viene scritto viene detto che il movimento delle donne è stato creato e fondato per creare con raggiri e artifizi diciamo per sottrarre dei soldi pubblici o comunque ecco allora, io brevemente sicuramente perché capisco che il tempo è prezioso per tutti però desidero che lei mi ascolti allora, io ho fondato questo movimento sono arrivata a San Luca poco dopo della strage di Duisburg per un desiderio mio personale. Già da subito avevo scritto una lettera via mail mi ero messo in contatto su facebook con il sindaco di allora che era Giuseppe Mammoliti scrivendo il mio cordiglio più profondo per tutto quello che era successo da calabrese, da persona che ama profondamente questa terra, lui mi rispose, da quel momento io ho iniziato a pensare a qualcosa che poteva che io nel mio pi piccolissimo potevo creare e fare per quella comunità". In quell'occasione, però, Rosy Canale ammetterà: "Io ho fatto un sacco di ingenuità". Con riferimento all'interrogatorio di garanzia, invece, più volte, il Gip Santoro contesta all'indagata le proprie intercettazioni, spesso dai contenuti autoaccusatori. Tutte frasi che Rosy Canale bolla come delle semplici chiacchiere, magari sconvenienti e superficiali, ma solo chiacchiere con le proprie amiche o con i propri familiari: "Le do questo aspetto, allora io e mio padre siamo molto... a volte parliamo di queste dinamiche qua, di alcuni aspetti della parte storica di quella che è una costruzione proprio... ricostruzione storica della 'ndrangheta, perché ci sono tutti degli aspetti anche, come dire, culturali, sociologici". Al Gip Santoro, però, le chiacchiere interessano poco. Interessano molto di più i fatti contestati alla donna, che, sempre secondo la Procura, avrebbe utilizzato decine di migliaia di euro per varie utilità personali: dall'acquisto due autovetture – una Smart e una Fiat 500 – a quello di vestiti e mobili, nonché la possibilità di effettuare viaggi di natura privata. "Me ne fotto". Così Rosy Canale rispondeva alla madre, che le raccomandava di spendere con attenzione i soldi che le arrivavano da Istituzioni varie: dalla Presidenza del Consiglio Regionale, alla Prefettura, passando per l'associazione "Enel Cuore". A detta dei giudici, i soldi destinati al Movimento "Donne di San Luca" "sono stati biecamente piegati ai propri interessi personali dalla presidente di quel movimento". Nell'ottobre 2009, in particolare, sarebbe arrivato un grosso finanziamento e proprio in quel momento, Rosy avrebbe sua figlia e "le chiede di che colore vuole le Hogan perché sono arrivati i soldi". La ragazza chiede "quanto si tiene lei e Rosy risponde che poi vedrà". Ma Rosy Canale si difende di fronte alle varie intercettazioni. Anche quella in cui ammetterebbe di aver tenuto per sé 3000 euro tra i fondi destinati alla ludoteca:

INDAGATA CANALE -. Aspetti, Dottore, non voglio mettere in difficoltà nessuno, però c'è una cosa, io questi 3.000 euro sono stata autorizzata dalla Prefettura a prenderli, loro mi dissero "Riserva per te, per il lavoro che stai facendo, 3.000 euro".

GIUDICE -. C'è una carta scritta?

INDAGATA CANALE -. No, non c'è niente di scritto.

GIUDICE -. Chi gliel'ha detto? Lei capisce che nel momento... o si avvale della facoltà di non rispondere o me lo dice, si sta difendendo, mi sta dando una prova d'alibi, tra virgolette.

INDAGATA CANALE -. Lo so, Dottore, però... il Dottore Priolo me lo disse.

GIUDICE -. Va bene.

INDAGATA CANALE -. Che era il mio angelo custode, mi disse... mi disse: "Guarda Rosy, tu stai facendo un lavoro grandissimo e credo che sia giusto che tu abbia qualcosa, prenditi 3.000 euro, non di più, però questi 3.000 euro prenditeli perché sono giusti".

Gianluca Calì ha acquistato all'asta un'abitazione di pregio un tempo di proprietà dei boss di Bagheria, Michelangelo Aiello e Michele Greco. Prima gli sono arrivate le minacce di sedicenti “eredi”, quindi non ne ha più potuto usufruire, perché finita in un vortice di sequestri disposti da alcuni ufficiali della Forestale poi finiti nel mirino della procura, scrive Giuseppe Pipitone il 28 giugno 2013 su “Il Fatto Quotidiano”. Ha acquistato all’asta una villa un tempo di proprietà dei boss mafiosi. Prima gli sono arrivate le minacce di sedicenti “eredi”, quindi non ha più potuto usufruire dell’abitazione, perché finita in un vortice di sequestri disposti da alcuni ufficiali della Forestale poi finiti sotto inchiesta. Da quando Gianluca Calì ha deciso di tornare a lavorare nella sua Sicilia i guai sono spuntati ad ogni angolo. Come funghi. Siamo ad Altavilla Milicia, zona costiera tra Bagheria, Casteldaccia e Palermo. È qui che Calì torna nel 2009 per aprire una succursale della sua concessionaria d’automobili milanese: la Calicar. Ma al pronti via, qualcosa comincia subito ad andare storto: a Calì arriva immediatamente una richiesta di pizzo dalla cosca mafiosa locale. “Richiesta che non mi sono mai sognato di assecondare, li ho denunciati” sottolinea lui da siciliano orgoglioso. Il 3 aprile del 2011 alcune automobili della sua concessionaria di Casteldaccia vanno a fuoco. La storia di Gianluca Calì, l’imprenditore antiracket, finisce sui giornali. “Mi è stato vicino soprattutto il centro Pio La Torre” dice lui. Intanto le indagini degli inquirenti portano in carcere 21 affiliati al clan di Bagheria: tra questi anche i suoi estorsori. Storia finita? Neanche per idea. Perché nel frattempo Calì ha avviato le pratiche per acquistare all’asta una villa vicino Casteldaccia: due piani da 160 metri quadrati l’uno. “L’idea era quella di trasformarla in una struttura ricettiva, che potesse creare un minimo di ricchezza per la nostra terra, dare lavoro e incrementare l’indotto turistico della zona”, spiega. Quella villa però non è una casa qualsiasi: apparteneva allo storico padrino di Bagheria Michelangelo Aiello e al suo sodale Michele Greco, il Papa di Cosa Nostra. Non è mai stata confiscata perché era ipotecata ed è quindi passata nelle disponibilità di un istituto di credito che lo mette all’asta. “Poco prima di presentare la mia offerta, ricevo la visita di alcuni personaggi”, racconta Calì. Si presentano come “eredi dei precedenti proprietari” e chiedono all’imprenditore di “lasciar perdere quella casa”. “Risposi di ripetere le loro parole davanti ad un giudice, dopo di ché mi aggiudicai la casa”, spiega Calì. E per un po’ sembra passare tutto liscio. La quiete però dura poco. Perché l’8 febbraio scorso la villa che fu dei boss viene sequestrata da due ispettori della Forestale. “Stato grezzo e in corso d’opera”, scrivono nel verbale di sequestro, come se la costruzione fosse stata costruita di sana pianta in maniera abusiva. Così non è, perché quella villa esiste dal 1965, e Calì sta solo attuando dei lavori di ristrutturazione. Fa opposizione al sequestro e il 4 marzo ritorna in possesso dell’immobile. I “solerti” ispettori della Forestale però non demordono. E il 15 marzo sequestrano di nuovo la villa con le stesse motivazioni. Solo un duplice intoppo burocratico? Un errore? Possibile. Il verbale di sequestro porta due firme: sono gli ispettori della Forestale di Bagheria Luigi Matranga e Giovanni Coffaro. Che a fine marzo finiscono coinvolti in un’inchiesta della procura di Palermo: alcuni dipendenti della Forestale di Bagheria ricattavano gli abitanti della zona minacciando il sequestro di immobili. In cambio chiedevano somme di denaro. “Una vicenda – scrive il gip Angela Gerardi – in cui emerge lo scarso se non inesistente senso del dovere e indegno esercizio del potere che interessa alcuni componenti dell’ufficio del corpo forestale (tra questi viene citato proprio Giovanni Coffaro) e l’irresponsabile comportamento da parte di altri (come il comandante Luigi Matranga)”. In carcere finiscono in quattro. Coffaro, uno dei due che sequestra la villa di Calì, è tra gli indagati anche se il gip ha respinto l’arresto. Nelle carte dell’inchiesta si ipotizza invece che Matranga, l’altro estensore del verbale di sequestro, fosse a conoscenza del “lavoro sporco” portato avanti dai suoi sottoposti. “Matranga non ha mai presentato una denuncia né ha mai segnalato i comportamenti dei suoi subordinati” scrive sempre il gip. A Calì però non è mai arrivata una richiesta formale di “messa a posto” per dissequestrare la villa. “Finora ho speso migliaia di euro per far valere un mio diritto contro un verbale che non sta né in cielo né in terra. Eppure questi si accontentavano di 500 euro”. Dalle maglie dell’inchiesta sui forestali però emerge anche altro: l’ombra della mafia di Bagheria. Un elemento in più se si pensa che i lavori di ristrutturazione della villa che fu di Greco sono affidati dall’imprenditore palermitano a suo fratello, l’ingegner Alessandro Calì. Che i tentacoli della piovra li ha visti da vicino qualche tempo fa, quando da presidente dell’ordine degli ingegneri ha radiato dall’albo Michele Aiello, il ricchissimo prestanome di Bernardo Provenzano. Aiello è un uomo potente e fortunato: condannato a 15 anni di carcere è riuscito a trascorrerne uno ai domiciliari, proprio nella sua Bagheria, perché affetto da favismo. Solo una coincidenza? Può darsi. Nel frattempo la villa che fu dei boss rimane sequestrata in attesa che la Cassazione si esprima nel settembre prossimo. “Io volevo soltanto provare a rilanciare la nostra terra. Ma per un imprenditore onesto, imbattersi non solo nella mafia, ma anche in infedeli servitori dello Stato non è un bel segnale”. E in Sicilia, isola che vive soprattutto di segnali, è ancora peggio.

Vatti a fidare dell'antimafia. Il ministro Orlando: "Lo scandalo dell’antimafia è un gravissimo colpo alla credibilità delle istituzioni". In un intervento su Panorama in edicola dall'8 ottobre, il Guardasigilli commenta lo scandalo dell’Ufficio misure di prevenzione antimafia di Palermo, scrive "Panorama" il 7 ottobre 2015. "Quanto sin qui è emerso a Palermo, nonostante siano ancora in corso i doverosi accertamenti, rischia di rappresentare un colpo gravissimo alla credibilità delle istituzioni su un terreno delicato come quello del contrasto alle mafie". Così si esprime Andrea Orlando, ministro della Giustizia, in un testo affidato al settimanale Panorama, che lo pubblica nel numero in edicola da giovedì 8 ottobre. Panorama aveva interpellato il Guardasigilli sullo scandalo dell’Ufficio misure di prevenzione antimafia di Palermo: da metà settembre quel Tribunale è scosso da un’inchiesta per corruzione che ha coinvolto finora cinque magistrati e ipotizza gravissimi abusi sull’attribuzione degli incarichi ai custodi giudiziari, con parcelle milionarie. Orlando aggiunge: "Il solo dubbio che nella gestione dei beni sequestrati e confiscati alle organizzazioni criminali possano essersi celati e sviluppati fenomeni di malaffare deve provocare la più vigorosa delle reazioni".

l pm antimafia Maresca: "Libera ha il monopolio della gestione dei beni sequestrati". Sul numero di Panorama in edicola dal 14 gennaio, il giudizio durissimo del magistrato sull'associazione, scrive "Panorama" il 13 gennaio 2016. "Libera è stata un’importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa". Così si esprime Catello Maresca, 43 anni e da 11 magistrato della Direzione nazionale antimafia di Napoli, impegnato in prima linea nella lotta ai clan della camorra, in un’intervista che Panorama pubblica nel numero in edicola da domani, giovedì 14 gennaio. "Oggi" aggiunge Maresca "per combattere la mafia è necessario smascherare gli “estremisti dell’antimafia”, i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse". Il magistrato insiste: "Purtroppo queste associazioni hanno esasperato il sistema. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti. Vedo insomma l’estremismo dei settaristi e non di un’associazione ogni qual volta sento dire che 'si deve fare sempre così'". E conclude affidando a Panorama questo duro giudizio: "Libera gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale". 

Il Pm Maresca critica Libera su Panorama e Don Ciotti si infuria. "Gestisce i beni sequestrati alle mafie in modo anticoncorrenziale". Lo denuncio, risponde il fondatore. A lui la solidarietà di Rosy Bindi e Claudio Fava, scrive "Panorama" il 13 gennaio 2016. Giornata convulsa attorno a Libera dopo l'anticipazione di un'intervista al pm antimafia Catello Maresca che Panorama pubblica sul numero in edicola il 14 gennaio. In essa Maresca dice che "Libera è stata un’importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa". Parole forti. Don Ciotti non ci sta. Lo denunciamo, dice don Ciotti. "Noi questo signore lo denunciamo domani mattina, abbiamo deciso di farlo. Uno tace una volta, due volte, tre volte, ma poi si pensa che siamo nel torto. Il fango fa il gioco dei mafiosi", ha tuonato don Ciotti, davanti alla Commissione parlamentare antimafia. Oggi infatti era il giorno dell'Audizione del fondatore di Libera da parte dell'organismo presieduto da Rosy Bindi. Le parole di Maresca risuonano anche più forti in questi giorni nei quali è alta l'attenzione sul mondo dell'antimafia che ha scosso il tribunale di Palermo con il "caso Saguto". "Le dichiarazioni di questo magistrato sono sconcertanti, chiedo che ci sia verità e giustizia in questo Paese", aggiunge don Ciotti. Che poi ricorda che "per la gestione dei beni confiscati Libera non riceve contributi pubblici, le associazioni ricevono in gestione i beni, Libera non riceve alcun bene. Libera promuove, agisce soprattutto sulla formazione. Sono pochissimi i beni assegnati a Libera, che gestisce solo 6 strutture, di cui una a Roma e una a Catania, su 1600 associazioni che la compongono. È in atto una semplificazione per demolire il percorso di Libera con la menzogna". Il fondatore di Libera ammette tuttavia che "il tema dell'infiltrazione è reale: le nostre rogne sono iniziate con i 17 processi in cui siamo parte civile, lì ci sono situazioni complesse. Altri problemi vengono dalle cooperative: abbiamo scoperto che alcune situazioni erano mutate, siamo dovuti intervenire. Qualche tentativo di infiltrazione c'è ed è trasversale a molte realtà italiane. Abbiamo allontanato il consorzio Libero Mediterraneo e realtà che non avevano più i requisiti e queste gettano il fango". "Le trappole dell'antimafia sono davanti ai nostri occhi, mai come oggi. Si deve eliminare anche questa parola Antimafia, che è un fatto di coscienza", conclude Ciotti, che respinge anche le accuse di non aver tenuto gli occhi aperti su Roma: "ricordo che nel 2011, alla riapertura del Caffè de Paris, sequestrato a clan calabresi, Libera lanciò l'allarme sulle infiltrazioni mafiose nell'economia della Capitale e prima dello scoppiare dell'inchiesta su Mafia Capitale, a Corviale, denunciammo ancora questa presenza". Solidarietà a don Ciotti e a Libera è arrivata da Rosy Bindi che ha giudicato le parole del magistrato "gratuite e infondate", dal vicepresidente della Commissione Claudio Fava (Si), che ha parlato di "affermazioni calunniose e ingenerose", dal capogruppo del Pd Franco Mirabelli, che ha sottolineato tuttavia come "serva oggi un ripensamento dell'antimafia" e del Pd Davide Mattiello, che ha espresso "sconcerto per le parole del pm, salvo smentite e chiarimenti". Maresca, 43 anni e da 11 magistrato della Direzione nazionale antimafia di Napoli, è impegnato in prima linea nella lotta ai clan della camorra. Nell'intervista a Panorama aggiunge che "oggi per combattere la mafia è necessario smascherare gli 'estremisti dell’antimafia', i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse". Il magistrato insiste: "Purtroppo queste associazioni hanno esasperato il sistema. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti. Vedo insomma l’estremismo dei settaristi e non di un’associazione ogni qual volta sento dire che 'si deve fare sempre così'". E conclude affidando a Panorama questo duro giudizio: "Libera gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale".

A volte l'antimafia sembra mafia. È Il pensiero di Catello Maresca, magistrato antimafia a Napoli che ha accusato Libera: "Sono contrario a come gestisce i beni sequestrati alle mafie", scrive il 18 gennaio 2016 Carmelo Caruso su "Panorama". In quest'intervista, pubblicata sul numero di Panorama in edicola dal 14 gennaio, il magistrato Catello Maresca punta il dito contro un certo tipo di antimafia e contro Libera, l'associazione fondata da Don Ciotti che gestisce i beni sequestrati alle mafie "in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale". Le sue dichiarazioni hanno suscitato lo sdegno di Don Ciotti che ha risposto alle accuse. Ecco l'integrale dell'intervista.

Dice che i bunker lo tormentino.

"Da magistrato ho passato 10 anni a studiare quello di Michele Zagaria".

Il padrino di “Gomorra”?

"Non solo un padrino. La sua biografia criminale è l’autobiografia di un popolo e di un territorio". Le piace studiare il sottosuolo? "Mi piace perché tutta la mafia è un mondo capovolto. I mafiosi abitano sottoterra, parlano con il sottotesto, utilizzano un soprannome. La mafia si nasconde e si maschera nell’opposto".

È l’antimafia l’ultimo travestimento della mafia? 

"È stata ed è la più eccezionale via di fuga che la mafia ha escogitato per celarsi".

È più pericolosa la mafia di sotto o l’antimafia di sopra?

"Oggi per combattere la mafia è necessario smascherare gli “estremisti dell’antimafia”, i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse". 

Parla di “Libera”, l’associazione fondata da Don Ciotti? 

"Libera è stata un’importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è autoattribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione e la ritengo pericolosa".

A Napoli, Catello Maresca, magistrato della direzione nazionale antimafia, ha ereditato la stanza dell’uomo più invocato e affaccendato d’Italia quel Raffaele Cantone oggi presidente dell’Anac.

"E non ho ereditato solo la stanza ma anche i fascicoli, i quadri e la sua assistente".

Come si chiama?

"Rosaria. Un esempio di pazienza e laboriosità".

Maresca assomiglia alle sue indagini che sono lente ma solide e non improvvise ma deboli. Con metodo che lui chiama scientifico ha catturato i gangster di Casal di Principe, i “Tony Montana” che canta il neomelodico Nello Liberti: "O capoclan è n’omm serio, che è cattivo nun è o ver".

Dove ha iniziato? "A Torre Annunziata. Mi occupavo di crimini finanziari".

Figlio di magistrati?

"Maestri elementari entrambi, vengo dalla provincia e mi piace ritornarci".

Maresca ha quarantatre anni e da undici è magistrato della direzione antimafia di Napoli, "una città che muore di doppiezza". Come i dati che immagazzina e assembla, Maresca si lascia crescere una barba fiamminga e dura che non taglia, "per un principio d’economia temporale" dice, ma anche per trattenere le idee e le parole che infatti sulla barba si fermano e non scivolano.

Chi è stato il suo maestro?

"Franco Roberti, un magistrato eccellente e oggi procuratore nazionale antimafia".

È ancora credibile l’antimafia dopo lo scandalo di Palermo dove a essere indagato dalla procura di Caltanissetta per induzione, corruzione, abuso d’ufficio è l’ex presidente della sezione misure di prevenzione, il giudice Silvana Saguto?

"L’antimafia è stato un fenomeno volontaristico. Credo a quella delle origini ma non credo a quella che si ostenta e che si è fatta impresa".

Per Giapeto editore, Maresca ha pubblicato “Male Capitale”, un libro che grazie alle foto di Nicola Baldieri non è solo un documento antropologico, i “tristi tropici” della camorra e delle sue tane, ma anche un campionario di non luoghi, il catalogo dei beni confiscati e inceneriti dalla cattiva procedura. Maresca stila un piccolo elenco campano: l’ex convento dei Cappellini Avella, l’hotel Zagarella, la villa di Walter Schiavone, la Calcestruzzi Po.li, l’azienda agricola La Malsana, gli autocompattatori della Eco Quattro.

"E poi ci sarebbe l’azienda Bufalina, un gioiello che venduto sarebbe stato non solo un simbolo di vittoria da parte dello Stato, ma anche un pezzo d’identità restituito alla Campania".

Le imprese sequestrate ai mafiosi si devono vendere?

"Vendere, vendere, vendere. Mi chiedo che fini sociali possa avere un capannone industriale. Oggi il tabù dell’antimafia è la parola vendita. Una volta sequestrati i beni, bisogna individuare quelli riutilizzabili per fini sociali. Dove possibile si possono costruire caserme ad esempio. Ma tutto il resto è da alienare".

Anche Maresca conosce i numeri del fallimento che hanno accompagnato la gestione dei beni sequestrati: 11 mila immobili, 2000 imprese, 90 per cento è il parametro delle aziende estinte.

"Il ciclo di vita è sempre lo stesso. Prima li divorano gli amministratori giudiziari poi le carcasse vengono divise dai tribunali fallimentari".

Non sono i magistrati a decidere la loro sorte?

"E io infatti rispondo che i magistrati non possiedono quella expertise necessaria per svolgere questo compito. Non è un caso che la gestione concreta sia poi appaltata alle associazioni".

Da “cosa nostra” a “cosa loro”?

"Purtroppo queste associazioni hanno esasperato il sistema. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti. Vedo insomma l’estremismo dei settaristi e non di un’associazione ogni qual volta sento “che si deve fare sempre così”.

Don Ciotti ha scomunicato e cacciato il figlio di Pio La Torre, Franco, per lesa maestà proprio per le stesse critiche.

"Sarò malpensante ma i malpensanti sono a volte ottimisti che non hanno fretta. Libera ha monopolizzato la gestione dei beni sequestrati alle mafie".

E però, Libera dice di non avere mai gestito beni...

"Libera li gestisce attraverso cooperative che non sempre sono affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale".

Maresca smonta anche il pregiudizio della mafia come destino, la convinzione che il suo influsso si riproduca e ritorni come la maschera sith di Dart Vader in Star Wars.

"Sinceramente trovo risibile la ragione per cui Libera si oppone alla vendita. Si dice: “I beni ritornano ai mafiosi”. Io rispondo che sono contento due volte perché lo Stato li sequestrerebbe due volte e ci guadagnerebbe il doppio. La verità è che uno Stato può, anzi, deve riuscire a controllare la vendita di un bene sequestrato. Da uomo delle istituzioni non posso pensare che lo Stato non sia nelle condizioni di farlo. È un’idea d’impotenza".

Il nuovo codice antimafia non le piace?

"Ripeto, rimane ancora tabù la parola vendita e farraginosa la gestione. Eppure un esempio virtuoso ce lo abbiamo già. È l’Anac guidata da Cantone".

Non crede che Cantone non sia più un magistrato ma un oracolo?

"Essere bravi non è una colpa diverso è quando i mediocri salgano sulle spalle dei bravi appesantendoli. Perchè non fare dell’Agenzia dei Beni confiscati una sorta di Anac?"

È il suo emendamento al nuovo codice?

"Non basterebbe solo questa modifica. Quanti beni vengono sottratti ma tenuti in bilico tra la confisca e la restituzione? Inoltre esistono termini precisi per quanto riguarda il sequestro preventivo, ma non per quello penale che si può trascinare per anni".

Maresca si muove sotto scorta sin da prima che con la semantica vigliacca, il macellaio Cesare Setola lo abbia avvisato "che tutti tengono famiglia". Il capo della camorra, Michele Zagaria, guardando la fronte alta e le guance ferme di Maresca ha detto: "Stimo il dottor Maresca. Perché voi fate un mestiere, io me ne sono scelto un altro".

Anche questo riconoscimento nasconde l’avvertimento ambiguo?

"È possibile. Di certo da magistrato ho rispettato gli avversari. Non credo nella faccia feroce del pm. Sarò ancora eretico, ma per sconfiggere le mafie e la corruzione penso che non serva inasprire le pene e neppure aumentare il termine della prescrizione. Bisogna smontare questo sistema infetto di valori, la corruzione come patrimonio trasmissivo". Ma la corruzione non è anche il vizio dello strapotere dell’uomo di legge, dei giudici? "Accade. Bisogna attendere e illuminare le ombre".

Il caso Saguto a Palermo, il caso Scognamiglio a Napoli …c’è il sottosuolo anche nella magistratura?

"Di certo viene fuori un mondo opaco. Eppure voglio ricordare che tutti i casi di corruttela che hanno riguardato giudici sono stati svelati da altri giudici. La magistratura possiede ancora gli anticorpi". Quando si ammala la magistratura? "Quando un magistrato perde l’equilibrio e sopravvaluta la sua funzione. Quando invece di farsi rapire dall’enigma della giustizia un giudice è chiamato ad amministrare patrimoni da milioni di euro. Quando la giustizia diventa l’angoscia del bunker e smette d’essere luce a mezzogiorno".

Cantone: "Per i beni confiscati alle mafie servono trasparenza e concorrenza". Il presidente dell'Anticorruzione, su "Panorama", spiega perché Libera "è diventata un brand di cui qualche speculatore potrebbe volersi appropriare", scrive "Panorama" il 20 gennaio 2016. "C’è chi usa l’antimafia, e va smascherato". Si esprime così Raffaele Cantone, oggi presidente dell’Autorità anticorruzione e dal 1999 al 2007 magistrato anticamorra attivo a Napoli, in una lunga intervista che il settimanale Panorama pubblica nel numero in edicola da domani, giovedì 21 gennaio. Cantone parla dell’opaca gestione dei beni confiscati e della durissima denuncia che sulla materia aveva lanciato attraverso Panorama Catello Maresca, il magistrato che di Cantone è stato diretto successore nella Procura di Napoli, suscitando la sdegnata reazione (e un annuncio di querela) da parte di don Luigi Ciotti, fondatore di Libera. Proprio su Libera, Cantone dice a Panorama: "È un’associazione che ha fatto battaglie fondamentali in questo Paese. Le va riconosciuto il merito di aver compreso quanto fosse utile per la lotta alla mafia l’impegno dei cittadini, e sta provando a fare la stessa cosa anche sul fronte della corruzione, cosa di cui le siamo grati. Certo, Libera è cresciuta tantissimo ed è diventata sempre più nota e visibile; è diventata anche un 'brand' di cui in qualche caso qualche speculatore potrebbe volersi appropriare per ragioni non necessariamente nobili. Credo che questo possa essersi in qualche caso anche verificato". Quanto al "caso Saguto", con l’inchiesta che a Palermo ha scoperchiato un sistema apparentemente deviato nella gestione dei beni sottratti alla mafia, Cantone dichiara a Panorama: "Il caso Saguto attende le verifiche giudiziarie, ma lo spaccato che emerge può essere valutato a prescindere dagli aspetti penali ed è decisamente inquietante. Ho sempre pensato che i giudici debbano tenersi lontano dalle gestioni economiche, soprattutto quando passano incarichi lucrosi e discrezionali a professionisti con cui si rischia di creare rapporti personali oltre che professionali".

Nessun monopolio, per allargare il fronte di chi combatte i clan. E bisogna consentire di vendere i beni sequestrati. Dopo l’inchiesta sui giudici di Palermo e le polemiche interne a Libera, interviene Giuseppe Di Lello, il magistrato del pool di Falcone e Borsellino, scrive il 21 gennaio 2016 “L'Espresso”. Le polemiche nell'antimafia dell'ultimo anno, le inchieste giudiziarie che hanno coinvolto magistrati che si occupavano a Palermo del sequestro dei beni ai mafiosi, e lo scontro interno a Libera, sono i punti che affronta Peppino Di Lello, ex magistrato dello storico pool antimafia di Caponnetto, Falcone e Borsellino, in un intervento scritto per l'Espresso che sarà pubblicato nel numero in edicola da venerdì 22 gennaio 2016. Di Lello affronta il problema dei beni sequestrati e ne propone la vendita: «Qualche rimedio sarebbe utile, rimanendo sul terreno della concretezza. Molti immobili inutilizzati o inutilizzabili, e che comunque rimangono sotto amministrazione giudiziaria procurando solo oneri per lo Stato, andrebbero alienati. Si obietta che tornerebbero ai mafiosi, ma si dimentica che per riacquistarli questi dovrebbero pagarli e quelle somme potrebbero essere utilizzate dalle amministrazioni locali per gestire altri beni destinati ad usi sociali. In più, il bene riacquistato, dato l’affinamento dei mezzi di indagini patrimoniali, potrebbe essere di nuovo sequestrato e confiscato». L'ex magistrato antimafia che ha lavorato con Falcone e Borsellino, facendo riferimento all'inchiesta che ha coinvolto il presidente del tribunale misure di prevenzione, Silvana Saguto, scrive: «Il “caso Palermo” ha fatto emergere il problema degli incarichi agli amministratori giudiziari, assegnati quasi dappertutto con una inconcepibile discrezionalità: trasparenza e obiettività possono essere realizzate solo con una legge ad hoc. Ancor più difficile sarà applicare questi principi di buona amministrazione nell’assegnazione dei beni confiscati». Di Lello poi punta sulle associazioni antimafia: «Nella giungla delle tante sigle si sono inserite persino associazioni e cooperative costituite da soggetti mafiosi e quindi sono necessarie serie riflessioni. Il “disagio” di Franco La Torre (figlio di Pio, il segretario regionale del Pci ucciso dalla mafia a Palermo nel 1982 ndr) ed altri sul ruolo di Libera, per esempio, non va demonizzato ma analizzato e verificato. Libera ha avuto ed ha grandi meriti nel campo dell’antimafia ma bisogna capire che il pericolo di monopoli o oligopoli nelle assegnazioni va contrastato, non “contro” qualcuno, ma proprio per far crescere ed allargare il fronte antimafia».

Soffiate, call Center e anonimi: viaggio nel covo di Cantone, scrive Antonello Caporale. Il ministero dell’Onestà dista un alito dalla Fontana di Trevi e solo cento passi da Palazzo Chigi. Il padrone di casa è Raffaele Cantone, personalità il cui potere avanza come le quotazioni dell’oro in tempi di crisi. Ogni giorno un po’ di più. Cantone infatti non è un magistrato ma un metallo prezioso, insieme diga anticorruzione e tutor del corso collettivo sulla moralità pubblica. Scrutatore delle coscienze sporche, selezionatore delle pratiche migliori, dei buoni propositi e delle buone persone. Tutti lo vogliono, lo cercano e, se del caso, lo annunciano. Non è solo Matteo Renzi a utilizzarlo un po’ come le casalinghe fanno con Mister Muscle, il detersivo che spurga in cinque minuti. Expo, Giubileo, Mafia Capitale, l’arbitrato per gestire il rimborso dei clienti truffati dalle banche fallite. A una grana di rilevante entità nazionale segue la convocazione di Cantone che perciò a volte sembra, immaginiamo persino contro la propria volontà, il dodicesimo giocatore della squadra di governo in campo. Col tempo, e dal momento che deviare verso di lui produce profitti, un po’ tutti aspirano a una carezza cantoniana. È esploso il caso Quarto? Ecco Cantone. E Beppe Sala, il mister Expo candidato alla carica di sindaco di Milano, ha già annunciato che con Cantone sicuramente farà un patto, stringerà ancor di più l’amicizia fattiva e gli chiederà un occhio supervigile sui costumi meneghini, sottintendendo che lui può permetterselo ma gli altri candidati? Al palazzo di questo speciale ministero che è l’Autorità nazionale anticorruzione si accede dominati dalle decorazioni liberty della galleria Sciarra, ricca di partiture architettoniche, dipinta da Giuseppe Cellini. Palazzo sontuoso e imperiale come l’inquilino che lo ospita (la sua scrivania è un Luigi XVI niente male). Qui giungono le perorazioni dell’Italia onesta, le denunce, a volte le illusioni o le delazioni di un popolo che il nostro sente “iconoclasta, votato spesso al nichilismo. Sa quanti anonimi arrivano?”. Dottor Cantone, è l’Italia del rancore che bussa alla porta? “Credo proprio di sì. Ma la nostra dev’essere una casa di vetro, si accomodi pure”. Cinque piani di trasparenza, al quinto eccoci alla sala delle riunioni. “Sono stato nominato il 24 aprile 2014 e devo dire che la macchina ha iniziato a funzionare presto e bene”. L’organico prevede 350 tra funzionari e impiegati, un numero prossimo a essere raggiunto. Sono 302 gli effettivi, naturalmente divisi in sezioni. “La nostra missione è prevenire la corruzione, anticipare le mosse, contestare e, soprattutto, suggerire buone pratiche. Il nostro più grande potere è la moral suasion, la forza di questa Autorità è la sua reputazione. L’autorevolezza conta di più di ogni norma e devo dire che i frutti che si stanno avendo non sono modesti”. Giuristi di impresa, architetti, esperti di appalti, finanzieri. “Nel primo anno abbiamo “lavorato” 120.828 atti, una enormità. Rappresenta la somma delle denunce, degli esposti, delle deduzioni e controdeduzioni, è il risultato di un lavoro meticoloso, puntiglioso. Nell’anno 2015 il numero è lievitato a 151.988. Chi denuncia? “Purtroppo molti sono anonimi, noi approfondiamo laddove avvertiamo segnalazioni circostanziate di fatti evidentemente rilevanti. Facciamo una cernita e teniamo conto. Devo dirle però che la gran parte degli anonimi esala un sentimento purtroppo comune di noi italiani: in premessa la fanfara di grandi ruberie poi stringi stringi e arrivi alla miseria del furto dell’energia elettrica”. Chiunque scriva, email o lettere, sappia che c’è un ufficio protocollo occupato da una decina di impiegati. Stanze larghe e comode come altrove non è. La capo ufficio: “Leggiamo e smistiamo per competenza. Ci dividiamo in turni”. Si smista alle sezioni e da lì si avanza. Se viene ritenuta utile e documentata la segnalazione parte il servizio ispettivo. “Controlliamo l’appalto e teniamo un lumino acceso anche in corso d’opera”, dice Angela Di Gioia, segretario generale. Il baco della corruzione ha un concepimento seriale e uno sviluppo tipico. Tardano i lavori, s’interrompono spesso, si chiede l’aggiornamento prezzi, si autorizza la variante. O ancora: si affida l’appalto producendo un progetto esecutivo finto cosicché i lavori avanzino a vista e possano deviare. Al primo piano di palazzo Sciarra fa ingresso il malcostume italico che poi viene distribuito per piano. Più sale e più acuta è la rimostranza, grave il danno alle casse pubbliche. Ai trecento militi dell’onestà si aggiungono cinquanta lavoratori di uno speciale call center che gestisce via telefono le procedure corrette. Telefonano dalle amministrazioni centrali e locali. Telefonano i funzionari e telefonano le imprese. Un grande via vai di parole a leggere i dati sul numero dei contatti. Nel 2014 risultano 432 mila telefonate, nel 2015 già lievitate a 682 mila. Cantone riceve un compenso di 180mila euro l’anno, i quattro consiglieri (un magistrato e tre professori universitari) 150mila. Il presidente ha fatto il conto, visti i tempi, pure degli scontrini. Le differenze con Renzi si notano. Il premier, quand’era presidente della Provincia di Firenze, riuscì nell’impresa di far fuori quasi un milione di euro. Cantone mangia e beve di meno e non ha avuto finora bisogno del letto a cinque stelle. Nel 2014 per vitto e alloggio ha speso 1.065 euro. Da: Il Fatto Quotidiano, 15 gennaio 2016.

Mafiosi si nasce o si diventa? Quei minori tolti a mamma mafia. Sono 30 i minori sottratti per decisione dei tribunali alle famiglie della ’ndrangheta e affidati a coppie o comunità. Per i boss l’affronto peggiore. Perché così si spezza la trasmissione della cultura criminale, scrive Giovanni Tizian su "L'Espresso" del 13 gennaio 2016. «Dite al Dottore che i figli non si toccano». Per un boss la famiglia conta più dei soldi e del potere. Perché figli, nipoti e mogli, garantiscono la continuità dell’impero. Per questo il capo dei capi di Reggio Calabria, Giuseppe De Stefano, ha reagito in malo modo quando il pm Giuseppe Lombardo ha chiesto al tribunale d e i minorenni di far decadere la patria potestà sui piccoli eredi. Un colpo durissimo per il padrino dello Stretto che ha sempre reagito a processi, sequestri di beni e latitanze, con un sorriso beffardo. L’affronto, senza precedenti, aveva aperto una crepa profonda in quel monolite criminale che da 40 anni dominava l’intera città. Educare la prole a un avvenire da mafioso può avere conseguenze pesanti: l’allontanamento dei minori dal nucleo familiare. È questo il nuovo fronte della lotta alla ’ndrangheta. Nell’ultimo anno si sono moltiplicati i provvedimenti di questo tipo e sempre più casi sono finiti sotto la lente degli inquirenti. Il tribunale dei minorenni di Reggio Calabria è l’unico ad avere intrapreso la strada dell’allontanamento dai genitori mafiosi. Finora sono 30 i minori sottratti alle cosche e affidati a famiglie o comunità del Nord. Dalle informazioni di cui è venuto a conoscenza “l’Espresso”, il numero è destinato a crescere. I figli dei boss sottratti per legge alle famiglie, in questo modo non saranno più costretti a impugnare pistole, ad avere “confidenza” con la droga e così potranno giocare e studiare come tutti i ragazzi. Il più piccolo ha 12 anni, ma la maggior parte è nel pieno dell’adolescenza. «È una misura che non si applica mai in maniera leggera», spiega il procuratore capo di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho, che aggiunge: «Chi la critica sostiene che è una intromissione intollerabile nell’ambito familiare. Però dobbiamo capire una cosa: il clan mafioso impartisce ai suoi rampolli regole opposte a quelle naturali». Così, per esempio, se per la giovane B. il codice della ’ndrina prevedeva una vita di segregazione e silenzio, l’intervento dei giudici le ha permesso di realizzare il suo sogno: disegnare abiti. Da qualche mese la ragazza, figlia di un boss della provincia reggina, vive fuori regione, in una località sconosciuta, dove è finalmente libera di seguire la sua passione. Il procuratore, poi, ragiona su un fatto acclarato: «Ci troviamo di fronte a sedicenni che si comportano già da capi. Hanno entrambi i genitori in galera o latitanti. Lasciamo che le figure adulte continuino ad addestrarli al crimine? Più tardi si interviene più difficile è il cambiamento». Il legame di sangue in questa organizzazione non ha eguali nel mondo della criminalità. E in effetti ad ascoltare le intercettazioni registrate negli ambienti di casa ’ndrangheta, l’impressione è che il destino di molti bambini sia segnato per sempre. «Spara!». Il padre ordina, il figlio esegue. Ha solo 7 anni, ma deve già impugnare la pistola d’ordinanza. L’arte della ’ndrina si apprende tra le mura domestiche. In un’altra casa, le cimici hanno catturato in diretta una lezione di mafia: il patriarca spiegava all’erede al trono, ormai sulla soglia della maggiore età, il significato dei diversi gradi della gerarchia criminale. Ma ci sono anche ragazzini che, ai piedi dell’Aspromonte, saltano la teoria per apprendere direttamente sul campo. Come a San Luca, cuore delle tradizioni dell’onorata società, dove durante l’ultima faida i più giovani sono stati istruiti su come proteggere le abitazioni delle famiglie da incursioni nemiche durante le faide. Nel processo Fehida, che ha visto alla sbarra i carnefici della strage di Duisburg del Ferragosto 2007, c’erano anche alcuni minorenni accusati di associazione mafiosa e concorso esterno. Crescono così i figli d’onore, fanciulli di ’ndrangheta, costretti a immergersi nelle profondità più estreme dell’oceano criminale da cui spesso non riemergono più. E se ci riescono, lo fanno da cadaveri o ricompaiono, da adulti, nelle celle del 41 bis. Intere dinastie sono state falcidiate nelle guerre: in soli quindici anni, per esempio, la ’ndrina Dragone della provincia di Crotone ha perso il capo e i suoi due figli maschi. Secondo gli ultimi dati del ministero, aggiornati a ottobre 2015, in Calabria sono sei i minorenni accusati di associazione mafiosa. Addestrati da padri-padrini per i quali uccidere, morire o andare in galera, sono tappe di una carriera obbligata. La stessa che hanno scelto per i loro pargoli ancora in fasce. La «smuzzunata» è il battesimo da ’ndranghetista dei bimbi appena nati. È un diritto e un privilegio che spetta solo ai figli dei boss. Un marchio che trova legittimità in un codice parallelo, ancestrale e non scritto. Che trasforma la famiglia naturale in ’ndrina, nucleo fondante della mafia calabrese. «Quando la moglie di uno ’ndranghetista di grado elevato mette al mondo un figlio maschio, quest’ultimo viene battezzato nelle fasce con la “smuzzunata” e, per il rispetto goduto dal genitore, entra a far parte dell’associazione sin dai primi giorni di vita. Percorrerà così tutta la gerarchia mafiosa». Giuseppe Scriva, è il pentito che a metà anni ’80 ha sviscerato i segreti della più potente tra le mafie moderne. E sono proprio queste regole, tra mistero e leggenda, che hanno garantito ai clan calabresi continuità generazionale. Le nuove leve, i figli e nipoti degli anziani padrini, hanno lanciato la ’ndrangheta nel mercato della modernità, mantenendo intatto, però, il dna arcaico. Sono giovani che investono milioni di euro a Roma come a Toronto, ma legati indissolubilmente alle antiche regole della “famiglia”. Negli ultimi vent’anni il tribunale dei minorenni di Reggio ha celebrato cento processi per reati di mafia. Gli imputati erano rampolli non ancora diciottenni delle cosche più blasonate. Giovanissimi ma con un curriculum da malavitosi esperti. Le condanne non hanno, però, frenato la loro ascesa criminale. Così a distanza di tempo c’è chi è rinchiuso al carcere duro, chi, invece, è stato ucciso e chi ha conquistato il vertice. Negli stessi vent’anni l’ufficio, ora diretto dal presidente Roberto Di Bella, ha giudicato anche una cinquantina di casi di omicidio. «Il dato impressionante è che abbiamo di fronte una generazione che potevamo salvare e che invece abbiamo abbandonato», ragiona Di Bella, che dal suo insediamento ha dato vita a un protocollo unico in Italia. È convinto che il documento firmato con procura dei minori, antimafia e servizi sociali può davvero salvare molte vite dalla morte e dal carcere. «Ci troviamo davanti ai figli e ai fratelli di persone processate negli anni ’90. Questo ci fa pensare che la ’ndrangheta si eredita», racconta nel suo piccolo ufficio-trincea. L’anno della svolta è il 2012: «Da allora stiamo intervenendo con provvedimenti di decadenza della responsabilità genitoriale e il conseguente allontanamento dei figli minori dal nucleo familiare. L’obiettivo è interrompere la trasmissione culturale». Una misura estrema. Che ha sollevato molte critiche, anche da parte della chiesa. È convinto che sia la strada giusta don Pino De Masi, vicario della diocesi di Oppido-Palmi e referente di Libera nel territorio caldissimo della piana di Gioia Tauro. «Dobbiamo mettere questi ragazzi nelle condizioni di scegliere un’alternativa che non sia l’interesse della cosca», è netto De Masi. «Nella mia parrocchia vengono anche i rampolli, qualcuno timidamente mi dice che il cognome che porta gli pesa. Sta a noi aiutarli a fare il passo successivo», spiega il parroco. Il fronte degli scettici, invece, ha azzardato persino un paragone: «Dalla confisca dei beni a quella dei figli». L’intervento del tribunale però non è indiscriminato. Il “salvataggio” scatta solo quando gli inquirenti entrano in possesso di notizie sull’educazione mafiosa impartita ai figli. Informazioni che i pm girano al tribunale e alla procura dei minorenni. Solo a quel punto si mette in moto il meccanismo che potrebbe portare all’allontanamento. Lezioni di mafia, minori incaricati di custodire armi e droga, ragazzini obbligati a dimostrare quanto valgono con azioni di fuoco, sono tutti segnali che allertano gli uffici giudiziari. Non sono escluse dall’indottrinamento neppure le giovani donne. Abituate a ubbidire agli ordini fin da piccole: subiscono tutto questo, si trincerano dietro il silenzio e spesso sono costrette ad accettare matrimoni che uniscono due potentati criminali. I primi giorni dopo l’allontanamento sono i più difficili. Chi conosce i casi racconta di incubi che angosciano le notti dei bambini. Sono pensieri di morte, con simboli ben precisi: bare, sangue, violenza. I brutali insegnamenti riaffiorano nella nuova vita distante dai papà-boss. Il tribunale si occupa anche dei minori colpevoli di un reato e messi alla prova come alternativa al carcere. Vengono affidati a comunità ma restano in Calabria. Continuano così a frequentare l’ambiente di provenienza. La maggior parte respira cultura mafiosa da quando è nato. Una mentalità che distorce il rapporto con le istituzioni: «Ricordo un ragazzo, ospite di una comunità, con i tatuaggi di un carabiniere sotto la pianta del piede, così da calpestare la divisa a ogni passo, e il giuramento della ’ndrangheta sul cuore», racconta un operatore sociale. A volte per ribellarsi all’omertà è sufficiente percepire la presenza dello Stato. Come spiegare altrimenti il gesto di quel gruppo di mamme che ha chiesto aiuto al presidente Di Bella. Chiedono di essere portate via insieme ai figli. Lontano dai mariti. È una piccola rivoluzione in corso. L’avanguardia è fatta da una decina di madri che hanno deciso di chiedere aiuto al tribunale e di collaborare. «È un fenomeno del tutto nuovo. Queste signore hanno esperienze terribili alle spalle, quindi vuol dire che i nostri provvedimenti stimolano a reagire. E c’è anche un lieto fine perché molti dei casi trattati, inviati al nord, non vogliono più tornare nei paesi d’origine», aggiunge il presidente. Non sempre però il finale è dei migliori. I figli di Maria Concetta Cacciola - la pentita che la famiglia ha spinto al suicidio per aver scelto di andare via da Rosarno per collaborare con la giustizia - sono tornati nel paese degli zii. Nel frattempo il padre che teneva segregata in casa Maria Concetta è tornato in libertà. Gli educatori che lavorano con i due adolescenti sono amareggiati, perché in quel contesto l’esempio esplosivo di ribellione della loro mamma è stato depotenziato. «Il figlio maschio è come se avesse rimosso la vicenda, è intriso purtroppo di quella mentalità che sua madre ha messo sotto accusa», racconta una fonte. Un’occasione di riscatto persa. Al civico 404 del corso principale di Reggio Calabria c’è un piccolo ufficio che segue la gran parte dei casi di allontanamento. Attualmente i ragazzi affidati a questa squadra sono dieci. Provengono tutti da cosche affermate nel panorama criminale. «Interveniamo immediatamente dopo la decisione del tribunale», spiega la dirigente Giuseppa Maria Garreffa, che specifica: «Alla base di ogni allontanamento c’è sempre un procedimento nei confronti dei genitori». In queste stanze si lavora ininterrottamente. «Siamo sovraccarichi», sospira Garreffa, «ma resistiamo». Finché questi giovani seguono il percorso studiato dal team del ministero tutto sembra andare per il meglio. Poi, quando compiono 18 anni, sono liberi di tornare nel paese in cui sono nati. E una volta rientrati il cognome pesa ancora come un tempo. «Il contesto in cui tornano è spesso decisivo. Vengono accolti, “rieducati”, indottrinati. Non dimenticherò mai quando un ragazzo ci disse: “grazie per quello che fate, ma io devo... non posso scegliere”. Ecco, il dovere di seguire le orme dei padri è la vera condanna di questa terra». Come in “Onora il padre” di Gay Talese, il passaggio di consegne tra padre e figlio è un automatismo che imprigiona i più giovani. Il figlio del boss, per i compaesani, è sempre il figlio del boss. E va riverito. Un meccanismo che molto spesso vanifica i risultati ottenuti lontano dell’ambiente familiare. È un investigatore a raccontarci una scena che ricorda il Padrino di Francis Ford Coppola: «In un paesone arroccato nell’Aspromonte, al termine del funerale dell’anziano del clan si è formata la fila per salutare con grande rispetto il capomafia e il suo bambino, prossimo erede, che per l’occasione aveva fatto ritorno a casa dalla struttura dei servizi sociali». Il passaggio è devastante: da un luogo e una scuola in cui amici e compagni li considerano semplici coetanei con cui giocare o fare i compiti, a una realtà in cui l’etichetta di provenienza esercita ancora fascino sugli altri. «Se i servizi sociali sono inadeguati, se non c’è lavoro, se manca il diritto alla mobilità, come possiamo pensare di lottare contro una multinazionale del crimine che offre denaro e successo immediato ai giovani?», conclude Garreffa. «Gli sforzi devono concentrarsi sul concedere, una volta finito il percorso di allontanamento, delle opportunità legali a questi giovani. Altrimenti si torna al punto di partenza», ragiona Di Bella. Una soluzione la propone il pm Lombardo, il primo ad aver intrapreso, nel 2008, la strada del distacco forzato: «Prima di arrivare alla misura estrema della revoca, si potrebbe immaginare un modello misto, flessibile. Con percorsi di sostegno ai genitori che, però, devono dimostrarsi volonterosi e pronti a tagliare con il passato». S. ha un cognome ingombrante. Nella Locride molti tremano solo a sentirlo pronunciare. Il suo sguardo però non è arrogante. Sorride spesso, preferisce parlare in dialetto, anche se con l’italiano se la cava abbastanza bene. Ha compiuto 18 anni da poco, e invece di dedicarsi allo studio e al divertimento, ragiona già da manager navigato: «Ormai in questa terra non si può più investire denaro», sussurra. Fa il cassiere nell’hotel di famiglia, dissequestrato da poco. Guadagna 1.600 euro al mese. Non male per un ragazzo così giovane, in una provincia, Reggio Calabria, ultima per qualità della vita secondo la classifica del “Sole 24 Ore”, che comprende tra gli indicatori il tenore di vita e l’occupazione. Incontriamo S. in una saletta del centro don Milani, un punto di riferimento per gli adolescenti di Gioiosa Marina e Gioiosa Ionica. Comuni attaccati, con due sindaci e due giunte differenti. Nella piazza di Gioiosa Ionica c’è un murale dedicato a Rocco Gatto: il mugnaio comunista ucciso dalla ’ndrine del paese per non essersi piegato alle loro richieste. È il simbolo dimenticato della Locride anti ’ndrangheta. Il suo omicidio doveva servire da monito per tutto il neonato movimento antimafia. All’inizio di dicembre, invece, il nuovo e giovane sindaco, Salvatore Fuda, è stato minacciato con alcuni colpi di pistola sparati sulla fiancata dell’auto. La violenza è il ponte che lega il passato e il presente di questi luoghi. S. è cresciuto a Gioiosa. Si presenta all’appuntamento ben vestito, il suo abbigliamento è tutto firmato. L’orologio costoso di metallo nero al polso destro, il bracciale d’argento in quello sinistro. S. sogna di trasferirsi in Canada, dagli zii. Per il momento si divide tra la cassa dell’albergo e il commercio di olio in società con il fratello. È finito al don Milani per tre bravate, l’ultima è guida senza patente: «Guidavo una moto 125, che sarà mai?», sorride. Il tribunale gli ha concesso la messa alla prova, che prevede un percorso di volontariato. Il responsabile del centro è Francesco Riggitano e tutto il tempo che ha disposizione lo dedica ai ragazzi di questi paesi della Locride. «Ci sono famiglie mafiose storiche, importanti, nelle quali la trasmissione mafiosa è evidente. La nostra esperienza ci dice però una cosa: si incide più facilmente sulla manovalanza, su quei ragazzi le cui famiglie non sono criminali da generazioni. Diverse mamme di questi soldatini si sono rivolte a noi per toglierli dalla strada». Il centro è frequentato da tanti ragazzi. Una risorsa straordinaria in questo deserto della Locride. D’altronde crescere qui, o a Rosarno, o tra i boschi dell’Aspromonte, oppure nel quartiere Archi di Reggio Calabria, è una lotta quotidiana. Non ci sono cinema, teatri, polisportive. Sale giochi e strade abbandonate diventano gli unici spazi di aggregazione. Al Don Milani c’è anche una squadra di calcio, la Seles (acronimo di Scuola Etica e Libera di Educazione allo Sport), diventata un punto di riferimento per bambini e adolescenti. Gli allenamenti hanno strappato i giovani dalla strada. Simbolicamente è come aver dato un calcio alla ’ndrangheta. Per Riggitano e i suoi collaboratori non è tutto facile, anzi. «Su 42 comuni della Locride, solo il 30 per cento di questi ha assistenti sociali di ruolo», denuncia Francesco. Troppo pochi per svuotare le madrasse dei clan, che trasformano ragazzini senza possibilità in picciotti d’onore.

Non crescerai mafioso: i minori tolti alla mafia. Sparano, maneggiano la droga, interpretano il ruolo di piccoli boss. Per questo i giudici dei minorenni hanno deciso di allontanarli dalle famiglie di 'ndrangheta. Togliendoli ai padri-padrini per offrirgli un'alternativa alla vita scelta per loro dagli adulti, scrive Giovanni Tizian su "L'Espresso" del 14 gennaio 2016. C'è un nuovo fronte nella lotta alla 'ndrangheta aperto dai magistrati di Reggio Calabria. Qui, infatti, il tribunale dei minorenni è l’unico in Italia ad avere intrapreso la strada dell’allontanamento dai genitori mafiosi. Finora sono 30 i minori sottratti alle cosche e affidati a famiglie o comunità del Nord. Un numero destinato a crescere. I figli dei boss sottratti per legge alle famiglie in questo modo non saranno più costretti a impugnare pistole o ad avere “confidenza” con la droga e così potranno giocare e studiare come tutti i ragazzi. Il più piccolo ha 12 anni, ma la maggior parte è nel pieno dell’adolescenza. «È una misura che non si applica mai in maniera leggera», spiega a “l'Espresso” il procuratore capo di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho, che aggiunge: «Chi la critica sostiene che è una intromissione intollerabile nell’ambito familiare. Però dobbiamo capire una cosa: il clan mafioso impartisce ai suoi rampolli regole opposte a quelle naturali». Così, per esempio, se per la giovane B. il codice della ’ndrina prevedeva una vita di segregazione e silenzio, l’intervento dei giudici le ha permesso di realizzare il suo sogno: disegnare abiti. Da qualche mese la ragazza, figlia di un boss della provincia reggina, vive fuori regione, in una località sconosciuta, dove è finalmente libera di seguire la sua passione. Il procuratore, poi, ragiona su un fatto acclarato: «Ci troviamo di fronte a sedicenni che si comportano già da capi. Hanno entrambi i genitori in galera o latitanti. Lasciamo che le figure adulte continuino ad addestrarli al crimine? Più tardi si interviene più difficile è il cambiamento». E in effetti ad ascoltare le intercettazioni registrate negli ambienti di casa ’ndrangheta, l’impressione è che il destino di molti bambini sia segnato per sempre. Bambini che a sette anni sono costretti a sparare, ragazzi più grandi che assistono a lezioni di mafia impartite dai papà-boss oppure adolescenti trasformati in vedette durante le faide. Crescono così i figli d’onore. Senza una vera alternativa e senza possibilità di scegliere. Addestrati da padri-padrini per i quali uccidere, morire o andare in galera sono tappe di una carriera obbligata. La stessa che hanno scelto per i loro pargoli ancora in fasce. D'altronde la 'ndrangheta è fondata sulla famiglia: i legami di sangue hanno un valore enorme in questa organizzazione, più che in qualsiasi altra mafia. Tanto che esiste un rito, la «smuzzunata», per i bimbi appena nati. È Il battesimo da 'ndranghetista, un diritto che spetta solo ai figli dei capi. «Ci troviamo davanti ai figli e ai fratelli di persone processate negli anni Novanta. Questo ci fa pensare che la ’ndrangheta si eredita», racconta Roberto Di Bella, il presidente del tribunale dei minorenni di Reggio Calabria, che ha creduto fortemente in questo protocollo. «Dal 2012 stiamo intervenendo con provvedimenti di decadenza della responsabilità genitoriale e il conseguente allontanamento dei figli minori dal nucleo familiare. L’obiettivo è interrompere la trasmissione culturale». L’intervento del tribunale però non è indiscriminato. Il “salvataggio” scatta solo quando gli inquirenti entrano in possesso di notizie sull’educazione mafiosa impartita ai figli. Informazioni che i pm girano al tribunale e alla procura dei minorenni. Solo a quel punto si mette in moto il meccanismo che potrebbe portare all’allontanamento. Lezioni di mafia, minori incaricati di custodire armi e droga, ragazzini obbligati a dimostrare quanto valgono con azioni di fuoco, sono tutti segnali che allertano gli uffici giudiziari. Non sono escluse dall’indottrinamento neppure le giovani donne. Abituate a ubbidire agli ordini fin da piccole: subiscono tutto questo, si trincerano dietro il silenzio e spesso sono costrette ad accettare matrimoni che uniscono due potentati criminali. Gli interventi dei giudici stanno dando i primi risultati. Hanno stimolato la reazione di diverse donne. Che hanno deciso così di chiedere aiuto e di collaborare. La ribellione, quindi, è possibile. E questo gruppo di mamme lo dimostra: una decina di mogli di alcuni importanti padrini che hanno bussato alle porte del tribunale per collaborare. Lo fanno, dicono, per salvare i figli.

Pro e contro l'allontanamento forzato. Quattro opinioni (e quattro libri) prendono posizione sul distacco dei bambini dalle famiglie mafiose, scrive Angiola Codacci-Pisanelli su "L'Espresso" del 13 gennaio 2016. «Se suo figlio nasceva dove sono nato io, adesso era lui nella gabbia; e se io nascevo dove è nato suo figlio, magari ora facevo l’avvocato, ed ero pure bravo». Sembrano parole inventate per giustificare i giudici calabresi che tolgono i figli a chi è condannato per mafia per dare a quei ragazzi un futuro lontano dalla delinquenza. Invece sono parole vere, dette da un giovane mafioso che per i suoi crimini sconterà 26 anni, continuerà a sognare di costruirsi una vita migliore e alla fine, sconfitto da una burocrazia ancora più impietosa dell’ergastolo “ostativo”, uscirà come il Miché di Fabrizio De André: «Adesso che lui s’è impiccato la porta gli devono aprir...». Siamo a Torino alla fine degli anni Ottanta, ai margini di un maxi processo alla mafia catanese. Salvatore, uno dei più pericolosi tra i 242 imputati che assistono alle udienze chiusi in gabbie d’acciaio, chiede un colloquio al Presidente della Corte d’Assise, Elvio Fassone. Le sue parole, con quella nostalgia per un destino diverso da quello assegnatogli dalla «lotteria della vita», segnano un punto di svolta nel rapporto tra quel pluriomicida e il giudice che firmerà la sua condanna. Ne nasce un rapporto epistolare durato 26 anni, un libro composto e struggente (“Fine pena: ora”, Sellerio) e l’impegno personale di Fassone per mitigare una pena che «è una vera barbarie: una sentenza della corte europea del 2013 ci obbligherebbe a riesaminare caso per caso dopo 25 anni di carcere». Nel libro il rapporto malato tra infanzia e mafia torna tre volte. Nel bambino che Salvatore era e che non aveva altra strada che la delinquenza. Nei figli che non ha potuto avere dalla “ragazza perbene” che non ha fatto in tempo a sposare e che dopo anni d’attesa ha rinunciato ad aspettarlo. E nell’ansia per i nipotini, «quattro discoli» che con il padre anche lui in carcere e la madre che «si arrabatta come può» ormai «non rispettano nessuno». Salvatore si tormenta: «Dovrei esserci io insieme a loro, gli direi di studiare e di imparare a fare un lavoro altrimenti finiscono dove sono finito io». Eppure Fassone non è favorevole all’idea di togliere i figli ai mafiosi, un provvedimento che, se andasse avanti una proposta presentata nel 2014 dal deputato renziano Ernesto Carbone, potrebbe diventare legge. «Sono sempre riluttante davanti agli interventi coercitivi, anche se fatti con la certezza di “fare del bene” a un innocente», spiega Fassone. «Mi rendo conto però che quando un nucleo è radicato in ambito mafioso può essere una scelta accettabile. Purché però non si perdano i contatti con la madre. Pensiamo a questi bambini: con il padre in carcere, la madre diventa ancora più importante...». A preoccupare l’ex giudice torinese quindi non è tanto la possibilità che la perdita dei figli diventi una pena accessoria ancora più esasperante per dei condannati già difficilissimi da recuperare, quanto l’effetto sui bambini. Che oltretutto quando arriva la decisione dei giudici sono spesso già adolescenti. Non è troppo tardi? No, spiega Massimo Ammaniti, specialista di psicologia dell’età evolutiva. Nel suo “La famiglia adolescente» (Laterza), lo studioso mette a fuoco gli anni in cui «si conclude per i figli la fase del rispecchiamento e comincia - o dovrebbe cominciare - un processo diverso, la mentalizzazione». È questo il momento giusto, spiega a “l’Espresso”, «per cercare di costruire un senso civico che nasce da un’educazione a far proprie le regole e a capire il punto di vista dell’altro. Un’educazione all’empatia e alla mentalizzazione, la capacità di “leggere nella mente dell’altro” che entra in crisi fra i dodici e i quattordici anni, quando i ragazzi iniziano a prendere le distanze dal modello dei genitori». Ma il distacco forzato dai genitori è giustificato? «Sì, perché chi cresce in una famiglia mafiosa è vittima di una forma di abuso psicologico. Non è molto diverso da quello che succede ai bambini soldato della Sierra Leone. Toglierli alla famiglia è un modo per proteggerli da un meccanismo di affiliazione tanto più potente perché fa uso anche dell’affetto. E dal pericoloso senso di onnipotenza che ne deriva: appartenere a una famiglia mafiosa crea un’identificazione col gruppo che porta a un disturbo dell’identità, perché ci si sente parte di un sé grandioso». E comunque parliamo di affido temporaneo, «ben diverso dalla pulizia etnica o politica, dai bambini tolti ai nomadi in Svizzera o ai desaparecidos in Argentina». Questi distinguo non bastano a chi considera i provvedimenti «una vera barbarie, oltretutto con risultati minimi». È categorica Silvana La Spina, scrittrice catanese che nell’ultimo libro, “L’uomo che veniva da Messina” (Giunti) si è allontanata dall’attualità, ma che all’atteggiamento dei bambini di fronte alla malavita ha dedicato anni fa “La mafia spiegata ai miei figli (e anche ai figli degli altri)” (Bompiani). «Lo Stato non può pensare di salvare un solo bambino lasciando intatta la cultura malata di interi territori. Deve entrare nelle famiglie: medici, psicologi, assistenti sociali devono trovare gli “anelli deboli” che possono spezzare la catena, lavorare con le donne che sempre più spesso si oppongono silenziosamente». Allontanare un singolo bambino dal “contagio” «può creare una forma di rancore controproducente», nota la scrittrice. Che aggiunge: «Se è vero che la ‘ndrangheta ha ancora comportamenti tribali, lo Stato non può limitarsi a togliere un bambino dalla tribù. Deve aiutare la tribù intera». «I giudici calabresi hanno ragione», ribatte Melita Cavallo. «Ne sono convinta fin dagli anni Novanta: l’ho scritto chiaramente nel mio libro “Ragazzi senza”. Se si fosse intervenuti allora non vivremmo lo stato di cose di oggi». Alla vigilia dell’uscita di “Si fa presto a dire famiglia” (Laterza), ritratto delle “nuove” famiglie italiane attraverso quindici storie vere, l’ex presidente del tribunale per i minorenni di Roma da poco in pensione ha ben presente la situazione delle famiglie mafiose: «Non si può mai procedere per categorie. Il Tribunale decide sui casi singoli: non concorderei mai con un allontanamento “di massa” dei bambini da ambienti mafiosi, ‘ndranghetisti o camorristi. E comunque si nomina un tutore che fa da tramite tra la famiglia e il bambino nella sua nuova situazione: si evita così che nel piccolo si crei una ferita che non sarebbe facile risanare nel tempo». Ma c’è un altro modo di sottrarre questi piccoli alla “lotteria della vita” che li porta alla delinquenza. «Lo Stato deve intervenire pesantemente: non con esercito e polizia ma con la scuola. Una scuola che prende bambini e ragazzi dalle 8 alle 16, 30, in un territorio ricco di ludoteche, palestre e luoghi di incontro per suonare, disegnare, leggere, creare insomma un gruppo alternativo al modello familiare. Questo tipo di politica non paga subito, i suoi effetti si registreranno dopo anni, ma salverà migliaia di ragazzi». E non più solo i bambini del singolo camorrista che a vent’anni da quando lei aveva deciso l’allontanamento dei figli le scrisse dal carcere ringraziandola «perché i ragazzi si erano salvati».

Figli dei boss Luperti Riina e Company mafiosi per sempre. Brindisi e mafia, Luperti querela «Emiliano mi ha dato del mafioso». Controffensiva dell’ex assessore di Consales: «In Commissione antimafia Emiliano ha portato città indietro di vent’anni e ha fatto passare me per quello che non sono», scrive "Il Corriere del Mezzogiorno" il 22 febbraio 2016. «Posso accettare qualsiasi critica sul mio operato politico, ma nessuno dica che sono un mafioso. Mafioso no, proprio non posso accettarlo. Per me, per la mia famiglia». L’ex assessore all’Urbanistica del Comune di Brindisi, Pasquale Luperti, con questa motivazione annuncia che querelerà il presidente della Regione Michele Emiliano. Dal governatore, infatti, si sarebbe sentito offeso per i riferimenti, fatti anche in sede di Commissione antimafia, al padre Salvatore e allo zio Antonio, il primo già condannato per associazione mafiosa. I due furono uccisi alla fine degli anni novanta nell’ambito di una guerra di mafia in seno alla Scu scoppiata per la gestione del traffico di sigarette di contrabbando. Emiliano nel dicembre aveva chiesto le dimissioni di Luperti dalla giunta guidata da Mimmo Consales (Pd), arrestato per corruzione lo scorso 6 febbraio. «Con il suo racconto - spiega Luperti - Emiliano ha portato Brindisi indietro di vent'anni, facendo passare me per quello che non sono e cioè una persona collegata con la Sacra corona unita che ha potuto creare infiltrazioni nella pubblica amministrazione. Mio padre è morto 20 anni fa, e se io sono diverso lo devo anche a lui. Ci ho messo tantissimo per farmi conoscere e apprezzare. Accetto tutte le critiche ma non l'appellativo (mai detto in maniera esplicita da Emiliano, ndr) di mafioso. Quel mondo mi ha distrutto una parte di vita».

"Il giorno della civetta" e i figli dei boss, scrive di Valter Vecellio. "Lasci stare mia figlia", ruggisce il capo mafia. Il capitano dei carabinieri che gli sta di fronte, ed è venuto ad arrestarlo, gli chiede conto delle ingenti somme di denaro depositate in tre diverse banche, il suo apparente non far nulla, l'irrisoria denuncia dei redditi, nonostante il reddito reale sia elevato; e osserva che anche a nome della figlia risultano, altri, cospicui depositi, lei che studia in un costoso collegio svizzero...Poi, dopo lo scatto, il boss riprende il controllo dei nervi: "Mia figlia è come me", sibila, ma più a rassicurarsi, che a smentire il capitano; e magari, chissà, col tarlo, il dubbio, il sospetto che forse quell’uomo in divisa così diverso da lui per esperienze, cultura, nascita e accento, possa aver ragione e compreso quello che lui non ha capito e non vuole capire quando, poco prima gli aveva detto: "Immagino lei se la ritroverà davanti molto cambiate: ingentilita, pietosa verso tutto ciò che lei disprezza, rispettosa verso tutto ciò che lei non rispetta...". E’ una scena de "Il giorno della civetta" di Leonardo Sciascia, più del romanzo che del film. Nel film la ragazza si vede, compare, è devota nel porgere i calzini al padre, svegliato di soprassalto, e anche complice: il boss infatti le affida qualcosa che deve far “sparire”. Nel romanzo è invece una presenza evocata, non compare mai. Il romanzo - è bene ricordarlo - Sciascia lo scrisse più di cinquant'anni fa. Il capitano Bellodi e don Mariano Arena sono di fronte uno a l'altro, il mafioso poi descrive quelle che a suo giudizio sono le cinque categorie in cui si divide l'umanità; Bellodi individua nella legge, nel rispetto del diritto, le "armi" per sconfiggere la mafia. E’ un brano che autorizza una cauta speranza: quella che attraverso lo studio, la cultura, i figli e i nipoti di mafiosi riescano a levarsi di dosso la mafiosità dai loro padri e zii e nonni vissuti come "naturale", una pelle; e diventino appunto pietosi, rispettosi. Anni dopo, non a caso, richiesto su quello che i ragazzi potevano fare contro la mafia, Sciascia lapidario risponde: “Magari una marcia in meno, e un libro in più”. Quasi naturalmente ho pensato a quel brano de “Il giorno della civetta”, nell'apprendere che la diciassettenne figlia del boss latitante Matteo Messina Denaro (si dice erede di Totò Riina), avrebbe convinto la madre a lasciare la casa dove le due donne hanno sempre vissuto, e per andare altrove. Un po' frettolosamente si è scritto che la ragazza - e con lei la madre - si sono "ribellate": "la ragazza vuole vivere lontano dai familiari del papà. Una scelta rivoluzionaria perché suona come sfida ai codici di Cosa nostra''. Ribellione è una forzatura. La ragazza, che ha un suo profilo su facebook, il giorno del compleanno del padre, gli fa gli auguri, sotto forma di un cuoricino rosso, e scrive frasi di delicata malinconia: "Quanto vorrei l'affetto di una persona e, purtroppo, questa persona non è presente al mio fianco e non sarà mai presente per colpa del destino...". Già perchè la ragazza, a differenza di altri figli di boss (quelli di Totò Riina, o di Bernardo Provenzano, o Nitto Santapaola, per esempio) non avrebbe mai visto il padre in vita sua. Sa chi è, quello che ha fatto e fa, ma non lo ha mai visto. Con la madre ha vissuto per quasi vent'anni nella casa della madre di Messina Denaro, e con le sorelle di lui; ma ora aspira a vivere una vita normale di una normale diciassettenne. Ha un fidanzatino, vorrebbe fare quelle cose che fanno tutte le sue coetanee, fuori dalla "gabbia" della mafiosità della famiglia del padre. La sua non è una ribellione, piuttosto la richiesta di una liberazione. Qualcosa deve aver toccato il cuore spietato del boss, o "semplicemente" ha fatto i suoi conti, si è reso conto che era meglio allentare di qualche anello la catena. Perché una cosa è indubitabile: se le due donne possono andare a vivere altrove significa che il boss si è convinto che la cosa si può fare. C’è da augurarsi ora, che la ragazza, staccandosi da quell'ambiente e vivendo normalmente la sua giovinezza, come la figlia di don Mariano Arena, e nonostante l’ambiente in cui è vissuta, il retaggio, i condizionamenti patiti e subiti, ne acquisti in “gentilezza”, “pietosa” verso tutto ciò che il padre disprezza, “rispettosa” verso tutto ciò che i mafiosi non rispettano. Merito della cultura, della “lettura di qualche libro in più”? Altri figli di boss, come quelli di Bernardo Provenzano, hanno studiato e si sono laureati in Germania, e con la mafia non hanno nulla a che fare. Si sono liberati, o vogliono cercare di liberarsi, della “pelle” mafiosa. Altri, al contrario, proprio grazie a lauree e specializzazioni in prestigiose università, hanno ulteriormente affinato le tecniche criminali e ampliato gli “imperi” dei padri e dei nonni. Ad ogni modo, resta l’intuizione di Sciascia, che merita di essere approfondita e studiata. Se dicessi che già cinquant’anni fa aveva capito tutto, lui per primo inarcherebbe il sopracciglio, con un gesto di muto rimprovero. Tutto no, ma tanto, e l'essenziale, probabilmente sì.

Chi condanna i figli dei Boss, scrive Alessandro Ziniti su "La Repubblica". Il figlio di Totò Riina chiede il rilascio della certificazione antimafia. Indiscutibilmente è una notizia e, come tale, i giornali, "Repubblica" in testa, la pubblicano con il dovuto rilievo. Due settimane dopo, a Corleone, l'azienda agricola dei figli del boss e la lavanderia della moglie e dei figli di Bernardo Provenzano sono costrette a chiudere i battenti. Il prefetto e la Camera di commercio non hanno dato le necessarie autorizzazioni e le due attività, di per sé assolutamente legali, devono immediatamente cessare. Certo, è un'altra notizia che fa scalpore e che fa discutere. Ma, con altrettanta certezza, avrebbe fatto più clamore se agli eredi dei due capi assoluti di Cosa nostra fosse stata rilasciata la certificazione antimafia. Vi immaginate, lo Stato che rilascia la patente di antimafiosità ai figli di Riina e Provenzano? Impossibile. Eccole, allora, a secondo della prospettiva da cui la si guarda, le tante facce dell'ultima vicenda che ha riportato Corleone agli onori della cronaca. Lo Stato, con i provvedimenti dei giorni scorsi, ha - nei fatti - detto ai giovani figli dei capi di Cosa nostra che a loro non è consentita alcuna attività "lecita". Intendiamoci: l'azienda di macchine agricole e la lavanderia non sono state chiuse perché condotte irregolarmente ma perché i legami dei titolari con la criminalità organizzata "appaiono inequivocabili". E dunque, in assenza dei requisiti personali, non sono nelle condizioni di ottenere le certificazioni che le leggi dello Stato richiedono ad un qualunque cittadino. I figli dei boss sono dunque condannati a non potere avere un futuro da "qualunque cittadino"? I provvedimenti di questi giorni dicono di sì, ma davanti all'umano dubbio morale o alla semplicistica "solidarietà" che i giovani rampolli di Cosa nostra possono raccogliere, vale forse la pena di riflettere sul fatto che a decretare questa terribile condanna non è solo lo Stato (almeno quello che non intende abbassarsi ad alcuna "trattativa") ma, primi di tutti, i loro padri. Quei padri che, in cella o latitanti da una vita, non sono riusciti a costruire per i loro figli un futuro migliore. Certo, non deve essere stata facile la decisione del prefetto di Palermo prima, del sindaco di Corleone poi, e poi ancora del presidente della Camera di commercio: la ragion di Stato ha prevalso, e non avrebbe potuto essere diversamente, su quella del "recupero" di questi ragazzi alla società civile. Dice il sindaco di Corleone Pippo Cipriani, ogni giorno a contatto con i giovani Riina e Provenzano: "Nessuna persecuzione, per carità. Io sono stato il primo a tendere loro una mano quando sono tornati a Corleone. Certo, pretendere che questi ragazzi rinneghino i padri forse è troppo, ma da loro non è mai arrivato neanche un segnale, il più piccolo, della volontà di intraprendere una strada diversa. L'apertura di quelle attività era il loro modo di riaffermare il controllo sul territorio, un controllo che, in uno Stato civile, spetta alle istituzioni". Poche decine di giorni prima e poche centinaia di metri più in là, Giuseppe Riina, accettando per la prima volta di parlare davanti alle telecamere della Rai, mostrava orgoglioso la sua azienda e spiegava: "Noi vogliamo lavorare nella legalità, non vogliamo vivere tutta la vita con questo fardello sulle spalle, se lo Stato non vuole che lo facciamo ce lo dica chiaramente". E la risposta, inequivocabile, è arrivata poco dopo. Lo Stato non consente. Ma c'è ancora un'altra faccia della vicenda: perché questi provvedimenti arrivano solo ora se le attività, soprattutto quella dei Provenzano, era aperta da ben quattro anni senza che nessuno avesse mai mosso un dito? E ancora perché si è mossa solo l'autorità amministrativa e non anche quella giudiziaria? Riconosciuti "nullatenenti", i due boss corleonesi non hanno mai "potuto" risarcire, così come sancito da decine di sentenze, le vittime delle loro attività criminali. Le misure di prevenzione hanno colpito in tutti questi anni i loro presunti o accertati prestanome. Ma se quelle due piccole attività sono state messe su con i proventi di quelle famiglie mafiose alle quali - dicono i provvedimenti - i ragazzi sarebbero inequivocabilmente legati perché non sono state sequestrate? Tanti perché, ognuno dei quali avrà sicuramente una valida risposta. Forse le spalle di un prefetto, di un sindaco, di un presidente di Camera di commercio sono troppo esili per reggere da sole il peso del futuro di questi ragazzi o forse la vicenda di Corleone è lo specchio fedele dell'impasse dell'antimafia.

La figlia di Riina: vi sembro donna di mafia? L’ultimogenita di Salvatore e Ninetta Bagarella si racconta. La sua infanzia in clandestinità, nelle campagne palermitane, e l’arrivo a Corleone dopo la cattura del padre, il 15 gennaio 1993. L’impatto con la società e oggi il desiderio di esprimersi attraverso l’arte, scrive Siana Vanella il 4 febbraio 2014 su "Panorama". L'appuntamento è alle 12, all’entrata del paese. Ogni chilometro rappresenta metri di riflessioni e punti interrogativi. Come sarà dal vivo Lucia Riina? In fondo la sua persona ha sempre vissuto mediaticamente all’ombra del padre Salvatore, di mamma Antonietta e dei fratelli Salvo, Maria Concetta e Gianni. Il cartello «Corleone» indica che non è più tempo di pensare. «Benvenuti nella mia città, vista l’ora che ne dite di fare un salto in pescheria? Qui si trova dell’ottimo pesce». Così esordisce la più piccola di casa Riina in jeans e t-shirt nera. Da lì a poco, eccoci nella cucina decorata con maioliche blu e bianche e due chili di polipi da preparare. Mentre in pentola il pesce cuoce insieme con il pomodoro fresco fatto da mamma Ninetta, Lucia chiarisce la provenienza dei suoi occhi azzurri. «Il colore è tipico dei Riina» spiega con in mano un mestolo di legno «quelli di mio padre sono cangianti tra il marrone e il verde, anche se il taglio appartiene alla famiglia Bagarella. Da piccola ero molto magra e mamma a colazione mi dava le vitamine alla ciliegia. Ormai, da quando vivo in campagna, sono le uova della mia fattoria a darmi energia». E in realtà, ad animare le giornate di Lucia e del marito Vincenzo, alle prese con il lavoro a singhiozzo, ci pensano cani, gatti, oche e galline. Sul suo sito si legge: «Sin da quando ero bambina ho avuto la passione per il disegno, ricordo che mamma e papà cercavano di procurarmi sempre album e matite ovunque eravamo. Io ero piccola e non capivo, però mi entusiasmava l’idea che a ogni nuova residenza c’erano ad attendermi matite e album nuovi».

Che ricordo ha della sua infanzia?

«Ho un ricordo di gioia e serenità. Si respirava amore puro in casa, sembrava di vivere dentro a una fiaba: mamma mi accudiva, papà mi adorava e mia sorella Mari per farmi addormentare mi raccontava le favole accarezzandomi i capelli. Mio fratello Gianni mi metteva sulle sue gambe chiamandomi “pesciolino”, Salvo (col quale la differenza di età è di appena tre anni, ndr) era il compagno di giochi. Avevamo un cane e un gatto, per questo adoro gli animali».

Si respirava profumo di arte?

«Mamma ha conseguito il diploma magistrale, quindi ci parlava spesso di storia dell’arte e di letteratura, papà era un appassionato di libri, e trascorreva le sue serate a leggere volumi sulla storia della Sicilia. Credo di avere, comunque, ereditato l’amore per la pittura dallo zio Leoluca (Bagarella, ndr), il fratello di mia madre. In casa custodisco gelosamente alcuni suoi dipinti, regali delle zie per il mio matrimonio: sapevano che anche dal carcere lo zio avrebbe apprezzato il gesto. Da piccola si dilettava a disegnare pesci e farfalle, adesso questi soggetti sono diventati i protagonisti delle sue tavole. Rappresentano un po’ il mio carattere. Il pesce con la sua serenità e i suoi colori cangianti, la farfalla con la sua libertà e delicatezza. Da bambina li disegnavo per esprimere i miei stati d’animo, adesso per rievocare il mio passato e comunicare il fatto di essere innamorata. Se dovessi rappresentare la mia esistenza attraverso i colori utilizzerei il rosa e il celeste, ma anche il giallo, il rosso e l’arancio perché mi ritengo una persona ottimista. La vita va affrontata con coraggio e anche quando si presentano situazioni difficili bisogna sempre andare avanti».

C’è qualcosa che le manca per completare il quadro della sua serenità?

«La mia è stata sicuramente una vita articolata e piena di difficoltà. È traumatico per una bambina di 12 anni vedersi strappare, dall’oggi al domani, la persona che più adora senza conoscerne i motivi e senza potergli dare nemmeno un ultimo bacio. I mesi dopo l’arresto di papà sono stati durissimi: l’arrivo a Corleone cercando di ambientarsi in una nuova realtà, frequentare la scuola (eravamo infatti abituati alla mamma che tutti i giorni ci riuniva a un tavolo impartendoci lezioni personalizzate), l’impatto con la società. A questo aggiungete le visite in carcere. Non riesco ancora a dimenticare la prima, dopo il periodo di isolamento di papà a Rebibbia: fu atroce, anzi peggio. Inizialmente credo che la struttura non fosse organizzata ad accogliere papà, e nemmeno noi, durante i colloqui. Ricordo che fecero entrare me, i miei fratelli e la mamma in una stanza piena di sedie e con un paravento dotato di fori. Mio padre era a pochi centimetri da noi, l’avrei potuto abbracciare in un istante, ma le guardie erano tutte attorno a lui e ci imploravano di non alzarci. Abbiamo passato tutto il tempo a piangere. Certe atrocità ai bambini non si fanno. Per chi non mi conosce e si basa solo sulle polemiche sollevate dai media negli anni, Lucia Riina non è quella bambina che si è risvegliata violentemente da una fiaba e non è nemmeno la donna che oggi fa fatica, come tutti i giovani, a trovare un’occupazione complice la crisi economica e un cognome forse un po’ ingombrante. Per me l’arte diventa un modo per rappresentare il mio mondo e far conoscere agli altri realmente chi sono».

Nel suo sito afferma di non aver potuto frequentare il liceo artistico di Palermo «perché a quell’età e in quella situazione non potevo andare a studiare così lontano da casa». C’è un artista da cui ha tratto spunti creativi?

«L’ispirazione nasce dalla vita di tutti i giorni, dal luogo in cui vivo e dal fatto che sto bene con mio marito. Negli ultimi mesi sto studiando le correnti dell’astrattismo basate sugli stati d’animo espressi attraverso i colori, le pennellate e le forme indefinite. Inoltre, sono attratta da Jackson Pollock e dalla tecnica del dripping: mi piacerebbe reinterpretarla personalizzandola».

Oltre alla pittura avrebbe voluto coltivare altre passioni?

«Sicuramente la danza. Da piccola guardavo tutti i film del genere, mi mettevo davanti allo specchio e ballavo o improvvisavo coreografie davanti ai miei genitori. Ancora oggi rimango incantata dalla danza classica e se un giorno dovessi avere una bimba mi piacerebbe vederla in tutù e calzamaglia».

Che cosa pensa di avere ereditato dai suoi genitori?

«Da papà, sicuramente, la gioia di vivere e l’ottimismo. Il fatto di andare sempre avanti senza arrendersi. Con lui c’è sempre stato un feeling speciale, complice anche il fatto di essere la più piccola in famiglia. Nelle lettere che mi spedisce mi chiama ancora «Lucietta di papà» nonostante i miei 33 anni suonati. Anche dal carcere, in questi anni, ha cercato spesso di ammorbidire mamma per le classiche richieste che una figlia adolescente fa ai propri genitori. Mi riferisco all’orario di rientro il sabato sera o al permesso per andare al mare. Quando conobbi Vincenzo, mio fratello Salvo inizialmente era un po’ geloso così ne parlai durante un colloquio a papà, che rispose: «Se la mia Lucietta è contenta, fatele fare le sue scelte». Da mamma credo di aver ereditato l’amore per gli affetti e per la conoscenza che mi ha spronato sempre a interagire con nuove persone».

In questi anni sua madre ha avuto un ruolo importante in famiglia. È stata moglie, madre e dal 1993 ha dovuto pure sopperire all’assenza fisica di suo padre. Adesso i ruoli si sono un po’ invertiti: è un po’ Lucia a dover sostenere Antonietta?

«Crescendo, un figlio diventa un punto di forza per un genitore. Ci sono momenti in cui fare i conti con la mancanza di papà per mia madre diventa difficile. Il loro è stato un amore da romanzo: lei ha lasciato tutto per dedicarsi anima e corpo a noi figli e al grande amore della sua vita. Tutte le volte che è giù perchè pensa a papà o a Gianni che è in carcere le dico: «Mamma, stai tranquilla, io sarò sempre accanto a te». È il minimo che puoi fare per chi ti dà la vita.

Lei aveva deciso di devolvere a Save the children il 5 per cento del ricavato della vendita dei suoi dipinti, ma la sua scelta ha causato polemiche. Da anni seguivo le iniziative di questa associazione, così visitando la loro pagina ufficiale su internet venni a conoscenza del fatto che chiunque, munito di sito, poteva inserire il banner di Save the children per contribuire alle iniziative a favore dell’infanzia. Così, venduti i primi quadri, ho inviato una parte del compenso con un bollettino postale, cui seguì una lettera di ringraziamento intestata a me da parte dell’associazione con tanto di tessera di socio e una esortazione a continuare a contribuire. Io ero felicissima di poter aiutare bambini sfortunati e tutto mi sarei aspettata tranne che, da lì a poco, Save the children potesse reagire in quel modo. Ci sono rimasta malissimo, ho tolto il banner spiegando sul sito come sono andate le cose perché voglio essere trasparente con chi mi segue. Il mio è un lavoro onesto e da sempre il mondo dell’arte è legato alla beneficenza. Adesso sono alla ricerca di una nuova associazione da sostenere, perché mi sento realizzata quando faccio del bene».

RIINA FAMILY LIFE. Mi chiamo Salvatore Riina, sono nato a Corleone e sono il figlio secondo genito di Totò Riina e di Ninetta Bagarella. Dopo essermi consultato con la mia famiglia, soprattutto con i miei genitori, ho deciso di scrivere questa biografia per raccontare la storia della mia famiglia e dei rapporti tra noi fratelli e sorelle e mio padre Totò e mia madre. Figli, tutti, nati e cresciuti latitanti, dovendo seguire gli “spostamenti” forzati dei miei genitori. Ne parlo con l’affetto di un figlio, anche se mio padre si chiama Totò Riina. Voglio raccontare dall’interno la vita della famiglia più “conosciuta” al mondo, ma solo di nome. Io voglio invece raccontare i fatti. Davvero tante saranno le sorprese.

«La mia vita con Salvatore Riina, mio padre». Il racconto di Giuseppe Salvatore, il figlio del boss. Il figlio racconta: «Assieme nelle nottate alla tv per l’America’s Cup, non cenò mai fuori. Me lo ricordo zitto il giorno di Capaci. Le vittime? Preferisco il silenzio. Di mafia non parlo, e se lei mi domanda che cosa ne penso, io non rispondo», scrive Giovanni Bianconi il 4 aprile 2016 su “Il Corriere della Sera”. «Tra febbraio e marzo del 1992 passammo notti intere insonni davanti al televisore a seguire il Moro di Venezia gareggiare nell’America’s Cup. Papà preparava la postazione del divano solo per noi due, con un vassoio di biscotti preparato per l’occasione e due sedie piazzate a mo’ di poggiapiedi... Io non avevo ancora compiuto 15 anni e lui, Totò Riina, era il mio eroe». Che, in quegli stessi giorni, pianificava e ordinava l’omicidio di Salvo Lima, il politico democristiano assassinato per non aver saputo «aggiustare» il maxiprocesso alla mafia. Poco dopo venne il 23 maggio: «La tv era accesa su Rai1, e il telegiornale in edizione straordinaria già andava avanti da un’ora. Non facemmo domande, ma ci limitammo a guardare nello schermo. Il viso di Giovanni Falcone veniva riproposto ogni minuto, alternato alle immagini rivoltanti di un’autostrada aperta in due... Un cratere fumante, pieno di rottami e di poliziotti indaffarati nelle ricerche... Pure mio padre Totò era a casa. Stava seduto nella sua poltrona davanti al televisore. Anche lui in silenzio. Non diceva una parola, ma non era agitato o particolarmente incuriosito da quelle immagini. Sul volto qualche ruga, appena accigliato, ascoltava pensando ad altro». Era stato lui a decidere quella strage, per eliminare il magistrato che aveva portato alla sbarra Cosa nostra fino a infliggere l’ergastolo a Riina e compari. E poi il 19 luglio, mentre la famiglia era in vacanza al mare: «Fu uno di quei giorni in cui mio padre preferì rimanere a casa ad aspettarci, sempre circondato dai suoi giornali che leggeva lentamente ma con attenzione. Negli ultimi mesi era diventato più attento nelle uscite in pubblico, anche se dentro casa era sempre il solito uomo sorridente e disposto al gioco». Al ritorno dalla spiaggia ancora la tv accesa, ancora immagini di morte, fuoco e fiamme: «Il magistrato Paolo Borsellino appariva in un riquadro a fianco, ripreso in una foto di poche settimane prima... Lucia, dodicenne, era la più colpita da quelle immagini. Si avvicinò a mio padre silenzioso. “Papà, dobbiamo ripartire?”. “Perché vuoi partire?” domandò lui, finalmente rompendo la tensione con la quale fissava il televisore. “Non lo so. Dobbiamo tornare a Palermo?”. “Voi pensate a godervi le vacanze. Restiamo al mare ancora per un po’”. Lucia scoppiò in una ingenua risata e lo abbracciò... E così restammo lì fino alla fine di agosto». Anche l’eccidio di via D’Amelio era stato deciso da suo padre, Totò Riina. Ma questo particolare il figlio Giuseppe Salvatore detto Salvo, lo omette. Così come non parla di Lima, di Falcone e di tutte le altre vittime del capomafia corleonese che ha governato Cosa nostra a suon di omicidi. «Io non sono il magistrato di mio padre — dice sfilandosi gli occhiali da sole al tavolino di un bar di Padova, dove vive e lavora in libertà vigilata», divieto di lasciare la provincia e di uscire dalle 22 alle 6 —; non è competenza mia dire se è stato il capo della mafia oppure no. Lo stabiliscono le sentenze, io ho voluto parlare d’altro: la vita di una famiglia che è stata felice fino al giorno del suo arresto, raccontata come nessuno l’ha mai vista e conosciuta». È nato così il libro Riina-Family Life scritto da Salvo Riina che a maggio compirà 39 anni, mafioso anche lui per la condanna a 8 anni e 10 mesi di pena interamente scontata, papà e fratello maggiore all’ergastolo (e al «41 bis»): «Giovanni lo può incontrare in prigione, seppure con le limitazioni del “carcere duro”, io no». E nel libro lamenta: «È dal gennaio del 1993 (quando Riina fu catturato, ndr). Che non faccio una carezza a mio padre, e così le mie sorelle e mia madre». Facile replicare che nemmeno i familiari dei morti di mafia possono più accarezzare i loro cari, e chiedere un pensiero per loro: le vittime. Salvo Riina risponde quasi di getto: «Non ne voglio parlare, perché qualunque cosa dicessi sarebbe strumentalizzata». Dipende, forse. Ma lui insiste: «Meglio il silenzio, nel rispetto del loro dolore e della loro sofferenza. Anche in questo caso la meglio parola è quella che non si dice». Un motto che rievoca l’omertà mafiosa, che però Riina jr contesta: «Non è omertà, è che io ho scritto il libro non per dare conto delle condanne subite da mio padre, anche perché sarebbe inutile. A me interessava far capire che esiste ed è esistita una famiglia che non aveva niente a che fare coi processi e quello che succedeva fuori, e che nessuno conosce anche se tutti pensano di poterla giudicare». Ne viene fuori un’immagine di papà premuroso e amorevole che contrasta con la realtà giudiziaria e storica del boss protagonista delle più cruente trame criminali. «Non è quello che ho conosciuto io — ribatte convinto suo figlio —. Io sono orgoglioso di Totò Riina come uomo, non come capo della mafia. Io di mafia non parlo, se lei mi chiede che cosa ne penso non le rispondo. Io rispetto mio padre perché non mi ha fatto mai mancare niente, principalmente l’amore. Il resto l’hanno scritto i giudici, e io non me ne occupo». Quello che scrive Salvo Riina diventa così un racconto asciutto ma ricco di dettagli sulla vita fra le mura domestiche di una famiglia di latitante: Totò Riina e, di conseguenza, la moglie e i figli nati mentre lui era ricercato; continui cambi di case, ma sempre tra Palermo e dintorni; i bambini regolarmente registrati all’anagrafe ma impossibilitati ad andare a scuola, con la mamma che insegnava loro a leggere e scrivere; giochi e divertimenti garantiti ma niente amici in casa né visite a casa di amici; il papà che esce la mattina per andare a lavorare — «il geometra Bellomo», si faceva chiamare — e puntuale a cena si mette a tavola con la famiglia: «Mai saltata una sera», garantisce Salvo; l’attrazione per i motorini e le belle ragazze, i primi amori. Infanzia e adolescenza felici, assicura il figlio del boss, trascorse senza fare domande: né sull’improbabile lavoro di un «terza elementare», né sulla necessità di non avere contatti con l’esterno o sul continuo girovagare, che col passare del tempo diventa consapevolezza di una vita in fuga. «A mio padre non ho mai chiesto perché dovessimo nasconderci, e nemmeno se era vero ciò che cominciai a sentire in tv o in giro, quando ho scoperto che ci chiamavano Riina, e non Bellomo». Strano, perché? «Per rispetto e pudore». Nei confronti di chi? «Di mio padre e mia madre: siamo cresciuti abituati a non chiedere». Si potrebbe chiamare cultura mafiosa. «Io invece lo chiamo rispetto, un’educazione a valori magari arcaici e tradizionali, che però a me piacciono; valori forti e sani». Con l’arresto di Riina sr, il 15 gennaio 1993, cambiò tutto: l’arrivo a Corleone, l’esistenza non più clandestina ma sotto i riflettori del mondo e il microscopio di investigatori e giudici, che poi hanno arrestato e condannato i due figli maschi, Giovanni e lo stesso Salvo. Che adesso narra quel che vuole (anche il carcere e la pena scontata, evitando di entrare nel merito dei reati, fino al matrimonio della sorella accompagnata all’altare in sostituzione del papà, e altro ancora) ma tace su tanti particolari: dall’ultimo «covo» in cui abitò con suo padre ai commenti del capomafia intercettati in carcere, quando confessò la «fine del tonno» riservata a Falcone e altri delitti: «Non mi interessa soddisfare le curiosità altrui. Io difendo la dignità di un uomo e della sua famiglia. E la sua coerenza, quando ha rifiutato di collaborare con i magistrati. “Non ci si pente di fronte agli uomini, solo davanti a Dio”, mi ripeteva». Il risultato lo giudicheranno i lettori. L’editore, Mario Tricarico, chiarisce il senso di un’operazione che ritiene legittima e interessante: «È come se in casa del “Mostro” che ha governato l’impresa criminale forse più importante del mondo ci fosse stata una telecamera nascosta che ne registrava i momenti di normalità, e adesso chi vuole può vedere quel film». Scene di un interno mafioso che lasciano molte zone d’ombra, ma rivelano un punto di vista: il figlio del boss che non vuole parlare del boss bensì di un padre e di una madre «ai quali devo l’inizio della mia vita e l’uomo che sono», come ha scritto nel libro. Senza nessun imbarazzo? «No, nessun imbarazzo», risponde Salvo Riina rinforcando gli occhiali da sole.

"Licenziata per il cognome che porto". Parla la nipote di Totò Riina. Maria Concetta Riina, nipote del boss, è stata definita "presenza inquietante" dal prefetto di Trapani. "Non posso scontare le colpe di mio zio", scrive Carmelo Caruso il 20 luglio 2015 su "Panorama". «Chi le dice che non ci sia mai stata tra i tanti che hanno reso omaggio in silenzio e anonimamente…». Una Riina non può andare il 18 luglio in via d’Amelio a commemorare Paolo Borsellino? «Non so più se per me esista un luogo da dove non essere cacciata, inseguita e marchiata». Cambiare il cognome? «Pensa che basterebbe?». Forse no, ma la aiuterebbe. «E però, se lo facessi sarei una cattiva figlia. A quale figlia si può chiedere di dimenticare il padre?» Più semplicemente si libererebbe di suo zio Totò Riina, di Corleone, della genetica, e chissà perfino di quell’interdittiva del prefetto di Trapani, Leopoldo Falco, che ha definito la sua presenza in azienda “inquietante”. «Ho 39 anni e mio zio l’ho conosciuto solo quando lo hanno catturato. In tutta la mia vita l’ho visto solo due volte». E mentre parla Maria Concetta Riina si fa più piccola della sua statura, che è quella dei Riina, prova a sgonfiare il viso pasciuto, a rallentare gli occhi svelti e azzurri che vigilano su una fronte rotonda d’adipe mediterranea, tutta carne e salute che invece di appesantire alleggerisce, scioglie il carattere e lo pacifica. Dunque non è sguardo di mafia ma solo quello eccitato della siciliana che fuma dalle narici, quel modo tutto loro che hanno le donne nell’isola quando mettono le mani sui fianchi e implorano i santi e Dio per farsi vendicare dai torti, «sono nelle mani del Creatore». Crede? «Si, sono cattolica. Sono normale, italiana come tutte. Se vuole saperlo non vado a messa ogni domenica. È una colpa anche questa?». Suo padre Gaetano è stato arrestato nel 2011, così come i suoi cugini, e sono sempre accuse per mafia. «Conosco mio padre e sono sicura che non abbia commesso nessun reato. Oggi posso solo attendere che esca dal carcere. È un uomo di 82 anni con un tumore alla prostata, un rene malandato, una scheggia conficcata nella gamba. Accetto la sua reclusione in galera, se a stabilirlo è la giustizia, ma non posso essere condannata per la mia famiglia, perseguitata come un’appestata». Il padre Gaetano a Maria Concetta non ha trasmesso solo il cognome ma pure il nome della nonna, così come ha fatto Totò con la sua prima figlia, la matriarca dei Riina che fino a 90 anni si trascinava in tribunale e taceva, come taceva Ninetta Bagarella che di fronte al suo Salvatore si eclissava, dimenticava i suoi studi magistrali e tornava moglie, «perché questo vuol dire che deve essere il mio destino» rispondeva ai giudici la maestra Ninetta: «Ho studiato pure io. Diplomata in ragioneria. Per due anni ho frequentato la facoltà di giurisprudenza poi ho lasciato». Voleva fare l’avvocato per difendere suo zio? «Lo ripeto. Per me è stato un estraneo fino al suo arresto. Ero curiosa quanto voi di vedere la sua faccia». In Sicilia non bisognerebbe “latitare” dalla famiglia? «Mi sono allontanata e ho provato a costruirne una. Ma evidentemente non basta se un prefetto definisce la mia presenza “inquietante” costringendo il mio datore di lavoro a licenziarmi, a lasciarmi senza uno stipendio dopo dieci anni di attività». Suo zio dopo la Sicilia ha dannato anche lei. «Non posso essere dannata per ciò che ha fatto e se lo ha fatto». Vede? È prigioniera del cognome. «Io non credo che abbia potuto commettere da solo tutto quello per cui è condannato e che fosse solo lui il padreterno». Ha chiamato sua figlia con il nome della nonna? «No». L’abbigliamento di Maria Concetta Riina non è il nero castigo della letteratura di mafia, rosari e spine alle donne e lupara e velluto ai mariti, ma bensì il colore di questa estate torrida a Mazara del Vallo dove ha casa: t-shirt bianca da madre indaffarata, jeans da spesa e mercato, elastico ai capelli fulvi per afferrare meglio i venti. Di Maria Concetta Riina non esistono fotografie, che rifiuta, a differenza di sua cugina e dell’altra figlia di Totò, Lucia che si è mostrata e raccontata proprio a Panorama. «Non me lo chieda. Altro che fotografia. Vorrei scomparire e se non avessi perso il lavoro non sarei qui a parlare». Andare? «Io voglio restare. Sono incensurata, non ho neppure una multa per divieto di sosta. E poi anche andare via dalla Sicilia non basterebbe. Dopo il cognome è il viso che dovrei mutare. Più degli avvocati avrei bisogno di un chirurgo estetico che mi cambi i tratti, mi faccia perdere peso. A volte credo che anche il corpo mi imprigioni a una storia che non mi appartiene». Nello studio dell’avvocato Giuseppe La Barbera, un uomo dal corpo solido come una montagna, ad accompagnare la Riina c’è il marito, «ci siamo sposati nel 2011 e oggi abbiamo una figlia di due anni. E ho più pietà per lui che per me. Gli ho portato come dote un bollo, ha dovuto sopportare le battute degli amici». E infatti l’unico che si aggira sperduto in questo fondaco di legali e in questa giurisprudenza di concorso esterno per associazione di nome, è proprio quest’uomo di trentanove anni, magro come quegli esseri che consumandosi si asciugano nel peso ma addensano pensieri, si chiudono nel mutismo che in Sicilia è dolore acerbo, un frutto che non cade dall’albero. «Da due anni non lavora, ha il terrore ogni volta che spedisce un curriculum. Rimane in silenzio. Quale marito sarebbe felice di vedere sua moglie segnata come un’indegna». Non sapeva di sposare una Riina? «Ha sposato me e non certo mio zio o mio padre. Lui per primo mi ha imposto come precondizione di rimanere a distanza dalla mia famiglia. L’unica colpa è che si è innamorato di me». Con una disposizione del prefetto di Trapani che ha definito «inquietante» la sua presenza in azienda senza contestare reati ma solo prevedendo possibili infiltrazioni mafiose, Maria Concetta Riina è stata licenziata da segretaria nella concessionaria di automobili dove lavorava da dieci anni, licenziamento per giusta causa e che La Barbera insieme alla sua collega Michela Mazzola vogliono adesso impugnare: «Ricorreremo al giudice del lavoro, chiederemo il reintegro e un’indennità risarcitoria» spiega l’avvocato nel suo studio di Villabate, pochi chilometri da Palermo, l’unico comune d’Italia che ha avuto sia lo scioglimento per mafia che il commissario chiamato a governarlo indagato a sua volta per mafia. E certo anche La Barbera sa che è possibile rincorrere il diritto ma che è impossibile chiedere di cambiare i connotati ai clienti. «Comprendo pure il mio datore di lavoro. Lo hanno costretto a licenziarmi. Era addolorato ma non aveva scelta. Mi chiedo solo perché» dice Maria Concetta che anche quando è seduta si sente un’imputata. Non crede che l’abbia assunta per riverenza come scrive il prefetto? «Mi ha assunta dopo avermi conosciuta in spiaggia sotto l’ombrellone. Un’amicizia che è nata e che poi si è tradotta in un lavoro da segretaria, lontana da qualsiasi contatto con il pubblico. Se avesse provato riverenza nei miei confronti non avrebbe osato licenziarmi per un’interdittiva. Fin quando mi è stato possibile ho lavorato come farebbe la signora Rossi da mattina a sera. Io e mio marito siamo una delle tante famiglie normali di questo paese. 1100 euro di stipendio, un mutuo, la bambina lasciata alla nonna. E se non mi avessero licenziata sarei rimasta quella persona anonima che ho sempre cercato di essere in paese. Solo oggi agli occhi di tutti sono tornata a essere una Riina. Non esco più di casa per paura dell’ottusità della gente». La ignoravano o la temevano? «Mi presento a tutti come Maria Concetta, ormai sono abituata a omettere il mio cognome e non perché me ne vergogni, ma perché so benissimo che tutti penserebbero a mio zio e smetterebbero di vedermi come donna e madre. Oggi, dopo questa interdittiva, non sono più una donna ma un’entità». La Barbera, che mafiosi ne ha difeso, finora mai si era imbattuto nell’accusa di mafia per biologia che si dice pronto a smontare nei tribunali ma che prima ancora vorrebbe abbattere più come pregiudizio che come capo: «È evidente che qui siano gravemente compromessi i principi costituzionalmente garantiti del diritto al lavoro. Siamo di fronte ad un inorridimento delle norme giuridiche. La mia cliente cerca solo una giusta e anonima quotidianità». E anche Michela Mazzola insieme a Claudia Gasperi, due giovani avvocate determinate e specializzate in diritto del lavoro, e che adesso difendono la Riina, dicono che più delle norme di mafia qui andrebbero rilette quelle sullo statuto dei lavoratori: «Si tratta di un vero e proprio atto persecutorio a una lavoratrice», dice la Gasperi. Volete fare “guerra” allo Stato? «Agiremo contro il prefetto e il ministro degli Interni - aggiunge La Barbera a volte sfiduciato e disincantato anche lui - non ho mai visto tanta ipocrisia. Va bene il diritto, ma qui siamo alla barbarie dei nomi come destino». In Sicilia, lo ripetiamo, adesso è l’anagrafe che andrebbe bonificata. Ecco, forse dopo i migranti è arrivato il momento di assegnare lo status di rifugiato anche ai figli senza colpa, ai nipoti senza macchia come Maria Concetta Riina, concedere l’asilo dal cognome. «Ditemi cosa debbo intanto fare per vivere. Nessun azienda può assumermi. Neppure per togliere la spazzatura da un ristorante mi assumerebbero. Me lo cerchi lo Stato un posto di lavoro dove il mio nome non possa avere influenze o destare referenze. Me lo dica lo Stato». Lasciamo Palermo pensando che davvero tutto ci inquieta tranne questa donna.

Intervista di Dina Lauricella ad Angelo Provenzano figlio di Bernardo Provenzano. Il figlio del Boss Provenzano parla per la 1a volta a Servizio Pubblico il 15.3.2012. Il vero giornalismo racconta i fatti, non promuove opinioni ideologiche culturalmente conformate. Ciononostante l’intervista ha suscitato l’indignazione dei mafiosi antimafiosi. Perché in Italia secondo i cittadini “onesti”, che ogni giorno salgono agli onori della cronaca, i mafiosi son sempre gli altri.

Il figlio di Bernardo Provenzano star per turisti. E quei rapporti difficili nella famiglia del boss. Angelo Provenzano è diventato, per fare soldi, un'attrazione per gli americani che arrivano in Sicilia e vogliono immergersi nelle atmosfere del Padrino. E una vecchia intercettazione di una discussione col fratello spiega cosa significa avere il boss dei boss come padre, scrive Lirio Abbate il 30 marzo 2015 su "L'Espresso". L'attrazione per i turisti americani che pagano un viaggio di andata e ritorno per la Sicilia, anzi per Corleone, è diventato Angelo Provenzano, 39 anni, figlio del vecchio capomafia Bernardo Provenzano. Gli Yankees sono ancora legati alle immagini del film il Padrino. Immagini che raccontavano di don Corleone e del clan siciliano. Oggi un tour operator sfrutta quel mito grazie anche al fatto che il punto finale della visita guidata a Palermo è proprio Corleone, dove i turisti incontrano personalmente la star, Angelo Provenzano, ingaggiato dalla società americana. E lui racconta a modo suo la mafia, la sua vita e la latitanza del padre. Scelte personali che hanno il solo scopo di fare soldi. A sei mesi dall'arresto di Bernardo Provenzano i poliziotti avevano registrato un'interessante conversazione fra i figli del boss Angelo e suo fratello Paolo. È il 28 settembre 2005 e gli agenti ascoltano i due fratelli, mentre chiacchierano in una cabina della motonave La Suprema, il ferryboat che da Palermo li porta a Genova. Paolo sta trasferendo tutte le sue cose in Germania dove in quel momento si trasferiva per un periodo di insegnamento, ed ha chiesto al fratello di guidare con lui un’auto piena zeppa di bagagli. È una conversazione importante che alla luce del risvolto “turistico” di Angelo Provenzano è utile ricordare per analizzare la vita dei due ragazzi e della loro madre. Per comprendere che rapporto avevano con il padre, durante la latitanza. Questa intercettazione l'avevamo riportata per la prima volta nel libro “I Complici” scritto con Peter Gomez, in un capitolo che raccontava proprio di “due fratelli in barca”. Il rumore della sala macchine è un cupo ronzio confuso, i due figli del boss stanno cenando. Sul tavolino pieghevole di formica c’è il cibo che Saveria, loro madre, ha preparato a casa. I ragazzi lo guardano e pensano che nelle ultime settimane le incomprensioni in famiglia sono aumentate. Le tensioni sono ormai evidenti: a zio Simone, il fratello di Binu che li ha allevati in Germania, è stato persino vietato di entrare in casa quando Saveria è sola. Ha fatto troppe domande che non doveva, anche sull’operazione alla prostata di suo fratello Bernardo, si è lasciato sfuggire molte parole di troppo. Ma il capo dei capi lo ha scoperto, si è adirato e ha disposto l’ostracismo nei suoi confronti. «Lo zio Simone non si lamenta. Dice soltanto che ci sono delle cose mal riportate oppure che quello [Binu] è uscito folle. Altra soluzione non ne ha», spiega Paolo. «E le cose che sono mal riportate [secondo lui] da dove vengono? [Intende dire] che gliele andiamo a riportare male noi altri? Giusto». «O la mamma, Angelo». Dunque zio Binu, in quelle prime settimane di autunno, è ancora lì, vicinissimo a Corleone, tanto vicino che i suoi parenti lo vanno a trovare, discutono con lui, parlano di un’abitazione che deve essere lasciata in eredità a qualcuno, riaprono vecchie ferite, solo nascoste, ma mai del tutto rimarginate. Il suo arrivo, dopo quattordici anni di lontananza, in un nucleo familiare che ormai era riuscito a trovare da solo i propri equilibri, sta minando dalle fondamenta ogni certezza. E oltretutto Paolo, che ha solo ventitré anni e che di fatto non frequenta più il padre da quando ne aveva nove, si è dovuto confrontare con un genitore che è per lui un estraneo. Dice al fratello: «Tra l’altro, ci sono sempre state cose che a me hanno dato fastidio: perché quando lui [nel 1992] ha detto di partire [cioè di tornare a Corleone], siamo dovuti partire a prescindere da tutti nostri cazzi di problemi e nessuno se ne è mai fatto un baffo? [E anche] questa volta [quando] io sono arrivato [dal mio nuovo lavoro in Germania, era] il primo sabato [libero], va bene? E siamo dovuti andare là, siamo andati a finire là [nel suo nascondiglio]. L’interesse suo non so quale sia. Io non vedo interesse in un colloquio, in un dialogo con lui: almeno personalmente con me non c’è mai stata una cosa del genere. [...] Quando mi dovevo laureare [nel marzo del 2005] e dovevo fare l’ultimo esame, non gliene è fottuto a nessuno se io potevo avere i miei problemi e invece dovevo andare a fare la bella statuina da lui. Perché poi io vado a fare [solo quello] da lui. Tu [Angelo] bene o male, sei sempre stato più coinvolto, ma io da lui ho sempre fatto la bella statuina, fin da piccolo». Il doloroso sfogo sul difficile rapporto con un padre latitante (nel vero senso della parola) va avanti per cinque minuti buoni. La cabina della motonave si riempie di risentimenti, di recriminazioni, di frasi che forse Paolo vorrebbe non aver mai pronunciato. Poi il fratello maggiore lo interrompe: «Paolo, vuoi sapere come la penso? Lui nel posto dove si trova ci si è davvero trovato per caso». «E io dovrei essere contento di una cosa del genere? Io devo essere contento che le cose succedano per caso? Io devo essere contento che ora si sta ricostituendo questa sorta di unione [familiare]… per caso! Anzi no, io lo chiamo caso e lui la chiama invece volontà di Dio [...] e poi neanche te lo ammettono che è per caso, Angelo». «No, assolutamente perché…». «[Pensa di aver fatto per noi] tutte cose, lui. [Papà continua a ripetere:] “ora ti racconto di quando [io e gli zii] eravamo piccoli”. [Dice] che suo padre gli dava le bastonate e che lui a nove anni se ne andava a vendere i [parola incomprensibile], e invece noialtri [abbiamo avuto tutto]. [Ma] quando ti [fa] la domanda: “Ti è mai mancato niente?” [Si può] mai aspettare una risposta positiva? [Perché la fa,] perché cerca sicurezza? [...] Mi dispiace [dirlo], mi dispiace». Angelo non lo contraddice, ma invita a riflettere. In famiglia, come in ogni famiglia, tutti hanno le loro colpe, le loro responsabilità. Ce l’ha Saveria, loro madre, «che ha subito tutte le decisioni, che non ha mai avuto il coraggio di dire: “questa cosa mi piace, questa cosa non mi piace, facciamola così, facciamola colì”». E ce le hanno anche loro, perché in casa Provenzano «hanno subito tutti». «Se poi ci sono anche delle responsabilità personali questo è un discorso. [Lo possiamo] addossare al destino, alla volontà di Dio... [Ma] i dati di fatto sono che noi abbiamo subìto tutta una serie di situazioni e le continuiamo a subire. Non ci si può né ribellare né provare ad aggiustare la croce per portarla con comodo. [Io] non l’ho mai detto a nessuno, [...] ma quanti si sono resi conto che la situazione, che abbiamo vissuto noi, è addirittura peggiore di avere un padre morto?». Quante domande, quanti interrogativi senza risposta. «[Stiamo vivendo] cose assurde, Angelo. O assurdo sono io. Boh, mi piacerebbe tanto saperlo certe volte. Mi piacerebbe veramente cominciare a capire la vita come va… e se continua così». «Quando ci sveglieremo e lo avremo capito avremo settanta anni ciascuno, Paolo, e sarà troppo tardi».

“Fiero di mio padre”: il figlio di Bernardo Provenzano parla a Servizio Pubblico. L'intervista esclusiva al primogenito del boss di Cosa Nostra in onda nella puntata di stasera del programma di Santoro. "Falcone e Borsellino? Due vittime immolate sull'altare della patria, due vittime della violenza", scrive David Perluigi il 15 marzo 2012 su "Il Fatto Quotidiano". “La verità processuale dice che mio padre è stato il capo di Cosa Nostra. Certo, a pensare che oggi, a distanza di 20 anni dalle stragi, sui giornali si sta parlando di revisione, dobbiamo riscrivere qualche verità a questo punto”. Le parole sono cadenzate, intervallate da sospiri, pronunciate per la prima volta davanti a una telecamera da Angelo Provenzano, figlio di Bernardo, 36 anni il primogenito del capomafia corleonese. Bell’aspetto, ben vestito, buona dialettica, lavora nel settore vinicolo. Sicuro di sé, si definisce “fiero del padre”. E’ il ritratto che se ne ricava dall’intervista video esclusiva rilasciata all’inviata di Servizio Pubblico, Dina Lauricella, che andrà in onda stasera alle 21. Mesi di tentativi, attraverso la mediazione di uno degli avvocati dei Provenzano, Rosalba Di Gregorio: un primo contatto un anno fa, un “no che lasciava comunque delle aperture” racconta al Fatto la giornalista palermitana “poi nuovi, pazienti tentativi, fino a un mese fa quando il legale di famiglia, mi dice: 'Chiami lei signorina direttamente il signor Angelo questa volta'”. Studi da geometra, incensurato, come anche il fratello più piccolo di tre anni, Francesco Paolo, “unico, e io per lui, compagno di giochi per 16 lunghi anni, gli anni anche della mia latitanza. Ho vissuto in un reality show, essere figlio di una persona latitante per 43 anni, vuol dire essere messo sotto controllo e ne sono stato consapevole. Solo dopo la fine della mia ‘latitanza’ è cominciata la mia rinascita, il contatto con la gente, prima conoscevo solo pochi volti”. Gli viene chiesto cosa ne pensa dei collaboratori di giustizia e alle loro ricostruzioni sul periodo stragista. Provenzano accenna un sorriso: “Sì, è un’anomalia tutta italiana questa dei collaboratori di giustizia. Ma stiamo parlando di uomini e si possono dare anche delle indicazioni sbagliate. In ogni cosa in cui c’è l’uomo c’è la possibilità dello sbaglio”. “Sulle stragi, sopra l’impronta della mafia, si accavalla l’ombra dello Stato”, interviene la giornalista. “In questi anni – risponde – mi sono cimentato nello studio delle cose, mi sono imbattuto nella strage di Portella della Ginestra, dopo 50 anni scopriamo, forse, che non è stata opera di un bandito, Salvatore Giuliano, ma di un pezzo dell’esercito italiano. Mi sembra che sia un copione che venga recitato la seconda volta e non è su queste cose che si può fondare una fiducia incondizionata, quando qualcosa parte dall’interno dello Stato – continua – si rischia di perdere la fiducia”. “Chi sono per lei Falcone e Borsellino?” chiede Lauricella. “Per me sono due vittime immolate sull’altare della patria. Sono due vittime della violenza”. Fa attenzione a non usare mai il termine “mafia” Angelo Provenzano; anche quando gli viene chiesto “la mafia le fa schifo?”, lui risponde: “Tutti i tipi di violenza mi danno fastidio”. Sul punto in cui Riina sostiene che sia stato Bernardo Provenzano a venderlo allo Stato, Angelo è netto: “Se riesce a ottenere il permesso dal Dap (il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), vada a rivolgere la domanda direttamente a mio padre”. Sulla possibilità che un giorno il padrino possa collaborare con la giustizia, replica: “Nello stato attuale trovo che sia difficile immaginarlo che collabori con lo Stato, sarebbe una dimensione totalmente nuova”. “Ma cosa chiede oggi lei in concreto, nei fatti?”. “Quello che io chiedo è che si faccia una perizia per capire se mio padre è capace di intendere e volere, se a livello neurologico possa essere curato. Vorrei dignità. Ma deve stabilirlo lo Stato. Noi siamo consapevoli che sarà difficile che venga scarcerato, chiediamo però che venga curato. Mio padre – prosegue – vive un decadimento neurologico tale da non poter ricevere cure chemioterapiche per il suo tumore alla prostata. Perché ci deve essere questa discriminante? Perché si chiama Provenzano? Perché è un membro di Cosa Nostra?”. “L’incapacità di intendere e volere potrebbe mettere a rischio il proseguimento di processi fondamentali?”, conclude la giornalista. “Che qualcuno si prenda allora la responsabilità di istituire la pena di morte anche ad personam”.

La giornata nazionale della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie.

A proposito delle vittime della mafia e la solita liturgia antimafia che nasconde il malaffare.

In virtù degli scandali gli Italiani dalla memoria corta periodicamente scoprono che sui bisogni della gente e dietro ad ogni piaga sociale (mafia, povertà ed immigrazione, randagismo, ecc.) ci sono sempre associazioni e cooperative di volontariato che vi lucrano. Un sistema politico sostenuto da una certa stampa e foraggiato dallo Stato. Stato citato dalle grida sediziose dei ragazzotti che gridano alle manifestazioni organizzate dal solito sistema mafioso antimafioso. Cortei che servono solo a marinare la scuola ma in cui si grida: “Fuori la mafia dallo Stato”. Poveri sciocchi, se sapessero la verità, capirebbero che nessuno rimarrebbe dentro a quello Stato, compresi, per primi, coloro che sono a capo di quei cortei inneggianti.

La scusa delle piaghe sociali non è che serve ad una certa sinistra per espropriare la proprietà dei ricchi o percepire finanziamenti dallo Stato al fine di ridistribuire la ricchezza, senza che si vada a lavorare?

Le aziende messe ko dallo Stato in nome dell'antimafia. In fumo 72mila posti di lavoro. Non è mai stato creato un albo degli amministratori giudiziari e neppure una tabella dei compensi. E i furbetti fanno affari e disastri, scrive Luca Fazzo, Lunedì 05/01/2015, su "Il Giornale". Serrande abbassate sul Café de Paris, nel cuore di via Veneto, a Roma. Trentadue operai al posto di 2.500 alla Colocoop di Milano. Un buco di due milioni e mezzo alla Calf di Catania, che prima macinava utili. Cos'hanno in comune un bar nella Capitale, una cooperativa di lavori stradali, una società di servizi portuali in Sicilia? Sono passate nel tritacarne della legge antimafia, quella che prevede misure draconiane per colpire gli interessi economici della criminalità. Legge sacrosanta nei princìpi. Ma che si risolve in una Caporetto quando, dopo che aziende grandi e piccole sono finite nel mirino della giustizia, accusate a ragione o a torto di essere la longa manus delle cosche, a prenderle in mano è lo Stato. Dovrebbe essere lo Stato a incarnare l'economia buona che prende il posto di quella cattiva, mandando avanti secondo legalità ciò che prima viveva nell'orbita del crimine. Risultato: un disastro. L'ultimo rapporto di Srm, l'osservatorio sull'economia meridionale di Intesa San Paolo, parla di settantaduemila posti di lavoro (diecimila più dell'intera Fiat!) persi nel passaggio delle imprese dalle mani del crimine a quelle dello Stato. Di oltre millesettecento aziende sequestrate, ne sono ancora vive trentotto. Trentotto. E va bene che la catastrofe può avere più di una spiegazione nobile: l'azienda mafiosa sta a galla più facilmente, perché non rispetta le regole, paga in nero, intimidisce i concorrenti, soggioga i clienti. Tutte armi che lo Stato non ha. Ma gli addetti ai lavori sanno bene che dietro alla catastrofe dei beni c'è anche un colossale problema di inefficienza dello Stato, che si è assunto un dovere che non è in grado di compiere. A partire dai livelli più alti. Il Codice antimafia varato nel 2011 prevedeva che venisse creato un albo nazionale degli amministratori giudiziari, i professionisti incaricati di gestire le aziende confiscate: sono passati più di tre anni, e l'albo ancora non c'è. A febbraio dello scorso anno, il governo ha promesso il varo di una tabella nazionale dei compensi da pagare agli amministratori: non si è vista neppure questa, col risultato che ogni tribunale si regola a modo suo, e a mandare avanti (e più spesso ad affossare) le aziende sono commercialisti pagati a volte cifre spropositate. Anche sui criteri di scelta ci sarebbe da discutere: nell'inchiesta su Mafia Capitale compare il nome di Luigi Lausi, uno dei professionisti cui il tribunale romano ha affidato una lunga serie di aziende confiscate, di cui Salvatore Buzzi dice «Lausi è mio». E a volte, come nel caso della Piredil di Milano, si scopre che gli amministratori inviati dal tribunale continuavano a trescare con i vecchi proprietari. Ci sono tre modi in cui lo Stato interviene per colpire gli interessi economici del crimine. Il primo, il più semplice, è l'interdittiva antimafia spiccata dalle prefetture, che non decapita le aziende ma si limita a bloccare i loro appalti pubblici: spesso è più che sufficiente per affossarle. Sacrosanto quando dietro ci sono davvero i clan; meno quando, come nel caso della Colocoop, nel frattempo i manager sospettati di essere collegati ai clan sono stati assolti. Poi c'è il sequestro disposto dai pm durante le inchieste. Infine, ed è lo strumento più usato, il provvedimento delle cosiddette «misure di prevenzione», che può scattare a prescindere dall'esistenza di un'inchiesta penale, sulla base di un semplice sospetto, o anche se il processo penale è finito in nulla. Il provvedimento ha una durata massima di diciotto mesi, quanto basta per disintegrare qualunque azienda, ed è inappellabile. Il caso più eclatante da questo punto di vista è probabilmente quello di Italgas, l'azienda di distribuzione gas di Snam, tremila addetti, messa sotto amministrazione giudiziaria dal tribunale di Palermo il 9 luglio 2014 sulla base di remoti contatti di un manager locale con una ditta in odore di mafia. Il manager non è mai stato neanche indagato, la ditta è stata assolta con formula piena, ma Italgas rimane commissariata. Per giovedì prossimo era fissata un'udienza, ma a fine dicembre i pm hanno chiesto e ottenuto il rinnovo del commissariamento per altri sei mesi; nel frattempo, secondo alcuni calcoli, gli amministratori nominati dal tribunale hanno già presentato parcelle per diversi milioni di euro. Nel corso dell'audizione davanti alla commissione Antimafia, il deputato di Scelta civica Andrea Vecchio ha motivato così il trattamento riservato all'azienda: «Mi sono arrivate chiacchiere da bar secondo le quali, in passato, la quasi totalità delle imprese che hanno messo i tubi per la Snam, da nord a sud, erano mafiose». Così, tra inchieste serie e chiacchiere da bar, l'elenco delle aziende inghiottite e distrutte in nome dell'antimafia cresce giorno per giorno. Fare i conti di questo disastroso business è quasi impossibile. Secondo le stime più caute, il valore totale dei beni confiscati è intorno ai dieci miliardi di euro, ma la commissione Antimafia parla di un totale superiore ai trenta miliardi. Una parte di questo colossale patrimonio è costituito da beni immobili, che hanno il pregio di essere poco deperibili, e di poter essere dati in affido a associazioni antimafia come Libera di don Ciotti, o usate - è uno degli ultimi casi - per alloggiare i carabinieri della compagnia di Partinico. Ma la fetta più grossa è quella delle attività imprenditoriali, ed è qui che lo Stato-manager fa i danni peggiori. Dal momento della confisca di primo grado, i beni vengono presi in mano dall'Agenzia nazionale per i beni confiscati, guidata da un prefetto. In teoria, dovrebbe esserci anche un consiglio direttivo, ma è vacante da tempo, compresi i due «qualificati esperti in materia di gestioni aziendali e patrimoniali», che dovrebbero cercare di evitare la dissipazione dei beni sequestrati. Così, nel frattempo, la distruzione va avanti. Gli amministratori giudiziari vengono pagati profumatamente, qualunque siano i danni che producono. «La verità - dice un addetto ai lavori - è che oggi fare l'amministratore dei beni confiscati è un business ambito. Si fanno un sacco di amicizie, non si rischia niente, si guadagna bene».

Antimafia, la profezia di Sciascia. È evidente che il malaffare siciliano ha adottato il codice di camuffarsi dietro le insegne dell’antimafia. Non si tratta di accuse generiche, si possono fare nomi e cognomi, scrive Paolo Mieli il 6 aprile 2016 su "Il Corriere della Sera". Adesso dovremmo tutti riconoscere che il pericolo era stato ben intravisto trent’anni fa da Leonardo Sciascia per quanto è ormai evidente che il malaffare siciliano ha adottato il codice di camuffarsi dietro le insegne dell’antimafia. E, se il presidente di Confindustria in uscita, Giorgio Squinzi, volesse fare un gesto di cortesia nei confronti del suo successore, Vincenzo Boccia, utilizzerebbe gli ultimi giorni del suo mandato per convincere il suo proconsole in Sicilia Antonello Montante — grande sostenitore della lotta a Cosa Nostra ma da oltre un anno indagato per concorso esterno in associazione mafiosa — a farsi da parte. E, nel contempo, ad abbandonare l’ingombrante incarico di delegato «per la legalità» di tutti gli industriali italiani. Non sono del tutto chiare le vere ragioni che hanno indotto Squinzi fin qui (ancora domenica sera, intervistato da Milena Gabanelli) a non esortare Montante ad affrontare la sua vicenda giudiziaria senza coinvolgere l’organizzazione che rappresenta. Ma sarebbe nobile da parte sua lasciare al presidente che verrà dopo di lui una Confindustria simile a quella di dieci anni fa quando Ivan Lo Bello, proprio in Sicilia, avviò una campagna di pulizia che ebbe un’eco di approvazione in tutto il Paese. Eviteremmo così grandi imbarazzi come quello in cui si sarebbe potuto trovare domattina il capo dello Stato, Sergio Mattarella, il quale, in visita ufficiale a Noto per rendere onore allo straordinario restauro della Cattedrale, dovrà affidarsi a un rigidissimo protocollo che — salutati il governatore della Regione Rosario Crocetta e il sindaco Corrado Bonfanti — gli eviti di stringere le mani di qualche rappresentante della politica o dell’imprenditoria siciliana. Personaggi «a rischio» anche (e forse soprattutto) nel caso si presentino avvolti nelle bandiere della lotta ai padrini. Cosa sta succedendo in Sicilia? I campioni dell’antimafia «non servono più», lo ha detto persino Leoluca Orlando: «Chi si ostina a voler rimanere tale, spesso si rivela poi un impresentabile o un corrotto». Stiamo parlando di un fenomeno gustosamente descritto da Nando Dalla Chiesa: «A un convegno si presenta il tale magistrato che fu “impegnato nella trincea di Palermo ai tempi di Giovanni Falcone”. Seguono applausi… che cos’abbia fatto non si sa, magari complottava contro Falcone. Il tal’altro è invece un freelance minacciato dalla mafia e dunque censurato (magari ha solo fatto un dvd o un libro fallimentare): subito invitato nelle scuole, anche a pagamento. Un nullasapiente gioca a spararla più grossa di tutti, delirando di trame e di complotti? È l’unico che ha il coraggio di dire le cose come stanno, meno male che c’è lui. E poi il commerciante che pretende di essere in pericolo di vita e se la prende con gli “antimafiosi da tastiera” che non solidarizzano abbastanza, salvo scoprire che paga un delinquente per sparargli contro il chiosco». Giancarlo Caselli, a proposito della legge per la gestione dei beni confiscati ai mafiosi, ha constatato che «è venuta delineandosi anche un’antimafia degli affari e delle partite Iva, un mestiere, un sistema di relazioni opache». Raffaele Cantone si dice preoccupato per alcuni «fatti oggettivi»: il «coinvolgimento in indagini giudiziarie di soggetti considerati icone dell’antimafia»; le «vicende che hanno sfiorato magistrati di primissimo livello per i quali si credeva che il contrasto alle mafie fosse un valore»; la «questione dei beni confiscati e il fatto che sia stata messa in discussione persino Libera», l’associazione di don Luigi Ciotti. Tutti coloro che si occupano di mafia da vicino sanno che le cose da tempo stanno proprio così: Rosy Bindi ha messo questo tema all’ordine del giorno della Commissione da lei presieduta; lo storico Salvatore Lupo (assieme a Giovanni Fiandaca) ne ha cominciato a scrivere con coraggio. E già si pubblicano libri che denunciano questi camuffamenti: «Contro l’Antimafia» di Giacomo Di Girolamo; «Antimafia Spa» di Giovanni Tizian e Nello Trocchia; «Le trappole dell’Antimafia» di Enrico del Mercato ed Emanuele Lauria. Lo studioso Rocco Sciarrone (in «Alleanze nell’ombra») dimostra, dati alla mano, che tutte ma proprio tutte le imprese della connection mafiosa in provincia di Palermo si erano «travestite» con una pronta adesione ad associazioni antiracket. Accuse generiche? No. Si possono fare nomi e cognomi. Vincenzo Artale titolare di un’azienda di calcestruzzo che da dieci anni era salito alla ribalta come grande accusatore di mafiosi e, un anno fa, era stato eletto in un ruolo dirigente dell’associazione antiracket del suo paese, è stato arrestato in provincia di Trapani per tentata estorsione «aggravata dal favoreggiamento alla mafia» (quella di Mazara del Vallo). I costruttori Virga di Marineo, a dispetto del loro sostegno alle associazioni nemiche di coppola e lupara e dei riconoscimenti ottenuti da associazioni del calibro di «Addio pizzo», di «Libero futuro» e financo dal Fai, sono stati accusati di essersi arricchiti con il sostegno del mandamento di Corleone. Mimmo Costanzo anche lui grande paladino antimafioso, è stato arrestato nell’inchiesta sulla corruzione Anas ed è al centro di indagini per i suoi rapporti con la cosca catanese. Idem Concetto Bosco Lo Giudice finito, con lo stesso genere di imputazioni, ai domiciliari. E se non è mafia, sono comunque storie di natura consimile. Carmelo Misseri imprenditore di Florida in provincia di Siracusa («ribellarsi è giusto», ripeteva in pubblico) pagava tangenti alla Dama Nera dell’Anas, Antonella Accroglianò. E, a proposito di Siracusa, c’è l’imbarazzante caso di una Confindustria locale guidata dapprima da Francesco Siracusano (dimissionato per affari sospetti), poi commissariata con Ivo Blandina (rinviato a giudizio per un’allegra gestione di fondi con i quali aveva acquistato uno yacht) e infine con Gianluca Gemelli ( il «marito» di Federica Guidi travolto, assieme alla compagna ministra, dalla vicenda Total). Il presidente della Camera di Commercio di Palermo Roberto Helg anche lui proclamatosi grande combattente contro «la piaga delle estorsioni», è stato condannato a quattro anni e otto mesi dopo che era stato filmato mentre intascava una tangente di centomila euro da un poveretto che voleva aprire una pasticceria all’aeroporto del capoluogo siciliano. E tramite il «caso Helg» si scopre una parentela tra le vicende siciliane di Confindustria e quelle di Unioncamere, altra associazione in cui si notano sintomi di diffusione dell’infestazione qui descritta. Per non farsi mancare nulla, Montante è anche presidente Unioncamere Sicilia e della Camera di Commercio di Caltanissetta. Se Squinzi volesse favorire il debutto del suo successore, potrebbe trovare l’occasione (che so?) di pronunciare a freddo un «elogio di Sciascia». Montante capirebbe l’antifona e ne trarrebbe le conseguenze. Forse.

Giuseppe Costanza ha deciso di parlare perché a suo parere troppi lo fanno a sproposito. C' è un uomo che più di altri avrebbe titolo a dire qualcosa sull'apparizione di Riina junior in Rai e sulla lotta alla mafia in generale. È Giuseppe Costanza, l'autista di Giovanni Falcone negli ultimi otto anni di vita del magistrato, dal 1984 fino al 23 maggio 1992. Costanza era a Capaci, scrive Alessandro Milan per “Libero Quotidiano” il 18 aprile 2016. Di più, Costanza era a bordo della macchina guidata da Falcone e saltata in aria sul tritolo azionato da Giovanni Brusca. Eppure in pochi lo sanno. Perché per quei paradossi tutti italiani, e siciliani in particolare, da quel giorno Costanza è stato emarginato. Non è invitato alle commemorazioni, pochi lo ricordano tra le vittime. Ho avuto la fortuna di conoscerlo, di essere suo ospite a cena in Sicilia e ho ricavato la sensazione di trovarmi di fronte a qualcuno che è stato più del semplice autista di Giovanni Falcone: forse un confidente, un custode di ricordi e, chissà, uno scrigno di segreti. Che però Costanza dispensa col contagocce: «Perché un conto è ciò che penso, un altro è ciò che posso provare». Un particolare mi colpisce del suo rapporto con Falcone: «Il dottore - Costanza lo chiama così - aveva diritto a essere accompagnato in macchina, oltre che da me, dal capo scorta. Ma pretendeva che ci fossi solo io».

Perché non si fidava di nessun altro?

«Quale altro motivo ci sarebbe?».

Cominciamo da Riina a "Porta a Porta"?

«Mi sono rifiutato di vederlo. Solo a sapere che questo soggetto era stato invitato da Bruno Vespa mi ha dato il voltastomaco. Vespa qualche anno fa ha invitato pure me, mi ha messo nel pubblico e non mi ha rivolto una sola domanda. Ora parla con il figlio di colui che ha cercato di uccidermi. I vertici della Rai dormono?».

Cosa proponi?

«Lo Stato dovrebbe requisire i beni che provengono dalla vendita del libro di Riina. Questo si arricchisce sulla mia pelle».

Lo ha proposto la presidente Rai Monica Maggioni.

«Meno male. Ma tanto non succederà nulla. D'altronde sono passati 24 anni da Capaci senza passi avanti».

Su che fronte?

«Hanno arrestato la manovalanza di quella strage. Ma i mandanti? Io un'idea ce l'ho».

Avanti.

«Presumo che l'attentato sia dovuto al nuovo incarico che Falcone stava per ottenere, quello di Procuratore nazionale antimafia».

Ne sei convinto?

«Una settimana prima di Capaci il dottore mi disse: "È fatta. Sarò il procuratore nazionale antimafia"».

Questa è una notizia.

«Ma non se ne parla».

Vai avanti.

«Se lui avesse avuto quell'incarico ci sarebbe stata una rivoluzione. Sempre Falcone mi disse che all' Antimafia avrebbe avuto il potere, in caso di conflitti tra Procure, di avocare a sé i fascicoli. Chiediti quali poteri ha avuto il Procuratore antimafia in questi anni. E pensa quali sarebbero stati se invece fosse stato Falcone».

Chi non lo voleva all'Antimafia?

«Forse politici o faccendieri. Gente collusa. Ma queste piste non le sento nominare».

Torniamo ai mandanti.

«L'attentato a Palermo è un depistaggio, per dire che è stata la mafia palermitana. Sì, la manovalanza è quella. Ma gli ordini da dove venivano? Ti racconto un altro particolare. Io personalmente, su richiesta di Falcone, gli avevo preparato una Fiat Uno da portare a Roma. E lui nella capitale si muoveva liberamente, senza scorta. Se volevano colpirlo potevano farlo lì, senza tutta la sceneggiata di Capaci. Ricorda l'Addaura».

21 giugno 1989, il fallito attentato all'Addaura. Viene trovato dell'esplosivo vicino alla villa affittata da Falcone.

«Io c'ero».

All'Addaura?

«Sì, ero lì quando è intervenuto l'artificiere, un carabiniere. Eravamo io e lui. Lui ha fatto brillare il lucchetto della cassetta contenente l'esplosivo con una destrezza eccezionale. Poi ha dichiarato in tribunale che il timer è andato distrutto. Ha mentito. Io ho testimoniato la verità a Caltanissetta e lui è stato condannato».

Invece come è andata?

«L'esplosivo era intatto. Lo avrà consegnato a qualcuno, non chiedermi a chi. Evidentemente lo ha fatto dietro chissà quali pressioni».

Falcone aveva sospetti dopo l'Addaura?

«Parlò di menti raffinatissime. Io posso avere idee, ma non mi va di fare nomi senza prove. Attenzione, io non generalizzo quando parlo dello Stato. Ma ci sono uomini che si annidano nello Stato e fanno i mafiosi, quelli bisogna individuarli».

23 maggio 1992: eri a Capaci.

«Ma questo agli italiani, incredibilmente, non viene detto. Quella mattina Falcone mi chiamò a casa, alle 7, comunicandomi l'orario di arrivo. Io allertai la scorta. Solo io e la scorta in teoria sapevamo del suo arrivo».

Cosa ricordi?

«Falcone, sceso dall'aereo, mi chiese di guidare, era davanti con la moglie mentre io ero dietro. All'altezza di Capaci gli dissi che una volta arrivati mi doveva lasciare le chiavi della macchina. Lui istintivamente le sfilò dal cruscotto, facendoci rallentare. Lo richiamai: "Dottore, che fa, così ci andiamo ad ammazzare". Lui rispose: "Scusi, scusi" e reinserì le chiavi. In quel momento, l'esplosione. Non ricordo altro».

Perché la gente non sa che eri su quella macchina?

«Mi hanno emarginato».

Chi?

«Le istituzioni. Ti sembra giusto che la Fondazione Falcone non mi abbia considerato per tanti anni?».

La Fondazione Falcone significa Maria Falcone, la sorella di Giovanni.

«Io non la conoscevo».

In che senso?

«Negli ultimi otto anni di vita di Giovanni Falcone sono stato la sua ombra. Ebbene, non ho mai accompagnato il dottore una sola volta a casa della sorella. Andavamo spesso a casa della moglie, a trovare il fratello di Francesca, Alfredo. Ma mai dalla sorella».

Poi?

«Lei è spuntata dopo Capaci. Ha creato la Fondazione Falcone e fin dal primo anno, alle commemorazioni, non mi ha invitato».

Ma come, tu che eri l'unico sopravvissuto, non eri alle celebrazioni del 23 maggio 1993?

«Non avevo l'invito, mi sono presentato lo stesso. Mi hanno allontanato».

È incredibile.

«Per anni non hanno nemmeno fatto il mio nome. Poi due anni fa ricevo una telefonata. "Buongiorno, sono Maria Falcone". Mi ha chiesto di incontrarla e mi ha detto: "Io pensavo che ognuno di noi avesse preso la propria strada". Ma vedi un po' che razza di risposta».

E le hai chiesto perché non eri mai stato invitato prima?

«Come no. E lei: "Era un periodo un po' così. È il passato". Ventitre anni e non mi ha mai cercato. Poi quando ho iniziato a denunciare il tutto pubblicamente mi invita, guarda caso. Comunque, due anni fa vado alle celebrazioni, arrivo nell'aula bunker e scopro che manca solo la sedia con il mio nome. Mi rimediano una seggiola posticcia. Mi aspettavo che Maria Falcone dicesse anche solo: "È presente con noi Giuseppe Costanza". Niente, ancora una volta: come se non esistessi».

L' emarginazione c'è sempre stata?

«Un anno dopo la strage di Capaci sono rientrato in servizio alla Procura di Palermo ma non sapevano che cavolo farsene di un sopravvissuto. Così mi hanno retrocesso a commesso, poi dopo le mie proteste mi hanno ridato il quarto livello, ma ero nullafacente».

Per l'ennesima volta: perché?

«Ho avuto la sfortuna di sopravvivere».

Come sfortuna?

«Credimi, era meglio morire. Avrei fatto parte delle vittime che vengono giustamente ricordate ma che purtroppo non possono parlare. Io invece posso farlo e sono scomodo. Diciamola tutta, questi presunti "amici di Falcone" dove cavolo erano allora? Ma chi li conosce? Io so chi erano i suoi amici».

Chi erano?

«Lo staff del pool antimafia. Per il resto attorno a lui c'era una marea di colleghi invidiosi. Attorno a lui era tutto un sibilìo».

Tu vai nelle scuole e parli ai ragazzi: cosa racconti di Falcone?

«Che era un motore trainante. Ti racconto un episodio: lui viveva in ufficio, più che altro, e quando il personale aveva finito il turno girava con il carrellino per prelevare i fascicoli e studiarli. Questo era Falcone».

È vero che amava scherzare?

«A volte raccontava barzellette, scendeva al nostro livello, come dico io. Però sapeva anche mantenere le distanze».

Tu hai servito lo Stato o Giovanni Falcone?

«Bella domanda. Io mi sentivo di servire lo Stato, che però si è dimenticato di me. E allora io mi dimentico dello Stato. L'ho fatto per quell' uomo, dico oggi. Perché lo meritava. È una persona alla quale è stato giusto dare tutto, perché lui ha dato tutto. Non a me, alla collettività».

Il presidente Mattarella non ti dà speranza?

«Io spero che il presidente della Repubblica mi conceda di incontrarlo. Quando i miei nipoti mi dicono: "Nonno, stanno parlando della strage di Capaci, ma perché non ti nominano?", per me è una mortificazione. Io chiederei al presidente della Repubblica: "Cosa devo rispondere ai miei nipoti?"».

Questo silenzio attorno a te è un atteggiamento molto siciliano?

«Ritengo di sì. Fuori dalla Sicilia la mentalità è diversa. Devo dire anche una cosa sul presidente del Senato, Piero Grasso».

Prego.

«Di recente, a Ballarò, presentando un magistrato, un certo Sabella, come colui che ha emanato il mandato di cattura per Totò Riina, mi indicava come "l'autista di Falcone".

Ma come si permette questo tizio? Io sono Giuseppe Costanza, medaglia d'oro al valor civile con un contributo di sangue versato per lo Stato e questo mi emargina così? "L'autista" mi ha chiamato. Cosa gli costava nominarmi?».

Costanza, credi nell' Antimafia?

«Non più. Inizialmente dopo le stragi c'è stata una reazione popolare sincera, vera. Poi sono subentrati troppi interessi economici, è tutto un parlare e basta. Noi sopravvissuti siamo pochi: penso a me, a Giovanni Paparcuri, autista scampato all' attentato a Rocco Chinnici, penso ad Antonino Vullo, unico superstite della scorta di Paolo Borsellino. Nessuno parla di noi».

Il 23 maggio che fai?

«Mi chiudo in casa e non voglio saperne niente. Vedo personaggi che non c'entrano nulla e parlano, mentre io che ero a Capaci non vengo nemmeno considerato. Questa è la vergogna dell'Italia».

“Meno attacchi in cambio di soldi”: indagato a Palermo paladino della tv antimafia. Pino Maniaci, direttore di Telejato. Il direttore di Telejato Pino Maniaci è sospettato di aver estorto favori e compensi a due sindaci. Le conversazioni intercettate, scrive Francesco Viviano il 22 aprile 2016 “La Repubblica”. Chiedeva, e avrebbe ottenuto, "contributi" e posti di lavoro in cambio di una linea morbida della sua televisione nei confronti di alcuni sindaci del Palermitano. Pino Maniaci, giornalista e direttore di Telejato di Partinico (Palermo), tv di frontiera antimafia, è sotto inchiesta, come racconta "Repubblica" oggi in edicola. La procura di Palermo ipotizza il reato di estorsione. Un'accusa gravissima per un personaggio che, da anni, dalla sua tv conduce battaglie contro mafia e malaffare. L'ultima, quella contro la gestione dei beni confiscati in cui sono coinvolti l'ex presidente delle misure di prevenzione del Tribunale di Palermo Silvana Saguto (sospesa dalle funzioni e dallo stipendio dal Csm), altri tre magistrati e l'amministratore giudiziario, Gaetano Cappellano Seminara, tutti indagati per vari reati e costretti alle dimissioni. "La vendetta della Procura è arrivata. Non mi è arrivato alcun avviso di garanzia e sono certo che tutto ciò non porterà ad alcun rinvio a giudizio. Ma intanto mi hanno infangato", replica il direttore di Telejato a "Palermo Today". Maniaci è stato più volte ascoltato e intercettato dai carabinieri nell'ambito di altre indagini: avrebbe ottenuto favori in cambio di una "linea morbida" della sua emittente nei confronti dei due amministratori comunali, i sindaci di Partinico e Borgetto. Dalle conversazioni intercettate sarebbero emersi altri elementi a carico di Maniaci che avrebbe ottenuto dal sindaco di Partinico e da quello di Borgetto, Gioacchino De Luca, finanziamenti sotto forma di pubblicità per la sua emittente televisiva. I due sindaci, interrogati da carabinieri e magistrati, avrebbero fatto delle ammissioni. Gli inquirenti avrebbero espresso anche qualche dubbio in relazione ad uno degli ultimi atti intimidatori che Pino Maniaci avrebbe subito nel dicembre del 2014 quando due suoi cani furono avvelenati ed impiccati. Per gli investigatori non si tratterebbe di una intimidazione mafiosa, ma sarebbe legata ad una vicenda privata. Ad aggravare la posizione di Maniaci, proprio le ammissioni di Salvatore Lo Biundo e Gioacchino De Luca, rispettivamente sindaci di Partinico e Borgetto. Maniaci tuttavia si ritiene estraneo ai fatti e così commenta: “La vendetta della Procura è arrivata. Non mi è arrivato alcun avviso di garanzia e sono certo che tutto ciò non porterà ad alcun rinvio a giudizio. Ma intanto mi hanno infangato”. Da parte sua Pino Maniaci rispedisce le accuse al mittente: “La vendetta della procura è arrivata. Non mi è arrivato alcun avviso di garanzia e sono certo che tutto ciò non porterà ad alcun rinvio a giudizio. Ma intanto mi hanno infangato”, ha detto il giornalista a PalermoToday. “Sapevamo di questa inchiesta, nata prima dello scandalo Saguto e che parte da alcune intercettazioni ben precise. Una – ha detto ancora al quotidiano – è quella fra l’ex prefetto di Palermo Silvana Cannizzo e la stessa Saguto, che a domanda rispose: ‘Ha le ore contate’. Penso possa entrarci anche la denuncia per stalking di Cappellano Seminara, che aveva l’obiettivo di farmi mettere sotto controllo il telefono. Il piano era ed è quello di bloccarmi per impedirmi di fare il mio lavoro. Chiederemo con il mio avvocato di essere sentiti, perché siamo sicuri che quello che dicono i magistrati sulle ammissioni è totalmente falso. Qualcuno non vuole che nostra inchiesta su incarichi Ctu e sezione Fallimentare continui. Ma noi andiamo avanti”.

Telejato, Maniaci: "Io indagato? L'Antimafia mi vuole fermare". Il direttore di Telejato Pino Maniaci risponde alle accuse in un'intervista di Lorenzo Lamperti su Affaritaliani.it il 22 aprile 2016.

"Non ho ricevuto nessun avviso di garanzia". Pino Maniaci, il direttore dell'emittente tv Telejato noto per le sue scomode inchieste antimafia, commenta a caldo in un'intervista su Affaritaliani.it la notizia riportata da Repubblica secondo la quale sarebbe indagato dalla Procura di Palermo con l'ipotesi di reato di estorsione.

Pino Maniaci, Repubblica scrive che lei sarebbe indagato con l'ipotesi di reato di estorsione.

«L'avvocato mi aveva detto di aspettare e non fare dichiarazioni prima di parlare con lui ma io non sono il tipo. Non avendo nulla da nascondere non ho nessun problema a parlare».

Ha ricevuto l'avviso di garanzia?

«Io non ho ricevuto nessun avviso di garanzia, non si capisce nemmeno che inchiesta è. Vogliono tirarmi un po' di merda addosso».

Si scrive che lei avrebbe ottenuto favori in cambio di un linea morbida della sua emittente Telejato nei confronti di due amministratori comunali.

«Intanto siamo nel campo delle ipotesi, ho letto testualmente. Quindi non capisco come sul campo delle ipotesi e su delle indagini in corso ci sia questa violazione grave. Come la possiamo definire, fuga di notizie? Non so come definirla...»

Ma che cosa risponde alle accuse?

«Entrando nel merito di quello che ho letto personalmente siamo stati querelati come emittente dal presidente del consiglio comunale di Borgetto perché in un servizio abbiamo detto che sono andati in America sia il presidente sia il sindaco a incontrare dei malavitosi. Tra le altre cose, il Comune tramite il sindaco si è costituito parte civile nel processo quindi non capisco dove sarebbe questa linea morbida di cui si parla».

Nessuna linea morbida neppure verso il Comune di Partinico?

«Sul Comune di Partinico abbiamo fatto giornalmente dei servizi sulla mala gestio che sono ovviamente verificabili negli archivi di Telejato».

Si scrive anche che sua moglie sarebbe stata assunta dal Comune di Partinico.

«Tutte minchiate. Sul campo delle assunzioni, io ho tutta la famiglia disoccupata e quindi non capisco come sia venuta fuori questa cosa. O meglio, forse lo capisco...»

Che cosa vuole dire?

«Partiamo da una denuncia che ho ricevuto a suo tempo per stalking da Cappellano Seminara. Una denuncia che ha fatto sì che mi tenessero sotto controllo non per diffamazione ma, appunto, per stalking. E poi c'è la questione dell'inchiesta sui beni sequestrati. E' un'inchiesta che non è piaciuta a molti e probabilmente c'era qualcuno che voleva bloccarla. Sa che cosa mi ha detto un magistrato? Mi ha detto così: "A questo punto stai attento che non ti ammazza la mafia ma l'antimafia"».

Pino Maniaci non potrà risiedere nelle province di Palermo e Trapani. Le intercettazioni svelano che non era minacciato dai boss, ma dal marito della sua amante, che gli avrebbe bruciato l'auto e impiccato i cani. Ma lui diceva in Tv: “Sono perseguitato per le mie inchieste”. Lo aveva chiamato pure Renzi per esprimergli solidarietà e poco dopo Maniaci commentava: "Mi ha telefonato quello stronzo", scrive Salvo Palazzolo il 4 maggio 2016 su “La Repubblica”. Non sono stati i boss di Cosa nostra a bruciare l’auto di Pino Maniaci, il direttore di Telejato diventato in questi anni un simbolo dell’antimafia. Non sono stati i boss a impiccare i suoi due amati cani. La mafia non c’entra proprio niente in questa storia. Le intercettazioni disposte dalla procura di Palermo svelano che le intimidazioni a Pino Maniaci le avrebbe fatte il marito della sua amante. E lui ne era ben consapevole. Ma ai giornali e alle Tv annunciava in pompa magna: “E’ stata la mafia a minacciarmi per le inchieste del mio tg”. Quel giorno, era il 4 dicembre dell’anno scorso, gli telefonò persino il presidente del Consiglio per esprimere solidarietà. E qualche minuto dopo, lui si vantava al telefono, con un’amica: “Ora tutti, tutti in fibrillazione sono, pensa che mi ha telefonato quello stronzo di Renzi”. E’ un altro Pino Maniaci – niente affatto eroe della legalità - quello che emerge dalle intercettazioni dei carabinieri della Compagnia di Partinico. Il giornalista è indagato per estorsione nei confronti dei sindaci di Partinico e Borgetto, come anticipato nei giorni scorsi da Repubblica: avrebbe preteso soldi e favori per ammorbidire i suoi servizi televisivi. Questa mattina, gli è stato notificato un provvedimento di divieto di dimora nelle province di Palermo e Trapani. Il provvedimento è stato emesso dal gip Fernando Sestito su richiesta dei sostituti procuratori Francesco Del Bene, Amelia Luise, Annamaria Picozzi, Roberto Tartaglia e dal procuratore aggiunto Vittorio Teresi. Un’inchiesta che si aggiunge alle altre di questi ultimi mesi sui simboli dell’antimafia finiti nella cenere. Pino Maniaci è accusato di aver estorto al sindaco di Partinico Salvatore Lo Biundo anche un’assunzione per la sua amante. Un contratto di solidarietà al Comune per tre mesi: “Alla scadenza, non poteva essere rinnovato – ha ammesso il sindaco interrogato dai carabinieri – ma Maniaci diceva che dovevamo farla lavorare a tutti i costi e allora io e alcuni assessori ci siamo autotassati per pagarla”. Intanto, lui si vantava al telefono con l’amante: “Per quella cosa ho parlato, già a posto, stai tranquilla, si fa come dico io e basta. Qua si fa come dico io se ancora tu non l’avevi capito… decido io, non loro… loro devono fare quello che dico io, se no se ne vanno a casa”. Per i magistrati è la prova chiarissima delle “vessazioni” imposte dal giornalista antimafia. Maniaci era ormai in pieno delirio di onnipotenza. All’amante diceva di volerle fare vincere un concorso all’azienda sanitaria locale di Palermo. Grazie alle sue solite buone amicizie. “Quello che non hai capito tu è la potenza… tu non hai capito la potenza di Pino Maniaci. Stai tranquilla che il concorso te lo faccio vincere”. E spiegava di essere in partenza per ritirare un premio antimafia: “A me mi hanno invitato dall’altra parte del mondo per andare a prendere il premio internazionale del cazzo di eroe dei nostri tempi, appena intitolato l’oscar di eroe dei nostri temi”. Era il novembre 2014. In un’altra occasione: “Ormai tutti e dico tutti si cacano se li sputtano in televisione”. Nei giorni scorsi, il giornalista si è difeso sostenendo di essere vittima di un complotto, per le sue denunce sulla gestione dei beni confiscati. Ma nel novembre 2014, l’inchiesta sulla gestione allegra della sezione Misure di prevenzione di Palermo non era neanche nella mente dei magistrati di Caltanissetta, che iniziarono a indagare nel mese di maggio successivo. L'indagine su Maniaci è nata per caso, durante alcuni accertamenti dei carabinieri sulle amministrazioni comunali. E stanotte è anche scattato un blitz dei carabinieri del Gruppo Monreale, fra Partinico e Borgetto, coinvolge nove presunti mafiosi. “C’è il sindaco che mi vuole parlare – diceva ancora all’amante – per ora lo attacco perché gli ho detto che se non si mette le corna a posto lo mando a casa, hai capito? A natale non ti ci faccio arrivare, che te ne vai a casa e non ci scassi più la minchia”. Poi aggiungeva: “Mi voglio fare dare 100 euro così domani te ne vai a Palermo tranquilla”. Intercettazioni che per la procura diretta da Francesco Lo Voi non lasciano spazio a interpretazioni. Il direttore di Telejato sussurrava ancora, a proposito del sindaco: “Dice che in tasca non ne aveva e che stava andando a cercare i soldi… i piccioli li deve andare a cercare a prescindere… così ne avanzo 150 di iddu”.

Indagine su Maniaci, il giornalista: "Abbiamo toccato poteri forti, me l'aspettavo". Il direttore di TeleJato è un fiume in piena: "Non ho nulla da temere, dopo il caso Saguto mi immaginavo qualcosa del genere. A proposito, a che punto è quell'inchiesta?", scrive Francesco Viviano il 22 aprile 2016 su “La Repubblica”. Da accusatore ad accusato dalla procura di Palermo con l’ipotesi di reato di estorsione nei confronti dei sindaci di Partinico e di Borgetto dai quali avrebbe ottenuto favori e contributi, cosa succede? “Abbiamo toccato poteri forti ed ovviamente ci aspettavamo una reazione che è puntualmente arrivata”. Pino Maniaci, direttore della emittente Telejato che copre un vasto territorio del palermitano e del trapanese, è un fiume in piena, si difende poco ma attacca molto come è nel suo stile preannunciando che attraverso il suo avvocato, l’ex pm antimafia Antonino Ingroia, denuncerà i magistrati che lo hanno indagato. Intanto su Facebook e Twitter il popolo del web si divide fra colpevolisti e innocentisti.

“L’iniziativa della Procura – afferma Maniaci - è un vero e proprio agguato ed una vendetta per il lavoro che abbiamo fatto e che facciamo ancora oggi contro il malaffare e l’ illegalità anche all’ interno della magistratura come nel caso dell’ inchiesta sulla gestione dei beni confiscati alla mafia dove a capo di tutto c’era l’ex presidente della sezione misure di prevenzione Silvana Saguto ed il suo clan, che è stata indagata e punita dal Csm che l’ha sospesa dalle funzioni e dallo stipendio anche se lei continua a prendere oltre 5000 mila euro al mese”.

La Procura che tende agguati e che si vendica? Mi pare un po’ eccessivo o no?

“Guarda che già nel settembre scorso qualcuno dentro la procura di Palermo mi aveva avvertito dicendomi che entro dicembre sarei stato arrestato e che sarebbe stata proprio l’antimafia e non la mafia ad attaccarmi cosa che è puntualmente accaduta”.

Ma ci sarebbero delle intercettazioni che, secondo l’accusa, dimostrerebbero che avresti compiuto dei reati, ottenendo favori dai due sindaci di Borgetto e Partinico in cambio, diciamo così, di un occhio di riguardo nei loro confronti nei tuoi servizi giornalistici.

“Allora io dal sindaco di Borgetto contro cui ho fatto dei servizi per alcuni suoi viaggi sospetti negli Stati Uniti (e per questo mi ha anche querelato) dove avrebbe incontrato alcuni mafiosi, non ho ottenuto nulla. Da sua moglie, invece si”.

Che cosa?

“Dei contratti pubblicitari per Telejato dove pagava 250 euro al mese, cifre che fanno veramente ridere”.

Ed il posto di lavoro per una sua conoscente al comune di Partinico?

“Io non ho fatto assumere nessuno e dico e ripeto che nella mia famiglia, sono tutti disoccupati”.

Quindi nessuna assunzione di favore?

“Ripeto, nella mia famiglia sono tutti disoccupati”.

Quindi nulla di illegale? Ne sei proprio certo?

“Non ho nulla da temere, queste accuse della Procura di Palermo mi fanno ridere. Non ho ricevuto nessun avviso di garanzia né di conclusione delle indagini e questa è stata una vendetta per le mie inchieste sulla gestione dei beni confiscati alla mafia. Le mie intercettazioni sono nate a “tavolino”. Ci aspettavamo una cosa del genere soprattutto dopo la denuncia dell’avvocato Cappellano Seminara, amico della Saguto, anche lui finito indagato, che ha dato modo e possibilità alla procura di mettere sotto controllo il mio telefono e di intercettarmi. In Italia guai a toccare i poteri forti e tra questi la magistratura ma io continuerò il mio lavoro ed anche per questa indagine, attraverso il mio avvocato, Antonino Ingroia, li denuncerò, per competenza, alla Procura di Caltanissetta”.

Con quali accuse?

“Non posso anticipare nulla per il momento, ma starete a vedere….Proprio nei giorni scorsi su Telejato abbiamo ampliato lo spettro della nostra inchiesta sulla gestione dei beni confiscati a quella sulla sezione fallimentare del Tribunale di Palermo, dove ci sono interessi enormi e dove girano gli stessi nomi e cognomi, di amici degli amici dei magistrati e di altri amministratori giudiziari. Tutto questo dà fastidio, molto fastidio, ecco perché tentano di fermarmi con indagini che non hanno nè capo nè coda”.

Ma sapevi di questa inchiesta nei tuoi confronti?

“Qualcosa avevamo intuito proprio dalle intercettazioni relative alla Saguto ed ai suoi amici che sono stati tutti indagati dalla Procura di Caltanissetta: a proposito a che punto è questa inchiesta?”.

CE LO ASPETTAVAMO DA TEMPO E ALLA FINE È ARRIVATO. Scrive Salvo Vitale il 22 aprile 2016 su "Telejato". “Quello là è questione di ore” aveva detto la signora Saguto, quando era ancora “come un dio” sull’alta sedia di Presidente dell’Ufficio misure di prevenzione. Una battaglia Portata avanti dalla redazione di Telejato aveva svelato un “sistema di potere” attorno a cui ruotavano e continuano a ruotare quelli che oggi si possono considerare la nuova classe dominante di Palermo, ovvero avvocati, magistrati, cancellieri, curatori ed amministratori giudiziari, commercialisti, giornalisti, sindaci, imprenditori e commercianti mafiosi che hanno fatto professione di antimafia, affaristi, pentiti usati con il telecomando, a seconda delle cose che gli dicono di dire. Quando è scoppiato il terremoto ed è saltato il tappo, alcuni giudici hanno dovuto lasciare la poltrona, sono stati spostati ad altri incarichi, alcuni amministratori giudiziari sono stati sostituiti, ma sono ancora al loro posto, nessuno di loro si è preoccupato di fare le consegne e pertanto è stato necessario nominare qualcuno che se ne preoccupasse. Era chiaro che, alcuni dei responsabili di questo finimondo non potevano passarla liscia. Non sappiamo che cosa succederà ai giudici di Caltanissetta, che stanno indagando sui loro colleghi, probabilmente saranno “ammorbiditi” dai loro superiori, nella stessa misura in cui Maniaci è accusato di essersi ammorbidito con due sindaci, ma sappiamo oggi che cosa è successo a Pino Maniaci. Il suo telefono, da tempo sotto controllo, probabilmente dopo la denuncia per stalking avanzata da Cappellano Seminara, avrebbe fornito chissà quali elementi, in base ai quali si poteva studiare un bel capo di accusa. Non è stata una “questione di ore”, ma, da settembre ad adesso ci sono voluti quasi nove mesi, tanti quanti ne occorrono per un parto. Sarebbe stato troppo sfacciato far partire l’accusa nel momento in cui è scoppiato lo scandalo, e perciò, in base alla norma tutta nostra, secondo cui “la vendetta è un piatto che si mangia freddo”, la procura di Palermo ha deciso di mollare il missile adesso che le acque si sono calmate, o, come si dice in siciliano, “a squagghiata di l’acquazzina”, quando la brina si è sciolta. Il metodo è sempre lo stesso: chiamare un giornalista con cui la procura è in contatto, dargli la notizia, quasi sempre anche all’insaputa dell’indagato, fornirgli anche qualche brano sospetto di intercettazioni, da trasmettere, non tutte insieme, ma un poco al giorno, per tenere la vicenda in caldo, ed è fatta. [Pino era stato sentito dai magistrati della procura di Palermo qualche mese fa e pensava di avere chiarito tutto, e invece no]. Ha dovuto nominare due difensori, uno dei quali è Antonio Ingroia, l’altro Bartolo Parrino. L’accusa è ridicola e non merita di essere commentata. Basta ascoltare i telegiornali, per rendersi conto che quotidianamente i sindaci di Partinico e di Borgetto sono “massacrati” da Pino per la loro, diciamo “presunta”, incapacità a risolvere gli enormi problemi del loro territorio. Non parliamo poi della triste vicenda dei cani impiccati: quella che circolava a Partinico, allora, era la tremenda accusa che i cani fossero stati uccisi dallo stesso Maniaci per farsi pubblicità, e un nutrito gruppo della gente di facebook si è apprestato a condividere questa infame accusa, così come oggi mostra soddisfazione per quello che è venuto fuori, con le loro idiote condivisioni. Costoro non si aspettano una condanna: Pino è già stato da loro condannato e da tempo. Fra l’altro, proprio per non farla “vastasa” si è fatta scivolare l’ipotesi che il “canicidio” sia stata opera di qualcuno che si voleva vendicare personalmente e non un’intimidazione mafiosa. Così si toglie, guarda un po’ dove arriva l’intelligenza inquirente, anche, oltre che credibilità, questa sventolata patente di giornalista antimafia che Maniaci si è guadagnata sul campo. La notizia è arrivata dopo che Maniaci, assieme a Lirio Abbate, è stato ritenuto uno dei giornalisti più impegnati in Italia, ma anche dopo che “Reporter sans frontieres” ha pubblicato la graduatoria sui paesi in cui la libertà di stampa è in pericolo: l’Italia è scivolata dal 65simo al 74esimo posto. Fare giornalismo in Sicilia è già difficile. Le querele per diffamazione fioccano e ormai non si contano più, ma quando si ci mette anche la magistratura è il caso di chiedersi se non è meglio cambiar mestiere.

RETTIFICA. Si rettifica l’affermazione, nel senso che Pino Maniaci non è stato mai sentito dalla Procura di Palermo e, sino ad oggi, non ha ricevuto alcun avviso di garanzia. Tutto quello che è venuto fuori è stato reso noto da un articolo su “La Repubblica”, a firma F. Viviano. In tal senso i legali di Maniaci hanno annunciato che lunedì prossimo sarà presentata alla Procura di Palermo una formale richiesta di accesso agli atti per sapere se esiste un capo d’imputazione, su che cosa e su quali elementi è fondato e per chiedere l’audizione dello stesso presunto imputato. Anche ai giudici di Caltanissetta sarà inviata dal collegio di difesa di Maniaci, formato da Antonio Ingroia e da Bartolo Parrino, una richiesta di accesso degli atti e alle intercettazioni da cui si evincerebbe che, da parte di alcuni settori della Procura di Palermo e di altre forze istituzionali ci sarebbero state manovre e tentativi di fermare l’azione di Telejato.

Pino Maniaci aveva previsto tutto: ecco l’intervista del 13 Novembre 2015 di Giulio Ambrosetti su "La Voce di New York". In questa intervista, ripetiamo, siamo a Novembre dell’anno scorso, commentiamo con lui le voci – già ricorrenti in quel periodo - di una inchiesta a suo carico e, addirittura, di un suo arresto. Rileggiamola:

Caso Saguto con finale pirandelliano: vogliono arrestare Pino Maniaci?

Gira voce che vogliono arrestarla…ci faccia capire, direttore, alla fine il mafioso è lei? 

Maniaci: “Che vuole che le risponda? Noi qui, ormai, ci aspettiamo di tutto. Sì, di tutto. Abbiamo toccato interessi incredibili. Personaggi che hanno fatto il bello e il cattivo tempo con la gestione dei beni sequestrati alla mafia. E sequestrati anche a imprenditori che con la mafia non c’entravano affatto. Questi signori che hanno gestito tali beni, con molta probabilità, erano protetti anche dalla Massoneria. Certo, alcuni di questi signori sono caduti in disgrazia. E si vogliono vendicare contro di me. Detto questo, il sistema è ancora in piedi”.

Sembra che a Roma, addirittura in Parlamento, alcuni deputati avrebbero chiesto notizie su di lei…

Maniaci: “La storia gliela racconto subito. La Commissione nazionale antimafia ha convocato il procuratore della Repubblica di Palermo, Franco Lo Voi”.

E perché l’avrebbe convocato?

Maniaci: “Per parlare dei problemi legati alla gestione dei beni sequestrati alla mafia”.

Scusi, invece di convocare la dottoressa Silvana Saguto, che è stata per lunghi anni protagonista della gestione, a quanto pare non entusiasmante, di questo travagliato settore, i parlamentari della Commissione nazionale Antimafia convocano il procuratore Lo Voi. Ma come funziona la politica italiana?

Maniaci: “Questo non lo deve chiedere a me: lo deve chiedere ai politici. E, segnatamente, all’ufficio di presidenza della Commissione nazionale Antimafia”.

Si riferisce all’onorevole Rosy Bindi, quella che difendeva la dottoressa Saguto e che, a proposito della gestione dei beni sequestrati alla mafia, diceva: tutto a posto, tutto bene?

Maniaci: “Per l’appunto: parliamo proprio di lei, dell’onorevole Bindi. E anche dell’onorevole Claudio Fava”.

Che ha combinato stavolta Claudio Fava?

Maniaci: “E’ stato lui, nel corso dell’audizione del procuratore Lo Voi, a chiedere allo stesso magistrato: ‘Abbiamo sentito di un’inchiesta a carico di Pi no Maniaci, lei procuratore che ci può dire?”.

E che gli ha detto il procuratore Lo Voi?

Maniaci: “Guardi, di questa storia, che se mi consente è un po’ incredibile, ho notizie frammentarie. So che c’era l’Aula di Montecitorio convocata. E che per raccontare vent’anni di antimafia, così mi hanno riferito che avrebbe detto il procuratore Lo Voi – con riferimento anche al mio operato – sarebbe servito almeno un quarto d’ora di pausa. A questo punto la presidente Bindi avrebbe detto: ‘Un quarto d’ora? Anche mezz’ora, anche due ore. Tutto il tempo che occorre”.

Però lei l’onorevole Bindi la deve capire: era una sorta di Santa Maria Goretti del PD e voi di TeleJato l’avete sputtanata a dovere. Per non parlare delle Iene, che se la stavano sbranando…

Maniaci: “Guardi, noi non abbiamo sputtanato l’onorevole Bindi: ha fatto tutto lei”.

Insomma, se non abbiamo capito male vorrebbero farla arrestare e, magari, sbaraccare TeleJato. E’ così?

Maniaci: “Non so quali siano le intenzioni. Non so che cosa abbiano in testa di fare. Ma so che la dottoressa Saguto, l’ex Prefetto Cannizzo, l’avvocato Cappellano Seminara e il colonnello della Guardia di Finanza Rosolino Nasca non mi amano. Anzi. Lo sa perché tutti mi denunciano per stolking e non per diffamazione?”.

No, ci dica.

Maniaci: “Mi denunciano per stalking per poter fare mettere sotto controllo il mio telefono”.

E ci sono riusciti?

Maniaci: “Penso proprio di sì”.

Sanno che voi di TeleJato siete molto informati. Magari perché, da giornalisti, parlate con tutti. Che cosa vogliono combinare?

Maniaci: “Vedo che lei mi ha anticipato. Noi abbiamo trattato tanti casi di mafia. E tante vicende legate alla gestione dei beni sequestrati alla mafia. Il caso degli imprenditori Cavallotti, per esempio. O il caso dell’Abazia di Sant’Anastasia e via continuando con tante altre storie. Sa, equivocando si possono alzare polveroni”.

Lo sappiamo benissimo. Basti per tutti il ‘caso’ dello scioglimento del Comune di Racalmuto per mafia. Una barzelletta. Una farsa che, però, ha consentito ai comitati di affari dell’acqua e dei rifiuti di eliminare un sindaco scomodo. Torniamo alle stranezze. Cosa ci dice della vicenda Cavallotti?

Maniaci: “Pagavano il ‘pizzo’. Ma sono stati assolti. La Procura generale ha detto: restituitegli i beni”.

E glieli hanno restituiti?

Maniaci: “No.”

Sono stati assolti e non gli hanno restituito i beni?

Maniaci: “Esattamente. E hanno fatto di più”.

Cosa?

Maniaci: “Hanno venduto alcuni beni dell’azienda Cavallotti, che si occupava di metanizzazione, a Italgas. E poi hanno sequestrato i beni a Italgas”.

E perché?

Maniaci: “Perché aveva rapporti con l’azienda Cavallotti”.

Ma qui siamo oltre Pirandello. Questi amministratori giudiziari sono ‘artisti’. Meriterebbero di andare a recitare in un Teatro…

Maniaci: “Lei scherza. Ma lo sa quant’è costato questo scherzetto a Italgas? Da sei a nove milioni di Euro tra amministratori giudiziari e coadiutori”.

A proposito di affari: chi sono quelli rimasti ancora nel giro?

Maniaci: “Cominciamo con il dottore Andrea Dara, il commercialista e amministratore giudiziario che ha massacrato Villa Santa Teresa di Bagheria. In questi giorni è stato ‘promosso’: ha incassato una bella nomina ad Aci Trezza dal Prefetto Postiglione”.

E poi?

“Guardi, i casi più eclatanti restano quelli degli avvocati Cappellano Seminara e Virga”.

Ancora loro?

Maniaci: “Vero è che hanno rinunciato agli incarichi (in parte, almeno alcuni). Ma fino a quando non subentreranno i nuovi amministratori giudiziari resteranno in carica. E continueranno a gestire”.

Vuole dire qualcosa al procuratore Lo Voi e sui vent’anni di antimafia che dovrebbe illustrare a Rosy Bindi e a Claudio Fava?

Maniaci: “Prima di parlare di vent’anni di antimafia a proposito del mio operato, il procuratore Lo Voi farebbe bene ad occuparsi del verminaio che c’è presso la Sezione fallimentare del Tribunale di Palermo e degli incarichi a decine di migliaia di Euro dei Ctu (Consulenti tecnici del Tribunale). Magari arriverà prima di noi, che ce ne stiamo cominciando ad occupare”.

La doppia vita di Pino Maniaci: dalla lotta alla mafia alle estorsioni. Il direttore di Tele Jato era un paladino della legalità, accusatore di magistrati per la gestione dei beni confiscati. Ricattava i sindaci per far assumere la sua amante, scrive Felice Cavallaro il 4 maggio 2016 su “Il Corriere della Sera”. I cani glieli avrebbe impiccati il marito della sua amante. E per fare lavorare la stessa signora nel Comune di Borgetto avrebbe ricattato sindaco e consiglieri. Sarebbe questa la verità di una classica estorsione e di una storia di «femmine» maturate fra le pieghe di un impegno antimafia che ha visto per anni nei panni di un inflessibile paladino il direttore della piccola e combattiva emittente di Partinico, Pino Maniaci. Lo stesso implacabile accusatore di magistrati e amministratori finiti a Palermo sotto inchiesta per la gestione dei beni confiscati. A cominciare dalla ex presidente della sezione misure di prevenzione Silvana Saguto, intercettata a maggio dell’anno scorso con il prefetto: «Quando matura la cosa di Maniaci...?». Stavolta le intercettazioni sono tutte a carico di quest’altro simbolo dell’antimafia che cade sotto il sospetto di essersi inventato una parte delle intimidazioni mafiose. Una parte. Non dimentichiamo lo sfogo del boss di Partinico, Vito Vitale, soprannominato Fardazza, intercettato qualche anno fa in carcere a Torino: «Sta televisione si sta allargando troppo». Anche questo tassello deve aver pesato nel 2009 quando il Consiglio dell’Ordine dei giornalisti di Sicilia iscrisse come «pubblicista» d’ufficio Maniaci, editore e conduttore del Tg di TeleJato, nonostante i suoi precedenti penali: furto, assegni a vuoto, truffa, omissione di atti d’ufficio. Tutto considerato ininfluente e cancellato dal rinnovato impegno antimafia. Conteso da tutte le scuole italiane per raccontare la sua vita, le continue presunte minacce ricevute e la storia dei Cento passi di Peppino Impastato, modello al quale si ispirava, Maniaci adesso non potrà nemmeno soggiornare nel suo paese accusato di estorsione «per aver ricevuto somme di denaro e agevolazioni dai sindaci di Partinico e Borgetto onde evitare commenti critici sull’operato delle amministrazioni». Si tratta però di «cifre ridicole», come le ha definite lo stesso Maniaci la scorsa settimana, intervistato in Tv dalle Iene. Di volta in volta avrebbe «strappato» al sindaco di Borgetto e ad altri personaggi politici locali poche centinaia di euro, «pezzi da 100 o 150 euro». Il sindaco di Partinico Salvatore Lo Biundo e i suoi consiglieri si sarebbero addirittura autotassati pur di pagare lo stipendio all’amante di Maniaci, dopo un corso trimestrale non rinnovabile. E questo sempre per il timore di ricatti. Accusa pesantissima di un’inchiesta condotta dai carabinieri di Monreale e Partinico, sotto il diretto controllo del procuratore Francesco Lo Voi, dell’aggiunto Vittorio Teresi e dei sostituti Francesco Del Bene, Amelia Luise, Annamaria Picozzi e Roberto Tartaglia. Una squadra di magistrati al completo proprio per le ovvie ripercussioni che la notizia può determinare all’interno di un pianeta antimafia che vede ormai cadere i suoi simboli uno dopo l’altro. Dal presidente della Camera di commercio Roberto Helg alle inchieste tutte da definire contro il presidente di Confindustria Antonello Montante e del vice presidente nazionale di viale dell’Astronomia Ivan lo Bello, inciampato nella storiaccia del porto di Augusta con il compagno della dimissionaria ministra Guidi. Nel caso di Maniaci le voci delle scorse settimane erano state clamorosamente smentite dallo stesso direttore parlando di una «vendetta» covata fra i magistrati dopo le accuse alla Saguto. Le intercettazioni a suo carico sarebbero però precedenti al cosiddetto «caso Saguto» ufficialmente esploso solo nel maggio 2015. Ma è anche vero che Maniaci le sue battaglie (fondate) sulla gestione dei beni confiscati le cominciò un anno prima. Quando anche il prefetto Giuseppe Caruso denunciò gli stessi imbrogli. A prima vista sembra però che quelle denunce e le presunte estorsioni procedano su due linee parallele. Con un solo punto di incontro: l’amante e il marito tradito, disposto a impiccare due cani e bruciare l’auto di Maniaci. Storia dello scorso dicembre, quando su Tele Jato rimbalzarono le solidarietà di mezzo mondo e la telefonata di Renzi della quale parlava, ignaro di essere intercettato, il direttore-simbolo, travolto da un delirio di onnipotenza: «Ormai tutti e dico tutti si cacano se li sputtano in televisione... Ora tutti, tutti in fibrillazione sono, pensa che mi ha telefonato quello stronzo di Renzi».

TELEJATO: PESANTI OMBRE SUL PASSATO DI PINO MANIACI. Scrive Dario Milazzo il 26 aprile 2016 su l’Urlo”. Episodi inquietanti sembrerebbero contraddistinguere il passato di Pino Maniaci: l’imprenditore avrebbe commesso diversi reati quando era ancora imprenditore edile. Dopo l’indagine per estorsione spuntano altri elementi che potrebbero macchiare l’immagine di Pino Maniaci. Pino Maniaci è l’editore di Telejato, emittente comunitaria famosa per le inchieste e per le battaglie anti-mafia. Come sappiamo Maniaci risulta attualmente indagato a Palermo per il reato di estorsione (Indagato il direttore di Telejato per estorsione). Da fonti autorevoli abbiamo appreso che l’editore di Telejato avrebbe avuto in passato diversi problemi con la giustizia. Si tratterebbe di una sfilza di condanne, tutte passate in giudicato, che avrebbero portato il Maniaci a scontare pene detentive (non possiamo dire se ai domiciliari o in carcere).  Ma l’imprenditore di Partinico nel periodo “pre-Ordine” avrebbe goduto anche di indulto e di amnistia. I reati contestati sarebbero: emissione di assegni a vuoto, furto, abuso d’ufficio, truffa e ricettazione. Ricordiamoci inoltre che Pino Maniaci era stato processato nel 2009 per il reato di esercizio abusivo della professione. Come ci ha confermato l’Ordine dei Giornalisti di Sicilia, Maniaci fu processato perché, dopo circa 10 anni di attività giornalistica, non aveva mai presentato le pratiche per ottenere il tesserino di giornalista commettendo così, ovvero scrivendo senza essere iscritto all’Ordine, il reato di esercizio abusivo della professione giornalistica. Dal processo per esercizio abusivo della professione giornalistica Pino Maniaci venne assolto per insussistenza del fatto. Tornando ai fatti passati, pesanti sono le accuse che sono state lanciate a Pino Maniaci dall’ingegnere Vincenzo Bonomo, ex assessore di Partinico. In base a quanto asserito dall’ingegnere ed insegnante di Partinico, l’editore di Telejato avrebbe gestito in passato un laboratorio d’analisi cliniche di Montelepre sfoggiando una falsa laurea. Da sottolineare il fatto che fra Vincenzo Bonomo e Pino Maniaci non correrebbe buon sangue: in passato l’ingegnere ha querelato per diffamazione ben 5 volte l’editore di Partinico. I guai giudiziari che in passato avrebbero coinvolto l’editore non hanno nulla a che vedere con la sua attività giornalistica e con l’indagine che lo coinvolge attualmente. Ribadiamo inoltre che Pino Maniaci ha dato tantissimo all’antimafia e alla sua Sicilia, proprio per questo motivo ci aspettiamo da lui una presa di posizione chiara e forte che sia una smentita o una conferma dei fatti contestati.

Indagini su Pino Maniaci: alcuni tasselli del mosaico, scrive Salvo Vitale il 28 aprile 2016 su "Telejato. L’ESTORSIONE È UN REATO. IL SINDACO È UN PUBBLICO UFFICIALE. SE IL SINDACO SUBISCE UNA ESTORSIONE O È AL CORRENTE CHE UNA ESTORSIONE SIA STATA COMPIUTA DA QUALSIASI CITTADINO, HA IL DOVERE DI DENUNCIARE L’ESTORTORE. Quindi, se il sindaco non denuncia rischia di diventare omissivo e compie un reato, anzi, diversi reati, a cominciare dall’omissione di atti d’ufficio. Sono passati due anni, almeno da quello che è trapelato fuori dalla presunta indagine su Pino Maniaci, della quale ancora non gli è stato notificato NULLA, così come nessuna denuncia è stata fatta dai due sindaci per il presunto tentativo di estorsione. Ergo, o il giornalista della Repubblica si è inventato tutto, o la Procura si è inventato tutto, oppure ha cercato in tutti i modi di costruire e imbastire un atto d’accusa farlocco, oppure ancora abbia interpretato male alcune frasi, oppure non è vero che i sindaci abbiano subito un’estorsione, ma rimane il fatto che se il fatto è successo, un reato, quello di non denunciare l’estortore, è stato commesso dai due sindaci. Perché questo reato non è stato loro contestato? Non dovrebbero essere oggi in galera o lì vicino? Forse quel reato non c’era, ma se non c’era tutto dovrebbe sgonfiarsi come un palloncino. SI VA DELINEANDO A POCO A POCO IL QUADRO E I VARI TASSELLI DEL PUZZLE CHE LO COMPONGONO, CON IL QUALE SI È CERCATO DI TAGLIARE L’ERBA AI PIEDI DI PINO MANIACI, DI ZITTIRE UNA BOCCA DIVENTATA TROPPO FASTIDIOSA E POSSIBILMENTE DI INCHIODARLO DISTRUGGENDO L’ALONE DI PALADINO DELL’ANTIMAFIA CHE EGLI HA CERCATO DI COSTRUIRE ATTORNO A SÉ. L’infamia ha una sua base nell’affermazione, che abbiamo letto sulla Repubblica, secondo la quale l’efferata morte dei due cani di Pino sarebbe motivata da questioni personali. Niente minacce mafiose, la mafia è innocente. Anche per tanti altri delitti, da Peppino Impastato a Mauro Rostagno, a Beppe Alfano, a Pippo Fava, all’inizio l’affermazione è stata sempre quella: la mafia è innocente. È la posizione tipica dei mascalzoni che vogliono distruggere l’immagine di una persona proprio in quello che lo caratterizza positivamente. Ma andando indietro, è il 16 febbraio 2016, si tratta di un’intervista a Pino. Emerge dalle sue dichiarazioni che non è una novità che il suo telefono è intercettato e che si sta mettendo assieme la trappola per incastrarlo. Una serie di persone che lo hanno contattato telefonicamente, come risulta dai tabulati, sono chiamate dalla Procura e sono talora invitate a confermare quanto è stato già scritto deciso a tavolino, invitate a firmare quello che dovrebbero dire, in modo abbastanza perentorio. “Sto venendo a prendere i soldi delle magliette. Vedi chi ti tappiu”. Che vogliamo di più, è una chiara richiesta di pizzo. Oppure, se vogliamo andare indietro, c’è una dichiarazione di Pino sul presidente del consiglio comunale di Borgetto: egli sostiene che è collegata a certi ambienti mafiosi. Il presidente reagisce denunciando Maniaci. I consiglieri comunali chiedono che la cosa sia chiarita, il sindaco denuncia Maniaci ritenendo che sia stato offeso il Comune, così sarà il Comune a pagare l’avvocato, e il resto, su come andrà a finire, è tutto da scrivere, ma è chiaro che le dichiarazioni non possono essere lette a pezzettini, e che fanno parte di un insieme. Quell’insieme che Silvana Saguto ha cercato di mettere su, con l’assenso e il benestare degli amici giudici di Magistratura Indipendente, tutti suoi colleghi affettuosi, Virga, Lo Voi, Petralia, ma anche con le riserve e l’opposizione di altri giudici, al punto da arrivare a farle affermare: “Se quelli lì si sbrigassero non ci sarebbe bisogno di ….”. Chi sono quelli lì che ci stanno andando con i piedi di piombo? Insomma si ha l’impressione che la nuova linea è stata lanciata, dopo che Vespa, tanto per mettere una pezza alla minchiata dell’intervista a Salvuccio Riina, chiama in televisione Angelino Alfano, e questo gli dice, più o meno che, visto che la mafia sta finendo, anche l’antimafia dovrebbe finire. Cazzate dietro cazzate con l’annuncio a cui oggi tutti i pennivendoli di regime si sono associati: l’antimafia è morta, sono tutti corrotti, tutti sono nella stessa barca che affonda, la Saguto, Pino Maniaci che l’ha impallinata, Saviano, che rilascia false notizie, Salvatore Borsellino che abbraccia Massimo Ciancimino, Helg, Montante, Lo Bello, Ciancio, ricchi e poveri, colpevoli e innocenti, boss e vittime, don Ciotti e Libera, Addio Pizzo, tutti nello stesso mucchio, tutti uguali, tutti a mare, dopo di che, dopo questa grande piazza pulita di discredito e di merda, Cosa Nostra, con i suoi colletti bianchi, con le sue toghe, con i suoi avvocaticchi, con i suoi imprenditori, con le sue aziende liberate dalla paura di finire sotto inchiesta, davanti a una magistratura intimidita potrà tornare a imperare, senza più bisogno di boss nascosti: basterà metterli bene in evidenza come componenti del sistema politico che ci regge, farli diventare onorevoli, oggi si decide a tavolino, presidenti ecc. e tutto sarà risolto. Insomma, il sogno fatto in modo un po’ rozzo da Totò Riina e in modo più sapiente da u zzu Binnu in Sicilia e da Licio Gelli nel resto d’Italia, diventerà realtà.

Pino Maniaci: il fango, la stampa e l’ignoranza, scrive Massimiliano Perna il 30 aprile 2016 su “Il Megafono”. Pino Maniaci è un delinquente, un finto paladino dell’antimafia. È anche un pregiudicato, come qualcuno, con eccitazione, sta urlando ai quattro venti in queste ore. Pino Maniaci è pure un estortore. Non presunto, per carità, lo è e basta. Lo avete deciso voi. Lo ha deciso la stampa, o almeno quella parte che non vede l’ora di beccarne un altro che possa aggiungere crepe a un movimento sempre più instabile. Lo ha deciso una parte dello stesso movimento antimafia, soprattutto quella che non è mai stata sul campo e ha fatto il proprio nido sulle tastiere e dietro uno schermo, pontificando, accusando, giudicando senza appello persone e storie, vite e vissuti. Pino, oggi, per molti colleghi e per diversi presunti antimafiosi di questo Paese non è più quel giornalista coraggioso, onesto e ostinato che da anni denuncia, a suo rischio, tutto quel che non va nella provincia palermitana e in Sicilia. Uno della cui amicizia si può andare fieri. Pino adesso, d’improvviso, è diventato un uomo da osservare con sospetto. La campagna denigratoria nei suoi confronti è di una violenza inaudita e non sono violenti soltanto gli attacchi velenosi dei detrattori o il ghigno dei nemici nascosti, ma anche i silenzi di chi dovrebbe sostenerlo e che invece preferisce non dir nulla, non esporsi. Tutti ad accettare giudizi vergognosi, senza battere ciglio. Sintomo non di cautela, ma di profonda ignoranza, che è uno dei problemi più grandi anche del movimento antimafia. Un movimento troppo affollato, dove entra chiunque e dove chiunque, solo in virtù della partecipazione a qualche evento o presidio o della lettura di qualche libro o articolo, si sente in diritto di esprimere qualsiasi giudizio nei confronti di chi la mafia la sfida ogni giorno o l’ha sfidata per anni. Sul campo. Il tutto in un Paese (e in un contesto giornalistico) che vive di antipatie, invidie, fazioni, manie, fanatismi e che perde spesso di vista la realtà. Così, in molti hanno partecipato, più o meno direttamente e senza condizionali, alla gara di lancio del fango su Pino Maniaci e Telejato. E lo hanno fatto nonostante non avessero a disposizione nient’altro che un articolo nel quale si parla di una grottesca estorsione (soldi e posti di lavoro chiesti ai sindaci di Borgetto e Partinico in cambio di una linea morbida di Telejato nei loro confronti) e si annunciano intercettazioni sensazionali. Stop. Non si fa riferimento ad altro, non si racconta la storia più recente di Pino e della sua tv, non è chiaro quale sia il contesto di queste intercettazioni, quale sia il loro contenuto, non sappiamo nemmeno se esistano davvero. C’è solo un articolo con una notizia frammentata e ciò basta a scatenare l’inferno. Poco importa che a Pino non sia arrivata alcuna notizia di indagine, non sia giunto alcun avviso di garanzia. Di sicuro, però, qualora questa indagine fosse reale, qualcuno andrebbe punito per violazione del segreto di ufficio e dovrebbe spiegare come mai la stampa abbia saputo prima del diretto interessato. Ovviamente, la maggior parte finge di ignorare che Pino, in questi ultimi due anni, ha smascherato il malaffare nella gestione dei beni confiscati alla mafia, mettendo nei guai giudici molto potenti, come Silvana Saguto, e avvocati altrettanto potenti. Sappiamo benissimo come vanno queste cose e come, quando tocchi certi ambiti, la reazione (peraltro attesa) possa in qualche modo arrivare colpendoti sempre nel tuo punto più caro. Accusano Pino, infatti, proprio delle cose contro le quali si è sempre battuto. Provano a gettare un’ombra su di lui e sul suo impegno e lo fanno comunicando alla stampa una notizia che aizza i suoi detrattori. Qualcuno poi decide di andare oltre e finisce per affondare le mani nel passato di Pino, tirando fuori storie note come se fossero sensazionali e inedite. “Pino Maniaci ha avuto problemi con la giustizia”, scrive un giornale online a cui non diamo nemmeno l’onore del nome per non fargli pubblicità (visto che lo leggono in quattro), elencando tutta una serie di presunti reati, oltre a raccogliere l’accusa non dimostrata di un nemico dichiarato di Telejato, un ex assessore del Comune di Partinico. A tal proposito, sempre l’ignoranza e la disinformazione fanno sì che la gente non presti attenzione al fatto che i comuni di Borgetto e Partinico siano attaccati quotidianamente e duramente dall’emittente Telejato. Addirittura la presidenza del consiglio comunale di Borgetto aveva querelato la tv di Pino Maniaci per diffamazione e lo stesso sindaco si era costituito parte civile contro l’emittente. Non vi pare allora quantomeno contraddittoria la storia della “linea morbida” verso i due sindaci in cambio di soldi e favori?  Ma torniamo indietro al passato “burrascoso” di Maniaci. Dove starebbe la notizia? Lo stesso Pino (nel libro Dove Eravamo – Vent’anni dopo Capaci e via D’Amelio, Caracò editore, 2012) aveva scritto e raccontato del suo passato e dei problemi vissuti, della galera per un caso di omonimia, della sua richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione e infine del suo momento di svolta, legato a quanto accaduto a Capaci e in via D’Amelio. Riportiamo qui alcuni passaggi che qualche giornalista sprovveduto farebbe bene a leggere: “…I miei delatori lo sanno bene ed ogni volta che qualcuno mi vuol attaccare, non avendo altro, subdolamente non fa che ricordare che Pino Maniaci non è altro che un pregiudicato della peggior specie e non un giornalista accreditato. Già perché io non ho fatto sempre questo mestiere. Proveniente da una famiglia non proprio agiata ma neanche mala cumminata, sin da ragazzo mi sono sempre sbracciato. […] Ho fatto mille lavori sino a diventare anche un piccolo imprenditore edile, ed è qui che cominciano i miei guai. Siamo negli anni ’80, lavorare nel settore edile e nel mio territorio non è cosa facile. I soldi non bastano mai ed è così che l’impresa che costituisco cammina sempre sul filo del rasoio. Si vive di pagherò e di assegni postdatati e ai fornitori sta pure bene”. Pino racconta di essere stato arrestato in una operazione antimafia, ma per errore, perché omonimo di un affiliato (che poi si scopre essere un suo lontano parente). Sarà Giovanni Falcone ad accorgersi dell’errore e a liberarlo. Ma mentre è in galera, fuori per l’attività di Pino le cose peggiorano: “Con me lontano, i lavori non vanno avanti, i creditori spariscono mentre rimangono i debiti e i fornitori che incassano gli assegni, ovviamente scoperti. Le cose si mettono male ed oltre a una denuncia per mafia, cominciano i miei guai per gli assegni non pagati”. Eccolo il passato “ombroso” di Pino, quello dal quale derivano la sua forza e, soprattutto, la sua scelta, dovuta alla rabbia provata per le stragi del ‘92, di ritirare la richiesta risarcitoria per ingiusta detenzione e di impegnarsi attivamente nella lotta alla mafia. Un impegno che da quel momento non si è mai fermato, che ha portato alla bellissima realtà di Telejato, palestra ed esempio per tanti giovani e per tanti giornalisti liberi. Un uomo onesto, sia nel raccontare il suo passato che nel vivere il suo presente, con coraggio e senza fare sconti a nessuno. Anche se questo atteggiamento poi, come vediamo, qualcuno glielo fa pagare. Noi, che persone come Pino le abbiamo avute accanto, le abbiamo conosciute da vicino, sul loro campo di battaglia, ci schieriamo dalla sua parte e dalla parte di chi resiste e rifiuta di farsi mettere cappelli politici o di movimento. Siamo in attesa di vedere come evolverà questa vicenda, convinti che sia solo un tentativo, anche piuttosto banale e goffo, di screditare chi ha osato troppo. Più avanti, quando tutto sarà chiarito, avremo poi tutto il tempo per ricordarci di chi oggi, senza nulla in mano, dalle tastiere e dalle pagine di certi giornali, ha già emesso illegittime sentenze e sputato calunnie.

La calunnia è un venticello. Pino Maniaci e le indagini presunte, scrive il 30 aprile 2016 Martina Annibaldi su "Stampa Critica”. Da circa vent’anni è il volto di Telejato. Unico tra gli italiani, insieme a Lirio Abbate, a finire nella lista dei 100 eroi mondiali dell’informazione stilata da Reporter Sans Frontier. Pino Maniaci è per tanti di noi il simbolo vivente di una lotta alla mafia che è fatta di impegno quotidiano e di coraggio. Quel coraggio di raccontare le distorsioni e i veleni di una terra, la propria. Anni di battaglie, di intimidazioni, di violenza, di querele a catinelle (più di duecento, ad oggi!) nel tentativo ancora mai riuscito di tappare la bocca a lui e alla sua redazione. Pino è sempre andato avanti ma, si sa, prima o poi dove non arriva la crudeltà o la minaccia arriva quel leggero venticello dell’infamia a colpire chi avrebbe dovuto tacere e non lo ha fatto. “Meno attacchi in cambio di soldi: indagato a Palermo paladino della tv antimafia”, è il titolo dell’articolo pubblicato da Repubblica venerdì 22 Aprile che apre il caso Maniaci. Secondo la ricostruzione fornita dal giornalista, Pino Maniaci sarebbe indagato dalla Procura di Palermo per estorsione ai danni del sindaco di Partinico, Salvo Lo Biundo, e del sindaco di Borgetto, Gioacchino De Luca. In cambio di soldi, il volto di Telejato, avrebbe promesso ai due primi cittadini un ammorbidimento dei servizi che li riguardavano e richiesto posti di lavoro per i propri familiari. Le indagini sarebbero state aperte dopo una serie di intercettazioni da parte dei Carabinieri e, alla luce di quanto emerso, avrebbe persino spinto gli inquirenti a ripensare la matrice delle intimidazioni violente subite dal giornalista siciliano nel 2014, quando i suoi due cani vennero prima avvelenati e poi impiccati dalla mafia. Per un istante, un solo istante di spaesamento, a molti di noi si è gelato il sangue. Ma si è trattato di un istante e nulla più. Perché in fin dei conti hanno ragione a Telejato quando dicono che se lo aspettavano. Perché la mafia ha smesso di essere solo quella dei Messina Denaro e dei Riina. La mafia ha smesso di fare patti con lo Stato. La mafia si è fatta Stato attraverso la corruzione e l’insediamento nei poteri forti. E quei poteri forti non vogliono essere toccati, perché se li tocchi ti fanno male, molto male ma senza colpo ferire. Pino Maniaci a quei poteri forti ha dato fastidio, e tanto. Lui e la sua redazione da anni si battono per portare alla luce non solo i traffici della mafia “ufficiale” ma anche i movimenti occulti di quell’antimafia intrisa di cultura mafiosa che solo di recente è finalmente venuta alla luce, permettendo di mandare a casa la ormai ex Presidente delle misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, finita sotto inchiesta insieme a tre magistrati e ad una serie di amministratori giudiziari per aver messo su un sistema fatto di favori, di clientelismo e di enormi quanto loschi guadagni sui beni confiscati alla mafia. È la stessa Saguto che, intercettata al telefono con l’ex prefetto di Palermo, Francesca Cannizzo (indagata a sua volta per concussione) riferendosi a Telejato parla di “ore contate”. “Mi sembra che la storia sia chiarissima: l’avvocato Cappellano Seminara mi ha denunciato per stalking solo per fare in modo che io venissi intercettato: ma basta andare a vedere i servizi del mio telegiornale per capire che i sindaci in questione vengono attaccati almeno una volta al giorno. Senza contare che il presidente del consiglio comunale di Borgetto mi ha persino querelato di recente”, dichiara Maniaci, assistito dagli avvocati Antonio Ingroia e Bartolomeo Parrino. Finora nessun avviso di garanzia a carico del giornalista siciliano (peraltro, come già sottolineato dallo stesso Ingroia, grave violazione del segreto d’ufficio, qualora l’inchiesta esistesse realmente) solo indiscrezioni di stampa che continuano a montare nel silenzio assoluto della Procura di Palermo. Maniaci si dichiara pronto a chiarire ogni dettaglio, qualora questa inchiesta passasse dell’essere presunta all’essere reale. Certo è che, in un Paese in cui gli avvisi di garanzia, i rinvii a giudizio e persino le condanne a carico dei politici e dei potenti passano sempre in secondo piano o si gonfiano in polemiche mordi e fuggi, fa sorridere (o forse fa piangere) il polverone sorretto da presunti e da condizionali. Quello che sta montando nei confronti di Pino Maniaci ha il sapore esatto delle macchinazioni a cui la mafia, nel senso più ampio ed onnicomprensivo del termine, ci ha abituati da sempre. Infangare, affossare, calunniare. Delegittimare, insinuare il dubbio su tutto, persino sulla violenza subita. Come quei tanti giornalisti morti di mafia su cui ancora aleggia il sospetto del delitto passionale. A Maniaci i cani li hanno ammazzati per motivi personali, questa sarebbe la nuova versione dei fatti. E forse tanto basterebbe per far riflettere. E poi quella denuncia per stalking, perché per stalking? Cappellano Seminara avrebbe, forse, potuto tentare la denuncia per diffamazione ma sceglie lo stalking. Perché, si sa, non serve che il reato sia realmente accaduto, basta qualche stralcio di intercettazione qua e là, o forse neanche quello, per gettare un’ombra indelebile su alcuni personaggi. Lo scandalo è montato, e forse cadrà nell’ombra una volta raggiunto il suo apice, cadrà nell’ombra prima che arrivi la versione ufficiale, prima che la Procura faccia chiarezza su questa indagine fantasma. Pino Maniaci resta in attesa che questo silenzio venga dissipato. Altrettanto sarebbe opportuno che facesse l’intera comunità, perché non si giudichi, ancora una volta, sospinti solo da quel famoso venticello dell’infamia.

"Caso Saguto, che fine ha fatto?". L'e-mail e la ferita aperta, scrive Riccardo Lo Verso il 28 aprile 2016 su "Live Sicilia". Va bene il convegno. Va bene il confronto “meritorio” sul tema della disabilità, ma l'indagine sulla Saguto che fine ha fatto? A rivolgere la domanda al procuratore aggiunto di Caltanissetta, Lia Sava, è un magistrato di Palermo. “Cara Lia...”, comincia così la lettera che Maria Patrizia Spina, presidente della quinta sezione della Corte d'appello, ha girato a una mailing list di colleghi. Una sezione, la sua, particolarmente attenta all'argomento visto che tratta, nel secondo grado di giudizio, le decisioni che un tempo venivano prese dal collegio presieduto da Silvana Saguto, oggi sospesa dal Csm. Un collegio azzerato dall'inchiesta dei pm di Caltanissetta, coordinati proprio dalla Sava che, oltre a fare l'aggiunto, oggi è anche il capo pro tempore dei pm nisseni in attesa della nomina del nuovo procuratore. La Sava è promotrice di un convegno in programma fra qualche giorno a Palermo. Ecco perché è a lei che la Spina chiede se sia “opportuno” organizzare un convegno a Palermo “mentre si attendono gli esiti sul caso Saguto”. Caso che, in un passaggio della lettera, viene definito “sistema” e per il quale tutti “ci aspettavamo gli esiti dell'indagine”. La Spina mette per iscritto un'esigenza diffusa tra i magistrati palermitani. Quando scoppiò lo scandalo si disse che in gioco c'era la credibilità dell'intero distretto giudiziario palermitano. Non restava che aspettare che venisse fatta chiarezza nel più breve tempo possibile. Il punto è che bisogna fare i conti con i tempi delle indagini e con quelli che servono ai giudici per tirare le somme. Il fattaccio beni confiscati venne a galla nel settembre 2015, quando i finanzieri del Nucleo di polizia tributaria fecero irruzione nella stanza della Saguto, al piano terra del nuovo Palazzo di giustizia. Si scoprì che c'erano le cimici nel suo ufficio. L'indagine era partita qualche mese prima, quando i pm di Palermo si accorsero che c'erano finiti dentro alcuni magistrati e trasferirono il fascicolo a Caltanissetta per competenza. La conferma dei tempi dell'inchiesta si è avuta fra dicembre e gennaio quando gli indagati - dalla Saguto all'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, dal giudice Tommaso Virga al figlio Walter, all'ex prefetto Francesca Cannizzo - ricevettero l'avviso di proroga delle indagini. I termini scadono fra giugno e luglio prossimi, ma se i pm non avranno finito di analizzare le informative dei finanzieri in teoria avrebbero l'opportunità di chiedere una nuova e ultima proroga di ulteriori sei mesi. E torniamo al tema sollevato dal giudice Spina nella sua e-mail. I magistrati, ma non solo loro, aspettano “gli esiti delle indagini”. Aspettano di conoscere il contenuto completo di quel quadro che, a giudicare da quanto finora emerso, sarebbe connotato da favori, soldi e forse anche mazzette. Tra i reati ipotizzati, infatti, c'è pure la corruzione. Il punto è che i bene informati continuano a ripetere che quanto finora trapelato è poca roba rispetto al materiale raccolto. Si vedrà. Intanto l'attesa pesa. Innanzitutto ai magistrati stessi. L'e-mail del giudice sta facendo parecchio discutere nelle stanze del Palazzo. Non sappiamo se altri colleghi abbiano contributo al dibattito on line, oppure se abbiano scelto la strada del silenzio. Il silenzio che ha caratterizzato la polemica sollevata, sempre via e-mail, dal pm Antonino Di Matteo sulla presenza del professore Giovanni Fiandaca a un evento formativo della Scuola superiore della magistratura. Invitare il "nemico" del processo sulla Trattativa Stato-mafia a "fare lezione" ai magistrati palermitani: è opportuno?, si è chiesto di Di Matteo. Fiandaca ha risposto a muso duro: "Da lui censura fascista". Nessuna risposta dai colleghi a cui il pm ha girato il messaggio di posta elettronica.

Il mare magnum del caso Saguto. Obiettivo: "Blindare" le prove, scrive Riccardo Lo Verso il 29 aprile 206 su "Live Sicilia”. Un numero maggiore di indagati di quanti finora emersi, decine di amministrazioni giudiziarie setacciate, tonnellate di carte da spulciare, un elenco sterminato di favori, o presunti tali, e assunzioni. Ed ancora: nomine, consulenze e soprattutto passaggi di denaro. Benvenuti nel mare magnum dell'inchiesta sui beni confiscati alla mafia. “Che fine ha fatto il caso Saguto?”, si chiede, come ha raccontato Livesicilia, un giudice della Corte d'appello di Palermo. Risposta complicata perché complesse sono le indagini che la Procura della Repubblica di Caltanissetta ha delegato ai finanzieri della Polizia tributaria di Palermo. Considerata la mole di lavoro, a dire il vero, gli undici mesi finora trascorsi sembrano persino pochi per potere già tirare le somme. Eppure almeno una parte delle indagini sembra destinata ad arrivare alla conclusione prima dei caldi mesi estivi, quando scadrà la proroga di sei mesi iniziata fra dicembre e gennaio scorsi. Di proroga i pm nisseni, coordinati dall'aggiunto Lia Sava, potrebbero sfruttarne un'altra, sempre di 180 giorni. Il punto è che si è partiti da un caso singolo - la gestione della concessionaria Nuova Sport Car sequestrata ai Rappa e affidata dal giudice Silvana Saguto al giovane avvocato Walter Virga, figlio di un altro giudice, Tommaso - e si è scoperto un fenomeno. Un sistema, come viene definito, dove la gestione della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo sarebbe stata piegata ad interessi personali fino a ipotizzare reati pesantissimi come la corruzione e l'autoriciclaggio. Il caso è esploso nella sua drammatica evidenza una mattina di settembre con i finanzieri che piombano nella stanza della Saguto e nella cancelleria del Tribunale. Tutti, gli indagati per primi, a quel punto sanno di essere finiti sotto inchiesta, anche se dalle intercettazioni sembrava che lo avessero già intuito da un po'. Nell'ufficio dell'ex presidente, infatti, c'erano le cimici. Perché svelarne l'esistenza e spegnere la microspia nella stanza dei bottini? Perché, evidentemente, era giunto il momento di scoprire le carte forse per stoppare qualcosa, oppure perché gli investigatori avevano ascoltato già ciò che serviva. Che deve essere molto di più di quanto finora trapelato. Le intercettazioni finora conosciute ci hanno svelato un sistema di nomine clientelari, favori, piccoli e grandi - cassette di frutta e laurea del figlio della Saguto inclusa -, ma non è tutto. Da approfondire, secondo i pm, è il corposo capitolo del presunto patto corruttivo fra Saguto e l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara che avrebbe ottenuto la gestione di grossi patrimoni in cambio di consulenze per il marito del'ex presidente, l'ingegnere Lorenzo Caramma, pure lui sotto inchiesta. Settecentocinquantamila euro: a tanto ammontano i compensi liquidati a Caramma dal 2005 al 2014, in un arco temporale che è iniziato quando la Saguto era membro del collegio delle Misure di prevenzione ed è proseguito quando dello stesso collegio il magistrato è divenuto presidente nel 2010. C'è un dato certo perché scolpito nei nastri delle intercettazioni. La famiglia della Saguto aveva un tenore di vita altissimo, che ad un certo punto divenne insostenibile. Il magistrato diceva a Elio, uno dei suoi tre figli: "Dobbiamo parlare, perché la situazione nostra economica è arrivata al limite totale, non è possibile più... voi non potete farmi spendere 12,13,14 mila euro al mese noi non li abbiamo questi introiti perché siamo indebitati persi". In realtà, dall'analisi della carta di credito del magistrato, si è scoperto che di soldi ne arrivavano a spendere in un mese fino a 18 mila euro. Per rimediare, secondo la Procura nissena, l'ex presidente avrebbe ottenuto soldi in contanti da Cappellano Seminara. E qui si innesta un altro passaggio delicato. L'ipotesi, smentita dai presunti protagonisti, è che una sera di giugno l'amministratore giudiziario possa avere portato ventimila euro in un trolley a casa Saguto. Nelle intercettazioni si parlava di “documenti”. Altra domanda: perché non bloccare Cappellano con la prova regina? Possibile risposta: perché a fini investigativi la prova, o presunta tale, poteva essere meglio cristallizzata seguendo i successivi passaggi del denaro. "Non è emersa alcuna traccia di scambi di denaro tra la mia assistita e gli amministratori giudiziari, e gli accertamenti bancari lo confermano - disse l'avvocato della Saguto, Giulia Bongiorno - le accuse sono palesemente sbagliate". In altre conversazioni fra l'ex presidente e il padre si parla di mazzettine di denaro. Non sarebbero solo i soldi in contanti, però, che i finanzieri hanno cercato per riscontrare le parole intercettate. Parole da cui emergerebbe la convinzione di potere godere dell'impunità. Una sicurezza che avrebbe spinto i protagonisti a commettere degli errori e a lasciarne traccia? Lo scopriremo e forse non si dovrà neppure attendere molto tempo ancora. Il lavoro degli inquirenti impegnati a "blindare" ciò che sarebbe già stato acquisito sembra muoversi su più livelli. C'è quello più alto dove compaiono i nomi della Saguto, di Cappellano, dei Virga e di qualche altro rappresentante delle istituzioni come l'ex prefetto di Palermo, Francesca Cannizzo. La sola Saguto è stata sospesa, tutti gli altri trasferiti. E poi, a cascata, ci sono i livelli più bassi che arriverebbero fino ai “raccomandati” per un post di lavoro o per una consulenza. L'inchiesta potrebbe procedere per step.

Amministrazioni giudiziarie e curatele fallimentari: “U mancia mancia”, scrive il 19 aprile 2016 Salvo Vitale su Telejato. Sono state dissequestrate alcune aziende che erano finite sotto le grinfie della dott.ssa Saguto senza sufficienti motivazioni, ma solo perché alcuni protagonisti del cerchio magico, in particolare i cosiddetti “quotini”, avevano pensato di sistemarsi a vita spolpandone le risorse. Il caso del capo dei “quotini”, Cappellano Seminara è uno dei più sconvolgenti e ancora oggi aspetta di essere esplorato in tutte le sue “malefatte”. Man mano che i nuovi amministratori giudiziari, nominati per effettuare le consegne scavano per cercare di capire dove sono finiti i soldi, si configurano casi di falso in bilancio, casi di fornitori non pagati che reclamano i loro soldi, addirittura di vasche da bagno strappate dal loro posto e messe in vendita di nascosto o portate in altra struttura. Milioni di debiti che sicuramente non saranno pagati da chi ha combinato questi dissesti, ma che, come al solito graveranno sulle spalle dei proprietari cui è stato riconsegnato il bene sotto sequestro. Sono stati cambiati alcuni amministratori giudiziari, ma in qualche caso, come per i beni dei Virga, dove Rizzo è stato sostituito con Privitera, tutto è rimasto come prima, anzi peggio di prima, perché Privitera viene da Catania una volta la settimana, riceve solo chi decide lui e non vuole prendere alcuna decisione se non con l’autorizzazione di Montalbano. Addirittura a una ragazza ha fatto firmare una ricevuta di un acconto datole per il suo lavoro di cento euro, cioè l’elemosina e a qualche altra lavoratrice che reclamava un minimo di acconto e che aveva ritirato dalla scuola la figlia, perché non poteva darle nemmeno i soldi per il panino, ha detto che ci vuole sempre l’autorizzazione di Montalbano per avere un sussidio. Insomma, storie di ordinaria miseria all’ombra dell’antimafia. Ma se in questo settore si aprono spiragli, altre porte sembrano chiudersi: si presentano in redazione lavoratori disponibili e pronti a prendere in mano aziende sotto sequestro e destinate al fallimento, ma Montalbano li indirizza agli amministratori giudiziari, i quali dicono che “ci pensano loro” e che non hanno bisogno di aiuto. Spiragli di lavoro che potrebbero funzionare, ma ai quali viene chiusa ogni possibilità prima di cominciare. Ben più serrata e impenetrabile è la situazione degli uffici che si occupano di fallimenti e di curatele giudiziarie. Qua diversi avvocati, nominati, non si sa se frettolosamente o in modo complice dal tribunale, sono stati capaci di costruire le proprie ricchezze acquistando o facendo acquistare da prestanomi i beni messi in vendita, anzi svenduti in un particolare momento in cui all’asta si presentava solo chi era stato deciso che doveva acquistare. Beni immobili di milioni di euro venivano e vengono aggiudicati per pochi spiccioli e, se in qualche occasione il proprietario ha deciso di ricomprare ciò che era suo, allora il prezzo sale. Una vera e propria casta della piccola e media borghesia palermitana si è proposta e agisce come classe dominante, non facendosi scrupoli anche di amministrare e gestire le risorse di Cosa Nostra. L’arresto di alcuni professionisti fatto anche recentemente, è un semplice indizio di quanto serpeggia in modo sotterraneo. Quella che il grande Mario Mineo e poi Umberto Santino e altri chiamano “borghesia mafiosa”, è in grado persino di spremere soldi a Cosa Nostra, dal momento che i mafiosi fanno collette tra i loro amici per pagare gli avvocati dei loro parenti in carcere. Ma le nostre sono solo parole e considerazioni tratte da quanto sono venute dichiararci le persone danneggiate da queste trappole. Sicuramente sotto c’è ben altro che forse non sapremo mai, c’è un verminaio altrettanto grave di quello dei sequestri giudiziari e di cui qualche spiraglio speriamo che si apra con il nuovo presidente della sezione Fabio Marino.

Il Paladino, la mafia, le corna, scrive Vincenzo Marannano il 4 maggio 2016 su “Di Palermo”. L'indagine su Pino Maniaci, la mafia spacciata per una trita storia di amanti e di vendette e quella verità, se di verità si tratta, che arriva sempre tardi. Troppo tardi. La prima vittima eccellente, in questa ennesima storia nebulosa, è sicuramente la verità. Azzoppata intanto da mesi di indiscrezioni, colpita duramente da chi ha accreditato – con premi, patenti di legalità e attestati di stima – qualcuno che a quanto pare non era poi così accreditabile, e trafitta infine da indagini troppo lunghe. Perché – se confermata la ricostruzione degli investigatori – due anni per dirci che a bruciare un’auto non era stata la mafia ma un marito geloso forse sono un po’ troppi. E perché consentire per mesi a carovane di associazioni e rappresentanti delle istituzioni di sfilare quasi in pellegrinaggio verso la sede di una televisione che (sempre se le prove supereranno l’esame del processo) invece estorceva denaro in cambio di una linea più morbida, fa male anche e soprattutto alle credibilità delle istituzioni e alla parte sana del movimento antimafia. La verità in Italia purtroppo viaggia spesso a due velocità. Il tribunale dell’opinione pubblica, basato solitamente su semplici indiscrezioni, è molto più rapido di quello della giustizia. E un cittadino tante volte finisce per essere condannato anni prima di vedere conclusa, in un modo o nell’altro, la sua vicenda processuale. I tempi della giustizia sono lunghi. Le prove o gli indizi impiegano ancora troppo per diventare informative degli investigatori prima, richieste della Procura dopo e, infine, ordinanze dei gip. Così ci ritroviamo con reati compiuti a partire dal 2012 che, se va bene, approderanno in un’aula di tribunale dopo cinque anni. Con tutti i limiti e i problemi che questo comporta. Sia per chi i reati li commette, ma anche per chi deve discolparsi di qualcosa che non ha mai fatto. C’è poi un altro aspetto che non va sottovalutato. Nell’era di internet e dei social network – e dei pulpiti offerti a chiunque grazie a strumenti come Twitter o Facebook – qualsiasi notizia lascia ormai una traccia quasi indelebile, nel bene e nel male. Se un’inchiesta impiega cinque o vent’anni per arrivare a sentenza, fino a quel momento l’unica verità, parziale, sarà quella emersa dalle indagini o dalle indiscrezioni. A questo aggiungiamo che ogni giorno plotoni di internauti si svegliano, leggono il tema del momento e si improvvisano arbitri, giudici, allenatori, investigatori, opinionisti. E che, purtroppo, le chiacchiere da bar non si disperdono più tra un bicchiere e l’altro ma restano impresse e spesso diventano verità a uso e consumo di chi non è in grado di selezionare e capire cosa è informazione e cosa, invece, è solo opinione. O “curtiglio”. Questa leggerezza porta a condannare semplici indagati o ad esaltare modelli impresentabili. E in questa continua improvvisazione si finisce col rovinare carriere o (chissà cosa è peggio) col costruire o inventare di sana pianta eroi, paladini o semplici “bolle” che quando si sgonfiano o esplodono danneggiano tutto l’ambiente in cui hanno proliferato. La storia di Pino Maniaci non fa differenza. Autoproclamatosi paladino dell’antimafia, in questi anni è stato celebrato da un capo all’altro del Paese (e perfino all’estero) grazie anche alla ribalta concessa da televisioni nazionali abituate a fare informazione semplicemente mettendo un microfono davanti alla faccia dell’intervistato. Senza scavare o chiedere conferme. Perché a molti è bastato sentire dalla sua viva voce che la mafia aveva bruciato la sua auto per costruire una verità che invece spettava a qualcun altro accertare. Perché in un momento storico in cui comandano l’audience e i like su Facebook, è sicuramente più popolare una storia di ribellione a Cosa nostra che la solita trita e ritrita questione di corna. Perché c’è sempre qualcuno, prima degli investigatori, pronto a dire che è stata la mafia a bruciare quella macchina o a piazzare quella finta bomba. Perché – spesso anche nella categoria dei giornalisti – bisogna arrivare sempre primi (per vincere cosa?), dare una notizia in più anche se non verificata o (peggio) sostituirsi agli investigatori nelle analisi o ai giudici nelle sentenze. A scapito di una verità che, come un frutto rarissimo, purtroppo ha ancora tempi troppo lunghi per maturare.

Per l'avv. Antonio Ingroia “il corpo del reato è un video che è stato montato dai Carabinieri (c’è la firma, perché c’è lo stemma dei Carabinieri), ed è stato distribuito inserendo intercettazioni e atti giudiziari che noi ancora non conosciamo se non attraverso quel video, perché non fanno parte degli atti trasmessi al giudice e comunque non fanno parte dell’ordinanza cautelare, trattandosi di fatti penalmente irrilevanti, ma servivano soltanto a distruggere l’immagine di Pino Maniaci. Perché dentro queste indagini ci sono rancori e vendette di amministratori locali, che hanno avuto la grande occasione di liberarsi della voce libera di Telejato e di Pino Maniaci. Ma c’è stata anche un’operazione che era attesa… L’operazione era attesa, com’è noto dalle intercettazioni della Procura di Caltanissetta, sui magistrati e gli amministratori giudiziari indagati per gravissimi reati, per i quali, invece, al contrario di Pino Maniaci, sono a piede libero. La verità vera è che si voleva macchiare Pino Maniaci, e si è macchiato, per due o tre piccole presunte piccole estorsioni (parliamo di centinaia di euro) a fronte di magistrati, avvocati, professionisti e amministratori giudiziari che sono imputati per centinaia di milioni di euro, che sono stati sottratti allo Stato, e sono oggi a piede libero, e altro non aspettavano in questi mesi, che approdasse a destinazione questa indagine. E’ grave e inquietante e noi faremo denuncia di questo, per il fatto che questi, magistrati, prefetti e avvocati sapessero che c’era questa inchiesta che bolliva in pentola e gradivano che arrivasse in porto. Per questo presenteremo denuncia”.

Ingroia diventa garantista per incassare una parcella. L'ex pm è l'avvocato del direttore di "Telejato" Maniaci, icona antimafia accusata di estorsione. Ora scopre che la sua vecchia Procura fa "indagini mediatiche". E denuncia pure i carabinieri, scrive Paolo Bracalini, Sabato 07/05/2016, su "Il Giornale". Da pm d'assalto a paladino degli imputati, la rivoluzione (personale, più che civile) di Antonio Ingroia è compiuta. Si fatica a riconoscere nell'ex pasdaran della Procura di Palermo pronto a mettere sotto accusa anche il Quirinale, l'autore di esternazioni tipo «questo provvedimento (della sua ex Procura, ndr) è sproporzionato», «c'è un accanimento accusatorio», «Pino Maniaci è stato crocifisso mediaticamente», «è grave e inquietante che i magistrati sapessero prima dell'inchiesta», «siamo di fronte a gossip, ad un processo mediatico alla vita privata», e poi indignarsi perché i pm avrebbero fatto «il copia incolla delle informative dei carabinieri», infilando nell'ordinanza anche «chiacchiere senza alcuna rilevanza penale», utili solo a «sporcare l'immagine» delle persone. Dopo la carriera da pm finita con un duello (perso) col Csm e l'addio alla toga, e poi la brevissima carriera da leader politico finita con il disastro elettorale, l'incarico ricevuto da Crocetta in una partecipata regionale siciliana andato a schifìo pure quello, Ingroia è tornato in pista come avvocato. Ma nemmeno in questo campo mancano incidenti e scivoloni per 'U comunista immuruteddu (il gobbetto comunista), soprannome affettuoso che gli diede Borsellino ai tempi in cui Ingroia era il suo vice a Marsala. Tra i suoi primi assistiti, dopo aver detto che «per coerenza con la mia storia non difenderò né mafiosi né corrotti», l'ex pm si è scelto Augusto La Torre, già boss della camorra di Mondragone (spiegando che «si può condurre una battaglia antimafia anche difendendo un pentito»). E adesso è proprio lui, l'avvocato Ingroia, a difendere il direttore di Telejato, Pino Maniaci, già simbolo dell'informazione antimafia, accusato dai giudici di Palermo di aver usato la sua posizione per estorcere denaro a politici. Ingroia ha un debole per i paladini dell'antimafia, ma non sempre ci prende, anzi. Nei lunghi mesi del processo sulla presunta «trattativa Stato-mafia», sua ultima ossessione giudiziaria, Ingroia è arrivato a riconoscere «quasi un'icona dell'Antimafia» in Ciancimino jr, rivelatosi poi un testimone tutt'altro che affidabile (condannato per calunnia), dopo essere stato elevato però (anche grazie ai talk show dei giornalisti amici di Ingroia) a fonte di verità suprema sulle malefatte della politica collusa coi clan, quasi sempre di centrodestra. Ma adesso che il segugio delle trame occulte e dei segreti inconfessabili della Repubblica è passato dall'altra parte della barricata, ha sposato con lo stesso impeto il garantismo. Nel difendere Maniaci, l'ex pm minaccia sfracelli. Accusa la Procura di Palermo di «inseguire il gossip» e di aver costruito un'indagine sul nulla, minaccia la Procura di Caltanissetta («Non possiamo non denunciarne l'anomalia...), vuol portare in tribunale pure i carabinieri, «per avere distribuito lo spot promozionale dell'accusa, un video fatto intenzionalmente per distruggere Maniaci, inserendo la faccende dei cani e di Matteo Renzi (a cui Maniaci dà dello str..., ndr), faccende che non avevano alcuna rilevanza penale. La Procura ha il dovere di chiedere formalmente all'Arma chi ha predisposto questo video e poi chi lo ha distribuito». Ma non denuncia mica solo i carabinieri, mezza Sicilia: «Faremo anche una denuncia al sindaco di Borgetto e del suo addetto stampa, e denunceremo per calunnia alcune delle persone che hanno agito per motivi di rancore contro il nostro cliente». Anche qui Ingroia intravede una trattativa nascosta: «Si voleva marchiare Pino Maniaci per due o tre presunte piccole estorsioni», che invece per il suo legale corrispondono alla riscossione di diritti pubblicitari. Maniaci è stato interrogato dal gip, a cui ha esposto la sua linea: «Mi hanno buttato addosso merda perché qualcuno vuole fermarmi». Per un complotto, non c'era migliore avvocato di Ingroia. Sempre che abbia più fortuna come legale che non come pm o leader di partito.

Il mio amico Maniaci. Masaniello, Pancho Villa, il contadino o il brigante che dopo anni di ribellione viene infine scoperto dai nobili, dalla corte, scrive Riccardo Orioles il 05/05/2016 su “I Siciliani”. “Ha visto com’è spontaneo, don Alonzo? Mangia colle mani! Es un hombre del pueblo, poco da fare…”. “È un campesino, si vede. Un liberal campesino. Però potrebbe anche farsi la barba ogni giorno”. “Ed ecco a voi… Pino Maniaci! Il coraggioso giornalista di…”. “Di Partinico”. “Ecco, di Partinico! Nel cuore della Sicilia maffiosa! Ci dica, Maniaci, lei ha paura quando affronta la mafia?”. E Maniaci – e Pancho Villa, e Masaniello – risponde, come tutti si aspettano, con una parola volgare. “Eh eh – sorride il presentatùr – Pane al pane, eh? Scusate, amici telespettatori, ma stiamo parlando con un protagonista della lotta alla maffia… Uno che non bada certo a parlare da intellettuale…”. Altra malaparola di Masaniello (o di Pancho Villa, o di Maniaci), altro sorriso complice del presentatore. E lo spettacolo va avanti. Francisco Arango Arambula di San Juan del Rio in realtà era uno dei migliori generali del Ejercito Republicano. Aveva cominciato con quattro compagni, poi dieci, poi cinquanta. Abilissimo tattico, uno dopo l’altro aveva sfasciato i battaglioni del dittatore, lassù nel Norte. E ora eccolo qua, nel Palazzo Presidencial, imbarazzato e felice, lisciandosi i baffoni e cercando di rispondere alle domande dei capi liberales con l’occhialino. (E anche Gennaro Aniello, come sindacalista e politico, non era poi tanto male. L’unico, in tutta Napoli, a capire che la gabella sul pesce era la chiave di tutto, che là si doveva insistere, coprendosi con “Viva el Rey” ma senza mollare un momento). Pino Maniaci è uno dei migliori cronisti che ho conosciuto, e ne ho conosciuti un bel po’. “Dilettante” all’inizio, ma rapidamente cresciuto, e all’antica, in questo mestiere. Uno che è in giro all’alba, per colline e campagne, per prendere i particolari, non solo le grandi linee, dell’ultimo omicidio o di una cronachetta qualunque. E buona capacità, anche, di coordinare un’inchiesta grossa, di mettere insieme dati, di trarne conclusioni razionali (la dottoressa Saguto ne sa qualcosa). E ora eccolo qui, insieme a los generales e ai marchesi, coccolato e schernito (ma elegantemente): “Don Pancho!”, “Excellencia!”, “Gran Maniaci!”. Finché un bel giorno – come Tomaso Aniello, come Francisco – è scasato di testa. Come la nobiltà, del resto, pazientemente aspettava. È una storia di poveri. Decine o centinaia di euri, banconote e monete, raccolte senza osar crederci, impaurito e spavaldo. “Hai finito di stentare”, dice alla donna. Potrà lavare i pavimenti trecento euri al mese, una ricchezza. “Hai visto? Fanno quello che voglio! Comando io!”. È un nobile pure lui adesso, uno che può afferrare le cose, può comandare. Così fanno i signori, i ricchi della città, i generali, gli avvocati. E così, se dio vuole, faremo pure noialtri, d’ora in avanti. Ce lo siamo meritato. Inizia la breve ricchezza, la povera ricchezza, soldini di rame e di tolla (ma ai poveri pare oro sonante) del campesino Francisco, del pescatore Masaniello. “Comando io!”. E i nobili, con pazienza, aspettano allegramente il passo falso. “Avete visto? – si preparano a dire – Don Montante, el senor Costanzo, il barone Lo Bello: v’incazzavate con loro, voi communisti, ma in fondo che cos’è mai successo? Chi vede quattrini se li piglia, e voi non siete meglio degli altri: guardate il vostro eroe, che cos’ha fatto!”. Cosi i milioni dei ricchi si confondono colle quattro monete dei poveracci: tutta roba rubata, tutta la stessa cosa. “Vi prego, voi velocisti, telegiornali, giornali vari, che mai avete fatto inchieste… Che fate servizi fiume sull’eroe antimafia decaduto, e ci godete. Noi siamo i ragazzi di Telejunior. In quelle stanze di Telejato ci abbiamo passato giornate intere. A impappinarsi nel registrare i servizi, a fare le rassegne stampa, a montare. In giro a fare domande, a Borgetto, a San Giuseppe Jato, al tribunale di Palermo. I vostri coltelli feriscono, fanno un male che nemmeno vi immaginate. Ma io devo fare scudo. Con gli occhi gonfi, la nausea che va e viene, il naso rosso paonazzo. Io devo fare scudo ai miei ragazzi, ai ragazzi di Telejunior. Io Michela, e Salvo e Arianna e Danilo, e Marco, Ivano, Eleonora, Pasquale e Giulia e tutti gli altri”. Un altro ragazzo, un militante, da Milano: “Da me su Maniaci non avrete parole, solo dolore”. Telejato deve continuare. Come la lotta contro la gabella a Napoli, come la tierra y liberdad dei contadini. Con Masaniello, con Pancho Villa, dopo Pancho Villa, dopo Masaniello. Perché siamo noi questa lotta, noi popolo, noi banda di disperati. Non un singolo capo, che prima o poi può crollare. Voi nobili, voi giornalisti importanti, guardate solo ai capi. Ma noi abbiamo vissuto un’altra storia, un’altra grande speranza e sofferenza. Noi siamo qui, noi non molliamo. Caro Pino, rimettiti dall’ubriacatura, ingollati ‘sto caffè e torna com’eri prima. In culo alla nobiltà e a tutto il gran giornalismo italiano: noi siamo viddani zappaterra, non baroneddi. Ce ne fottiamo di comandare, non c’interessa diventare come loro, vivere è ciò che ci piace. Ti aspetto e ti stringo la mano. (Fino a un minuto fa, altro che stretta di mano, volevo salutarti con un calcio nel sedere. Ma abbiamo cavalcato insieme, stracciati e miserabili ma orgogliosi. Gliene abbiamo date, ai signori. E torneremo a dargliene. Forza, un altro caffè, tutto d’un fiato. Ti aspetto). Collega Letizia, aspetto i suoi ordini. Lei è la mia nuova direttrice. Telejato continua, non c’è bisogno di dirlo. Mi spiace per lorsignori, ma si va avanti. Sono già al computer, mi dica cosa debbo fare. “Perché, la storia di Telejato, e di tutti noi ragazzi, non si può cancellare così. Siamo tutti stretti l’uno all’altro, e rimarremo in questo modo, qualunque sia il pensiero di ciascuno, qualunque emozione. Qualunque cosa accada. Uniti. Insieme”.

Il ruolo dei Carabinieri e della Procura nella vicenda di Pino Maniaci, scrive il 10 agosto 2016 Salvo Vitale su "Telejato". MAN MANO CHE IL TEMPO PASSA ED È FINITO LO STUPORE SUSCITATO NEL MOMENTO IN CUI È VENUTA FUORI LA NOTIZIA, I MARGINI DELLA VICENDA CHE HA INTERESSATO PINO MANIACI SI FANNO PIÙ CHIARI E, PER MOLTI VERSI, PIÙ INQUIETANTI. Tutto è iniziato nel 2013, quando “per caso”, nell’ambito di una serie di intercettazioni disposte per indagare eventuali collusioni tra i mafiosi e i politici di Borgetto, viene registrata una sospetta telefonata di Maniaci al Sindaco di Borgetto. Va detto che Maniaci si era occupato, attraverso la sua emittente, di strane commistioni che vedevano un consigliere comunale che aveva preoccupanti parentele mafiosi o, addirittura, rapporti di comparaggio con un esponente delle forze dell’ordine. Non si sa le intercettazioni abbiano preso il via, grazie alle denunce di Maniaci o se siano state decise da altri canali d’indagine. La telefonata di Maniaci consentiva l’apertura di un capitolo su di lui, dal momento che vi si raffiguravano le caratteristiche dell’estorsione. Maniaci avrebbe chiesto dei soldi al sindaco di Borgetto in cambio di un ammorbidimento della linea del suo telegiornale nei suoi confronti. Da allora non un respiro, non una parola è sfuggita all’orecchio vigile degli inquisitori, che hanno accumulato oltre 4 mila pagine di intercettazioni per cercare prove e provini che potessero costituire elementi d’accusa nei suoi confronti. Ben più di quanto non ne siano state raccolte sui nove mafiosi di Borgetto, che avevano rimesso in funzione una gigantesca macchina di estorsioni e taglieggiamenti tra Borgetto e Partinico. Contemporaneamente Telejato ha, in quel periodo, aperto una serie d’inchieste sull’operato della sezione “misure di prevenzione” del tribunale di Palermo, in particolare sull’accoppiata Saguto-Cappellano Seminara e ha messo in onda una serie di interviste e di servizi di operatori economici e commerciali ai quali era stato sequestrato tutto, senza che penalmente ci fosse nessuna condanna e nessun capo d’imputazione. Una delle caratteristiche emerse dall’inchiesta è che al tribunale di Palermo tutti sapevano, ma nessuno era intervenuto né tantomeno aveva il coraggio di intervenire sulle distorsioni della giustizia che venivano consumate all’interno della citata sezione. Una convocazione, di Maniaci, da parte del tribunale di Caltanissetta, giudice Gozzo, si era conclusa con un’audizione di tre ore e con l’impegno di una nuova convocazione, cui non era seguito più nulla. Il controllo dei telefoni di Telejato consentiva agli intercettatori di ricostruire la rete di informazioni e le persone che venivano a raccontare le loro storie: i carabinieri sapevano benissimo delle visite dei Niceta, dei Giacalone, dei Virga, degli Impastato, degli operai della 6Digi di Grigoli, dei lavoratori dell’Hotel Ponte, di quelli dell’ex immobiliare Strasburgo, di Rizzacasa, di Lena, di Di Giovanni, di Ienna ecc. Dall’altro lato la Saguto sapeva benissimo che Telejato era sotto controllo e che in qualsiasi momento la procura avrebbe potuto intervenire per bloccarne le iniziative. “Quello lì è questione di ore…” diceva il prefetto Cannizzo alla Saguto, la quale poi si lamentava con la stessa per il ritardo della procura: “Se quelli lì si spicciassero…”, mentre scherzava con Cappellano sul “dover chiedere il permesso” a Telejato per prendere la decisione di un sequestro. Una corsa contro il tempo che è finita con l’apertura dell’indagine da Caltanissetta sulla Saguto e sui provvedimenti di sospensione o di trasferimento, del prefetto, dei giudici Licata e Chiaramonte e di Tommaso Virga e sul rinnovo dei magistrati di tutta la sezione. È sembrato poco opportuno, in quel momento, ai magistrati, coinvolgere Maniaci, perché la cosa avrebbe potuto avere il sapore di una ritorsione, così l’indagine è stata raffreddata e la miccia è stata accesa circa sette mesi dopo, come si dice in siciliano “’a squagghiata di l’acquazzina”, cioè quando si è sciolta la brina. CERCHIAMO DI RICOSTRUIRE, CON L’ABBUONO DELL’IMMAGINAZIONE, LA STRATEGIA DELLA PROCURA. Primo obiettivo, distruggere l’immagine del giornalista antimafia, e quindi nullificare il suo lavoro, per ribadire che l’antimafia, le indagini, le denunce non appartengono all’operato di un giornalista che si è allargato troppo, ma solo agli investigatori, alle istituzioni o agli organismi riconosciuti come soggetti istituzionalmente interlocutori. Non pare importante in ciò l’esistenza di reati penali o la presunzione d’innocenza: basta mettere insieme alcuni elementi di presunta colpevolezza e il lavoro di Telejato avrebbe dovuto crollare come un castello di carta. Mettere Maniaci assieme ai nove mafiosi di Borgetto, di cui egli stesso aveva denunciato da anni le malefatte è stato un colpo da maestri, perché si è creato di tutta l’erba un fascio e perché così si è dimostrato che tra le estorsioni dei mafiosi, per richiesta di protezione e le richieste di denaro di Maniaci non c’era nessuna differenza. Le prime garantivano protezione, da se stessi, quella di Maniaci garantiva un trattamento morbido dell’informazione sulla persona estorta. In tutto questo c’è un elemento che non quadra, che non ha il dovuto riscontro, ovvero che quel “trattamento morbido” non esiste, che non c’è alcuna trasmissione benevola nei confronti dei due sindaci di Borgetto e Partinico e che, nell’arrivare a questa affrettata conclusione, come ha detto uno dei giudici, Vittorio Teresi, “ci siamo fidati dei carabinieri”. Altra trovata: non essendoci ancora processo, bisognava pure studiare qualcosa per dimostrare all’opinione pubblica che un provvedimento era stato adottato, perché sotto c’era qualcosa di penalmente rilevante, e allora si è pensato di adottare la misura cautelare del divieto di dimora nelle province di Palermo e Trapani. Perché? Quale reato avrebbe potuto reiterare Maniaci, al punto da disporne l’allontanamento dalla sua televisione? Pare di capire che l’obiettivo non tanto occultato, è stato quello di togliere alla televisione il suo principale protagonista e provocarne la chiusura. Caduto l’elemento d’accusa, dal momento che i pochi euro “estorti” ai due sindaci riguardavano, da una parte il pagamento d’una pubblicità, dall’altra una sorta di contributo assistenziale “per comprare il latte” o qualche vestitino a una bambina malata, figlia di una donna sposata con un “malacarne” e additata a tutta Italia come la sua “amante”, si è disposta la revoca della misura, costata a Maniaci una ventina di giorni d’esilio, e si è trovato un altro escamotage per tornare a riproporne l’allontanamento: c’era un passaggio, nelle intercettazioni, tra l’ex sindaco di Borgetto Davì e il già citato Polizzi in cui si parla della commissione, da parte di Maniaci, di un blocco di magliette che non sarebbero mai state pagate, così come non erano stati pagati tre mesi d’affitto per ospitare alcuni ragazzi di Telejunior. Polizzi ha negato tutto, ma è stato indagato per le discordanze tra l’intercettazione e la sua dichiarazione, mentre Davì, che aveva concesso a Maniaci l’uso provvisorio di uno stabile affittato come sede della Protezione civile, non è stato mai sentito. A questo punto il ricorso è finito in Cassazione, la quale, ad ottobre, dovrà pronunciarsi se reiterare l’allontanamento di Maniaci, dopo che egli è rientrato da parecchio tempo in sede e non ha reiterato alcun reato. Sono vicende che sfiorano il comico e l’incredibile, ma che svelano quanta acredine e quanta determinata voglia di “fottere” Maniaci, di colpirlo e di mettere a tacere la sua emittente, ci sia dietro. Il montaggio del video e la contestuale distribuzione delle registrazioni delle intercettazioni sembra uno dei capolavori usati per avere lo strumento principe nella demolizione dell’immagine di Maniaci. C’è tutto: il sindaco di Borgetto che gli conta i soldi in bella mostra, la sparata offensiva nei confronti della telefonata di Renzi, il disprezzo per una targa-premio che gli era stata conferita, gli apprezzamenti della presunta amante sulla capacità, anzi sulla “potenza” di Maniaci nel tenere in scacco gli amministratori di Partinico, il disprezzo per tutte le istituzioni, dai politici, alle forze dell’ordine, a magistrati, definite corrotte ed espressione del malaffare e infine l’accusa più infamante, quella di avere utilizzato l’uccisione dei due cani, di cui egli conosceva l’esecutore, non come un atto di gelosia di un marito cornuto, ma come un attentato mafioso nei confronti della sua attività giornalistica… Per quest’ultimo caso viene abilmente occultata la denuncia, presentata da Maniaci, con l’indicazione della persona da lui sospettata e non si fa alcun accenno al fatto che, non essendo stata questa persona indagata, interrogata o ritenuta responsabile, avrebbero potuto essere proprio i mafiosi borgettani con i quali egli è stato messo insieme nell’operazione Kelevra, ad aver compiuto il barbaro gesto. Una volta confezionata la polpetta avvelenata ci sono, ci siamo cascati tutti, senza renderci conto che dietro tutto non c’erano reati, ma elementi d’accusa deboli, ma erano evidenti altri elementi che riguardavano il senso della morale, nei confronti di una persona atteggiatasi a fustigatore dei costumi e a giudice delle immoralità altrui. Persino i più noti antimafiosi, come Lirio Abbate, che ha chiesto a “Reporters sans Frontieres” di cancellare il nome di Maniaci dall’elenco dei giornalisti a rischio, o Claudio Fava, che, sbagliando premio, ha dichiarato Maniaci indegno di potere ricevere il premio Mario Francese hanno condiviso quanto propinato dai magistrati. Un passaggio che occorre inserire nel quadro di questa indagine è la nomina a Palermo del Procuratore Lo Voi, inframezzata dai ricorsi dei colleghi Lari e Lo Forte e dalle supplenze del procuratore Facente Funzione Leonardo Agueci, indicato da Maniaci e da qualche altro giornalista, come cugino della titolare della distilleria di Antonina Bertolino, a Partinico, uno dei suoi principali bersagli. Lo Voi, la cui nomina è stata definita come una “nomina politica”, ovvero voluta direttamente da Renzi e da Alfano, si è insediato a Palermo nel 2015. Fa parte della corrente di Magistratura Indipendente, la stessa di quella della Saguto e di Tommaso Virga. Egli ha affermato subito che l’indagine sulla Saguto è partita su segnalazione del tribunale di Palermo, da Caltanissetta si affrettano a dire, subito, che Maniaci non c’entra niente, certamente è lui ad affidare il caso “Maniaci”, più nove, a quattro magistrati, Teresi, Del Bene, Picozzi, Tartaglia e Luise, che si occupano di vicende di mafia e che con una dedizione più degna di altra causa, hanno usato i giornalisti che ruotano attorno alla procura come amplificatori di una strategia che sembra avere qualche tinta diffamatoria. La materia prima su cui muoversi è data da quanto è in mano alla caserma dei carabinieri di Partinico, la quale, per un verso non invia più le informazioni sulla propria attività a Telejato, per l’altro assicura ancora la tutela. La pubblicazione di pruriginose intercettazioni con la ragazza definita amante offre Maniaci in pasto alle possibili ritorsioni e all’eventuale rischio della vita, da parte di un soggetto che potrebbe ancora voler vendicare il proprio onore ferito. Una preoccupante sentenza di morte che avrebbe potuto essere evitata se chi ha diffuso intercettazioni che non avevano nulla di penalmente rilevabile, ma che riguardavano la vita privata, le avesse cancellate o omesse. È di questo che Maniaci accusa la Procura e i Carabinieri, in una sua denuncia. Altre cose sono in itinere, ma sembra profilarsi all’orizzonte una ben più preoccupante situazione, quella di una sorta di gioco di fioretto tra l’ex magistrato Antonio Ingroia, difensore di Maniaci, che conosce bene tutti i modi di muoversi e d’agire dei suoi ex colleghi, e quella di costoro, che forse ci tengono a dimostrare che sono più bravi di lui e che, in un modo o nell’altro troveranno come condannare Maniaci, almeno in primo appello, mentre continua all’infinito la strategia della graticola, quella su cui venne bruciato San Lorenzo, di cui oggi ricorre l’anniversario: cuocere a fuoco lento l’imputato, sino a demolirne progressivamente qualsiasi capacità di difesa. Cosa che potrebbe andare bene quando l’imputato è colpevole. Si può concludere che la motivazione strisciante di tutto quello che è successo sarà stata presa un po’ più in alto, da parte di qualcuno che ha ritenuto essere arrivato il tempo di chiudere un’emittente anomala che non sa stare in linea con il modo di agire delle altre emittenti. E cioè siamo sempre lì, nel conformismo dell’informazione, che ha relegato l’Italia agli ultimi posti per la libertà di stampa.

Sul rapporto tra i Carabinieri e Telejato, scrive il 6 agosto 2016 Salvo Vitale su Telejato. COM’ERA E COS’È CAMBIATO DOPO L’OPERAZIONE KELEVRA. Il video diffuso in tutta Italia su Pino Maniaci e i testi delle intercettazioni ripropongono il problema del ruolo che hanno avuto i carabinieri dietro tutta questa vicenda e lascia diversi interrogativi sulle motivazioni che stanno dietro le loro azioni. Va premesso che Telejato ha sempre avuto con i carabinieri uno stretto rapporto di collaborazione, che ne ha da sempre trasmesso i comunicati, anche quando questi riguardavano trascurabili vicende, tipo il sequestro di un grammo di marjuana e di 20 euro considerati come proventi della sua vendita. Ai carabinieri sono state dirottate alcune lettere anonime, ben dettagliate su nomi e affari loschi, ricevute a Telejato. Con i carabinieri, e in particolare con una figura “leggendaria”, come il capitano Cucchini, sono state portate avanti alcune attività che poi hanno condotto al sequestro dell’impianto della distilleria Bertolino, chiusa per quattro anni o all’arresto dei Fardazza e alla lotta per la demolizione delle stalle. Va detto che Cucchini aveva spostato l’allora Nucleo Operativo, che ancor oggi è composto dalle stesse persone e che scherzando abbiamo ribattezzato Nucleo aperitivo, a espletare servizi d’ufficio e si era servito di personale più giovane. Il principio da lui seguito era che dopo trent’anni, poco più poco meno, chi lavora in una caserma diventa sì un esperto del territorio e dei suoi problemi, ma può talmente affezionarsi al suo ruolo sino a mettere casa e famiglia e ad avviare contatti, richieste di lavoro per i propri familiari e conoscenze che potrebbero finire con il gettare un cono d’ombra sulla trasparenza dell’operato dal personale di cui parliamo. Non saremo noi a parlare di queste cose, in quanto, se ne hanno voglia, spetta a chi fa le indagini indagare, magari anche al proprio interno. Ottimo anche il rapporto con i carabinieri ai quali è stato affidato l’incarico di far la tutela a Maniaci. Il 2013 è un anno in cui cominciano le intercettazioni che riguardano Maniaci, ma è anche l’anno in cui vengono spediti alla caserma di Partinico il capitano De Chirico e il tenente Alimonda, i quali fra poco, ultimati i loro tre anni, saranno promossi e trasferiti. Di qualcuno di essi Telejato ha detto che a Partinico non ci volevano ragazzini di 22 anni usciti dal corso da poco, ma gente con le palle quadrate. Apriti cielo!!! A qualche altro che gli chiedeva come mai la gente si rivolge a Telejato e non ai carabinieri, Maniaci ha detto che la gente ritiene Telejato un’istituzione più seria di altre istituzioni. Anche qua apriti cielo. E tuttavia anche questo sembra troppo poco per motivare alcune azioni, come quella della diffusione del “gossip” ovvero di tutta una serie di telefonate personali tra Maniaci e la sua presunta amante, che non hanno alcuna rilevanza penale, ma tali da ingenerare nel di lei marito la volontà di arrivare all’eliminazione fisica della persona che aveva offeso il suo onore. E che tale sospetto sia, sino ad oggi, motivato, lo si può ricavare dalla fedina penale dell’interessato, che risulta, agli atti, essere tossicodipendente (è schedato al SERT come cocainomane), alcolizzato, spacciatore, individuo violento con sei denunce fatte dalla moglie per maltrattamenti vari, al punto che questa ha scelto la separazione. Ultimamente è stato beccato con otto grammi di cocaina e un coltello a serramanico ma rimesso a piede libero. Quindi è evidente, dopo la diffusione delle telefonate morbosamente registrate dai carabinieri di Partinico, che l’esposizione di Maniaci, ne comporta il rischio dell’eliminazione fisica. Inutile chiedersi se i carabinieri si sono posti il problema e come mai la loro “presa di distanze” è arrivata al punto che non vengono più fornite notizie e informazioni all’emittente Telejato, mentre, per contro, viene ancora effettuata la tutela. C’è qualcosa che non funziona.

Salvo Vitale è stato un compagno di lotte di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso un percorso politico e di impegno sociale che ha portato entrambi ad opporsi a Cosa Nostra, nella Cinisi governata da Tano Badalamenti, il boss legato alla Cupola guidata negli anni Settanta da Stefano Bontate.

I 100 EROI DELL’INFORMAZIONE SONO 99 – GIUSTIZIALISMO TRIONFERÀ. REPORTER SENZA FRONTIERE CONDANNA PINO MANIACI ALLA DAMNATIO MEMORIAE. Quanti sono i 100 eroi mondiali dell’informazione? Sembra una domanda simile a quella sul colore del cavallo bianco di Napoleone, ma è meno scontata di quanto appaia. Perché i “100 Information heroes” selezionati da Reporters sans frontières, la nota ong che si occupa di libertà di stampa, in realtà sono 99. Ne manca uno, tra l’altro uno dei due italiani originariamente presenti nella lista, il giornalista siciliano Pino Maniaci (l’altro è Lirio Abbate, che invece mantiene lo status di eroe). Maniaci era entrato nel club dei 100 giornalisti che nel mondo si erano distinti per aver svolto il loro lavoro in contesti pericolosi e per aver affermato il principio della libertà di stampa anche a rischio della propria incolumità. Reporter senza frontiere (Rsf) descriveva Giuseppe ‘Pino’ Maniaci come il coraggioso direttore di “una piccola stazione televisiva antimafia”, Telejato, che si occupa di “omicidi e racket, che sono una parte della vita quotidiana in Sicilia”. “È stato citato in giudizio centinaia di volte e ripetutamente minacciato e una volta è stato picchiato dal figlio di un boss mafioso”. Ora però sul sito Rsf la foto di Maniaci non c’è più, al suo posto c’è uno spazio vuoto, la sua scheda è stata eliminata: i 100 eroi sono diventati 99 e la ong che si batte per la libertà di stampa non spiega da nessuna parte perché. Cos’è successo? A maggio su tutti i giornali è scoppiato il “caso Maniaci”: il giornalista impegnato da anni nella lotta alla mafia e all’illegalità è indagato dalla procura di Palermo con l’accusa di estorsione, avrebbe ricevuto da alcuni sindaci poche centinaia di euro e favori in cambio di soldi. Pochi spiccioli, ma comunque un comportamento deprecabile. Dalle intercettazioni sono emersi altri aspetti poco piacevoli, come ad esempio la possibilità che alcune intimidazioni che avrebbe subìto – e per cui aveva ricevuto la solidarietà anche del premier Matteo Renzi – in realtà non sarebbero minacce mafiose ma vendette personali del marito della sua amante. Maniaci ne era consapevole, ma ha cavalcato l’ipotesi dell’intimidazione per aumentare il proprio prestigio di giornalista antimafia. In ogni caso questi aspetti più personali, per quanto censurabili, non vengono contestati dalla procura e rispetto alle accuse di estorsione il giornalista si difende dicendo che il passaggio di denaro si riferisce all’acquisto di spazi pubblicitari. L’indagine va avanti e, come si suol dire, la giustizia farà il suo corso. Rsf invece ha già emesso una sentenza di condanna, senza però pubblicare la sentenza. Perché Maniaci è stato rimosso dal sito? Ne è stato informato? Rsf ha pubblicato un comunicato ufficiale sulla vicenda? “Ci è capitato di apprendere che l’onestà di Giuseppe Maniaci è stata seriamente messa in discussione e che lo scorso maggio è stato incriminato”, ha risposto alla richiesta di spiegazioni del Foglio il chief editor di Rsf Gilles Wullus. “Fino a quando l’indagine non sarà fnita, abbiamo scelto di ritirarlo dalla nostra lista di ‘Eroi dell’informazione’”. La scelta sarebbe anche legittima, ma restano aperte alcune questioni gravi sul modo di operare della ong che stila classifiche sulla libertà d’informazione del mondo. La prima è un dettaglio, che però indica il livello di approfondimento che Rsf ha dedicato alla vicenda: Maniaci non è “incriminato”, ha solo ricevuto un avviso di garanzia e i pm non hanno ancora chiesto il rinvio a giudizio. L’altra è la totale assenza di trasparenza: mai Rsf ha comunicato che la posizione di Maniaci è sospesa e per quali motivi, né ha chiesto spiegazioni al giornalista, sia per avere gli elementi per una valutazione giusta sia per garantire il diritto di difesa. Rsf ha semplicemente sbanchettato Maniaci, come si faceva in Unione Sovietica con le foto dei compagni caduti in disgrazia dopo le purghe, come fanno ancora oggi tutti quei regimi autoritari e totalitari nemici della libertà di stampa. Al posto della sospensione e di un giudizio pubblico e trasparente, Rsf ha scelto la damnatio memoriae, la cancellazione di ogni traccia del sospetto, come se Maniaci non fosse mai stato uno dei 100 “Eroi dell’informazione”. Che Rsf e i suoi premi non sono una cosa seria l’aveva intuito lo stesso Maniaci che, mentre in pubblico era impettito per il premio simbolo del giornalismo impegnato, in un’intercettazione diceva: “M’hanno invitato dall’altra parte del mondo per andare a prendere il premio internazionale del cazzo di eroe dei nostri tempi”. Non più dell’informazione, ma eroe della sincerità. Il Foglio Quotidiano – anno XXI numero 179 – pag. 2 – 30/07/2016 Autore: Luciano Capone

Il dito e la Luna. A proposito di Pino Maniaci di Telejato. L’opinione del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Chi parla di Mafia e antimafia dice a sproposito la sua e non so cosa ne capisca del tema. Chi mi conosce sa che sono disponibile a dar lezione! Nel caso di Pino Maniaci ci troviamo a bella a posta a sputtanare qualcuno con notizie segretate con tanto di video e senza sentire la sua versione, così come io ho fatto. A prescindere dal caso specifico, Pino Maniaci da vero giornalista ha indicato sempre la luna e ora si sta a guardare questo cazzo di dito. Vi siete chiesti perché tutto è successo nel momento in cui è stata attaccata “Libera” ed i magistrati e tutta la carovana antimafia con i suoi carovanieri? In quel momento i paladini mediatici e scribacchini dell’antimafiosità ed i magistrati delatori (non è sempre un reato?) si son dati da fare a distruggere un mito, prima di una sentenza. I codardi, poi, che prima osannavano Pino, oggi lo rinnegano come Gesù Cristo. Comunque io sto con chi ha le palle, quindi con Pino Maniaci. Mi dispiace del fatto che a Palermo si vede la Mafia anche dove non c’è, giusto per sputtanare un popolo e fottersi i beni delle aziende sane. E di questo tutti tacciono. Se a Palermo si stanno dissequestrando i beni sequestrati dagli “Antimafiosi” è grazie a Pino. Pino colpevole, forse, anche perché in Italia nessuno può dirsi immacolato, ma guardiamo la luna e non sto cazzo di dito.

Parla l’avvocato dei boss: «Ecco i misteri di via D’Amelio che non conoscete». La guerra intestina tra Riina e Provenzano, il depistaggio di Vincenzo Scarantino, le lacune delle inchieste. E la domanda più inquietante: fu davvero una 126 ad esplodere in via D’Amelio? Il racconto dell’avvocato Rosalba Di Gregorio a Manuel Montero su “Fronte del Blog” il 30 agosto 2014. Dal suo ufficio i boss sono passati in massa. Il primo fu Giovanni Bontate, fratello di Stefano, alias il Principe di Villagrazia e gran capo di Cosa Nostra prima che i Corleonesi lo ammazzassero dando vita alla seconda guerra di mafia. Poi ci furono i Vernengo e Francesco Marino Mannoia. E ancora Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore, Michele Greco detto il Papa della mafia. E ora Bernardo Provenzano, Binnu u tratturi. Dallo speciale osservatorio che si è costruita, l’avvocato Rosalba Di Gregorio ha potuto raccontare così l’ “altra faccia” delle stragi. E lo ha fatto con Dina Lauricella nel libro non a caso intitolato “Dalla parte sbagliata” (Castelvecchi), un volume che rappresenta un pugno nello stomaco per chi (quasi tutti, in verità) ritiene il 41bis un regime di detenzione degno di una società civile: ne narra gli orrori da Guantanamo, le inutili crudeltà, le indescrivibili pressioni fisiche e psicologiche. Fatte anche su chi, come abbiamo scoperto di recente, ci è finito dentro per quasi vent’anni da innocente: i sette malcapitati trascinati al 41bis dal falso pentito di via D’Amelio, Vincenzo Scarantino. Ma il libro fa molto di più: mette a nudo le pecche dei pentiti, chi tra loro confessa a rate lunghissime, chi di volta in volta aggiunge, sottrae e corregge le versioni senza mai pagarne il conto. Col rischio che raccontino storie molto lontane dalla realtà. Ma è proprio sulla vicenda di Scarantino che il legale può illuminarci, dato che, alcuni di quei malcapitati innocenti, li difendeva lei.

Lei dice che si vedeva subito che le dichiarazioni di Scarantino erano una farsa.

«L’unico riscontro che esisteva alle sue parole era la 126 esplosiva che uccise Paolo Borsellino e la sua scorta. Tutto il resto erano cose surreali. Spiegò che la decisione di uccidere il magistrato era avvenuta in casa di un uomo, tale Giuseppe Calascibetta, intorno al 25 giugno 1992, a cui parteciparono capi di Cosa Nostra di qualsiasi grado, cosa già di per sé impossibile. Ma incredibile è il fatto che fu creduto quando disse di averlo sentito perché lui, che doveva aspettare fuori, ad un certo punto, avendo sete, entrò a prendere in frigorifero una bottiglia d’acqua. Anziché fermarsi o cacciarlo o qualsiasi altra iniziativa, proprio allora tutti avrebbero parlato dell’attentato da fare in via D’Amelio. Ci sarebbe da ridere se non fosse una tragedia. E il guaio è che è il meno».

Cioè?

«Scarantino raccontò le modalità con cui era stato affiliato, una specie di rimpatriata tra amici, finita al ristorante. Non era incredibile solo la narrazione, ma proprio lui, che aveva rapporti con una transessuale, cosa che un uomo d’onore non avrebbe fatto mai. Non riuscivo a credere che i magistrati lo ritenessero attendibile. E infatti non lo era. Ma quando raccontò delle torture subite per farlo confessare nessuno gli diede retta, anzi…»

Lei scrive che voi avvocati foste accusati dai giudici di cambiare le carte in tavola, per usare un eufemismo…

«Fosse solo questo. I pm Anna Palma e Nino Di Matteo ci denunciarono due volte per il caso Scarantino. La prima volta quando scoprimmo l’esistenza di tre confronti che altri pentiti avevano avuto con lui, confronti a lungo negati dai pm. Quando ne chiedemmo l’acquisizione da un altro procedimento, dissero che non servivano. Noi li denunciammo per falso, loro per calunnia. Tutto archiviato. La seconda volta accadde, quando Scarantino ritrattò la sua confessione in aula: due legali furono accusati di essere le menti occulte a disposizione di Cosa Nostra che lo avevano convinto a cambiare idea. Un’altra fesseria, archiviata per buona sorte. Oggi sappiamo che Scarantino davvero era un poveraccio, uno che di mafia non sapeva nulla, neurolabile riformato dal servizio di leva, le cui confessioni erano studiate a tavolino e per arrivare alle quali subì un trattamento orrendo nel carcere di Pianosa».

Cosa sappiamo della strage di via D’Amelio?

«Praticamente dopo tre processi non sappiamo granchè. Non si sa quando avvenne, se avvenne, una riunione deliberativa per deciderne la morte. Non sappiamo il movente. Non sappiamo da dove fu azionato il telecomando esplosivo. Non sappiamo quanti parteciparono, perché ognuno conosceva un segmento delle azioni. Non sappiamo neppure come faceva Cosa Nostra a sapere dell’arrivo di Borsellino proprio quella domenica. Le nuove indagini stanno cercando di far luce, ma sono penalizzate di ventidue anni. E da vari elementi che agli atti non si trovano».

E quelli che hanno partecipato?

«Dicono tutti di aver preso ordini da Salvatore Biondino, di solito definito l’autista di Riina, in realtà il reggente del mandamento di S.Lorenzo, il cui capomandamento Giuseppe Giacomo Gambino, era stato arrestato».

La 126 esplosiva. Nel libro lei esprime dubbi sul fatto che sia stata davvero quella l’arma usata in via D’Amelio.

«Guardi, sulla copertina del libro c’è una foto un po’ ridotta rispetto a quella che ho qui nel mio ufficio, scattata dal palazzo di fronte a quello della sorella del giudice Borsellino. È stata fatta la mattina del 20 luglio 1992. La strada è deserta. Eppure dopo le 13,30 venne recuperato lì, di fianco alla Croma che c’è sulla foto senza nulla intorno, il motore della 126, una cosa da 80 kg, non roba piccola, mi spiego? Ho chiesto di acquisire tutti i filmati e le foto del 19 luglio, il blocco motore non appare da nessuna parte. Nessuno lo vede questo motore, 80 kg che regge in tre processi. Noi sappiamo però quattro cose. La prima è che un pentito, Giovan Battista Ferrante, disse che loro l’esplosivo l’avevano piazzato in un fusto ricoperto da 200 litri di calce e non nella 126. La seconda è che il consulente di parte Ugolini chiese in aula come mai non fosse stato repertato un grosso frammento “stampato” sul cratere dell’esplosione. La terza è che la scientifica di Palermo riempì 60 sacchi della pattumiera con tutto ciò che era stato trovato a terra, ma senza mettere a verbale reperto per reperto inviandole a Roma, a disposizione solo dell’Fbi. La quarta la raccontò Scarantino in aula al momento di ritrattare la confessione. Disse che, quando era sotto protezione, godeva della compagnia sostanziale e inspiegabile dei poliziotti del gruppo d’indagine Falcone-Borsellino. E ricordò che uno di loro gli aveva spiegato come in realtà la 126 fosse stata fatta esplodere in una discarica e i pezzi poi portati lì per incolpare gli imputati. Naturalmente fu giudicata “ridicola” la sua affermazione. Però…».

Però?

«Ci sarebbe una quinta cosa, un’agenzia Ansa scomparsa».

Prego?

«Un’ora dopo la strage uscì un’agenzia nella quale si diceva che grazie ad una felice intuizione investigativa si era scoperto che la causa dell’esplosione era stata un’autobomba 126. Un’ora dopo! Ne feci copia, una per me e una da depositare. La mattina successiva entrai in ufficio ed entrambe erano sparite. L’agenzia sull’archivio Ansa oggi non c’è. D’altra parte c’era confusione. Il pm di turno fu avvisato della strage alle 18,40, quando sulla scena del crimine era entrato l’universo mondo. Solo un quarto d’ora dopo l’area fu recintata. Nel frattempo, mentre in via D’Amelio si addensavano centinaia e centinaia di persone, la polizia aveva capito che l’autobomba era una 126. Non me lo spiegherò mai».

Lei non crede dunque alla ricostruzione di Spatuzza?

«Certo, ma Spatuzza racconta solo del furto della 126. Ciò che accadde una volta consegnata l’auto non può saperlo e infatti non lo dice, perché fu fatto allontanare da Palermo».

Non ritiene valido neppure il teorema Buscetta sull’unitarietà e l’aspetto verticistico di Cosa Nostra.

«Con queste ultime sentenze su via D’Amelio sappiamo che il mandamento della Guadagna, quello di Pietro Aglieri, con le stragi del ’92 e ‘93 non c’entrava nulla. E non poteva che essere così, perché ad Aglieri Riina aveva chiesto di ammazzare uno dei parenti di Totuccio Contorno, condannato a morte dai Corleonesi. Ma Aglieri, quando aveva visto la vittima con il bimbo in braccio si era rifiutato di ucciderlo. Lo riferì a Provenzano e lui fu d’accordo. Ma Aglieri non entrò più nelle grazie di Riina. Fu Borsellino a dire che Riina e Provenzano erano due pugili che si guardavano in cagnesco. Si trattava di un gruppo non più unitario nelle idee e nel metodo. Io l’ho constatato in diverse sentenze, con assoluzioni del gruppo di Provenzano rispetto a fatti in cui quelli di Riina erano stati condannati. Con Riina c’erano Brusca, Graviano e Spatuzza, non Provenzano. D’altra parte il pentito Giuffrè disse che già nel 1989 Riina gli aveva chiesto a che ora Binnu uscisse di casa. Evidentemente perché lo voleva ammazzare».

L’agenda rossa di Borsellino che fine può aver fatto?

«Guardi, intanto Arnaldo La Barbera, il capo della mobile di Palermo e poi del gruppo Falcone-Borsellino, qualche giorno dopo la strage disse che l’ “agenda telefonica” di Borsellino molto probabilmente era andata distrutta nell’esplosione e che non era stata ritrovata. Un’agenda che il sostituto procuratore Ignazio De Francisci diceva essere importantissima. Poi sappiamo che l’agenda marrone era stata ritrovata e, dalla testimonianza del pm dell’epoca Fausto Cardella al Borsellino quater sappiamo che anche l’ “agenda telefonica” è stata infine trovata. Ed era nella borsa di Borsellino apparsa, non si sa come, proprio nell’ufficio di La Barbera. Ecco, intanto sappiamo questo, che La Barbera fosse o meno il collaboratore dei servizi segreti col nome di Rutilius. Ma se per via D’Amelio i misteri sono ancora moltissimi, non è che per la strage di Capaci noi si sappia poi moltissimo».

Cioè?

«Neppure lì sappiamo molto sulla riunione deliberativa per ammazzarlo. Nel senso che una sentenza di Catania che riuniva stralci delle stragi di Capaci e di via D’Amelio colloca la riunione tra il novembre e il dicembre del 1991, basandosi sulle dichiarazioni del pentito Nino Giuffrè. Giuffrè raccontò che nell’occasione si erano ritrovati tutti i capi. E Riina, avendo avuto notizie che il maxiprocesso non sarebbe stato cassato, disse che era arrivata l’ora della resa dei conti. E che era venuto il tempo di ammazzare Lima, Falcone e Borsellino. A marzo, aveva dunque mandato a Roma Gaspare Spatuzza e altri per pedinare Falcone e poi ammazzarlo per vendetta. Senonchè, alla fine, il gruppo era stato chiamato indietro da Biondino perché bisognava fare la strage di Capaci. Come si passa dalla vendetta con un colpo di pistola alla strage di Capaci? Chi, quando, dove, come e perché lo ha deciso? Non si sa».

Riina: mi fece arrestare Provenzano. Avrebbe confidato queste parole al poliziotto Bonafede nel 2013. E sul bacio di Andreotti: «Lei mi vede a baciare quell’uomo? Però sono sempre stato andreottiano», scrive “Il Corriere del Mezzogiorno” il 30 giugno 2016. La cattura, la presunta trattativa e il leggendario bacio ad Andreotti. Al processo Stato-Mafia piombano, e sono sempre macigni, le parole di Totò Riina. Utili per una serie di riscontri. In particolare, vengono riportate le confidenze che Riina avrebbe fatto al poliziotto Michele Bonafede nel carcere milanese di Opera. «A me mi hanno fatto arrestare Bernardo Provenzano e Ciancimino e non come dicono i carabinieri» avrebbe detto l’ex Capo dei capi all’agente il 21 maggio 2013. L’episodio, ricordato oggi dal poliziotto durante il processo Stato-mafia, confermerebbe quanto detto dal figlio di Ciancimino, Massimo, che per primo ha parlato del ruolo del padre e del capomafia di Corleone nella cattura di Riina. Al boss i carabinieri sarebbero arrivati grazie all’indicazione del covo segnata da Provenzano nelle mappe catastali fattegli avere dal Ros attraverso Vito Ciancimino. L’udienza si sta svolgendo nell’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo. «Ma è vera la storia del bacio ad Andreotti?» gli chiese poi l’agente. «Appuntato, lei mi vede a baciare Andreotti? - rispose il boss - Le posso solo dire che era un galantuomo e che io sono stato dell’area andreottiana da sempre». Su un’altra frase del boss, raccolta da Bonafede e da un altro agente, Francesco Milano, il 31 maggio 2013 mentre si recavano nell’aula per le videoconferenze del carcere («Io non ho cercato nessuno, erano loro che cercavano me»), in aula sono emerse due versioni discordanti. Bonafede ricorda che il boss avrebbe aggiunto «per trattare», mentre Milano ha riferito che il capomafia disse in siciliano stretto: «Il non cercai a nuddu (nessuno,ndr), furono iddi (loro, ndr) a cercare a mia (a me, ndr)». Senza aggiungere altro, né spiegare il contesto. «Io sono stato 25 anni latitante in campagna - avrebbe riferito a Bonafede, come scritto dall’agente nella relazione di servizio - senza che nessuno mi cercasse, come è che sono responsabile di tutte queste cose? Nella strage di Capaci mi hanno condannato con la motivazione che essendo il capo di Cosa Nostra non potevo non sapere. Lei mi ci vede a confezionare la bomba di Falcone?». Poi il padrino avrebbe aggiunto: «Brusca non ha fatto tutto da solo. Lì c’era la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l’agenda del giudice Paolo Borsellino. Perché non vanno da quello che aveva in mano la borsa e non si fanno dire a chi ha consegnato l’agenda? In via D’Amelio c’entrano i servizi che si trovano a Castello Utveggio e che dopo cinque minuti dall’attentato sono scomparsi, ma subito si sono andati a prendere la borsa».

Bernardo Provenzano. Il padrino. L’ultimo atto. Una lenta agonia di Stato Così si è spento Zu Binnu. Ormai non riusciva più a nutrirsi e pesava solo 45 chili, scrive Lu. Ro. su “Il Tempo” il 14 luglio 2016. Disteso sul letto, come morto, nel reparto di medicina protetta dell’ospedale San Paolo nel carcere milanese di Opera. I capelli lunghi e addosso il camice del nosocomio. Peso: 45 chili. Incapace di muoversi, di interloquire, di capire cosa accadeva intorno a lui. E anche di nutrirsi. A farlo ci pensava un sondino naso-gastrico, che andava non più dal naso allo stomaco, ormai non funzionante, ma direttamente all’intestino. In queste condizioni il boss dei boss Bernardo Provenzano ha abbandonato questo mondo. È così che lo Stato italiano, dopo anni di dinieghi e inspiegabili prese di posizione, alibi più o meno adattabili alle drammatiche circostanze e spiegazioni inammissibili, ha voluto far morire Zu Binnu. Senza pietà. Senza compassione. Senza umanità. Non sono bastate le battaglie del suo avvocato, Rosalba Di Gregorio, a restituire un minimo di dignità umana a chi, certo, non ne ha avuta; non è stato...

Lo stato confusionale di Provenzano. Quando il boss perse la lucidità, scrive Riccardo Lo Verso il 13 Luglio 2016 su “Live Sicilia”. Pensieri sconclusionati, frasi incomplete, una sorta di balbettio scritto che lo porta a ripetere più volte una parola, uno stato confusionale che si manifestava nel non sapere dove e perché fosse detenuto. Le lettere che Bernardo Provenzano scriveva ai suoi familiari sarebbero state la prova che il padrino corleonese negli ultimi tempi era gravemente malato. “Delle due l'una: o siamo di fronte a un grande simulatore oppure a un uomo gravemente malato e dissociato dalla realtà”, diceva i legale di Provenzano, Rosalba Di Gregorio, che ha condotto una inutile battaglia per ottenere un regime carcerario meno afflittivo. Erano i giorni in cui gli esami diagnostici avevano evidenziato delle lacune cerebrali dovute a un'ischemia. Una patologia che si aggiungeva al tumore alla prostata confermato dalle perizie. A fare suonare il primo campanello d'allarme sulle condizioni di salute di Provenzano era stata una lettera del 5 marzo 2001. Al di là dei limiti grammaticali di una persona non scolarizzata, i ragionamenti erano lineari. Il boss spiegava alla moglie di essere stato sottoposto ad alcune visite mediche. In alcuni passaggi, però, si leggevano parole ripetute senza una logica: “Amore mio carissimo. E figli Angelo e Paolo con gioia ho ricevuto la vostra lettera... amore mio carissimo non ricopio a tutto quello che mi chiedi spero spero spero con il tempo di spiegarti... amore mio mi dice se sò cosa anno scritto nel diario diario non l'ho letto ma tu mi che ho avuto una eschemia, non so cosa sia...” L'11 maggio Provenzano riprendeva carta e penna. Il destinatario era ancora la moglie: “Oggi mercoledì 11 maggio. Amore mio ho ricevuto la tua lettera. Amore mio grazie delle notizie che al ritorno che avete avuto un buon viaggio. Amore mio mi dici che ero troppo sofferente e ne se addoloratissima. Che cosa mi hanno fatto, se c'erano i dottori che mi hanno visitato, se mi hanno cambiato le medicine Non lo so Amore mio vuoi sapere che sto Amore mio sento stanco...”. A un certo punto il ragionamento si interrompeva e riprendeva con una datazione diversa: “02-05-2001 tuo marito che ti pensa Amore mio e figli Angelo e paolo carissimi smetto con la penna non con il cuore... - chi scrive perde lucidità - che smetto con la presente e ne ricevo un'altra ricevuta ieri giovedì di paolo, che con il volere di Dio iniziare quella che ho ricevuto dopo da paolo e scritto te amore mio. Ora con piacere a rispondere in quella lunga tua - e lascia il periodo tronco - Con quello che mi succede nel rispondere con affetto segue i seguito...”. Il 23 maggio Provenzano sceglieva un telegramma per comunicare con il fratello Salvatore. "Mio caro fratello e Figlio come state padre e figli si unanomia si incoraggia essendo due. Io vi chedo scusa, e cioè mi prometto di scrivervi e sorte no veglio chiare vi sforzano a emesso senza scrivere e il mio pensiero s sforza e si vede la mia vecchiaia e aspetta oggi aspetta domani ho ensato di scriverti ora smetto con la penna non con il cuore augurandovi un mondo di bene per tutti vi benedica il signore che vi protegge vi benedica il signore vi protegge”. Il 9 giugno 2001 Provenzano sembrava smarrito: “Ma io sono qui da solo non so dove sono sono. Oggi c'è la videconferenza non ci vado per scrivere e voi potete parlare con l'avvocato dicci la nostra posizione ed chiedere per ottenere colloqui tra noi i mia moglie e i mie figli Angelo paolo e mamma con lo sta bene con l'avvocato perché io sono forse più malato di quello che vi dico”. Poi, fornisce il suo indirizzo ai parenti come se mai prima d'ora non avesse ricevuto le loro lettere: “Ripeto se potete parlati parlare con l'avvocato della mia posizione vi do il mio indirizzo: Sono in via Burla numero n.53.L3:100 Parma. Con questo mi potete scrivere mi potete venire attrovare ce possiamo parlare di presenza oppure uno scritto dopo che avete parlato con l'avvocato così cerchiamo la serenità che ci manca a tutti...”. Sempre a giugno Provenzano scriveva di nuovo. Forse era una risposta alla moglie e ai figli che gli chiedevano cosa volesse portato al prossimo colloquio. Il capomafia, invece, di rappresentare le sue esigenze, si limitava a ricopiare il contenuto della lettera che ha ricevuto: “Avevo tue amore mio mi dici che stai in pensiero la mia salute ma io ho pensieri per la mia salute se ho capito bene e studiare e comprendere nella mia miseria... Figlio mio mi addolora tanto con la desolazione e triste Figlio Angelo mi dici scrivi tutto quello che capita e che succede Ho chiesto ho chiesto il foglio per edere per il foglio per vedere per vedere cosa ti posso portare per il prossimo colloquio qui scrivimi quello che posso portare Amore mio chiudi la lettera augurandoti sempre di stare meglio”.

Provenzano è uscito dal carcere, scrive Simona Musco il 13 luglio 2016 su "Il Dubbio". Il boss alla fine è morto. Era in coma da anni ma restava al 41 bis. È già guerra sui funerali. «Qui non lo vogliamo». Bernardo Provenzano era già morto. Lo era già due giorni fa quando, ormai in coma, il giudice di sorveglianza di Milano 2 aveva respinto l’ennesima istanza presentata dall’avvocato Rosalba Di Gregorio affinché il boss di Cosa Nostra venisse scarcerato. Ma i suoi trascorsi criminali e il valore simbolico del suo percorso all’interno della mafia, per il giudice, lo avrebbero esposto ad «eventuali “rappresaglie” connesse al suo percorso criminale, ai moltissimi omicidi volontari dei quali è stato riconosciuto colpevole, al sodalizio malavitoso» del quale era a capo. Provenzano è così rimasto al 41 bis, senza che moglie e figli potessero salutarlo. Il figlio Angelo, lunedì scorso, aveva fatto richiesta di un permesso straordinario, che gli era stato negato. Ed è arrivato proprio ieri, dopo la morte del padre. «I veri detenuti al 41 bis sono i parenti – denuncia ora la Di Gregorio -, il regime di restrizione è stato applicato ai figli e alla moglie impedendogli di poterlo vedere». Le condizioni di Provenzano si sono aggravate venerdì, quando a causa di un’infezione polmonare è entrato in coma irreversibile. Ma il carcere duro, ha dichiarato Roberto Piscitello, direttore generale dei detenuti e del trattamento del ministero della giustizia, «in nulla ha aggravato lo stato di salute di Provenzano: anzi nei due ospedali in cui è stato ha ricevuto cure puntuali ed efficaci». Negli ultimi anni, l’avvocato Di Gregorio ha presentato tre istanze di revoca del carcere duro e tre di sospensione dell’esecuzione della pena. Alle prime avevano dato parere favorevole le Procure di Palermo, Firenze e Caltanissetta, ma si sono incagliate poi nel parere della Direzione nazionale antimafia. Diverse perizie, nel corso del tempo, hanno confermato la gravità delle sue condizioni: non era più ricettivo, incapace, dunque, di comandare e inviare messaggi. Il 12 maggio del 2012 le videocamere del carcere di Parma lo avevano immortalato nella sua cella intento a infilarsi un sacchetto in testa. Non un tentativo di suicidio, secondo i suoi legali, bensì i segni che non ci stava più con la testa. A dicembre dello stesso anno cadde riportando un ematoma al cervello. Entrato in coma e operato, non si è più ripreso. Il gip lo ha anche dichiarato incapace di prendere parte in maniera cosciente al processo sulla trattativa Stato-mafia. Le patologie di cui soffriva sono state definite dai «plurime e gravi di tipo invalidante». Non parlava più, faticava a muoversi. Ma la giustizia italiana non ha ceduto di un millimetro. Così, nel 2013, la famiglia si era rivolta alla Corte europea dei diritto dell’uomo, denunciando l’incompatibilità del suo stato di salute col regime del 41 bis. A gennaio 2015, il Tribunale di sorveglianza di Roma confermava l’esigenza di trattenerlo lì per questioni di sicurezza pubblica, «sussistendo il pericolo di continuità di relazioni criminali» con Cosa Nostra. A settembre, invece, la Cassazione giustificava il carcere duro proprio con la necessità di assicurargli cure adeguate. Il figlio Angelo, nominato curatore speciale del padre, tempo fa aveva anche rilasciato un’intervista shock: «anche un pluriergastolano ha diritto di essere trattato come un essere umano – aveva detto a Repubblica -. Se poi l’esistenza di mio padre dà fastidio, qualcuno abbia il coraggio di chiedere la pena di morte, anche ad personam». Ma era già morto, ribadisce la Di Gregorio, che ha appreso della morte del boss mentre era in aula a Caltanissetta per il Borsellino quater, tramite un sms inviatole proprio da Angelo. Lo era dal momento «in cui è caduto ed è stato operato al cervello. Era un vegetale. Le sue condizioni di salute si erano aggravate da circa 4 anni. Non aveva più reazioni di nessun genere». Intanto il pg di Palermo, Nico Gozzo, è intervenuto a muso duro: lo Stato, polemizza sul suo profilo Facebook, avrebbe potuto far sentire «la differenza tra uno stato di diritto» e «le belve di Cosa Nostra, che le regole le fanno solo a loro uso e consumo, calpestando sempre la vita umana. Ed invece si è voluto continuare ad applicare il 41 bis ad un uomo già morto cerebralmente, da tempo. Con ciò facendo nascere l’idea, in alcuni, che la giustizia possa essere confusa con la vendetta. O che il diritto non è uguale per tutti. E ciò, per me, è inaccettabile». Il senatore Pd Giuseppe Lumia, componente della commissione antimafia, ha invece chiesto di evitare «sontuosi funerali» nella sua città, Corleone, per evitare di trasformare il boss in un mito. Ma il sindaco Lea Savona ha messo le mani avanti: «Oggi si celebra il nostro 25 aprile. Mi opporrò alla possibilità che si celebrino qui i funerali».

Era morto ma loro non lo sapevano, scrive Tiziana Maiolo il 13 luglio 2016 su "Il Dubbio". Hanno voluto vederlo morto in ceppi, quel corpo ormai da tempo senz’anima e senza vita, e così è stato. Non era certo Bernardo Provenzano quell’essere ridotto a vita vegetativa il cui cuore si è fermato ieri mattina in una cella dell’ospedale San Paolo, quartiere Barona di Milano. Pure quel corpo, che non ragionava e non parlava, non si muoveva e non si nutriva, che quotidianamente veniva ripulito, riposizionato nel letto e nutrito con il sondino naso-gastrico. Quel corpo “viveva” nel regime carcerario dell’articolo 41-bis, quello applicato ai mafiosi più pericolosi. Che sia stato un capomafia tra i più pericolosi, Bernardo Provenzano, quello vero, arrestato dieci anni fa dopo quasi mezzo secolo di latitanza, non c’è dubbio. Insieme al suo socio Totò Riina è stato protagonista della più sanguinosa stagione delle stragi culminata nel 1992 con le uccisioni dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ma erano altri tempi e altri personaggi. E paradossalmente chi oggi piangerà (oltre ai familiari) la scomparsa di “quel” Provenzano, saranno gli orfani, magistrati e qualche giornalista, di quella bislacca teoria della “trattativa Stato-mafia” che ormai langue sconfitta dal punto di vista processuale. Erano proprio questi orfani del complotto a cercar di tenere in vita quel corpo in cui vita non albergava più da tempo, nella vana speranza di poterlo trascinare, prima o poi (ma ormai la sua posizione era stata sensatamente stralciata dal processo) a rivelare segreti inconfessabili e quasi certamente inesistenti. Invano nei mesi scorsi la famiglia aveva cercato di far liberare “il corpo” dai ceppi dell’art. 41bis per poterlo trasferire in un reparto di lungodegenza dell’ospedale. Si era trovata davanti un muro, composto di magistrati di un po’ tutte le città italiane che avevano processato Provenzano e dalla stessa cassazione, cui si era aggiunto, un po’ sorprendentemente, lo stesso ministro guardasigilli Orlando, che si era spinto a interpretazioni sociologiche: “Seppur ristretto dal 2006 Provenzano è tuttora costantemente destinatario di varie missive dal contenuto ermetico. Cui spesso sono allegate immagini religiose e preghiere, che ben possono celare messaggi con la consorteria mafiosa”. Era il 24 marzo scorso. Pochi giorni dopo, incuriositi e increduli, siamo andati all’ospedale San Paolo di Milano, dove “il corpo” era custodito in un reparto speciale, sorvegliato all’interno da tre agenti di polizia penitenziaria e all’esterno da 28 poliziotti che si alternavano intorno al perimetro dell’ospedale. Avevamo incontrato il primario del reparto, il professor Rodolfo Casati, colui che meglio conosceva le gravi patologie cui era affetto quel detenuto così speciale. “Provenzano – ci aveva detto – non è in grado di mettere insieme soggetto predicato e complemento, borbotta qualche suono senza senso”. Che cosa ha esattamente? “Ha avuto ripetute lesioni cerebrali, è stato operato per due episodi di emorragia, inoltre è affetto dal morbo di Parkinson”. Ma dice qualche parola comprensibile? “A volte pronuncia mmmm, che sembra quasi mamma”. Queste cose il professor Casati le ha scritte in decine di relazioni, spedite nei vari tribunali d’Italia, in cassazione, al ministro. Erano considerazioni tecniche, da medico. Ma forse politicamente scorrette. Quindi inascoltate. Tanto che si è preferito custodire “il corpo” dandogli il rango di pericoloso capomafia al 41bis piuttosto che compiere un normale gesto di umanità e ammettere di aver perso per strada un altro protagonista della vagheggiata “trattativa Stato-mafia”.

«Quando hanno aperto la cella...», scrive Piero Sansonetti il 14 luglio 2016 su "Il Dubbio". Ve la ricordate quella canzone struggente di Fabrizio de André? «Quando hanno aperto la cella / era già tardi perché / con una corda sul collo / freddo pendeva Michè…». Altri tempi, naturalmente. Non esisteva ancora il “justicially correct” e qualcuno dedicava le canzoni anche ai delinquenti. De André lo faceva spesso. Era un tipaccio De André. Figuratevi che perdonò persino i suoi rapitori e si rifiutò di accusarli in tribunale. Comunque Miché era un delinquente simpatico. Aveva ucciso per amore di Maria. Provenzano no: è stato un assassino matricolato, feroce, ha devastato la Sicilia, ha seminato morte per 45 anni. Il problema è che l’ “umanità - il senso dell’umanità, che è uno dei pilastri, forse il più grande pilastro della civiltà e della modernità, e che è un sentimento, l’unico, espressamente previsto dalla nostra Costituzione - non si applica solo alle persone perbene, o a quelli che ci stanno simpatiche, ma a tutti. La forza della civiltà è lì: nell’umanità e nella cancellazione della categoria della vendetta. Quando la vendetta diventa il carburante (o addirittura lo scopo) della giustizia, la civiltà scivola via e scompare. Provenzano da molti anni era in stato semi-comatoso e poi comatoso. Applicare a lui le misure del 41 bis (concepite, ufficialmente, per ragioni di sicurezza e non di punizione) è stata una scelta illogica, illegale e crudele. La crudeltà è crudeltà e basta: che la si applichi ad Abele o a Caino, non cambia. Nei giorni scorsi il sottosegretario alla giustizia, Gennaro Migliore, è stato crocifisso (dal “Fatto Quotidiano”) perché aveva ricordato il senso del 41 bis e aveva spiegato che secondo lui deve essere corretto, mitigato, in modo che resti una misura di sicurezza e non di vendetta. Non si è alzata una voce a difesa di Migliore, né dal mondo politico né da quello del giornalismo e dell’intellettualità. Qualche giorno dopo il “Fatto” è tornato sull’argomento per farcii sapere che aveva avuto notizia di un barattolo di miele entrato proditoriamente in una cella di 41 bis, e per esprimere sdegno verso questa “mollezza”! E’ normale che esista una parte della società (e anche dell’intellettualità e della classe dirigente) che tra modernità e giustizialismo sceglie il giustizialismo. Non è normale che non esista una parte delle classi dirigenti che si oppone al giustizialismo, apertamente, senza nascondersi. Oggi, se volete rivolgervi a una autorità morale (e politica) che contrasta la ferocia e chiede civiltà, avete una sola possibilità: chiedere udienza al papa.

Ingroia: «Fu cerniera tra Stato e Cosa nostra. Ma il suo 41bis era un accanimento», scrive Giulia Merlo il 13 luglio 2016 su "Il Dubbio". L’ho incontrato in carcere e mi è sembrato quasi impaurito e poco sicuro di sé, a differenza dell’immagine di lui che si dava. Era però già vecchio, debole e fragile. L’ex procuratore di Palermo Antonio Ingroia e Bernardo Provenzano. Uno è il pm che gettò le basi per l’inchiesta sulla trattativa Stato-Mafia, l’altro il capo di Cosa Nostra e presunto ingranaggio della trattativa. I due si sono incontrati nel carcere dove Provenzano ha passato in regime di 41bis gli ultimi dieci anni, e Ingroia lo ha definito «un uomo dell’altro Stato», riconoscendo però che il carcere duro nei suoi confronti è stato un «accanimento superfluo».

Cosa intende con la definizione di «uomo dell’altro Stato»?

«Lo Stato non è un blocco monolitico. Ha una faccia pulita, che è quella di tutti gli uomini e le donne che sono caduti per difenderlo, come i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Esiste però anche una faccia cupa, fatta dei visi dei molti che hanno “trescato”, conducendo trattative di cui la mafia è stata parte. Non mi riferisco solo a quella tra Stato e mafia, ce ne sono state molte altre. Penso ad esempio allo sbarco degli Alleati nella Seconda Guerra Mondiale, in cui la mafia è stata un soggetto attivo».

E con questo Provenzano cosa c’entra?

«Lui è stato uno degli uomini-cerniera di questa trattativa. Provenzano ha passato la vita a difendere e proteggere gli interessi della mafia ma anche quelli di questo altro Stato. E lo ha fatto fino alla morte, non rivelando nessuno dei segreti su cui molte inchieste hanno provato a far luce».

Quando lo ha conosciuto, Provenzano era già sottoposto al regime del 41bis, che non gli è stato revocato nemmeno negli ultimi anni di vita, quando era malato. Ha condiviso questa scelta?

«Oggi tutti, con il senno di poi, diranno che la misura fosse irragionevole. Io lo dissi in tempi non sospetti e mi sono già preso molte critiche da parte dei paladini dell’antimafia. Anch’io mi considero un militante dell’antimafia, eppure credo che il regime di carcere duro sia stato eccessivo e sconsigliabile, anche per chi viene considerato il peggiore tra i boss mafiosi. Io ho conosciuto Provenzano quando era già vecchio e malato e penso che il 41bis sia stato un accanimento superfluo nei suoi confronti».

Che impressione le ha fatto quando lo ha incontrato?

«Ricordo di aver pensato che era un uomo diverso dal “zu’ Binnu u Tratturi” di cui si raccontavano i feroci assassinii. L’ho incontrato in carcere e mi è sembrato quasi impaurito e poco sicuro di sé, a differenza dell’immagine di lui che si dava. Era però già vecchio, debole e fragile. Durante l’interrogatorio, mi è anche sembrato di leggere in lui un conflitto interno, un’indecisione profonda».

Indecisione su che cosa?

«Mi sembrava indeciso sull’ipotesi di voltare pagina, aprendo un dialogo con l’altro Stato, quello pulito di cui dicevo prima, oppure rimanere coerente con se stesso e rimanere in silenzio. Alla fine è rimasto fedele, oppure è stato indotto in qualche modo a rimanere fedele alla mafia e ha portando con sé i segreti di Cosa Nostra e quelli del doppio Stato».

“Zu Binnu” si arrese per 2 milioni di euro, scrive Rocco Vazzana il 13 luglio 2016 su "Il Dubbio". L’intermediario all’Antimafia mise subito in chiaro le cose: per consegnarsi, il boss voleva una buona uscita e un mese di “silenzio” dal momento dell’arresto. A Roma, via Giulia, sede della Direzione nazionale antimafia. Un uomo varca il portone della Superprocura accompagnato dalla Guardia di Finanza. È il novembre del 2003 e vuole parlare con Pier Luigi Vigna, il capo della Dna. Si chiama Vittorio Crescentini, è un faccendiere, e dice di avere notizie importanti da riferire. Ma non si presenta davanti ai magistrati in veste di informatore, come pure era capitato in altre occasioni, questa volta dice di essere un mediatore, un messaggero per conto di Bernardo Provenzano. Ma l’uomo pone subito una condizione: non dirà neanche una parola in presenza di magistrati siciliani. Vigna accetta di ascoltarlo e chiede ai sostituti Vincenzo Macrì e Alberto Cisterna, entrambi calabresi, di assistere al colloquio investigativo. Provenzano è latitante da più di 40 anni, e adesso, vecchio e stanco, vorrebbe aprire «un tavolo di accomodamento» per trattare la resa. Perché un capo, anche se non più operativo, non si arrende incondizionatamente. E l’intermediario arrivato in Via Giulia mette subito in chiaro le cose: per consegnarsi, il boss pretende una buona uscita da due milioni di euro e un mese di riserbo dal momento dell’arresto. Un periodo di tempo utile a fornire elementi investigativi agli inquirenti lontano dal clamore mediatico. Gli inquirenti lo ascoltano con attenzione, sono convinti che Crescentini non sia un millantatore, perché se qualcuno si presenta in Dna dicendo di avere notizie su Provenzano non può essere un impostore, è la convinzione dei magistrati. Il faccendiere, poi, fornisce anche qualche elemento sulla latitanza del ricercato numero uno: sarebbe nascosto nel Lazio, in un luogo non meglio definito. Per Pier Luigi Vigna la cattura di Provenzano sarebbe la ciliegina sulla torta di una carriere già brillante. Nel 2003 il capo dell’Antimafia è a un passo dalla pensione e non vorrebbe lasciarsi sfuggire l’occasione di chiudere col botto. Ma prima deve superare l’ostacolo più grosso: la richiesta di denaro. La palla deve passare ad altre autorità, bisogna informare subito il ministero dell’Interno della faccenda. «Mi pare di ricordare che Vigna disse che avrebbe informato il ministero dell’Interno e per correttezza anche il procuratore della Repubblica di Palermo (che all’epoca era Piero Grasso, l’attuale presidente del Senato, ndr) », racconterà quasi dieci anni dopo Vincenzo Macrì, uno dei magistrati presenti agli incontri con il mediatore. «Non era compito del nostro ufficio stabilire tempi e modi di un eventuale accordo. Non so con chi parlò Vigna. So che allora il capo del Sismi era Niccolò Pollari. E che i Servizi segreti diedero la loro disponibilità in linea di massima a reperire il denaro». La trattativa, dunque, si complica. Il faccendiere dice che si rifarà vivo ma passano altri otto mesi senza ricevere più notizie del boss. Vittorio Crescentini ritorna in Via Giulia nel luglio del 2004, pochi giorni prima del 71esimo compleanno di Pier Luigi Vigna, che festeggerà il primo agosto. Il secondo colloquio investigativo si conclude come il primo. È ancora un incontro interlocutorio, il messaggero non fa altro che confermare le richieste già avanzate prima, ma aggiunge un elemento: incontrare il boss è diventato più complicato anche per lui. Scopriremo solo dopo che in quel periodo il latitante corleonese non godeva di ottima salute, tanto da essere sottoposto a un intervento chirurgico in un ospedale di Marsiglia, come documentato nel 2005 dalla procura di Palermo. Ma 71 anni, per Vigna, non sono solo candeline da spegnere su una torna, significano anche un’altra ricorrenza più amara: la pensione. E nonostante una legge ad hoc (in realtà concepita per impedire a Gian Carlo Caselli di andare alle guida della Dna) conceda a Procuratore nazionale un anno di proroga, fino al primo agosto del 2005, Vigna non riuscirà a portare a termine l’arresto. L’ultimo colloquio investigativo accertato con Vittorio Crescentini, infatti, risale al novembre del 2005. Alla Direzione nazionale antimafia c’è un nuovo capo: Piero Grasso, appena arrivato da Palermo. Spetta a lui gestire l’ultimo contatto con l’uomo che dice di essere stato delegato da Provenzano. Il nuovo procuratore chiede a Macrì e Cisterna, i due pm che avevano già seguito il caso, di partecipare all’incontro. Ma Grasso, a differenza del suo predecessore, non si fida molto del faccendiere, è convinto che sia un «millantatore». E chiede all’intermediario di fornire una prova biologica del boss latitante, come racconterà anni dopo il magistrato siciliano nel corso di un’audizione al Csm: «Quando ero procuratore a Palermo, avevamo fatto un’indagine sulla presenza di Provenzano a Marsiglia», spiega Grasso. «Eravamo riusciti a ottenere un frammento di un reperto medico sanitario». In altre parole, i magistrati avevano in mano il dna del boss corleonese. «Quindi essendo in possesso di quel reperto, a colui che diceva di essere in contatto con il latitante Provenzano, dissi di farci avere qualcosa - un fazzoletto, un bicchiere, un qualcosa... Insomma, non potendo catturare tutto il latitante ne avevamo catturato un pezzetto. Per quanto ne so questo è l’ultimo incontro con l’intermediario». Il boss, ancora tutto intero, sarà catturato pochi mesi dopo, nel marzo del 2006, dal procuratore di Palermo Giuseppe Pignatone e dal capo della Squadra mobile Renato Cortese.

Il questore del blitz: «Così ho catturato Bernardo Provenzano», scrive Vincenzo R. Spagnolo il 13 luglio 2016 su "Avvenire”. ​Con la morte, oggi, di Bernardo Provenzano, esce di scena uno dei capi mafia più temuti e sanguinari. Quando venne arrestato, l'11 aprile 2006, Due giorni dopo, il 13 aprile su Avvenire comparve questa intervista al vicequestore aggiunto di Polizia, Renato Cortese. «Quando ho incrociato il suo sguardo sorpreso, sono stato certo. Per anni ho avuto il suo volto davanti negli identikit. Ha provato a chiudere la porta a vetri, ma io e il resto della squadra l'abbiamo sfondata. Allora ha abbassato le braccia, sussurrando: non sapete l'errore che state commettendo». È l'epilogo della caccia, raccontato dall'uomo che dal 1998 l'aveva condotta in silenzio, ombra fra le ombre, sulle tracce del capo di Cosa nostra. Il «cacciatore» è il vicequestore aggiunto di Polizia, Renato Cortese, a capo della squadra di 30 poliziotti del Servizio centrale operativo e della Mobile palermitana, incaricati di stanare Provenzano. Hanno passato 8 anni sulle orme del fantasma di "Binnu u tratturi", pedinando familiari, affiliati e postini. Mancandolo per un soffio più volte, come nel 2001 nelle campagne di Mezzojuso («Sapevamo che nel casale c'era un malato di prostata: pensavamo a lui e invece trovammo Benedetto Spera»), fino a martedì, quando lo spettro si è materializzato e gli «acchiappafantasmi» della Polizia gli hanno messo le manette. Cortese ha la barba scura e i capelli ricci come i suoi avi della Calabria magnogreca, ha 42 anni (lo "zu Binnu" era già uccel di bosco un anno prima che nascesse), ma di boss ne ha scovati altri: da Brusca a Spatola, da Vitale ad Aglieri, la cui cattura gli valse una promozione per meriti straordinari. Ora forse gliene toccherà un'altra: «Non so - sorride -. Piuttosto, ci ha fatto piacere la valanga di attestati di stima che sta giungendo in questura a Palermo. Non eravamo abituati. In una e-mail c'era scritto: magnifici sbirri! Già. E ci ha colpito l'accoglienza riservata dalla folla a Provenzano: fischi e epiteti che mostrano che il sentimento della gente comune sta cambiando, che la mafia è vista come il Male e non come un potere a cui appoggiarsi. La rinascita dovrà fare i conti con l'altra Sicilia, quella dell'omertà: Provenzano lo avete trovato a Corleone, a pochi chilometri da casa».

Dov'era stato in questi 43 anni?

«A parte il viaggio per le cure a Marsiglia, quasi sempre in Sicilia. Per i boss, è regola fondamentale mantenere il contatto col territorio. Spostarsi dalla propria terra è un segno di debolezza che un capo come Provenzano non poteva mostrare». 

Per il procuratore Piero Grasso, le indagini hanno rivelato una vasta rete di coperture, a livello mafioso, imprenditoriale, politico... 

«È stata una lunga investigazione, con molti filoni, che speriamo conducano presto ad altri risultati». 

Quando siete stati certi che in quel casolare c'era lui?

«Da mercoledì 5 aprile avevamo messo gli occhi su quella masseria. La catena di "postini" sorvegliati ci aveva portato lì. Ma poteva anche essere disabitata: nessuno usciva fuori. Abbiamo sorvegliato a distanza con microtelecamere, aspettando gli eventi. Una settimana dopo, il blitz». 

Perché solo allora?

«Perché martedì 11, prima delle 9, qualcuno ha messo fuori un sacchetto bianco: una conferma che il casale era abitato. E alle 10 è arrivato un uomo a noi noto, con un pacco per l'inquilino misterioso. Allora ho fatto scendere un furgone con 20 uomini. E siamo entrati dentro».

Dopo, qual è stato il suo primo pensiero?

«Ho pensato che era andata bene, che potevamo mandare in archivio 8 anni di lavoro duro, notte e giorno, senza riposi né ferie. Ho pensato ai miei uomini, ai sacrifici imposti a noi stessi e alle famiglie per arrivare al risultato. E poi ho pensato anche ad altri: a poliziotti di altissimo valore che lavorarono alla Mobile di Palermo: uomini come Boris Giuliano, Beppe Montana, Ninni Cassarà e altri ancora. La mafia li ha uccisi, è vero, ma ignora che la loro eredità si respira ogni giorno nei nostri uffici. Ecco, questa vittoria dello Stato non è solo nostra. Appartiene anche a loro». 

La pm che lo fece catturare “Dopo l’arresto ci minacciò”. Il magistrato Sabella: sono tanti i segreti che non ha svelato, scrive Guido Ruotolo il 14/07/2016 su "La Stampa".

Marzia Sabella, lei è stata uno dei pm della Procura di Palermo - insieme all’allora aggiunto Giuseppe Pignatone e al pm Michele Prestipino - a coordinare le indagini del pool di poliziotti guidati da Renato Cortese, per la cattura di Bernardo Provenzano, ’u tratturi. Chi era Provenzano?

«Come direbbe Wikipedia, “Provenzano era un criminale italiano”. Aggiungo che era un criminale latitante da 43 anni, cioè uno smacco alle leggi dello Stato che ogni giorno ci sforziamo di applicare».

Quando erano latitanti, i due Corleonesi eccellenti, Totò Riina passava per il macellaio e zu’ Binnu Provenzano per l’intellettuale, il mediatore, l’ambasciatore. I pentiti ma anche le indagini ci hanno consegnato in realtà i ritratti di due veri mafiosi con personalità diverse. Corresponsabili delle carneficine e mattanze. 

«Ecco, era una questione di personalità diverse. Ma probabilmente anche una questione strategica: un tempo, per rendere proficui gli interrogatori ci si serviva di due figure, lo “sbirro” buono e quello cattivo. Per il resto, come riferito da tanti collaboratori, “erano la stessa cosa”».  

Ambedue le catture, Provenzano e Riina, sono state accompagnate da un alone di mistero. Addirittura si sono fatti processi con ufficiali dell’Arma dei carabinieri sul banco degli imputati, per la mancata cattura di Provenzano.

«Non abbiamo ancora una ricostruzione giudiziaria definitiva. Aspettiamo di conoscerla. Per le indagini più recenti che hanno portato alla sua cattura invece non vi sono misteri ma fasi investigative tracciabili minuto per minuto. Mi piace sottolinearlo perché ogni tanto ci si diverte a dare letture alternative».

Ha mai avuto sentore che Provenzano avesse avuto contatti, rapporti con pezzi dello Stato?

«La storia di quegli anni va ancora scritta o forse va riscritta. Ma quel “sentore”, che certo ho avuto, per il magistrato è solo uno spunto investigativo. Poi ci vogliono le prove. E chi le prove vuole cercarle e chi le vuole far trovare».

Con la morte di Provenzano si è chiusa una stagione? Insomma cosa è diventata oggi Cosa nostra?

«La stagione di Provenzano non si è chiusa con la sua morte, ma con il suo arresto: la fine della sua latitanza ha azzerato il “vantaggio” rispetto a Totò Riina che era e rimane, almeno formalmente, il capo della commissione. Ma Cosa nostra resta Cosa nostra, con i suoi alti e bassi, con le perdite e i guadagni, con il mutamento di uomini e di strategie, con la sua capacità di adattarsi alle stagioni e soprattutto con il suo talento speculativo d’avanguardia. Bisogna chiedersi piuttosto se negli ultimi anni abbiamo saputo leggere questo cambiamento, peraltro fisiologico, o se abbiamo scambiato l’integrazione sociale della mafia, che è la sua più pericolosa peculiarità, con la sconfitta della mafia». 

Nel libro che ha scritto con la giornalista Serena Uccello («Nostro Onore») lei racconta il dietro le quinte del lavoro di pm a Palermo. «Solo dopo averlo visto con i miei occhi - scrive - mi sono convinta che l’avevamo preso veramente (Provenzano, ndr)». Il suo lavoro come quello degli investigatori spesso è anche tanta fatica e sudore. Ne è valsa la pena?  

«Mi scordo sempre di fare bilanci tra la fatica personale e il risultato delle indagini. Un lavoro si porta avanti comunque, anche quando il traguardo non è la cattura di un noto latitante che porta il tuo nome sui giornali. Semmai il confronto va fatto tra l’impegno dello Stato, anche in termini di costi, e la cattura. Ed è certo che, in tal caso, ne è valsa la pena nonostante Provenzano, quell’11 aprile, ci avesse detto che non sapevamo quello che stavamo facendo, forse alludendo a conseguenze negative per il Paese dalla prossima riorganizzazione di Cosa nostra». 

L’ex procuratore Piero Grasso dice che Provenzano porta con sé tanti misteri. D’accordo? Quali quelli che avrebbe voluto conoscere?  

«Certo che sono d’accordo. Sono d’accordo anche con il “tanti” perché, appunto, sono molteplici, ma non sono tutti quelli che ci servirebbero e che oltrepassano la storia di Provenzano. Non saprei scegliere tra i misteri che avrei voluto conoscere. Se ce li avesse elencati uno per uno oggi saremmo a buon punto». 

Così i picciotti di Corleone diventarono boss, scrive Paolo Delgado il 13 luglio 2016 su "Il Dubbio". Bernardo Provenzano è morto ieri in regime di carcere duro, ai sensi dell’art. 41bis, quello che nel mondo viene considerato senza mezzi termini tortura. Era entrato in carcere nel 2006, dopo 43 anni di latitanza. Da un anno sopravviveva in stato vegetativo. Con tutta la sua ferocia e i suoi crimini, non avergli permesso di morire in un carcere normale copre di vergogna lo Stato italiano. Tra i contadini di Corleone diventati imperatori di Cosa nostra, Bernardo Provenzano è il più enigmatico. Era uomo di mano e di pistola, soprannominato Binnu u tratturi perché «tratturava tutto e dove passava lui non cresceva più l’erba», come da descrizione di Antonino Calderone, fratello del capomafia di Catania Pippo, uno dei tanti fatti ammazzare dai corleonesi. Però era anche "il ragioniere", perché il suo governo di Cosa nostra è stato mite a paragone della ferrea dittatura esercitata dai compaesani Totò u Curtu Riina e Leloluca "Luchino" Bagarella. Di Riina Binnu è stato sempre il compare più fidato, eppure proprio su di lui ha sempre aleggiato il sospetto di aver dato una mano a chiudere la carriera criminale dell’onnipotente zu’ Totò. Non per sete di potere ma per mettere fine alla guerra senza prigionieri che il capo dei capi aveva dichiarato allo Stato e dalla quale Cosa nostra rischiava di uscire distrutta. Per caso o per calcolo, è un fatto che quella guerra Provenzano scelse di non combatterla, recuperando l’uso antico della mafia siciliana: scivolare sott’acqua e rendersi invisibile quando la tempesta infuria. Biografie identiche quelle di Provenzano, Riina e dei fratelli Bagarella. Tutti di Corleone, poverissimi, figli di famiglie contadine nella miseria del dopoguerra siciliano, viddani cresciuti con la puzza della fame addosso. Amici sin dall’infanzia, complici sin dai primi crimini. Erano l’ultimo gradino di Cosa nostra, un altro universo rispetto all’aristocrazia mafiosa dei Bontade di Palermo, "principi di Villagrazia", o del corleonese don Michele Navarra, tanto potente da essere soprannominato "u patri nostru", grande elettore dei notabili Dc dell’epoca incluso Bernardo Mattarella, padre dell’attuale capo dello Stato. I futuri corleonesi erano manovalanza. Picciotti reclutati e combinati mafiosi da Luciano Leggio, campiere e braccio destro di Navarra, per occuparsi dei lavori sporchi e sanguinosi. Non avevano amicizie potenti tra i politici. Nella rete di alleanze famigliari e territoriali che costella e sostanzia la mappa di Cosa nostra neppure comparivano. Le sole risorse di cui disponessero erano la ferocia e la determinazione, figlie entrambe della fame. Se c’è un giorno che segna il passaggio dalla mafia tradizionale alla moderna Cosa nostra è il 2 agosto 1958, quando un autocarro bloccò in una strada di campagna la 1100 sulla quale viaggiavano u patri nostru con un giovane collega e i viddani di Leggio trucidano il potente boss con 92 colpi. Senza chiedere il permesso a nessun padrino. Incuranti dell’alto lignaggio mafioso della vittima e delle liturgie di Cosa nostra. Contando solo sulla forza e sulla potenza implicita nel fatto compiuto. L’uccisione di Navarra registra un modus operandi che i contadini di Corleone adopereranno più volte nei decenni seguenti: disprezzo per le regole mafiose, rapidità e spietatezza nel colpire, ferocia nello sterminare i nemici. La leggenda vuole che all’uccisione del dottore sia seguita una strage con almeno un centinaio di cadaveri. Le vittime della purga furono in realtà molte di meno, ma il metodo era davvero quello: niente prigionieri. Nel 1963 Provenzano fu denunciato per l’omicidio di uno degli ultimi fedeli di Navarra. Scelse di darsi latitante e tale sarebbe rimasto per i successivi 43 anni. Ancora più di Riina, Binnu era uomo d’armi, considerato più per le doti guerresche che per quelle diplomatiche o strategiche. Quando nel 1969 la "commissione" decise di eliminare il boss che aveva innescato la prima guerra di mafia negli anni ‘60, Michele Cavataio, nascostosi a Milano, ogni capo indicò uno o più killer. Leggio spedì Provenzano e Calogero Bagarella, fratello maggiore di Leoluca e Ninetta, fidanzata e poi moglie di Riina. Arrivarono in via Lazio, dove si rifugiava la vittima, travestiti da poliziotti. Cavataio mangiò la foglia. Era un osso durissimo: pur colpito ferì a morte Bagarella, se la pistola non si fosse inceppata avrebbe eliminato anche Provenzano. Anche il mitra di Binnu si inceppò subito dopo. Provenzano non si fermò per questo. Strappò di mano a Cavataio la pistola, lo abbattè colpendolo col calcio della stessa. Il soprannome u tratturi se lo guadagnò lì. I corleonesi si erano ritagliati il loro posto nelle gerarchie di Cosa nostra, ma pur sempre di bassa forza si trattava. Quando nei ‘70, grazie all’eroina, i soldi iniziarono a diluviare sulle famiglie siciliane, i viddani dovettero accontentarsi delle briciole. A chi gli proponeva di eliminare Riina, diventato capo dei coleonesi dopo l’arresto di Leggio, Stefano Bontade, capo della famiglia di Santa Maria del Gesù, la più potente di Palermo, rispondeva con noncuranza: «Ma no, lascialo correre, tanto sempre da qui deve passare: è viddanu». Bontade, detto "il Falco", era il figlio di don Paolino Bontà, uno che prendeva pubblicamente a schiaffoni i politici poco solerti nell’obbedire. Aveva amicizie potentissime, un esercito ai suoi ordini, alleati quasi altrettanto potenti come Totuccio Inzerillo, cugino dei Gambino di New York. Riina e Provenzano lo fecero ammazzare la notte del 23 aprile 1981 inaugurando per la prima volta l’uso del Kalashnikov nell’isola. Bissarono meno di un mese dopo, adoperando la stessa arma per eliminare Inzerillo nonostante la protezione dei Gambino. La cosiddetta "seconda guerra di mafia", che cominciò con quelle raffiche di mitra, fu in realtà una mattanza a senso unico, il massacro di chiunque fosse considerato un nemico dai corleonesi. I grandi pentiti come Buscetta hanno sempre sostenuto che Cosa nostra è morta allora. Non hanno tutti i torti. La mafia siciliana, a modo suo, era sempre stata una democrazia. Nessuno aveva mai preteso di essere "capo dei capi". Il rigido rispetto delle regole era una favola, ma l’idea che persino i mafiosi dovessero adeguarsi a un codice c’era. Riina e Provenzano non conoscevano altro codice che il loro potere, la loro fu una dittatura tra le più spietate. Con lo Stato Totò u Curtu adoperò gli stessi mezzi che gli avevano assicurato l’impero su Cosa nostra. Ammazzò magistrati e poliziotti, provocò stragi, seminò terrore. Conosceva solo la forza, e con la forza tentò di costringere lo Stato a trattare. Uscito di scena lui, con l’arresto nel gennaio 1993, il cognato Bagarella decise di seguire la stessa strada. Provenzano no, e anche per questo riuscì a restare libero per 13 anni dopo la cattura di Riina, dominando con i suoi "pizzini", discretamente, senza spargere troppo sangue. Con gli anni, il sanguinario viddano morto ieri era diventato, a modo suo, un mafioso della vecchia scuola.

Massacri e pizzini, muore Provenzano il padrino dei misteri. Latitante per 43 anni, guidò i corleonesi e trattò con la politica, scrive Francesco La Licata il 13/07/2016 su "La Stampa". Con Bernardo Provenzano scompare l’ultimo padrino «Old style»: il capo, cioè, che preferisce comandare più con la persuasione che col pugno di ferro. Non che non fosse in grado di fare male a chi «deviava», anzi. Solo che lui amava accreditarsi come persona ragionevole. E allora potrebbe trovare una spiegazione la sfilza di nomignoli, anche contraddittori, che il boss si è meritato durante la sua lunga carriera.  Il nome che gli rimarrà per sempre è Binnu, diminutivo di Bernardo usato nel Corleonese. Gli amici, i familiari lo hanno sempre chiamato così. Per i sudditi era obbligatorio il don e perciò «don Binnu». Da giovane aveva un temperamento forte e, dunque, non era famoso per le doti di saggezza che gli verranno riconosciute nella maturità. No, lui era famoso come «Binnu ‘u tratturi», per la straordinaria determinazione con cui spianava gli avversari. Nel 1958 aveva 25 anni e, ricordano alcuni pentiti, «sparava come un Dio». Allora, appena tornato dal servizio militare con una lettera di esenzione per inadeguatezza fisica, preferì imbracciare le armi per combattere la guerra privata contro l’esercito del vecchio Michele Navarra, medico, segretario politico della dc e capomafia. Il suo comandante era Luciano Liggio, l’amico del cuore Totò Riina. Il sangue scorreva tra i vicoli di Corleone, Binnu compì veri «atti di valore» e durante un’azione pericolosa rimase ferito alla testa. In ospedale disse che non capiva: «Stavo camminando e ho sentito qualcosa che mi ha colpito al capo». Finì sotto processo con tutti gli altri, Riina compreso, ma al dibattimento di Bari arrivò il «liberi tutti». Ci furono altri morti, ma Binnu si era fatto ancora più furbo e quando lo cercarono era già uccel di bosco. Primavera 1963: ebbe inizio in quella data la lunga latitanza di Provenzano, conclusa a Montagna dei cavalli (Corleone, naturalmente) l’11 aprile del 2006, 43 anni dopo. Clandestinità dorata, attenzione. Perché Binnu si è sempre mosso a suo piacimento: andava a Cinisi, regno di don Tano Badalamenti, perché lì «filava» con Saveria, l’amore della sua vita e la madre dei suoi due figli, Angelo e Francesco. In clandestinità si sono sposati, Binnu e Saveria: rito religioso celebrato da preti compiacenti, matrimonio non registrato, situazione regolarizzata dopo la sua cattura. Una volta preso, gli venne chiesto se fosse coniugato e lui rispose: «Col cuore sì, per la legge no. Ma presto regolarizzerò questa situazione». E così fu: la «messa a posto» avvenne in carcere. Binnu è un maestro della clandestinità: ha abitato a Palermo, a Bagheria, a Corleone; ha girato la Sicilia in lungo e largo, è riuscito a farsi operare alla prostata in una clinica specializzata di Marsiglia, ottenendo persino il rimborso delle spese mediche dalla Asl. Ha viaggiato in barca, dentro un’auto nascosta all’interno di un furgone e nessuno lo ha mai scoperto. Teneva riunioni della cupola nei casolari di campagna e selezionava attentamente gli amici che chiedevano udienza. Con la maturità è cambiato il carattere. L’ultima volta che viene visto in azione come «’u tratturi» era il dicembre del 1969, anno della strage di viale Lazio. Lui, Totò Riina e un gruppo di «corleonesi» massacrano l’odiato Michele Cavataio e i suoi amici: quattro morti, ma muore anche Calogero Bagarella, fratello di Leoluca, luogotenente e cognato di Totò Riina. Quella volta Provenzano finisce Cavataio colpendolo alla testa col calcio della pistola che gli si era inceppata e poi tenta di dargli fuoco. Eccesso di ferocia? Anche di calcolo, visto che si sapeva che Cavataio teneva una lista scritta delle famiglie di Cosa nostra e i relativi adepti. Ecco, quel biglietto andava distrutto. Un lungo periodo di anonimato, poi si saprà agevolato, in qualche modo, dai carabinieri, precede la comparsa dell’«altro» Binnu: l’uomo riflessivo, il principe della mediazione, l’esecutore della «volontà di Dio». Il freddo calcolatore, l’uomo d’affari e, quindi, «’u ragiuniere», affidabile anche per certe istituzioni tolleranti. Il dispensatore di appalti e affari che - al chiuso degli uffici della Icre di Bagheria, un’impresa di proprietà del boss Nardo Greco - pianificava la spartizione dei lavori pubblici ottenuti tramite le sue amicizie politiche. Già, la politica. A differenza di Riina (che non vantava grandi amici), Provenzano un buon protettore, e addirittura complice, lo aveva. Era Vito Ciancimino, democristiano, sindaco e assessore al Comune di Palermo. Erano amici d’infanzia, i due. Racconterà poi Massimo Ciancimino, figlio del sindaco mafioso, che Binnu aveva una vera e propria adorazione per Vito. Si erano conosciuti da piccoli, a Corleone, quando Provenzano (terzo di sette figli) pativa la fame e Vito non gli negava biscotti e una tazza di latte. Da grandi erano rimasti amici: Binnu gli dava del lei e lo chiamava «ingegnere» anche se era soltanto geometra, l’altro gli dava del tu, imponeva la via politica e garantiva l’arricchimento dell’intera consorteria mafiosa attraverso i soldi pubblici. Ma quando Binnu e Vito «correvano» insieme, già una rete di complicità girava intorno a loro. Racconterà Massimo che il padre finì per diventare una specie di anello di congiunzione fra rappresentanti delle Istituzioni (che ambivano di stare a contatto con mafiosi e affaristi) e il vertice di Cosa nostra. Siamo nel periodo delle stragi e della svolta terroristica imposta da Totò Riina. Binnu non l’ha mai condivisa perché convinto, saggiamente, che «non si può fare la guerra allo Stato». Ma poteva esprimere soltanto pareri, visto che il momento delle decisioni spettava al capo, a Totò Riina. Raccontava il pentito Nino Giuffrè che «Provenzano a Riina spesso discutevano e non erano d’accordo, ma non si alzavano dal tavolo se non avevano raggiunto un accomodo». Chissà, forse alla vigilia delle stragi di Falcone e Borsellino, nel 1992, Binnu era riuscito ad ottenere dal capo la possibilità di tirar fuori i familiari. Sarà per questo che donna Saveria, nella primavera di quell’anno, improvvisamente torna a Corleone, riapre la casa degli avi ed esce ufficialmente dalla clandestinità, insieme coi figli che, così, assumono una vera forma. Finiscono di essere dei fantasmi per entrare nell’anagrafe del comune di Corleone, seppure offrendo pochi scampoli di verità sulla loro trascorsa latitanza. È il momento più difficile di Cosa nostra. Riina deve affrontare il suo popolo e convincerlo che non tutto è perduto con quella maledetta sentenza del maxiprocesso voluto da Falcone e Borsellino. Promette che sarà posto rimedio a quella batosta e che i «traditori politici» avranno quello che si meritano. Scatta la rappresaglia: la mafia uccide Ignazio Salvo, il deputato dc Salvo Lima, uccide Giovanni Falcone in quel modo eclatante e, soltanto 57 giorni dopo, mette in scena il bis con l’attentato a Paolo Borsellino. Questo, a sentire i collaboratori di giustizia e le risultanze di importanti indagini, è quanto imposto dalla «linea Riina», con la prudente astensione di Provenzano. Anzi, con l’opposizione sotterranea di Binnu. Così raccontano primattori e comparse dell’indagine che è già sfociata nel processo sulla «trattativa Stato-mafia». Una sceneggiatura che consegna addirittura l’immagine di un Binnu collaboratore dei carabinieri (e quindi risparmiato e tenuto libero), nel tentativo di garantire una pax mafiosa e fermare la follia stragista di Totò Riina, che avrebbe portato anche all’eliminazione fisica di alcuni politici considerati «traditori» rispetto alle promesse fatte e non mantenute. Ma questo è un capitolo ancora aperto e foriero di grandi attriti politico-istituzionali. Ha già provocato feroci discussioni e divisioni un dibattimento che annovera tra gli imputati mafiosi del calibro di Provenzano e Riina, politici come Mannino, poi assolto, Dell’Utri e gli alti ufficiali dei carabinieri Mori e Subranni. Tutti accusati di aver condotto una vera e propria trattativa sulla base anche di richieste ufficiali della mafia, ufficializzate nel cosiddetto «papello», cioè un elenco di benefici (tra l’altro l’alleggerimento del carcere duro, l’abolizione dell’ergastolo, della legge sui pentiti e sul sequestro dei beni ai mafiosi) consegnato allo Stato italiano (attraverso i carabinieri) da Vito Ciancimino, con la «benedizione» di don Binnu. Tutto ciò, ovviamente, ha appannato il prestigio di Provenzano. I suoi amici (in particolare il boss Matteo Messina Denaro) gli hanno addirittura rimproverato poca cautela nella gestione della comunicazione attraverso i suoi famigerati «pizzini». E non si può negare che qualche problema l’ha creato la scoperta dei duecento e più bigliettini trovati nel suo covo di Montagna dei cavalli. Ma quando è stato preso, don Binnu, era già votato alla «pensione». Non era più «u tratturi» e neppure «u ragiunieri»: forse si ritrovava ancora nei panni del vecchio mediatore, nell’intento di poterla sfangare e tramontare senza l’onta e il marchio del collaboratore. I pizzini, infatti, ci lasciano l’immagine che gli è più congeniale. L’eterno «moderato» che proprio se deve ordinare l’esecuzione di qualcuno lo fa congiungendo le mani sul petto e sussurrando: «Sia fatta la volontà di Dio».

Attilio Bolzoni: “Ci serve un pentito di Stato, un Presidente della Repubblica, un uomo dei servizi segreti o un Generale”. Intervista di Francesca Scoleri del 23 luglio 2016 su “T&M”.

Dott. Bolzoni, i suoi colleghi Nuzzi e Fittipaldi sono stati recentemente assolti da una accusa che il mondo del giornalismo non dovrebbe assolutamente conoscere: reperire informazioni. Lei ben conosce questo drammatico paradosso, ma a differenza dei suoi colleghi appena citati, ha dovuto affrontare il carcere per aver pubblicato le rivelazioni di un pentito. Chi non conosce la storia potrebbe pensare sia accaduta sotto il fascismo e invece eravamo quasi negli anni 90. Cosa ricorda oggi di quei giorni?

«La mia storia racconta una Palermo molto particolare. Il mio arresto e quello di Saverio Lodato – lavoravamo insieme in quel periodo – rappresenta solo uno specchio di quel momento. Noi siamo stati il capro espiatorio perchè l’obiettivo non eravamo noi. Era un segnale. Noi siamo stati arrestati innanzitutto, con un reato infamante per un giornalista: concorso con pubblico ufficiale - rimasto ignoto – in peculato. Una parola che fa venire in mente un reato economico, un giornalista che ha dimestichezza col denaro…In realtà, avevamo pubblicato la cantata di un collaboratore di giustizia, un capomafia, Nino Calderone, che parlava dei rapporti fra mafia e politica e quindi, la cosa fece infuriare molto. Il Procuratore che fece l’ordine di cattura quel 16 marzo 1988, non ha mai arrestato un solo ladro di galline a Palermo. Solo due giornalisti. Noi, lavoravamo da tanti anni su quel fronte perchè, nei primi anni 80, dopo la guerra di mafia – la città mattatoio, è nato un nuovo giornalismo a Palermo, molto più libero, quindi quello fu un avvertimento in puro stile mafioso da parte di quel magistrato. Siamo nell’88, appena pochi anni prima, nessuno parlava di mafia, nessuno scriveva di mafia ma adesso se ne parla troppo e a sproposito. Nel giro di 30 anni, si è passato dal silenzio assoluto, a un rumore fondamentalmente silenzioso. Che cos’è la mafia? Per me la mafia non è più quella dei corleonesi di Totò Riina, quella è stata una parentesi violentissima durata 25 anni. La mafia si traveste, cambia pelle e quando fa questo processo, noi non la riconosciamo mai. La cercavamo nei campi ed era già nei cantieri, la cercavamo nei cantieri ed era già a fare la droga, la cercavamo nella droga e faceva finanza. Oggi la mafia è molto più pettinata, profumata, politicamente corretta e sta nei convegni insieme a noi e il limite più grosso di una certa antimafia, è l’incapacità di riconoscerla».

Da oltre 30 anni, racconta la Sicilia e la mafia che per nostra sciagura, ha percorso la via preannunciata da Sciascia quando diceva “Forse tutta l’Italia va diventando Sicilia…” Un sistema consolidato composto da criminali, colletti bianchi e imprenditoria, è questa la mafia che ha conquistato la nazione?

«Dopo le stragi, ho lavorato 10 anni sui corleonesi ma nei 10 anni successivi sono rimasto disorientato, non capivo più cos’era la mafia. Perché? I corleonesi, sono una piccola parentesi nella storia della mafia, 25 anni di violenza, ma prima dei delitti eccellenti degli anni 80, erano passati circa 80 anni dall’ultimo delitto eccellente, era il 1893 quando ci fu l’uccisione del marchese Notarbartolo, il simbolo di Palermo, del Banco di Sicilia. Quindi, la mafia si nasconde e se non la cerchi non la trovi. Invece i corleonesi, hanno rappresentato solo il braccio armato di altre forze, preliminare di un sistema politico mafioso in Sicilia. I delitti eccellenti non li hanno voluti solo i corleonesi, anche se materialmente, li hanno commessi. Se pensiamo al delitto La Torre, Mattarella, Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino, non possiamo pensare che siano solo questi 70 caproni di Corleone. Gente che veniva dal niente ed è tornata nel niente. La mafia oggi occupa posti chiave del potere in Sicilia e in Italia ed è una mafia che non sempre riconosciamo subito. La mafia proletaria, la mafia popolare è stata quasi decimata, ma l’aristocrazia mafiosa va avanti e c’è ancora molto da scoprire su come alcuni personaggi abbiano salvato il sistema criminale italiano».

Lei ha visitato il covo di Bernardo Provenzano dopo la sua cattura, disse che era “un covo miserabile pieno di Crocifissi, rosari e santini”. Attraverso il processo trattativa Stato-mafia e il processo sulla mancata cattura di Provenzano, scopriamo a distanza di oltre 20 anni, che Provenzano è sfuggito alla cattura in più occasioni. Le ultime sentenze su Mori e Obinu, ci consegnano un’irrilevanza penale della mancata cattura, lei che idea si è fatto?

«Prima della mancata cattura di Provenzano, c’è stata la mancata perquisizione del covo di Riina. Dietro ogni cattura eccellente, c’è sempre un mistero. Riina è stato latitante dal 1969 al 1993. Provenzano, è stato latitante dal 1963 al 2006. Non avevano lo status di latitanti, avevano lo status di capi di Stato riconosciuti perché chi è latitante per tutto questo tempo, è di fatto, un latitante libero. Solo quando hanno cominciato a cercarli li hanno presi. Tutta la vicenda della trattativa, non solo processuale ma anche storica, è strettamente legata ai misteri del covo di Riina e alla mancata cattura di Provenzano. Mi fanno sorridere quelli che dicono la trattativa non c’è. Da quando esiste lo Stato italiano, c’è un pezzo di apparati che tratta con le classi criminali italiane e questo è un dato storico.  Che poi, il dottor Di Matteo, riesca a dimostrarlo nel suo processo è un altro discorso che riguarda il corso della giustizia. Ma il fatto che lo Stato italiano, ripeto, non la mafia ma lo Stato abbia chiesto accordi e abbia trattato con la mafia, è dal 1861, accade da quando esiste l’Italia. Gli ufficiali dei carabinieri sono stati assolti sia per quel che riguarda la mancata perquisizione del covo di Riina, sia per la mancata cattura di Provenzano e questo è il risultato giudiziario. Ma da quel processo sono emerse verità che erano state nascoste. Il magistrato ha dei confini precisi che sono determinati dalla legge, dai codici, dalle regole e fuori da quel confine non può andare, ma un osservatore, uno storico, un giornalista, un esperto, può avventurarsi in altre ipotesi. Io, da cittadino italiano, non mi accontento delle sentenze su Capaci e Via D’Amelio, verità che mi hanno offerto dei magistrati anche bravissimi perché sono arrivati fin là, ma io non mi accontento perché sono convinto che a fare quelle stragi non sia stata solo Cosa nostra il che non significa che abbiano fatto male le indagini. In alcuni casi sicuramente ci sono stati depistaggi però dobbiamo capire che la verità storica non coincide mai con la verità giudiziaria. Nel 1984 arriva Buscetta e per la prima volta si rompe il muro di omertà di Cosa nostra, sono passati 32 anni ma il muro dell’omertà di Stato non si è rotto. Oggi ci serve un pentito di Stato: un Presidente della Repubblica, un Generale dei carabinieri un capo dei servizi segreti…un pentito di Stato potrebbe offrirci frammenti di verità che ad oggi non sono ancora affiorati».

Con il libro “La giustizia è cosa nostra”, lei e il compianto Giuseppe D’Avanzo, avete cercato di dimostrare come le manine del potere soccorrono abitualmente la mafia. Sono le stesse manine che intralciano il lavoro di ottimi investigatori – mi viene in mente l’attuale capo scorta di Nino Di Matteo, Saverio Masi, che accumula note di merito eccellenti fino a quando non individua il covo di Provenzano. Da quel momento in poi, viene trattato alla stregua di un delinquente. Come si fa la guerra alla mafia in queste condizioni?

«La mafia non sarebbe mafia se non avesse dei complici dentro gli apparati. Il libro è di 30 anni fa e racconta di processi aggiustati e il simbolo di questi processi aggiustati è quello che riguarda l’uccisione del Capitano Basile. E’ il processo più tormentato della storia giudiziaria per quanto riguarda la mafia. Hanno provato a condizionarlo e ad aggiustarlo da dentro il palazzo di giustizia in tutti i modi ma non ci sono riusciti. Prima dell’era Falcone, i processi a Palermo si trattavano nei corridoi, nei villini a mare…non si discutevano nelle aule di giustizia. I mafiosi stavano in carcere pochi mesi o pochi anni, ma sapevano che dovevano uscire. Dopo l’arrivo di Falcone e Borsellino, avviene una rivoluzione e si ristabiliscono le regole. Si è scoperto che un pezzo di magistratura era complice. All’epoca però, era molto più evidente la complicità del potere, oggi è molto più subdola e meno riconoscibile. Un’antimafia legata al potere ad esempio, non è una vera antimafia. Si parla dell’isolamento di Di Matteo, non posso dimenticare, un paio d’anni fa, il vecchio CSM è andato a Palermo e il vice presidente non ha stretto la mano a Di Matteo. E’ stato un bruttissimo segnale. Di Matteo non è un buon magistrato perché indaga sulla trattativa o non è un buon magistrato in assoluto? Il vice presidente che dichiara – il protocollo mi impedisce di incontrare Di Matteo – indica un atteggiamento ambiguo».

La negazione della trattativa Stato-mafia ha raccolto molti consensi, almeno quanto oggi la giustificazione della stessa. Maria Falcone, ad esempio, ha dichiarato “Se trattativa c’è stata, non credo che si sono voluti salvare i potenti, ma che si sia cercato di proteggere la sicurezza italiana”. Eppure c’è una sentenza che ne prova l’esistenza. La trattativa c’è stata. Ma l’oggetto dell’accordo qual é stato secondo lei? Lunghe latitanze e mancata perquisizione del covo di Riina per cominciare?

«Ci sono verità indicibili. Gli Stati, non solo l’Italia, hanno sempre trattato con le classi pericolose. Non sono corpi fuori dalla società. La trattativa c’è stata prima, durante e dopo le stragi che poi questa abbia rilevanza penale o meno non è fondamentale. Il negazionismo va molto di moda, ad esempio – Roma mafia capitale – è altrettanto evidente che ci sono organizzazioni mafiose radicate da decenni a Roma ma la maggior parte degli osservatori e della popolazione ne nega l’esistenza. Io ho seguito molto il processo di mafia capitale, sono andato in aula a Rebibbia e c’erano degli imputati, un famosissimo commercialista e un famosissimo consigliere comunale del PD, che si chiedevano – ma noi che ci facciamo qui? – non si rendevano nemmeno conto del perché fossero li. Non bluffano. E’ tanto fradicio il tessuto sociale e politico della Capitale che non si rendevano conto delle ragioni per le quali erano lì insieme al nero Carminati, un signore, che per 18 anni è rimasto libero e in un Paese civile, un personaggio come Carminati non può rimanere libero ma anche lì, siamo nelle zone di confine dove non sai mai chi è guardia e chi è ladro. Roma come Palermo. Gli stessi contesti».

La parola antimafia, crea molti imbarazzi ultimamente. Ma è necessaria questa etichetta per dimostrarsi ostili all’azione mafiosa?

«L’antimafia c’è sempre stata anche quando non si chiamava antimafia. L’antimafia moderna nasce subito dopo il delitto Dalla Chiesa e si è allargata estesa e diffusa dopo le stragi del 92. Io credo che abbia avuto una funzione veramente importante l’antimafia sociale in Italia fino a qualche anno fa ma poi, c’è stata una degenerazione dello spirito originario. Bisogna fare una distinzione tra la mafia che si traveste da antimafia, tra dei sistemi imprenditoriali mafiosi che occupano potere e l’antimafia che è degenerata. E’ vero che ci sono dei cerchi che mettono in relazioni queste tre realtà, però bisogna distinguerle. C’è l’antimafia dei finanziamenti pubblici da centinaia di migliaia di euro e l’antimafia dei funzionari delle grandi associazioni che provengono da un sottobosco politico. Bisognerebbe fare un esperimento: togliere per u paio d’anni un bel po di finanziamenti alle associazioni antimafia e assisteremmo ad un fuggi fuggi generale. In alcuni casi, c’è la complicità del ministero degli Interni che concede finanziamenti esorbitanti per dei progetti che, vien da chiedersi, saranno andati a buon fine con tutti i milioni stanziati? Ho conosciuto un signore di Avviso Pubblico, che gira l’Italia battendo cassa alle amministrazioni per organizzare convegni con partecipanti zero. Sono personaggi improbabili che si improvvisano esperti di mafia, che parlano di legalità e che vanno in giro per l’Italia a proporre pittoreschi kit per la legalità. Ma intorno alla maggior parte di queste realtà c’è solo un obiettivo, rastrellare denaro pubblico. Bisogna chiudere i cordoni della borsa. Poi c’è un’antimafia sociale che è ostile ad ogni dialogo, alcune realtà sembrano sette, appena uno le critica viene accusato di essere mafioso. Io non ne posso più di questi predicatori della legalità, imbonitori e saltimbanchi. Hanno messo su un circo. E a proposito dei predicatori della legalità, è molto grande la distanza tra quello che urlano nelle piazze e quello che in realtà fanno. Un altro tema interessante è quello delle costituzioni di parti civile: quando un’associazione accompagna un commerciante, un imprenditore che denuncia la mafia lungo tutto il percorso – lo porta dalla polizia, dal magistrato, lo convince a collaborare – è giustissimo che si costituisca parte civile perché ha partecipato al percorso che porta al processo. Ma questo baraccone delle parti civili che c’è oggi in Italia è scandaloso. Mi viene in mente un’associazione a Marsala che si chiama Paolo Borsellino, è formata da un solo avvocato che non fa nulla tutto l’anno, ma ha pensato bene di costituirsi parte civile al processo Aemilia e per questo ha ricevuto un risarcimento. C’è poi il caso di un comune sciolto per mafia – come quello di Brescello – che ha perfino ricevuto un indennizzo dopo la costituzione di parte civile al processo Aemilia. A questo punto credo che bisogna ridimensionare i finanziamenti alle associazioni antimafia perché sono emerse troppo vergogne».

Un sentito grazie a Sabrina D’Elpidio e Annalisa Insardà per aver contribuito alla realizzazione di questa intervista.

La giustizia è Cosa Nostra. Edito da Mondadori, 1995, di Attilio Bolzoni, Giuseppe D'Avanzo. E' un libro che si legge tutto d'un fiato. Racconta di giudici e di boss, di avvocati e di politici, di processi di mafia pilotati e di inchieste insabbiate, di Palazzi di Giustizia condizionati dal volere degli uomini d'onore. E ripercorre alcuni scabrosi episodi che, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, sono diventati clamorosi "casi giudiziari". E' scritto a quattro mani da Attilio Bolzoni e Giuseppe D'Avanzo, due tra i più bravi cronisti italiani di storie di mafia. 

Lo stato nascosto. Le trattative che portarono alla pax mafiosa. Libro di Antonio M. Moccia, Rosalia Monica Capodici. Questo è un libro diverso, particolare, una riflessione, che gronda in ogni sua pagina della passione civile degli autori, sugli aspetti più delicati dell'intero sistema criminale mafioso. Quelli che hanno condizionato, e continuano a condizionare, la nostra democrazia ed un quadro politico istituzionale sempre più esposto alla erosione del cancro mafioso. Si parla, e lo si fa con cognizione di causa e grande onestà intellettuale, dei nodi essenziali del sistema di potere mafioso: il rapporto con la politica, i tanti compromessi, la mediazione, i sotterranei "dialoghi pericolosi" tra lo Stato e la mafia, l'isolamento e la delegittimazione di tanti uomini delle istituzioni che, sull'altare della convenienza o dell'opportunità politica, sono stati traditi dallo Stato prima di essere uccisi dal tritolo o dal piombo dei mafiosi.

Recensione Libro: Lo stato nascosto. Per il politico, stringere il patto con l’organizzazione mafiosa significa insomma effettuare una precisa scelta di campo. Significa impegnare, da subito, i propri futuri comportamenti, anche sul piano istituzionale, in una logica di servizio a beneficio degli interessi dell’organizzazione. Di cosa parla Lo stato nascosto di Rosalia Monica Capodici e Antonio Michele Moccia. Ci sono argomenti come quello trattato nel libro Lo stato nascosto – le trattative che portarono alla pax mafiosa di Rosalia Monica Capodici e Antonio Michele Moccia che non solo devono essere discussi ma anche approfonditi per ricordare che bisogna lottare contro i poteri violenti e che per quanti anni siano passati dalle stragi di Falcone e Borsellino non è cambiato poi molto. Da questo libro degno di attenzione – già solo per la sfida lanciata dai due scrittori di portare alla luce fatti ai più celati che riguardano la gestione dello Stato da parte della mafia, – Capodici e Moccia sono riusciti a dare una visione globale del potere nascosto utilizzando i fatti e non le teorie. Nel libro Lo stato nascosto, infatti, si utilizzano le sentenze, i risultati dei processi, ma non quelli conosciuti ai più, al contrario si porta alla luce tutto ciò che i giornalisti hanno trascurato, non sappiamo ovviamente se la distrazione da parte della stampa è stata voluta o meno. Quel che conta adesso è sapere. Tutto ciò che viene raccontato in questo libro ci riguarda da vicino, fa parte della nostra quotidianità senza che in alcuni casi ce ne rendiamo conto ed è per questo che è fondamentale aprire gli occhi sulla verità e scoprire chi gestisce la maggior parte della nostra ricchezza, delle nostre stanze di potere, dei traffici e di parte della società. La presenza della mafia si è diffusa a qualsiasi livello e settore: che si tratti di istituzioni o quartieri non c’è distinzione, perché le organizzazioni criminali sono ormai ovunque. Le conseguenze che portano questo sistema criminale possiamo prevederlo e osservarlo continuamente, basta guardare il telegiornale, ma la mafia condiziona la democrazia anche quando non ce ne rendiamo conto, è questo che tendono a sottolineare con il loro libro Capodici e Moccia. Ciò che viene portato sotto i riflettori, e quindi alla portata di tutti i lettori, è il rapporto che intercorre tra Stato e mafia, i compromessi a cui vanno incontro chi gestisce la politica, ma nel libro Lo stato nascosto c’è anche spazio per gli eroi che hanno combattuto e purtroppo sono caduti per tradimento o isolamento sotto il nemico. Lo stato nascosto di Rosalia Monica Capodici e Antonio Michele Moccia, pubblicato dalla casa editrice Salvatore Insenga Editore va letto e discusso senza ombra di dubbio. Vorrei concludere citando una frase di Paolo Borsellino che potete leggere nella prefazione di Nino Di Matteo: “Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene.”

La vera ‘ndrangheta e quei «quattro storti» che ci credono ancora, scrive Felice Manti il 19 luglio 2016 su “Il Giornale”. È stata una settimana horribilis per la ’ndrangheta. Altri 100 arresti tra la provincia di Cosenza e la Liguria, con le famiglie «in trasferta» che facevano affari sulle opere pubbliche grazie a una coop con interessi in settori diversissimi come movimento terra, import-export di prodotti alimentari, sale giochi e piattaforme di scommesse online, lavorazione dei marmi, autotrasporti e rifiuti speciali, produzione e commercializzazione di lampade a led. Due parlamentari come Antonio Caridi di Gal e Pino Galati di Ala considerati al servizio delle famiglie di ’ndrangheta anche a causa di un paio di intercettazioni telefoniche che non lasciano spazio a troppi dubbi. Funzionari delle Agenzie delle Entrate che trescavano con la ’ndrangheta. Il boss del pesce Franco Muto che con il suo clan controllava «ogni respiro» tra Cetraro e Scalea (in provincia di Cosenza) da 30 anni, e prima ancora una Spectre politico-affaristico-massonica guidata dall’ex deputato Psdi Paolo Romeo, già noto alle forze dell’ordine sin dall’operazione Olimpia – che sta alla ’ndrangheta come il cosiddetto maxiprocesso di Falcone e Borsellino sta alla mafia – come referente della mafia calabrese che avrebbe deciso a tavolino tutte le elezioni degli ultimi 15 anni (a volte puntando però su qualche candidato sbagliato ma tant’è) coinvolto anche nelle recentissime inchieste Fata Morgana e Reghion sul condizionamento della criminalità al Comune di Reggio, sciolto per contiguità con la ‘ndrangheta. È la prova dell’esistenza dei cosiddetti Invisibili cui dà la caccia il pm Giuseppe Lombardo, una sorta di ’ndrangheta superiore che comanda sulla fazione criminale ma di cui la stragrande maggioranza degli affiliati non conosce l’esistenza, come dimostrerebbe l’inchiesta Mammasantissima, e che avrebbe agevolato la latitanza di personaggi che fanno comodo alle cosche (vedi l’inchiesta Breakfast), da Amedeo Matacena al capo della mafia Matteo Messina Denaro, con in mezzo un peso decisivo nell’inchiesta Mafia Capitale. Allora c’è qualcosa che non torna. Facciamo un salto di sei anni. Alla fine del 2010, nel libro Madundrina scritto con Antonio Monteleone, scrivevamo: «Forze occulte, servizi deviati, poteri forti e massoneria. Come si combatte un nemico invisibile? Ma, soprattutto, come si dimostra la sua esistenza? Gli inquirenti devono dare una risposta anche a questo quesito». E già allora riportavamo una frase captata durante una delle oltre 500mila intercettazioni, contenuta nelle 52 inchieste passate al setaccio dagli inquirenti, in cui a parlare era un sindacalista, e qui riprendo da Madundrina «che viene descritto dai magistrati come “anello di congiunzione tra esponenti di spicco della locale criminalità organizzata e appartenenti al settore politico-amministrativo della fascia jonico-reggina” e promotore di “una sorta di cupola” (…) perché parte del contesto criminale (…) definito degli “invisibili”. Si chiama Sebastiano Altomonte. Intercettato al telefono con la moglie, a margine di una conversazione su alcuni dissidi locali parla anche della ’ndrangheta invisibile. “Effettivamente gli invisibili siamo cinque (…), lo sanno solo nel provinciale (…)”. Chi sono questi cinque? Che cosa vogliono? Per chi lavorano? Come fanno a sapere tutto? E quanto vale, nell’economia della ’ndrangheta, un’operazione mostruosa come quella congiunta di Milano e Reggio Calabria (parlavamo di Crimine e Infinito, nda), se i boss sapevano tutto (grazie alle rivelazioni di Giovanni Zumbo, legato ai servizi segreti, nda)? Chi comanda veramente?». Chi legge questo blog sa cosa penso delle operazioni di ’ndrangheta del 2010 che hanno ispirato il libro, recentemente definite dalla Cassazione come «sentenze storiche» perché definiscono per la prima volta l’unitarietà della ’ndrangheta. Delle due l’una. Perché o ha ragione il procuratore antimafia Ilda Boccassini quando dice che con Infinito si è smantellata la ’ndrangheta in Calabria, quella comandata dal boss scissionista Carmelo Novella, ammazzato come un cane (ma il mandante è ancora oscuro…) perché voleva sganciarsi dalla Calabria, quella del summit al centro Falcone e Borsellino di Paderno Dugnano, quella zeppa di gente senza precedenti penali e senza reati fine oggi in carcere con l’accusa di associazione mafiosa che non hanno neanche mai sparato un colpo di pistola per sbaglio. E che la ‘ndrangheta calabrese fosse comandata da Domenico Oppedisano, che prima di diventare famoso come capo della ’ndrangheta vendeva piantine vicino allo svincolo di Rosarno, talmente pericoloso che di recente è uscito dal regime di carcere duro, il famigerato 41bis. Un esperto in affiliazioni, vero, uno che mangiava pane e ’ndrangheta certamente, ma non un capo. E d’altronde anche il procuratore antimafia Nicola Gratteri lo sostiene con forza. D’altronde, dell’esistenza della maxi inchiesta erano al corrente molti boss, come è emerso dalle intercettazioni. Oppure la ’ndrangheta che conta quella vera, è altro. È difficile pensare che i boss arrestati fossero veramente a capo della ’ndrangheta milanese mentre facevano il bello e il cattivo tempo altri boss del calibro di Paolo Martino, killer dormiente imparentato con il potentissimo clan dei De Stefano e considerato il vero tesoriere della ’ndrangheta a Milano (solo per fare un esempio). Oggi sappiamo con certezza che una Spectre aveva in mano i destini della politica e trescava facendo affari con parlamentari e coop, anche alle spalle dei picciotti. E se avesse ragione il boss della ’ndrangheta Pantaleone Mancuso, che intercettato dice testuale: «(Ci sono) quattro storti che ancora credono alla ‘ndrangheta… hanno fatto la massoneria… il mondo cambia…»? E se la Boccassini avesse arrestato proprio quei quattro storti, gente che non ha mai tenuto una pistola in mano?

Crocetta e i gran maestri della massoneria convocati in commissione nazionale antimafia. Il prossimo 2 agosto a Palazzo San Macuto a Roma verrà sentito il presidente della Regione, scrive Rino Giacalone il 30/07/2016 su “La Stampa”. La commissione nazionale antimafia all’indomani delle audizioni in Sicilia, ha convocato il presidente della Regione Crocetta e i gran maestri degli ordini massonici per approfondire i temi emersi nel corso della missione a Palermo e Trapani, dove tanto si è parlato di indagini giudiziarie che riguardano i contatti diventati stretti tra mafia e massoneria. Un fronte che non serve solo, hanno detto in audizione i magistrati di Trapani e Palermo, a coprire la latitanza del boss mafioso Matteo Messina Denaro, ma rappresenta la nuova stagione criminale di Cosa nostra che se non spara più, grazie al sostegno della massoneria, «ha migliori capacità di inquinare i settori della vita politica, sociale ed economica del territorio» ha tra l’altro affermato la presidente della commissione Rosy Bindi.  Il prossimo 2 agosto a Palazzo San Macuto a Roma verrà sentito il presidente della Regione Rosario Crocetta. Certamente tra le domande che attendono il governatore siciliano quelle relative a Patrizia Monterosso segretario generale di Palazzo d’Orleans, sede della presidenza della Regione Sicilia. Il nome della Monterosso nel corso del processo a Catania contro l’ex governatore Raffaele Lombardo, è stato fatto dal pentito agrigentino Giuseppe Tuzzolino. Tuzzolino ha affermato che la Monterosso farebbe parte di una loggia massonica di Castelvetrano, dove avrebbe fatto da garante ad una serie di affari sugli impianti eolici. La Monterosso ha già smentito la circostanza: «Non appartengo alla massoneria, le uniche volte in cui mi sono imbattuta in cose che riguardano questo tipo di associazione sono state delle mail ricevute all’indirizzo istituzionale della segreteria generale, nel luglio 2015 ho ricevuto due messaggi da una loggia di Catania, c’era una lista di 17 nomi, forse si trattava di iscritti, ma io ho subito denunciato alla Polizia Postale di Catania, a novembre 2014 nella casella di posta è arrivata una email del Grande Oriente d’Italia, direttamente da Palazzo Giustiniani. Anche in questo caso ho denunciato».  In commissione nazionale antimafia però la circostanza ha suscitato attenzione. Critico è stato il leghista “siciliano” Angelo Attaguile: «Come siciliano - ha detto - sono preoccupato, i politici passano i burocrati restano, da siciliano mi preoccupo che al Governo regionale ci siano funzionari e burocrati che non dovrebbero stare al loro posto».  Mantenendo poi fede a quanto annunciato in Commissione nazionale antimafia sono stati convocati gran maestri degli ordini massonici, il prossimo 3 agosto verrà sentito in gran maestro del Grande Oriente Stefano Bisi. La presidente Bindi ha spiegato a Trapani il perché di queste convocazioni, «intendiamo sapere se siano a conoscenza di logge segrete nel trapanese, della cui esistenza abbiamo appreso dai magistrati e soprattutto come intendano comportarsi». 

Il caso Trapani: una saldatura tra mafia e massoneria. La visita della Commissione in Sicilia. Bindi: “Sui beni confiscati abbiamo dato troppa voce in capitolo all’agenzia regionale”, scrive Rino Giacalone il 21/07/2016 su “La Stampa”. La commissione nazionale antimafia è pronta ad aprire un caso Trapani e denuncia: «la latitanza di Matteo Messina Denaro è coperta da intrecci tra mafia e massoneria altolocata». Massoneria che oggi starebbe cavalcando un forte attacco contro la magistratura trapanese: «certe indagini stanno dando fastidio». Forti i toni usati dalla presidente Rosy Bindi, ma anche dal suo vice Claudio Fava, dai commissari Davide Mattiello (Pd), dai 5 Stelle Mario Giarrusso e Francesco Dell’Uva e dal leghista siciliano Angelo Attaguille. «Abbiamo sconfitto la mafia contro la quale combatterono Falcone e Borsellino, oggi - dice la presidente Bindi - abbiamo innanzi una mafia che è mutata, una mafia che uccide di meno ma incide di più nella vita sociale, politica ed economica del Paese».  Se volete venire a conoscere cos’è la nuova mafia, che c’entra tanto con le stragi del 1992, bisogna venire in provincia di Trapani. E la commissione antimafia su questo ha raccolto tanto ascoltando magistrati, giudici, investigatori. Claudio Fava: «Esiste una nuova cupola fatta di mafia e massoneria ed è strano che esista un concentrato di logge segrete a Castelvetrano, la terra del boss latitante Matteo Messina Denaro e del suo sistema di potere». «In questa provincia - dice il deputato Davide Mattiello - bisogna ricercare quell’accordo forte denunciato ieri a Palermo dal procuratore generale Scarpinato sull’esistenza di un fronte “masso-mafia” che a Messina Denaro ha garantito coperture altolocate per la sua ventennale latitanza».  I magistrati trapanesi ascoltati, a cominciare dal procuratore Viola, hanno confermato indagini aperte sul fronte della massoneria ma hanno consegnato precisi elementi dei contrasti che la magistratura trapanese subisce. «Ci siamo trovati a fare un viaggio nel tempo - racconta il senatore Mario Giarrusso - abbiamo sentito parlare nel 2016 magistrati con le stesse parole che altri giudici usavano a Trapani negli anni ’80, quando si scopriva la loggia segreta Iside 2. Abbiamo sentito i magistrati inquirenti che si sono detti non al sicuro nelle proprie stanze, che non lasciano documenti in ufficio». «C’è una Procura sotto tiro - dice il vice presidente Fava - sotto le reazioni illecite di chi con fastidio giudica il lavoro della Procura, attenzioni che arrivano da parte di ambienti inquietanti».  La presidente Bindi ha annunciato che verranno convocati i vertici degli ordini massonici, i Gran Maestri saranno convocati in commissione: «Chiederemo loro se sanno di logge segrete e se sanno perché non hanno denunciato, se invece non sanno chiederemo che agiscano per espellere questi corpi fornendo collaborazione all’autorità giudiziaria». Tanti i temi toccati, con l’annuncio, dopo avere ascoltato in giudici della Corte di Assise, Pellino e Corso, che verrà aperto un approfondito esame sui depistaggi emersi durante il processo per il delitto di Mauro Rostagno. Affrontato anche il tema della gestione dei beni confiscati, partendo dall’assedio che oggi continua a subire la Calcestruzzi Ericina, l’impresa confiscata al boss di Trapani Vincenzo Virga. C’è un progetto che prevede di mettere in rete la Calcestruzzi Ericina e tutte le imprese del settore che producono calcestruzzo, oggi sequestrate e confiscate.  Ma il progetto registra forti ritardi nell’attuazione e i ritardi stanno tutti dentro l’agenzia nazionale dei beni confiscati. La commissione ha puntato attenzione sulla sede regionale dell’agenzia e la Bindi ha chiosato: «Credo che sia stata lasciata all’agenzia regionale troppa voce in capitolo». Infine è stato affrontato il caso Castelvetrano, dove il Consiglio dopo un tira e molla si è sciolto per non far restare consigliere quel Lillo Giambalvo intercettato a esaltare la figura del latitante Matteo Messina Denaro. A Castelvetrano la commissione ha registrato attraverso le audizioni un maxi concentrato di logge, troppe per il territorio che protegge la latitanza di Matteo Messina Denaro.  La commissione ha sentito il sindaco di Castelvetrano Felice Errante e l’ex capogruppo del Pd Pasquale Calamia. «Ci saremmo aspettati una presa di distanza del sindaco di Castelvetrano che non c’è stata» ha detto la presidente Bindi e il vice presidente Fava continua: «Se Castelvetrano fosse in Baviera non ci porremmo il problema di una Giunta dove siedono tre assessori appartenenti alla massoneria, ma si tratta della città di Messina Denaro». E sul boss, latitante dal 93, la presidente Bindi aggiunge: «Aspettiamo anche noi la buona notizia della cattura».  

"Nel Trapanese una nuova cupola fatta di mafia e massoneria", scrive Rino Giacalone il su "Live Sicilia" il 20 luglio 2016. "Abbiamo sconfitto la mafia contro la quale combatterono Falcone e Borsellino, oggi abbiamo innanzi una mafia che è mutata, una mafia che uccide di meno ma incide di più nella vita sociale, politica ed economica del Paese". Sono le parole della presidente della commissione parlamentare antimafia, on. Rosy Bindi, espresse a conclusione della tre giorni siciliana, una missione durante la quale numerose sono state le audizioni ma c'è stata anche la significativa presenza alle manifestazioni a ricordo dei 24 anni dalla strage di via d'Amelio. "Abbiamo ritardi anche politici da scontare - ha detto ancora l'on. Bindi -. Falcone e Borsellino non sono stati mai ascoltati da una commissione antimafia, a 24 anni dalla strage di via d'Amelio abbiamo ascoltato Lucia Borsellino, figlia del procuratore aggiunto paolo ucciso con la sua scorta il 19 luglio del 1992, a lei abbiamo promesso il nostro impegno, ma dobbiamo anche dire che si tratta di restituire non solo a lei e alla famiglia Borsellino, e ancora alla famiglia Falcone, alle famiglie dei poliziotti uccisi, dobbiamo restituire al paese segmenti di verità che appartengono al Paese". Commissione antimafia che ha raccolto tanto sulla mafia in provincia di Trapani, ascoltando magistrati, giudici, investigatori. "Esiste una nuova cupola fatta di mafia e massoneria, anomalo che un concentrato di logge segrete esiste a Castelvetrano, la terra - ha detto il vice presidente della commissione antimafia Claudio Fava - dove il boss latitante Matteo Messina Denaro ha costruito il proprio sistema di potere". "Lavoreremo per capire meglio - ha aggiunto il deputato Pd Davide Mattiello - ma abbiamo la forte impressione che qui bisogna cercare quell'accordo forte denunciato ieri a Palermo dal procuratore generale Scarpinato sull'esistenza di un fronte “masso-mafia” che a Messina Denaro ha garantito altolocate coperture per la sua ventennale e perdurante latitanza". "Ci siamo trovati a fare un viaggio nel tempo - ha detto il senatore Mario Giarrusso di 5 Stelle -, non è possibile sentire parlare nel 2016 magistrati con le stesse parole di altri magistrati, quando a Trapani negli anni '80 si scopriva la famosa loggia segreta Iside 2". E un quadro pesante a proposito degli uffici giudiziari trapanesi emerge al termine delle audizioni fatte a Trapani dalla commissione parlamentare antimafia. Situazione che ha spinto la presidente Rosy Bindi a ipotizzare la possibilità che a parte la relazione finale prevista a fine legislatura su tutte le missioni svolte nel corso del mandato parlamentare, su Trapani potrebbe esserci una specifica relazione. Sullo scenario già descritto delle connessioni tra mafia e massoneria, si è sviluppata una attenzione che poteri occulti dedicano proprio alla Procura di Trapani, "nel 2016 - ha detto il senatore 5 Stelle Giarrusso - sentiamo magistrati inquirenti che non dicono non sentirsi al sicuro nelle proprie stanze, che non lasciano documenti in ufficio, un clima assurdo che rimanda ad altri tempi ed altre vicende". Sulle parole di Giarrusso si sono ritrovati altri commissari come Fava, vice presidente della Commissione antimafia: "Siamo preoccupati del clima pesante che riscontriamo nei confronti degli uffici giudiziari, abbiamo l'esatta percezione che c'è una Procura sotto tiro, con intrusioni e pedinamenti, sono le reazioni illecite di chi con fastidio giudica il lavoro della Procura, attenzioni che arrivano da parte di ambienti inquietanti, la Commissione avrà scrupolo e attenzione". Su questi temi sono stati sentiti dalla commissione antimafia in prefettura a Trapani il procuratore della Repubblica Marcello Viola ed i pm Marco Verzera e Andrea Tarondo, e le dichiarazioni rese dai magistrati sono state secretate. In particolare la commissione antimafia ha ascoltato i giudici della Corte di Assise che hanno processato e condannato due boss mafiosi all'ergastolo, Vincenzo Virga e Vito Mazzara, per il delitto del sociologo e giornalista Mauro Rostagno, risalente al 1988. "Abbiamo apposta voluto ascoltare i giudici Angelo Pellino e Samuele Corso, presidente e giudice a latere della Corte - ha detto il presidente Bindi - perché interessati al processo e interessati a conoscere la fase dei depistaggi". "Non escludo - ha aggiunto il vice presidente Claudio Fava - che per questo delitto si faccia ciò che è stato fatto per altri analoghi delitti". Chiaro il riferimento alla costituzione di una commissione che come è stato fatto per il delitto di Peppino Impastato, si occupi anche del delitto Rostagno.

Un'analisi organica dei rapporti fra massoneria deviata e cosche mafiose è contenuta nella relazione della Commissione parlamentare antimafia presieduta da Luciano Violante, scriveva già a suo tempo Salvo Palazzolo. "Il terreno fondamentale sul quale si costituiscono e si rafforzano i rapporti di Cosa nostra con esponenti dei pubblici poteri e delle professioni private è rappresentato dalle logge massoniche. Il vincolo della solidarietà massonica serve a stabilire rapporti organici e continuativi". Questo il punto di partenza dell'analisi proposta. "L'ingresso nelle logge di esponenti di Cosa nostra, anche di alto livello, non è un fatto episodico ed occasionale ma corrisponde ad una scelta strategica - spiega la Commissione antimafia - Il giuramento di fedeltà a Cosa nostra resta l'impegno centrale al quale gli uomini d'onore sono prioritariamente tenuti. Ma le affiliazioni massoniche offrono all'organizzazione mafiosa uno strumento formidabile per estendere il proprio potere, per ottenere favori e privilegi in ogni campo; sia per conclusione di grandi affari sia per "l'aggiustamento" dei processi, come hanno rivelato numerosi collaboratori di giustizia. Tanto più che gli uomini d'onore nascondono l'identità dei "fratelli" massonici ma questi ultimi possono anche non conoscere la qualità di mafioso del nuovo entrato" (punto 57 della citata Relazione). Rapporti fra Cosa nostra e massoneria sono comunque emersi anche nell'ambito dei lavori di altre due Commissioni parlamentari d'inchiesta: quella sul caso Sindona e quella sulla loggia massonica P2, che già avevano approfondito la vicenda del finto rapimento del finanziere e della sua permanenza in Sicilia dal 10 agosto al 10 ottobre 1979. Agli atti, le indagini della magistratura milanese e di quella palermitana, che avevano svelato i collegamenti di Sindona con esponenti mafiosi e con appartenenti alla massoneria. Il finanziere era stato aiutato da Giacomo Vitale, cognato di Stefano Bontade, capomafia della famiglia palermitana di Santa Maria di Gesù e da Joseph Miceli Crimi: entrambi aderenti ad una comunione di Piazza del Gesù, "Camea" (Centro attività massoniche esoteriche accettate). Nel gennaio 1986 la magistratura palermitana dispone una perquisizione e un sequestro presso la sede palermitana del Centro sociologico italiano, in via Roma 391. Vengono sequestrati gli elenchi degli iscritti alle logge siciliane della Gran Loggia d'Italia di Piazza del Gesù. Fra gli iscritti figurano i nomi dei mafiosi Salvatore Greco e Giacomo Vitale. Nel mese di gennaio dello stesso anno, la magistratura trapanese dispone il sequestro di molti documenti presso la sede del locale Centro studi Scontrino. Il centro, presieduto da Giovanni Grimaudo, era anche la sede di sei logge massoniche: Iside, Iside 2, Osiride, Ciullo d'Alcamo, Cafiero, Hiram. L'esistenza di un'altra loggia segreta trova poi una prima conferma nell'agenda sequestrata a Grimaudo, dove era contenuto un elenco di nominativi annotati sotto la dicitura "loggia C". Tra questi, quello di Natale L'Ala, capomafia di Campobello di Mazara. Nella loggia Ciullo d'Alcamo risultano essere affiliati: Pietro Fundarò, che operava in stretti rapporti con il boss Natale Rimi; Giovanni Pioggia, della famiglia mafiosa di Alcamo; Mariano Asaro. Nel processo, vari testimoni hanno concordato nel sostenere l'appartenenza alla massoneria di Mariano Agate, capomafia di Mazara del Vallo. Alle sei logge trapanesi e alla loggia "C" erano affiliati imprenditori, banchieri, commercialisti, amministratori pubblici, pubblici dipendenti, uomini politici (la Commissione antimafia, nella citata relazione, ricorda come l'onorevole democristiano Canino, nell'estate del '98 arrestato per collusioni con Cosa nostra, abbia ammesso l'appartenenza a quella loggia, pur non figurando il suo nome negli elenchi sequestrati). Già nel processo di Trapani e poi successivamente in quello celebrato nel '95 a Palermo contro Giuseppe Mandalari (accusato di essere il commercialista del capo della mafia, Totò Riina) sono emersi contatti fra le consorterie mafiose e massoniche di Palermo e Trapani. Mandalari, "Gran maestro dell'Ordine e Gran sovrano del rito scozzese antico e accettato" avrebbe concesso il riconocimento "ufficiale" alle logge trapanesi che facevano capo a Grimaudo. Le indagini sui rapporti mafia-massoneria continuano. Seppur fra tante difficoltà. L'unica condanna al riguardo, ottenuta dai pm palermitani Maurizio De Lucia e Nino Napoli, riguarda proprio Pino Mandalari, il commercialista di Riina attivo gran maestro. Solo nel febbraio del 2002, è stata sancita in una sentenza la pesante influenza dei "fratelli" delle logge sui giudici popolari di un processo di mafia: la Corte d'assise stava seguendo il caso dell'avvocato palermitano Gaetano Zarcone, accusato di avere introdotto in carcere la fiala di veleno che doveva uccidere il padrino della vecchia mafia Gerlando Alberti. Non è stata facile la ricostruzione del pm Salvatore De Luca e del gip Mirella Agliastro, che poi ha emesso sette condanne: non c'erano mai minacce esplicite, solo garbati consigli a un "atteggiamento umanitario". Questo il volto delle intimidazioni tante volte denunciate. Il caso più inquietante di cui si sono occupate le indagini è quello di una misteriosa fratellanza, la Loggia dei Trecento, anche detta Loggia dei Normanni. Il pentito Angelo Siino ha fugato ogni dubbio: il divieto per gli aderenti a Cosa nostra di fare parte della massoneria restò sempre sulla carta. "Le regole erano un po' elastiche - spiega - come la regola che non si devono avere relazioni extraconiugali". Erano soprattutto i boss della vecchia mafia, Stefano Bontade e Salvatore Inzerillo, ad avere intuito l'utilità di aderire alle logge. Rosario Spatola seppe da Federico e Saro Caro che Bontade "stava cercando di modernizzare Cosa nostra. Vedeva più in là, vedeva la potenza della massoneria, e magari riteneva di potere usare Cosa nostra in subordine, come una sorta di manovalanza". Per questo aveva creato una sua loggia. Era appunto la Loggia dei Trecento. Anche Siino riferisce di "averne sentito parlare: si diceva che ne facevano parte parecchi personaggi quali i cugini Salvo, Totò Greco "il senatore" e uomini delle istituzioni. La loggia non era ufficiale e non aderiva a nessuna delle due confessioni, né a quella di Piazza del Gesù né a quella di Palazzo Giustiniani". Correvano a Palermo i ruggenti anni Settanta. Il pentito Spatola conferma il ruolo di Bontade come gran maestro della Loggia dei Trecento. E spiega: "Ne facevano parte soggetti appartenenti alle categorie più disparate, e per questo era molto potente. E troppa potenza si era creata anche attorno a Stefano Bontade, per questo andava eliminato lui ma anche la loggia". Il 23 aprile 1981, Bontade fu ucciso dai corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Ha svelato Spatola che fu proprio Provenzano, attuale capo dell'organizzazione mafiosa, a prendere l'iniziativa di sciogliere la Loggia dei Trecento. Particolare davvero inedito e curioso. Quale autorità aveva mai don Bernardo per intervenire d'autorità su una fratellanza tanto riservata? Forse era massone anche lui? Forse, già allora, aveva ben presenti rapporti e complicità eccellenti che da lì a poco avrebbero fatto a gara per riposizionarsi e ingraziarsi i nuovi potenti?

LE RIVELAZIONI DEI COLLABORATORI DI GIUSTIZIA

Tommaso Buscetta. Nel 1984 parla per la prima volta del rapporto fra mafia e massoneria nel contesto del tentativo golpista di Junio Valerio Borghese del dicembre 1970. Il collegamento tra Cosa nostra e gli ambienti che avevano progettato il colpo era stato stabilito attraverso il fratello massone di Carlo Morana, uomo d'onore. La contropartita offerta a Cosa nostra consisteva nella revisione di alcuni processi.

Leonardo Messina. Sostiene che il vertice di Cosa nostra sia affiliato alla massoneria: Totò Riina, Michele Greco, Francesco Madonia, Stefano Bontade, Mariano Agate, Angelo Siino (oggi collaboratore di giustizia pure lui). Ritiene che spetti alla Commissione provinciale di Cosa nostra decidere l'ingresso in massoneria di un certo numero di rappresentanti per ciascuna famiglia.

Gaspare Mutolo. Conferma che alcuni uomini d'onore possono essere stati autorizzati ad entrare in massoneria per "avere strade aperte ad un certo livello" e per ottenere informazioni preziose ma esclude che la massoneria possa essere informata delle vicende interne di Cosa nostra. Gli risulta che iscritti alla massoneria sono stati utilizzati per "aggiustare" processi attraverso contatti con giudici massoni. 

Le conclusioni della Commissione antimafia presieduta da Luciano Violante. "Il complesso delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia appare essere concordante su tre punti:

- intorno agli anni 1977-1979 la massoneria chiese alla commissione di Cosa nostra di consentire l'affiliazione di rappresentanti delle varie famiglie mafiose; non tutti i membri della commissione accolsero positivamente l'offerta; malgrado ciò alcuni di loro ed altri uomini d'onore di spicco decisero per motivi di convenienza di optare per la doppia appartenenza, ferma restando la indiscussa fedeltà ed esclusiva dipendenza da Cosa nostra;

- nell'ambito di alcuni episodi che hanno segnato la strategia della tensione nel nostro paese, vale a dire i tentativi eversivi del 1970 e del 1974, esponenti della massoneria chiesero la collaborazione della mafia;

- all'interno di Cosa nostra era diffuso il convincimento che l'adesione alla massoneria potesse risultare utile per stabilire contatti con persone appartenenti ai più svariati ambienti che potevano favorire gli uomini d'onore". Salvo Palazzolo

Ecco a voi il "nano" e il circo dell'antimafia, scrive Simona Musco il 10 ago 2016 su “Il Dubbio”. Nino Lo Giudice, il più controverso dei collaboratori di giustizia della Procura di Reggio Calabria, accusa il poliziotto Giovanni Aiello, "Faccia di mostro", di essere l'autore della strage di via D'Amelio. «È stato il poliziotto Giovanni Aiello, alias "Faccia da mostro", a far saltare in aria Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. Fu lui a schiacciare il pulsante in via D'Amelio. Me lo confidò Pietro Scotto quando eravamo in carcere all'Asinara. E anni dopo me lo confermò Aiello in persona. Aggiunse che a Palermo aveva fatto anche altre cose, fra cui l'omicidio Agostino. Ma quando ho raccontato tutto sono stato minacciato dai servizi». Sono parole forti quelle riportate da Il Fatto Quotidiano, parole che portano la firma di Nino Lo Giudice, alias "il nano" il più controverso dei collaboratori di giustizia della Procura di Reggio Calabria. Parole che il due volte pentito, ex boss dell'omonimo clan, mette a verbale tra Reggio e Catanzaro e che arrivano in Sicilia, dove si indaga sulle stragi in cui hanno perso la vita i giudici Falcone e Borsellino. In quei verbali, Lo Giudice spiega i motivi della sua fuga e le sue paure. «Ho iniziato a ricevere strane visite a Macerata, la località segreta in cui vivevo. Un giorno, due mesi dopo l'incontro con Donadio (Gianfranco, ex procuratore aggiunto della Dna, ndr) mi vennero a trovare due uomini in borghese che si qualificarono come carabinieri. Pensai subito che fossero dei servizi. Mi fecero salire su una Punto e notai che erano armati di Beretta. Mi portarono fuori città. La Punto si fermò vicino a una Bravo marrone e mi fecero salire a bordo. C'erano altri due uomini ad aspettarmi. A parlarmi fu uno, testa rasata e accento laziale. Sapeva che avevo parlato di Aiello e mi disse di stare attento a toccare certi argomenti, soprattutto in futuro». Chi è "faccia da mostro" - Il nome di Aiello, 69 anni, originario di Montauro, in Calabria, in servizio al ministero degli Interni fino al 1977, finisce in diverse inchieste. Da quella sul tentativo di uccidere Giovanni Falcone all'Addaura fino alla strage di via D'Amelio, passando per il delitto del commissario Cassarà e del poliziotto Nino Agostino. Lo chiamano "faccia da mostro" per una ferita sul volto che lo rende inconfondibile. Dopo il congedo si rifugia in Calabria, dove ufficialmente fa il pescatore. Per lunghi periodi di lui si perdono le tracce. Il suo nome, però, viene tirato in ballo più volte da diversi pentiti. Tra questi anche Consolato Villani, ex braccio destro del "nano" e autore degli attentati contro i carabinieri compiuti a Reggio Calabria tra il '93 e il 94. «Nino Lo Giudice mi parlò di ex esponenti delle forze dell'ordine, appartenenti ai servizi segreti deviati, che un uomo deformato in volto, insieme a una donna avevano avuto un ruolo nelle stragi di Falcone e Borsellino dice in udienza a novembre 2014 -. Mi disse che questi personaggi erano vicini alla cosca Laudani ed alla cosca catanese di Cosa nostra». Il pentito controverso. Ma il "nano" può ritenersi davvero credibile? Le sue parole stanno ancora confluendo nelle indagini della Dda reggina. L'ultima, in ordine di tempo, è quella che ha messo in luce l'esistenza della cupola di invisibili che governerebbe Reggio Calabria. Per il pm Giuseppe Lombardo, che ha seguito l'indagine "Mamma santissima", le parole di Lo Giudice sono attendibili. Così come lo sono quelle di Villani. Ma sul suo curriculum di pentito pesano la fuga, dopo due anni e mezzo di collaborazione, e due memoriali in cui smentisce le precedenti dichiarazioni e per i quali è indagato a Catanzaro. Il suo nome è al centro di una stagione infuocata di veleni tra toghe. Appena inizia a cantare, svela al magistrato Giuseppe Pignatone di essere l'autore degli attentati in procura del 2010. Ma il "nano" va oltre e insinua che tra il fratello Luciano ed alcuni magistrati, ci sia un rapporto "speciale". Si tratta dell'allora numero due della Dna, Alberto Cisterna, e l'attuale procuratore generale della corte d'appello di Roma, Francesco Mollace. In un vortice di dichiarazioni contrastanti, Lo Giudice arriva a dire che per far scarcerare suo fratello Maurizio, Luciano avrebbe sborsato «molti soldi» a Cisterna. Che finisce indagato, vedendo la sua carriera andare in pezzi: da vice di Pietro Grasso finisce a fare il giudice a Tivoli. Poi, però, la sua posizione viene archiviata. Mollace, dall'altro lato, finisce pure davanti ai giudici a Catanzaro, con l'accusa di aver omesso di svolgere indagini sulla cosca in cambio di favori. Anche lui, però, viene assolto perché il fatto non sussiste. Nel mezzo ci stanno i memoriali ritrovati dopo la fuga. In quelli Lo Giudice nega di essere l'autore degli attentati e le accuse alle toghe e parla di un vero e proprio complotto. «A Reggio c'erano due tronconi di magistrati che si lottavano tra di loro facendo scempio degli amici di una delle due parti». Una cricca, diceva, composta da «Di Landro, Pignatone, Prestipino, Ronchi e il dirigente della Mobile Renato Cortese». Dopo essere stato riacciuffato, si è chiuso in un lungo silenzio. Poi, alla fine dello scorso anno, ha ripreso a parlare.

Lo Giudice: ''Faccia da mostro dietro via d'Amelio''. Il pentito calabrese: "Fu lui a premere il pulsante per la strage", scrive “Antimafia Duemila” il 09 Agosto 2016. Un altro pentito torna a parlare di "faccia da mostro", l'uomo dei servizi che secondo alcuni collaboratori di giustizia (tra cui i siciliani Vito Galatolo e Vito Lo Forte, e il calabrese Consolato Villani) avrebbe preso parte a molte stragi ed omicidi eccellenti. È Nino "il nano" Lo Giudice, scrive di Walter Molino il 9 agosto 2016 su Il Fatto Quotidiano, a parlare nuovamente di quel personaggio che sarebbe stato riconosciuto nell'ex poliziotto Giovanni Aiello. “È stato il poliziotto Giovanni Aiello, alias “faccia da mostro”, a far saltare in aria Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta" ha detto il pentito calabrese, aggiungendo che "fu lui a schiacciare il pulsante in via d’Amelio" e a confidarglielo è stato, ha precisato, "Pietro Scotto quando eravamo in carcere all’Asinara. E anni dopo me lo confermò Aiello in persona" ma "quando ho raccontato tutto sono stato minacciato dai servizi”. Scotto, condannato in primo grado ma poi assolto in appello per aver intercettato i telefoni di casa Borsellino, è fratello di Gaetano, imputato per l’omicidio dell'agente Nino Agostino e della moglie Ida Castelluccio, uccisi da Cosa nostra nel 1989, oggi in libertà. La storia della collaborazione di Lo Giudice è tra le più travagliate: tre giorni prima dell'udienza, nel giugno 2013, nella quale il pentito doveva comparire a deporre al processo "Archi-Astrea" a Reggio Calabria, l'ex mafioso si era allontanato dalla località protetta senza lasciare alcuna traccia, tranne un memoriale nel quale ritrattava le sue deposizioni sostenendo che era stato costretto e “spronato da più parti”. E una pen drive con delle immagini dove il collaboratore diceva “non mi cercate, tanto non mi troverete mai”. Poi però era stato arrestato, a novembre, in un appartamento alla periferia della città. Ora che è tornato a collaborare le sue dichiarazioni sono state verbalizzate dalle procure di Reggio Calabria e Catanzaro, oltre ad essere condivise con quelle oltre lo Stretto in Sicilia. Sulle sue dichiarazioni poggiava il lavoro del sostituto Gianfranco Donadio, allora incaricato dal presidente del Senato Piero Grasso di fare luce sulle indagini riferite alle stragi del '92 e '93, in particolare sul ruolo che avrebbero ricoperto elementi riconducibili ai servizi segreti e ad ambienti “deviati” dello Stato. Lo Giudice, nel memoriale, aveva accusato proprio Donadio di averlo costretto a fare nomi di persone a lui sconosciute, tra cui anche quello di “faccia di mostro”. Il superprocuratore Franco Roberti, il 6 settembre 2013, aveva avocato su di sé le indagini. Poi ci fu una misteriosa fuga di notizie sulle colonne de Il Sole 24 ore e L’Ora della Calabria in merito al resoconto di due riunioni nel quale il pm aveva esposto gli sviluppi di un’indagine. Sarà solo a settembre 2014 che il pentito 'ndranghetista chiarirà il perchè del suo agire, spiegando ai pm di aver "iniziato a ricevere strane visite a Macerata, la località segreta in cui vivevo. Un giorno, due mesi dopo l’incontro con Donadio, mi vennero a trovare due uomini in borghese che si qualificarono come carabinieri. Pensai subito che fossero dei servizi". In seguito, proseguiva Lo Giudice, "mi portarono fuori città" dove "c’erano altri due uomini ad aspettarmi. A parlarmi fu uno, testa rasata e accento laziale. Sapeva che avevo parlato di Aiello e mi disse di stare attento a toccare certi argomenti, soprattutto in futuro. Io risposi che avevo una registrazione in cui smentivo tutto. Loro vennero a casa e gliele consegnai”. Ora il collaboratore confermerebbe di aver riferito a Donadio solo circostanze veritiere, aggiungendo poi altri dettagli su "faccia da mostro": "Pietro Scotto mi parlò di Aiello come di un calabrese con la faccia bruciata, coinvolto nella strage di via d’Amelio. Disse che era stato mandato dai servizi deviati per far saltare Borsellino. Anche Scotto e suo fratello avevano partecipato alla strage ma il pulsante, a suo dire, venne premuto da Aiello. Io lo conobbi personalmente anni dopo. Mi fu presentato dal capitano Saverio Spadaro Tracuzzi (condannato in appello a 10 di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa,ndr) che ne parlava come di un collega. Mi disse che era uno dei servizi, che si erano conosciuti in Sicilia perché Aiello aveva contatti con Cosa nostra. Io, pensando al racconto di Pietro Scotto, lo riconobbi dalla faccia bruciata”. “La seconda volta - continuava - Aiello venne a trovarmi nel 2007. Era insieme a una donna bionda, con accento calabrese, che mi presentò come Antonella” e in seguito “Aiello mi confermò quello che avevo saputo su di lui all’Asinara. Disse che a Palermo aveva fatto anche altre cose, fra cui aver ucciso l’agente Agostino”. Anche per queste dichiarazioni Lo Giudice è stato recentemente sentito dal pm di Palermo Nino Di Matteo. Ed è proprio per l'omicidio Agostino che oggi lo stesso Aiello è indagato a Palermo assieme ai boss Gaetano Scotto e Antonino Madonia. Vincenzo, padre di Nino Agostino, pochi mesi ha riconosciuto "faccia da mostro" in Aiello, durante un confronto all'americana nel quale ha confermato che si tratta dello stesso personaggio presentatosi a casa sua pochi giorni prima dell'omicidio chiedendo del figlio. Lo Giudice nelle sue dichiarazioni parla di Aiello anche in riferimento all'assassinio del commissario Ninni Cassarà, datato 6 agosto 1985, alla barbara uccisione del piccolo Claudio Domino (colpito da proiettili a 11 anni), al fallito attentato all'Addaura e alla strage di Capaci, entrambi contro il giudice Giovanni Falcone. "Il nano", tra l'altro, è il solo a dichiarare di aver ricevuto "di prima mano" le parole confidenziali di Aiello. Ma altri ex mafiosi di Cosa nostra parlano di "faccia da mostro" dichiarando che “frequentava Fondo Pipitone” a Palermo (feudo della famiglia mafiosa dei Galatolo, ndr) e che era “a disposizione della mafia anche per compiere omicidi”.

«Io prete, vi ricordo mio padre: giudice ucciso da Riina e dimenticato da tutti». Padre Giuseppe, prete a Imola, è il figlio di Alberto Giacomelli, giudice ucciso a Trapani il 14 settembre del 1988 su ordine di Totò Riina: «Mio padre non ha nulla di meno di altri magistrati uccisi dalla mafia», scrive Nino Luca l'11 settembre 2016 su "Il Corriere della Sera". «Il coraggio di una firma». Questo potrebbe essere il titolo di un libro dedicato al magistrato Alberto Giacomelli. Ma quel libro non è stato mai scritto. Nessuno l’ha potuto leggere. Nessuno ci ha pensato. Anche per questo il vile omicidio di Alberto Giacomelli è caduto nell’oblio, in mezzo ai tanti morti negli anni di fuoco della lotta tra Stato e Cosa nostra. Trovare una foto di Alberto Giacomelli su internet è una impresa. Un solo video, di un vecchio Tg Rai, racconta la sua morte. Una mattina come tante, quella del 14 settembre 1988. Alberto Giacomelli, magistrato, a sua volta figlio di un giudice, è in pensione da quindici mesi. Alle 8 del mattino, saluta la moglie ed esce dalla sua casa padronale immersa tra le palme e i gerani, nelle campagne di Trapani, frazione Locogrande. A bordo della sua Fiat Panda, percorre la strada sterrata, poi svolta a sinistra per immettersi sulla provinciale che conduce in città. Gli assassini, probabilmente due, a bordo di una vespa rally 200, lo attendono nascosti tra gli uliveti. Lo costringono a fermarsi e a scendere dall’auto, poi gli sparano tre colpi con una Taurus, calibro 38, con matricola abrasa, di fabbricazione brasiliana: alla testa, al cuore e all’addome. Quando muore Alberto Giacomelli ha 69 anni. Nessuna targa in queste strade polverose ne ricorda il sacrificio. Nel 1985 Giacomelli, presidente della sezione del tribunale di Trapani «Misure di prevenzione», aveva disposto il sequestro di una villetta e dei relativi terreni a Mazara del Vallo. Beni riconducibili a Gaetano Riina, fratello del capomafia corleonese Salvatore Riina. La sua firma doverosa sul documento di confisca derivava da una delle prime sentenze di applicazione della legge «Rognoni -La Torre». Giacomelli aveva compiuto il suo dovere di giudice. Due anni dopo i Riina impugnarono il sequestro. Gaetano, fratello per più famoso capo dei capi, cercò di mantenere il possesso della casa facendosi nominare «affidatario». Ma un’altra sentenza, di altri giudici, confermò la confisca decisa da Giacomelli. L’anno dopo la «vendetta» fu consumata. «Giacomelli - svelò il pentito di Mazara Vincenzo Sinacori - fu ammazzato per “una questione di famiglia”. Non famiglia “Cosa nostra” ma “famiglia di sangue”». Dopo 14 anni di depistaggi, il 28 marzo 2002, Totò Riina viene condannato all’ergastolo per esserne stato il mandante. La sentenza definitiva il 12 marzo 2003.Vincenzo Virga, capo mafia di Trapani è stato assolto. I killer non sono stati mai individuati con certezza. Quello di Alberto Giacomelli resta l’unico caso di omicidio di un magistrato in pensione nella storia d’Italia. La sua firma di servitore dello Stato, lo condannò a morte. A distanza di 28 anni, il figlio Giuseppe, sacerdote a Imola, ha voglia di raccontare la storia del padre. Innanzitutto perché la sua figura rischia di essere dimenticata dallo Stato e dall’opinione pubblica. Poi, per ristabilire la verità, quella verità troppe volte «mascariata» (macchiata) da falsi pentiti: «Giocava alle corse clandestine di cavalli organizzate a Locogrande», si disse. Oppure: «Bisogna indagare nelle sue proprietà terriere...». Tutto falso. Un anno prima, sconosciuti avevano bruciato la villa dei Giacomelli a Custonaci: «La casa si riempì di fumo - racconta padre Giuseppe - ma allora non abbiamo dato peso eccessivo all’episodio. Mio padre riceveva qualche telefonata di minacce... ma lui riattaccava senza raccontare nulla». Oggi padre Giuseppe reclama per la propria famiglia il riconoscimento di vittima della mafia. «Il rammarico più grande - afferma dalla sacrestia della chiesa del Pio Suffragio di Imola - è l’oblio in cui è caduto l’omicidio, quasi ci fossero vittime eccellenti ed altre meno. Non c’è una gerarchia delle vittime della mafia. Lui si sentiva in missione, mandato dallo Stato per applicare la giustizia. Ed è morto da servitore dello Stato. Di fronte ad un uomo così, perché questo silenzio?».

E PARLIAMO PURE DI ANTIUSURA.

Usurati e ingannati: storie di ordinari raggiri. Sempre più italiani si rivolgono a associazioni che garantiscono cause “gratis”. Contro banche troppo esose. Ma poi le promesse non vengono mantenute. E alcuni “benefattori” hanno fedine penali poco pulite...scrive Francesca Sironi l'11 agosto 2016 su L’Espresso”. Li incontri alla Camera nei caldi pomeriggi d’estate, impegnati a presentare l’ultimo libro, l’ultima associazione nazionale. Sono ospiti a convegni al fianco di imprenditori e rappresentanti delle istituzioni. E poi in televisione e sul web. O nelle aule di tribunale: sono i paladini dell’anti-usura. Avvocati o associazioni che offrono consulenze “gratis” - dietro corpose parcelle - per fare causa alle banche. È un mercato di mezzo, popolato da enti in buona fede come da ex truffatori, che si è scatenato sulle vittime d’usura bancaria. Su chi, cioè, è stato costretto dal proprio istituto di credito a versare interessi superiori rispetto a quelli previsti dalla norma. Evenienza frequente, spiegano gli esperti. E chi denuncia, se ha buone basi per farlo ed è seguito bene, può ottenere risarcimenti importanti. La prospettiva di riprendersi dei soldi - miraggio per migliaia di italiani infragiliti dalla crisi - li convince a pagare perizie e pareri legali pur di ottenere un rimborso. Le battaglie sui contratti bancari hanno così preso il largo: nel 2015 ne sono state portate in mediazione obbligatoria, passaggio necessario prima di arrivare a processo, 46.094, in crescita rispetto all’anno precedente, come a quello prima. Inaugurando l’anno giudiziario, a marzo, il presidente della Corte d’appello di Roma e quello di Milano hanno notato il «rilevante e continuo aumento del numero di cause bancarie». Nella capitale il salto è stato del 26,7 per cento in un anno: mentre il resto del contenzioso civile cala o segna il passo, quello sul credito aumenta, accumulando centinaia di arretrati. Ma in questo arrembaggio nazionale agli istituti che lucrano sui propri correntisti c’è di tutto. Ci sono studi seri. Come anche altre realtà. Più ambigue. La nave ammiraglia del settore cause-alle-banche, in Italia, è Sdl Centrostudi. Sede nel bresciano, uffici anche a Roma e Reggio Calabria, un fatturato nel 2014 di 45 milioni di euro, oltre 4 milioni di utile, si presenta come specializzata nella «consulenza aziendale gratuita in merito ad anatocismo, usura bancaria, anomalie finanziarie, mutui e derivati». La parte gratuita riguarda però la sola pre-analisi dei casi. Le valutazioni tecniche vanno invece dai duemila euro in su, crescendo in proporzione agli interessi che si ritengono arpionati ingiustamente dalla banca. Poi c’è l’avvocato, che dal 2016, spiegano, ha un costo fisso di 700 euro a dossier; altrettanti per il tecnico di parte; e quindi la spartizione del risarcimento, se arriverà: il 25 per cento andrà a Sdl, che ne tiene l’11 per sé, ne dà il 10 ai legali e il resto lo distribuisce a chi «ha generato il contatto». Già, perché la forza di Sdl è avere «migliaia di agenti attivi in tutta la penisola», come spiega l’attuale presidente, l’ex magistrato Piero Calabrò, insediatosi alla guida della S.p.a lo scorso autunno. Queste migliaia di agenti sono motivati a darsi da fare: più vittime riusciranno a trovare, quindi più clienti, maggiore sarà la loro provvigione su ogni mandato firmato, come mostrano i dépliant distribuiti a una convention dell’azienda dedicata ai futuri procacciatori d’affari. «Essere grandi non è una colpa, diamo lavoro a tanti giovani avvocati in gamba, e portiamo risultati in tribunale. Da quando sono arrivato stiamo cambiando le professionalità e le perizie ora sono più serie che in passato», garantisce Calabrò. Sdl stava infatti accumulando critiche: di analisi copia-incolla e difensori impreparati che lasciavano i clienti con i cocci. A giugno del 2015 la società aveva risposto pubblicizzando un accordo per la formazione con l’Istituto Nazionale Professionisti Gestione del Debito. Che è però un ente di Sandro Musso, consigliere della stessa S.p.a bresciana. «Lo rivedremo», promette Calabrò, che presenta le sue novità: dal fondo internazionale che finanzierà le spese legali a chi non può permettersele all’apertura di «sportelli anti-usura nelle città, in accordo con la Lega delle autonomie. Ne ho appena inaugurato uno a Ladispoli», spiega. Ma non è pubblicità? «Anche, ma anche un servizio». Nella galassia Sdl gravita anche Giovanni Pastore, classe 1949, decine di interviste sulla stampa o in tv per raccontare la propria esperienza di imprenditore immobiliare strozzato dalle banche, coraggiosamente ribellatosi e vincitore, “grazie a Sdl”, di una causa contro il proprio istituto di credito. Prima di diventare un paladino degli usurati però Giovanni Pastore aveva dovuto patteggiare, lui, una condanna per usura, con una pena (sospesa) di un anno e 10 mesi di reclusione. Era imputato per aver dato prestiti per 100mila euro a una società di costruzioni, con tassi d’interesse fra il 5 e il 10 per cento mensili, pretendendo in garanzia, e poi ottenendo, in cambio, un complesso residenziale dal valore dichiarato di 400mila euro, insieme a un altro immobile da 150mila euro a fronte di un prestito da 30. Tre volte tanto il valore anticipato insomma. A novembre scorso, Pastore era in cattedra a Bari, nella sede del consiglio della Città Metropolitana, come relatore a un convegno dell’associazione Favor Debitoris, di cui è fondatore insieme all’avvocato Biagio Riccio. Il 30 maggio 2016 appuntamento a Firenze, stesso tema: «Come difendersi dall’usura bancaria». Il 25 luglio erano entrambi alla Camera. Per un Bilancio sulla legge anti-usura del 1996. Favor Debitoris è una delle tante gemmazioni dell’ammiraglia bresciana. È un’associazione culturale, mentre altri si sono buttati sul business, provando a replicare il successo dei pionieri. «Un loro ex dipendente, che ha aperto la sua srl, mi ha chiesto di collaborare. L’ho incontrato a Milano», racconta Maria Grazia Carbonari, commercialista, consulente tecnico del tribunale di Perugia e consigliere regionale del Movimento 5 Stelle. Le chiesero, spiega, di quantificare nelle sue perizie sia l’usura oggettiva, che è il superamento della soglia stabilita dalla Banca d’Italia per i tassi d’interesse, un calcolo matematico, sia quella soggettiva, «per la quale ci vogliono invece molti più presupposti, e bisogna conoscere bene, approfonditamente il caso. Non si può imputare così, dai soli numeri», spiega lei: «Dissi che era sbagliato, ma loro insistevano: “lei lo rilevi, poi ce la giochiamo noi”». Ha rifiutato. Racconta che altri sono andati da suoi colleghi, in Umbria, «dicendo che se avessero segnalato clienti in difficoltà di bilancio avrebbero avuto una percentuale del rimborso». La caccia si fa grossa così su imprenditori semplici, potenzialmente interessati alla lite perché afflitti dalla crisi e dalle banche. Sdl è stata fondata nel 2010 da Stefano Pigolotti e Serafino di Loreto, tuttora al comando della Blukivos Srl, il vertice di una rete di società che vanno dalla Sdl Centrostudi (da cui sarebbero stati estromessi da poco) alla Tax and Duty consulting, alla Personal finance Check srl. Di Loreto, fino a poco fa, era solito salire sul palco per motivare i suoi agenti, invitando alle convention personaggi come Gerry Scotti, o presentando alla stampa rapporti nazionali su 170mila conti analizzati e anomali nel 99 per cento dei casi. Adesso, però, si occupa soprattutto di pallone: il 21 marzo è stato nominato infatti presidente della Calcio Servizi Lega Pro, e ha da seguire, insieme al socio Sandro Musso, la ricerca di nuovi sponsor per la squadra di Mantova, società che hanno acquisito lo scorso anno. Nel suo curriculum vitae, si presenta come collaboratore di tre università e docente di fondamenti dei mercati finanziari e bancari alla Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università Popolare degli Studi di Milano. Un ateneo che, seppur dal proprio sito web pubblicizzi corsi di laurea e una scuola di giornalismo è stato più volte diffidato dal ministero dell’Istruzione perché non potrebbe «rilasciare titoli accademici», come conferma a “l’Espresso” il Miur con una nota. C’è un altro timoniere del mondo anti-usura legato da un ruolo allo stesso ateneo, di cui sarebbe, secondo la sua biografia, rettore emerito. È Giuseppe Catapano. Nato a Ottaviano nel 1964, Catapano da mesi gira l’Italia per presentare il suo ultimo libro: “Banche e anomalie. Come difendersi”, 266 pagine, pubblicato nel 2015, portato davanti a platee di Roma, Termoli, Napoli, Spoleto, Bologna, Milano. Il 22 luglio era alla Camera dei Deputati, per la presentazione della Accademia Universitaria degli studi Giuridici Europei di cui veniva eletto quel giorno rettore. Catapano si presenta infatti in varie vesti: è rettore di Auge, appunto, ma anche rappresentante della Accademia europea per le relazioni economiche e culturali, o ancora professore-portavoce di Assicont - Albo europeo assistenti del contenzioso, ente per il quale promuoveva su Facebook, il 25 marzo 2016, l’ultimo corso di alta specializzazione. Eppure la conferma in Cassazione della sentenza di condanna per truffa, falso, bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale in concorso è solo di un anno fa. Catapano aveva patteggiato nel settembre 2011 una pena di 4 anni e 5 mesi. Le indagini del Gico di Napoli l’avevano indicato infatti come vertice di un’associazione a delinquere che attraeva aziende in crisi fingendo di salvarle, per poi invece costringerle, attraverso società fittizie e prestanome, a cedere gli attivi e fallire. Così aveva sottratto patrimoni a imprenditori di Ravenna, Pisa, Padova, Brescia, Sassari e Bologna per milioni di euro. Uno dei membri dell’associazione imputati (gli era stato chiesto di reclutare persone cui attribuire cariche da prestanome) era Salvatore Onda, figlio di Arturo Onda, fratello di Umberto, pluriomicida, considerato fino al suo arresto reggente del clan camorristico Gionta. Giuseppe Catapano girava volentieri in auto blu, presenziava ai convegni del Forum nazionale Anti Usura e promuoveva la sua Fondazione Ope impresa Onlus. Ora sale su altri palchi, con altre associazioni, dichiara guerra alle banche e a Equitalia. Il 22 luglio, al suo fianco, indossava la toga dell’Accademia di studi Francesco Petrino, che si presenta come professore, siede nel consiglio direttivo dell’Istituto Etico per l’Osservazione e la Promozione degli Appalti e ha fondato un sindacato specializzato nel problema: Snarp, Sindacato nazionale anti-usura mobilitazione protestati. «Viviamo in un mondo di pecore, imprenditori che mi chiedono aiuto ma poi si tirano indietro». M. L. S. era combattiva, il 21 maggio 2015, a un incontro organizzato da Assimpredil, l’ente istituzionale delle imprese edili lombarde, uffici a 300 metri da piazza Affari. Parlava dal palco in qualità di presidente della Associazione Nazionale Antiracket Antiusura Lotta contro tutte le mafie Onlus. «Io purtroppo l’ho provato sulla mia stessa pelle», diceva, per mettere in guardia da «professionisti che non sono all’altezza». Quattro mesi prima il Consiglio di Stato aveva respinto un ricorso presentato da lei per fermare le procedure esecutive avviate su un imprenditore. Il ministero dell’Interno, mostra la sentenza, rilevava che la sua associazione non aveva la «legittimazione a ricorrere», «non essendo iscritta nell’elenco provinciale delle associazioni e delle fondazioni antiracket e antiusura». Cosa ben diversa sono le fondazioni antiusura, riconosciute e iscritte in un apposito elenco del Viminale, che svolgono in favore di soggetti in difficoltà economiche un’importante opera di solidarietà, di aiuto nel promuovere le denunce, di assistenza e di prestazione di garanzie presso le banche, per un più facile accesso al credito. Titolare oggi di due società - la Salute tutela risarcimento e il Centro tutela famiglia e impresa dal sovraindebitamento – M. L. S. nel 2007 era stata condannata in primo grado a Brescia a un anno e sei mesi di reclusione per esercizio abusivo della professione e truffa. Il processo era partito dalla Dental Group, fallita nel 2009: dove oltre che titolare, lei avrebbe lavorato da igienista dentale senza averne la specializzazione e soprattutto avrebbe convinto almeno una paziente a far causa ai dentisti precedenti, per ottenere un indennizzo e sostenere nuove operazioni. Il reato è stato cancellato per prescrizione, ma dal lato civile l’associazione nazionale dei dentisti aspetta ancora una sentenza per il rimborso del danno. Dalla provincia di Brescia, a Erbusco, è partita anche la cavalcata di Jd Group, che si presenta come la «prima e più importante azienda italiana per la verifica dei rapporti bancari». Fatturato da quasi due milioni di euro, oltre a uno studio legale in proprio, la Jd Group vanta l’apertura in franchising di sportelli a Padova (aprile 2016), Modena, Campobasso, Monza, Cremona, Verona. Il vento favorevole sembra avere origine nell’ordine. Un Ordine, in particolare: la Confederazione dei cavalieri crociati. Il rappresentante della società, Daniele Scandella, si presenta infatti sul sito anche come Cavaliere templare e Gran Priore d’Italia, nonché Cavaliere di Malta. Fra le società specializzate nel settore, c’è anche la Sarc Srl.Fondata nel 2014, ha un punto di forza: è partner ufficiale di Dirittialdiritto un’associazione il cui presidente onorario è Luigi Pelazza, l’inviato della trasmissione tv delle Iene. Per l’ente, Pelazza è il volto ufficiale, presente in tutte le comunicazioni. Due anni fa, in una serie di servizi per Mediaset, Pelazza aveva trattato il tema dell’usura bancaria, riscuotendo successo, per il coraggio delle denunce, e l’importanza del tema. In video, interveniva più volte Gabriele Magno, un avvocato proprio di Dirittialdiritto. L’azienda partner che offre poi i necessari Specialisti nell’Analisi e Recupero del tuo Credito bancario, la Sarc srl, è stata amministrata fino ad aprile da Federica Monica Arlandi. Che è a sua volta socia, al 60 per cento, di una srl di cui Pelazza ha il resto delle quote: la Nea Entertainment. In Rete sono centinaia i siti web che si definiscono “centri”, “movimenti”, “onlus” e offrono consulenze per ottenere i rimborsi dagli istituti di credito. A Roma e Milano piccoli e grandi studi legali si stanno buttando nel campo «perché in fondo si raccoglie parecchio, come vittorie e risarcimenti, nelle cause alle banche», spiega Roberto Marcelli, titolare di un noto studio di commercialisti di Roma e presidente dell’Associazione nazionale dei consulenti per i tribunali: «Quantomeno vendono spesso illusioni, però, questi soggetti, perché raramente raggiungono quanto promettono. Quando non offrono proprio dei pessimi servizi». «I ricorsi che arrivano a noi sono di frequente infondati», aggiunge Andrea Tina, professore alla Cattolica e consigliere dell’Arbitro della Banca d’Italia, a cui nel 2014 sono arrivate 11mila richieste di mediazione, di cui oltre 800 per usura (raddoppiate rispetto all’anno precedente): «Ci sono somme improprie, errori, perizie che si vedono esser state spinte, e scritte, da professionisti non “professionali”». Per fermare l’ondata di cause senza basi alcuni giudici hanno iniziato a contro-denunciare per lite temeraria chi avanza pretese fantasiose. Il rischio è che a soffrirne, e a dover quindi risarcire di tasca propria, sia anche l’usurato. Doppiamente gabbato, così. La questione è così importante e opaca da essere stata sottolineata durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario da Maria Chiara Malacarne, presidente vicario del tribunale di Milano: «Anatocismo, interessi ultralegali, commissioni, valute fittizie: il succedersi delle riforme normative, spesso frammentarie e di non chiara comprensione quanto a contenuto e regime transitorio, in questo ambito, alimenta nuovo contenzioso, incidendo su giudizi in corso e rallentando il formarsi di orientamenti giurisprudenziali consolidati», ha detto. Vecchia e nuova confusione si accumula fra i giudici. E fuori, sul mercato. A rimetterci, gli stessi: le vittime d’usura bancaria.

PARLIAMO DI DISUGUAGLIANZE.

PARLIAMO DI POVERI. COSA E' LA POVERTA'

La povertà è fame: sei impossibilitato a sfamare te e la tua famiglia.

La povertà è solitudine: non puoi avere una famiglia.

La povertà è emarginazione: non puoi avere amici.

La povertà è sporcizia: sei impossibilitato a lavarti e ad adottare le più elementari forme di igiene.

La povertà è vivere senza un tetto o in abitazioni insalubri.

La povertà è vivere con vestiti logori e sporchi.

La povertà è malattia: sei impossibilitato a curare te e la tua famiglia.

La povertà è ignoranza: non puoi far studiare te e i tuoi figli per migliorare il futuro.

La povertà è sopraffazione: non puoi difenderti da accuse penali infamanti.

La povertà è staticità: non puoi viaggiare per fuggire.

La povertà è non avere potere e non essere rappresentati adeguatamente.

La povertà è mancanza di libertà e di dignità.

La povertà è silenzio: nessuno ti scolta, anche se hai tanto da insegnare.

La povertà assume volti diversi, volti che cambiano nei luoghi e nel tempo, ed è stata descritta in molti modi.

La povertà è una situazione da cui la gente vuole evadere con qualsiasi mezzo e compromesso.

La povertà è essere indifeso, quindi vittima di sopraffazione ed ingiustizie altrui.

Per capire come si può ridurre la povertà, per capire ciò che contribuisce o meno ad alleviarla e per capire come cambia nel tempo, bisogna vivere la povertà. Dato che la povertà ha tante dimensioni, deve essere osservata mediante una serie di indicatori; indicatori dei livelli di reddito e di consumo, indicatori sociali ed anche indicatori della vulnerabilità e del livello di accesso alla società e alla vita politica. Una forte incidenza della povertà si associa al basso titolo di studio o al basso profilo professionale e, come è naturale, anche, per i casi di disoccupazione.

La disoccupazione è la condizione di mancanza di un lavoro per una persona in età da lavoro (da 15 a 74 anni) che lo cerchi attivamente, sia perché ha perso il lavoro che svolgeva (disoccupato in senso stretto), sia perché è in cerca della prima occupazione (inoccupato).

Molti provvedimenti di politica economica sono finalizzati a far diminuire il tasso naturale di disoccupazione: gli uffici di collocamento, politiche pubbliche di riqualificazione professionale.

In caso di cessazione del rapporto di lavoro per scadenza del termine, per licenziamento e per alcuni casi di dimissioni, al lavoratore spetta un sostegno economico: l'indennità di disoccupazione ordinaria. Al disoccupato viene corrisposta l’indennità per un periodo di 8 mesi che diventano 12 per i lavoratori che hanno superato i 50 anni. Ai lavoratori che sono stati sospesi, spetta invece il contributo per un massimo di 65 giorni. L’indennità è pari al 40% della retribuzione media percepita nei 3 mesi precedenti l'inizio della disoccupazione.

La Cassa integrazione guadagni (CIG) è un istituto previsto dalla legge, consistente in una prestazione economica (erogata dall’Inps) in favore dei lavoratori sospesi dall'obbligo di eseguire la prestazione lavorativa o che lavorano a orario ridotto.

L'art. 1 della legge 20 maggio 1975, n. 164, aggiorna i presupposti applicativi della CIG alla precaria situazione socio-economica degli anni 70, prevedendo interventi di integrazione salariale in favore degli operai dipendenti da imprese industriali che siano sospesi dal lavoro o effettuino prestazioni di lavoro a orario ridotto, e precisamente:

·          integrazione salariale straordinaria per crisi economiche settoriali o locali; per ristrutturazioni, riorganizzazioni o conversioni aziendali. Possono avere accesso alla CIG straordinaria soltanto le imprese che abbiano occupato più di 15 lavoratori nel semestre precedente la richiesta.

COME SI VEDE, GLI INOCCUPATI NON HANNO ASSOLUTAMENTE ALCUNA TUTELA, MENTRE I DISOCCUPATI O I SOSPESI HANNO TUTELE RIDOTTE E TEMPORALI.

In questo stato di cose si è disposti a tutto per superare le difficoltà.

Non ci si deve stupire se, in situazioni disperate permanenti, sia usuale la prostituzione morale (a volte fisica) e l’assoggettamento e la prostrazione schiavizzante nei confronti dei centri di potere, che riconoscono discrezionalmente i diritti solo per alcuni, come se elargissero favori.

Il Voucher è una forma di pagamento per assunzioni necessarie, urgenti ed a tempo determinato. Ha prodotto un incremento delle ore lavoro. Ai comunisti non va bene, perchè loro aspirano ad essere assunti a tempo indeterminato per essere sindacalizzati e speculare sui privilegi. Per loro o così o niente! E fanno di tutto per dimostrare l'inadeguatezza della riforma del lavoro.

Voucher, zona grigia: molti abusi, niente diritti. Margini sempre più ampli. Lavori "standard" che diventano "prestazioni occasionali". Così il Jobs Act ha contributo al boom dei buoni lavoro, scrive Alessandro Gilioli il 7 marzo 2016 su "L'Espresso", giornale di sinistra. Anna Zilli, docente di Diritto del Lavoro all’università di Udine, ha lavorato a diverse ricerche sull’uso dei “buoni lavoro” in Italia, di cui l’ultima è apparsa nella pubblicazione “La flessibilità per la legalità e l’inclusione sociale” (Uniud 2015). A lei “l’Espresso” ha chiesto di spiegare l’evoluzione di questo fenomeno. Il voucher era nato per regolarizzare pochi lavori occasionali. Ora è diventato uno strumento di massa. Cosa è successo? «Basta mantenerne il nome ma cambiarne la funzione. Il voucher del 2003 (poi entrato in funzione nel 2008) era uno strumento utile, facile da usare e che per la sua semplicità si prestava benissimo come mezzo per pagare poche prestazioni marginali (e cioè lavoretti che sarebbero stati svolti in nero da soggetti altrimenti impegnati). Anno dopo anno, se ne è tenuta l’etichetta ma si sono eliminati i limiti (per soggetti e attività)».

Ma ha funzionato di più per far emergere situazioni di illegalità o per creare un nuovo mercato?

«La formulazione originaria aveva una filosofia di emersione molto chiara: piccoli lavori marginali, appunto, che diventa più facile e più sicuro svolgere in regola. Ma alla lunga, annacquandone i limiti, il risultato è un travaso dal lavoro “standard”, con i suoi costi diretti (primo fra tutti, la previdenza) e indiretti (malattia, maternità, ferie), verso mere prestazioni di lavoro, che costano pochissimo, anche perché il valore del voucher è lo stesso dal 2004. Così oggi i settori di maggior impiego del voucher sono il commercio (18,0 per cento), il turismo (13,7) e i servizi (13), mentre solo il 6 per cento ormai è venduto nel settore agricolo e appena il 3 per cento nei servizi domestici, le tipologie per cui era nato».

Il Jobs Act ha cambiato i voucher?

«Con il Jobs Act si sono ampliati i margini: oggi si può lavorare per voucher, in ogni settore, anche nella pubblica amministrazione, e fino a 7.000 euro netti all’anno. I meccanismi di controllo previsti non sono ancora operativi e ci si attende che l’osservatorio Inps - Ministero del lavoro diventi operativo da giugno. Si tratta della forma di lavoro più flessibile e meno costosa, al riparo dalle possibili ispezioni».

Il boom dei voucher è “a tetto” o, al contrario, siamo solo all’inizio?

«Se non si interviene, il travaso da lavoro “standard” verso le “mere prestazioni” sarà sempre più imponente, soprattutto quando, tra due anni, vedremo presumibilmente diminuire lo sgravio sui contratti “a tutele crescenti”».

Esiste ormai un “popolo dei voucher”?

«Sì, esiste, i dati parlano chiaro.  Nel 2014 era già composto da un milione di persone, di anno in anno più giovani (nel 2008 l’età media era 60 anni, oggi è 36) e sempre più sono donne (dal 2014 oltre il 50 per cento). E da popolo “del nord-est”, nato per le vendemmie, il popolo dei voucher è oggi esploso al sud e nelle isole».

Quali diritti bisognerebbe dare al “popolo dei voucher”?

«Intanto c’è un problema di “lavoro grigio”: è facilissimo impiegare un lavoratore in modo continuativo ma far emergere solo un’ora - un voucher di lavoro, da esibire in caso di infortunio o di ispezione. Infatti, non è necessario specificare quando si userà il voucher, ma solo l’arco di tempo (30 giorni) di “presunto” utilizzo. Un costume che va contrastato con la tracciabilità e con la riduzione dei tempi di validità dei voucher. Più in generale, il popolo dei voucher deve essere garantito rispetto ai diritti minimi di cittadinanza del mondo del lavoro: tutela in caso di malattia, gravidanza e maternità, oltre che alla possibilità di accedere a trattamento di sostegno al reddito. Il costo di queste tutele potrebbe essere coperto con un “maxi-voucher” (il primo del rapporto). Ed è un intervento urgente, prima che la forza dei numeri dica la sua».

Operai, postini, professori, camerieri: i nuovi schiavi lavorano a voucher. Eliminati i co.co.co., oggi il precariato passa attraverso i “buoni” a sette euro e mezzo l’ora. Che ormai dilagano, creando una nuova classe sociale. Le storie di chi sbarca il lunario in questo modo, scrive Fabrizio Gatti il 7 marzo 2016 su solito "L'Espresso". Una volta c’erano l’operaio, la guardia notturna, l’autista, il postino, il cameriere, l’idraulico, l’insegnante, il professore universitario. La nostra identità dipendeva anche dal ruolo che il lavoro ci assegnava nella società. Oggi tutte queste professioni, e molte altre ancora, possono essere riassunte in un unico mestiere: il voucherista. Essersi fermati alla terza media, come Andrea P., 49 anni, o avere tre lauree come Marco Traversari, 52 anni, docente universitario, per il moderno datore di lavoro forgiato dalla crisi e dalla retorica della quarta rivoluzione industriale non fa nessuna differenza. Sia Andrea, parcheggiatore notturno a chiamata, sia il professor Traversari valgono 7 euro e 50 centesimi di paga netta l’ora, più un euro e trenta di contributi pensionistici all’Inps, settanta centesimi di assicurazione antinfortunistica all’Inail e cinquanta centesimi di gestione del servizio. Fanno dieci euro tondi tondi: cioè, il costo orario lordo del lavoro nell’Italia che fa scappare i cervelli e tratta chi resta allo stesso modo, dal disoccupato a vita ai proletari della conoscenza. È nata così una nuova classe sociale: il popolo dei voucher, dei buoni-lavoro, degli italiani pagati con uno strumento inventato per gli impieghi saltuari nell’agricoltura e le ripetizioni del doposcuola. Ma oggi esteso a tutti i settori. Un ulteriore contributo della legge all’aumento dei working-poor: i nuovi poveri che, nonostante lavorino, vivono appena sopra il limite di sussistenza, o addirittura al di sotto. Il voucherista non ha infatti diritto a riposi o a ferie pagate. E questo, nel clima di cinesizzazione sociale che stiamo vivendo, potrebbe essere visto come un inutile privilegio. Ma non ha diritto ad ammalarsi, a curarsi, a maternità o paternità, a ottenere un mutuo per la casa, al congedo matrimoniale, al permesso per accudire i figli malati. Cioè a tutta quella serie di conquiste civili che finora hanno fatto la differenza tra un cittadino dell’Europa occidentale e un operaio-suddito dei regimi orientali. Perché al di fuori dei pochi centimetri quadrati del voucher e delle relative ore pagate, il rapporto di lavoro e lo stesso lavoratore cessano di esistere. Pochi giorni fa l’Inps ha confermato il boom anche per il 2015:115 milioni di buoni-lavoro staccati da gennaio a dicembre, contro i 69 milioni del 2014 e i 36 milioni del 2013. Un aumento nazionale del 67,5 per cento in dodici mesi con punte del 97,4 per cento in Sicilia, dell’85 in Liguria, dell’83 in Puglia e in Abruzzo, del 79 in Lombardia. La nuova classe sociale coinvolge già più di un milione e mezzo di lavoratori, due terzi dei quali al Nord. Metà uomini e metà donne. E l’età media è in continua diminuzione: 60 anni gli uomini e 56 le donne nel 2008, anno di introduzione dei buoni-lavoro; 44 e 36 anni nel 2011; 37 e 34 anni oggi. Anche l’età conferma la trasformazione da rimedio estemporaneo per arrotondare la pensione o gli ultimi anni di attività, a retribuzione vera e propria. Nel 2015 i datori di lavoro (imprese, commercianti, famiglie) hanno acquistato voucher per un miliardo e centocinquanta milioni di euro, che hanno generato contributi per quasi 150 milioni all’Inps, per 80 milioni all’Inail e compensi ai lavoratori per 862 milioni e 500 mila euro, oltre a 57 milioni in commissioni burocratiche. La crisi economica fa sicuramente la sua parte. Spinge gli imprenditori a tagliare i costi e a impiegare i dipendenti a ore o a giornata, soltanto quando servono. E mette anche a disposizione una massa di disoccupati, cassintegrati, esodati, mobilitati, licenziati costretti a svolgere più lavori saltuari per raccogliere qualcosa che assomigli alle briciole di una paga. È un po’ come il junk-food, il cibo spazzatura: si mangia quello che capita. Qui siamo al junk-job: si accetta quello che passa. Non sempre, ovviamente, il giudizio è negativo. Per gli studenti superiori e universitari i buoni sono una risorsa contro il lavoro nero o l’apertura di costose partite Iva: permettono infatti di lavorare in regola in bar, ristoranti, negozi e uffici per mantenersi parte degli studi. Nella stessa categoria degli studenti, rientrano quanti arrotondano grazie ai voucher uno o più stipendi part-time. Il lavoro accessorio tra l’altro non va dichiarato al fisco. Ma sono gli unici a dirsi completamente soddisfatti. La seconda categoria di voucheristi comprende quanti integrano in questo modo la magra pensione di anzianità. Oppure il salario di disoccupazione. E per le persone in mobilità sopra i quarantacinque anni la condizione di voucherista diventa una condanna permanente al sottoprecariato: perché l’istituzione dei buoni-lavoro offre ai datori la possibilità di non stabilizzare mai i loro dipendenti. La terza categoria raccoglie gli ex contratti a progetto, ora in gran parte aboliti, e le finte partite Iva, settore crollato del dieci per cento nel 2015. E loro stanno addirittura peggio: è la situazione di migliaia di collaboratori, educatori, addetti di cooperative sociali e piccole società a responsabilità limitata che da qualche mese devono accettare stipendi in minima parte pagati con i buoni. Il resto in nero. L’uso di voucher sta dando corpo anche a due categorie di datori di lavoro: quelli che rispettano la norma e trasformano il rapporto accessorio in contratto non appena l’impiego diventa stabile e quanti continuano a suddividere illegalmente l’impiego stabile in più rapporti accessori. Soltanto due limiti economici imposti dalla legge impediscono al momento una diffusione più massiccia dei voucheristi, auspicata da un’ampia scuola di giuslavoristi rappresentata anche dall’ex ministro nel governo Berlusconi, Maurizio Sacconi. Sono la barriera di settemila euro netti del compenso complessivo annuo in buoni che un lavoratore non può superare e di 2.020 euro all’anno pagati da ogni singolo committente. La terza condizione, cioè il vincolo che si tratti di lavoro accessorio, viene già aggirata da tempo. Soprattutto dove i voucher hanno avuto successo nel coprire il lavoro nero. Ecco cosa accade in Veneto e in Friuli Venezia Giulia, regioni in cui l’impiego di voucheristi ha registrato un aumento del 57,4 e del 40,1 per cento nell’ultimo anno. I buoni-lavoro hanno polverizzato i contratti part-time e stagionali nell’agricoltura. E oggi anche nelle campagne raccontate nel primo romanzo di Pier Paolo Pasolini “Il sogno di una cosa”, grazie ai voucher si ricorre largamente al lavoro nero. La raccolta della frutta e la vendemmia in Friuli durante l’estate e l’autunno 2015 hanno consolidato il rapporto tra la parte dello stipendio pagata in buoni e la parte illegale. È di uno a trenta: 37,50 euro al mese in voucher e 1.062,50 in contante per un massimo mensile di millecento euro. Ovviamente, soltanto per le settimane lavorate. Se piove o la raccolta termina, si va a casa senza paga. Fanno comunque più o meno 40 euro al giorno: un ottimo compenso rispetto ai 25-30 euro pagati, quando va bene, dai caporali in Sicilia, Calabria, Puglia e Campania. Ma che senso ha staccare 37 euro e 50 al mese in buoni-lavoro su un totale di millecento euro? Sono il valore netto di appena cinque voucher: «Certo», risponde Paolo F., 53 anni, ex operaio in un’impresa subappaltatrice di Fincantieri a Monfalcone e oggi bracciante a chiamata: «E sono l’alibi per evitare guai con l’ispettorato. È la prima informazione che ti danno sui campi: “Se viene un controllo, dite che è il primo giorno che fate qui”. Il voucher serve a questo: a coprire l’eventuale verifica o l’eventuale infortunio. Alla raccolta della frutta quest’anno eravamo in novanta. Un po’ di tutto: padri di famiglia come me, cinquantenni in mobilità da anni, donne senza lavoro, qualche romeno. Tutti pagati 37 euro e 50 in voucher al mese e il resto cash. Fanno oltre novantamila euro al mese di nero che l’azienda tira fuori per pagare il personale. Per obbligarli a versare i contributi, basterebbe verificare il lavoro eseguito. Come è possibile raccogliere tonnellate di frutta per i supermercati lavorando soltanto le cinque ore al mese retribuite dai voucher? Inutile aggiungere che di controlli non ne abbiamo mai visti». Perché non vuole sia rivelato il suo cognome? «Perché devo lavorare. I voucher hanno cancellato le ultime tutele sindacali: se parli, come minimo non ti chiamano più». Una norma, introdotta dopo l’inchiesta de “l’Espresso” sul caporalato nella raccolta dei pomodori, impone che i contratti siano registrati un giorno prima del loro inizio. Con i voucher basta un minuto prima: magari lo stesso momento in cui avviene un incidente. «Sappiamo di imprenditori che una volta passato il nostro controllo hanno disattivato il voucher», rivelano i carabinieri del Nucleo di tutela del lavoro in Lombardia: «Lo sappiamo in via confidenziale. L’Inps non ha nessuna banca dati sulle disattivazioni. Il trucco è attivare il voucher tutti i giorni per una sola ora. E magari disattivarlo a fine giornata. Per noi diventa impossibile contestare il lavoro nero. Dall’evasione totale dei contributi si passa all’elusione e le sanzioni si riducono. Dovremmo insomma impiegare uomini e risorse dello Stato per recuperare cifre irrisorie che non giustificano il costo». Basta il confronto con la cedola di una busta paga tradizionale per misurare la smaterializzazione del rapporto di lavoro che il voucher ha garantito. Questo è quanto riporta la busta: ragione sociale dell’azienda, nome e cognome del dipendente, data di nascita, data di assunzione, scatti di anzianità, luogo di lavoro, mansione, figli a carico, ferie, permessi, Tfr, versamenti Inps e Inail. E questo è quanto viene richiesto dal voucher: periodo prestazione, codice fiscale datore di lavoro, codice fiscale lavoratore, firma lavoratore. Fine. Aldo Furini, 55 anni, gestisce con la sorella Silvia la trattoria “Il Santuario” a Rovello Porro, provincia di Como. Pranzo a prezzo fisso a dodici euro durante la settimana e pizzeria-birreria il venerdì e il sabato sera. Molte fabbriche svuotate dalla delocalizzazione. La concorrenza delle mense aziendali. «Tutta la settimana bastiamo noi», racconta Furini, «venerdì e sabato, se abbiamo prenotazioni o prevediamo movimento, chiamiamo i ragazzi. Sono tutti studenti. A volte qualcuno non può o è malato, allora si continua il giro di telefonate finché la necessità è coperta. Li paghiamo tutti con i voucher. Lo Stato ha la grande convenienza. Prende i soldi in anticipo all’acquisto dei buoni e si tiene il venticinque per cento. È un vantaggio anche per l’Inps, visto che per la crisi molte aziende non pagano più i contributi». Mai pensato di stabilizzare uno o due camerieri? «Vorremmo assumere un dipendente a contratto. Ma le spese sono insopportabili. Soltanto per tenere la contabilità della busta paga, la Camera di commercio ci chiede milleduecento euro all’anno per persona. Più di uno stipendio mensile. Noi non ci stiamo dentro». Non per tutti la roulette gira così male. Simone Regio, 39 anni, è soddisfatto. Grazie ai voucher può arrotondare i milleseicento euro netti di due contratti part-time: educatore in un centro di riabilitazione psichiatrica e in un’associazione privata. Il terzo lavoro di voucherista è sui pedali: corriere porta a porta in bicicletta per la “Ubm - Urban bike messengers” di Milano, la più grande società del settore in Italia. Il suo collega, Simone Gambarin, dai buoni-lavoro è passato al contratto a tempo indeterminato sempre con “Ubm”. E a 36 anni può finalmente permettersi la sua prima casa in affitto. «Per noi i voucher sono stati una soluzione», spiega Gianni Fiammengo, proprietario di Ubm, «per tutte quelle persone che lavorano saltuariamente e che così sono pienamente coperte da contratto, assicurazione e Inps. Ora i voucher li utilizziamo poco perché gli sgravi fiscali ci hanno permesso di assumere quattordici corrieri full-time. I buoni li usiamo per i pochi part-time rimasti. Nel frattempo l’azienda si è ingrandita». Marco Traversari è docente nel laboratorio di Antropologia e lavoro del corso di laurea magistrale in Antropologia dell’Università di Milano Bicocca. Insegna anche Antropologia culturale in un liceo di Brescia. È laureato in scienze politiche, antropologia e filosofia ed è autore di libri e manuali scolastici. I due contratti part-time da docente coprono solo il settanta per cento del suo fabbisogno per vivere. Per il rimanente trenta per cento, Traversari deve impegnarsi in consulenze culturali, corsi di formazione, partecipazione a conferenze. E in tutto questo è pagato in voucher. «Nel 2015 i buoni-lavoro hanno spazzato via tutto quello che esisteva: contratti, cococo, cocopro, finte partite Iva, ritenute d’acconto. Dove la pubblica amministrazione ha appaltato i servizi», spiega, «lì le cooperative ora pagano solo in voucher». Ma il cambiamento va oltre l’eliminazione del contratto. I voucher sono la cifra della trasformazione culturale che stiamo vivendo. In gioco c’è il ruolo sociale di ciascuno: in sociologia, il ruolo è costituito dalle aspettative che gli altri hanno del tuo status sociale. Nel voucher il ruolo è indifferenziato. In questo il voucher è l’emblema del postfordismo: è l’espressione della smaterializzazione del lavoro come costruzione della propria identità stabile. Freud però ci insegna che l’identità psicologica stabile deriva dall’equilibrio tra eros e lavoro. Nel momento in cui il lavoro diventa instabile, flessibile, smaterializzato anche l’identità psicologica diventa fluida, instabile». Dove porta tutto questo? «Al problema di non sapere chi sei. Allora diventa potente la necessità di un’identità nazionalistica o religiosa. E lo vediamo in quello che sta succedendo in Europa. Gli studenti comunque vogliono i voucher: chi fa lavori di pochi mesi, trova giusto essere pagato in voucher. La flessibilità è parola che loro mettono in pratica». L’identità di Andrea P., parcheggiatore notturno a Milano, è flessibile da quando ha perso il lavoro di carrozziere. E poi il contratto di autista. Lui ha cercato di nascondere il dramma alla moglie e ai due figli. Per portarli in vacanza, ha speso i duemila euro di risparmio dei ragazzi. Ma quando la moglie lo ha scoperto, l’ha cacciato di casa. Ora Andrea, a quasi cinquant’anni, è tornato a vivere con la mamma, vedova e pensionata. La madre, immigrata pugliese nella Milano del boom economico, non sa che il figlio è un voucherista: 400-500 euro al mese in buoni da marzo a settembre nella stagione dei concerti. Sorveglia le auto del pubblico oppure controlla i biglietti ai tornelli quando a San Siro e nelle discoteche arrivano i grandi nomi della musica italiana e mondiale. Ma di tutto lo spettacolo, Andrea prende soltanto le briciole: «Da settembre a marzo faccio la fame», confessa, «non ho però il coraggio di dirlo a mia madre. Allora mi alzo la mattina alle 6,30, mi lavo e mi vesto. E fingo di andare a lavorare». Il nascondiglio, l’ultimo rifugio stabile sono i tre metri per uno e mezzo della cantina, un finto tappeto di nylon sul cemento, un piumone bianco per scaldarsi, lo scaffale vuoto alla parete, due maglie in cashmere della vita che fu appese a un angolo. Andrea ascolta la radio, dorme, pensa. Fino alle due del pomeriggio, quando esce dal sotterraneo e finge di tornare dal lavoro. La prima volta che l’hanno pagato in voucher, l’hanno perfino fregato. L’impresario di quel periodo gli ha dato buoni per 400 euro. Ma quando il parcheggiatore è andato a riscuoterli dal tabaccaio e poi all’Inps, gli hanno detto che erano stati disattivati. Andrea sorride amaro: «Ho scoperto così che anche il buono non era buono». Un miliardo di stipendi coi voucher: i buoni lavoro sono diventati più mini job per tutti.

Dall’edilizia al turismo, dal commercio ai convegni. Doveva essere solo un modo per far emergere il nero: invece è diventata una forma di impiego diffusa in tutti i settori, scrive Francesca Sironi il 7 marzo 2016 su "L'Espresso". Simone Regio, addetto al recapito posta in bicicletta, è pagato solo in vaucher Piccoli pezzi da 10. Minime tessere, minuscoli frammenti di un puzzle che raccoglie però oltre un miliardo di euro di retribuzioni, ormai. Valgono più di un miliardo infatti gli “stipendi” pagati nel 2015 attraverso i pezzi da 10 dei voucher. I buoni, nati per l’emersione dei lavoretti in nero (pulizie, giardinaggio, ripetizioni) si stanno evolvendo in strumento di massa. Fra i loro più grandi acquirenti ci sono le associazioni sportive e i club di calcio, che ne hanno bisogno per arruolare migliaia di steward durante le partite; oppure le catene di negozi come Stroili Oro, che cercano giovani per le attività di promozione nei centri commerciali; o gli organizzatori di convegni; o ancora i parchi di divertimento, che hanno abbracciato il tagliando azzurro come alternativa ai contratti temporanei che venivano sottoscritti, prima, per i weekend e le aperture straordinarie. Uno strumento più semplice. Ma anche più precario. Il “voucherista” è diventato un passepartout: dal ristoratore all’impresario edile, dall’albergatore al falegname, tutti lo chiedono, tutti lo vogliono. Perché è facile, costa poco ed è sempre in regola. Ma con l’ampliarsi dei modi e delle funzioni, sono aumentati anche gli infortuni, i trucchi, e le maschere per nascondere il volto dei nuovi sfruttati. I sindacati denunciano quello che si nasconde dietro al boom: «Ècome con il doping nello sport: appena riesci ad aggredire un problema, a reprimere gli abusi, subito chi vuole giocare sporco trova un altro sistema per truccare i risultati. Ecco: nell’edilizia, adesso, questo sistema è il voucher». Franco Turri è il segretario generale del sindacato dei lavoratori edili nella Cisl. I loro 600 osservatori stanno incontrando spesso voucheristi in cantiere. A Torino, un’impresa impegnata nella ristrutturazione di una caserma dei Carabinieri aveva arruolato tre persone su 5 con voucher: beccati, sono stati costretti dal comandante a regolarizzare i dipendenti “accessori”. Sempre in Piemonte, un’altra ditta di restauri si è fatta trovare all’opera con cinque manovali: due subordinati, due voucher, una falsa partita Iva. Un’antologia del piccolo precariato. A Bari in un’azienda che produce scheletri in legno per divani, cinque falegnami sono passati dal nero assoluto, in contanti, al nero parziale con retribuzione a voucher per un terzo dello stipendio da 900 euro al mese. Un classico: nel corso di una visita della Guardia di Finanza, il padrone ha timbrato i ticket, evitando sanzioni. «La concorrenza nel settore è selvaggia, e ora la gara al ribasso sui compensi si fa anche così», dice Turri. Dati sicuri su quanti siano i voucher in edilizia, non ce ne sono: il dubbio dei sindacati è che in molti si nascondano dietro quella categoria “altro” dentro cui sta un terzo dei 114 milioni di buoni venduti l’anno scorso. L’Inps sta redigendo un rapporto più approfondito, previsto per aprile. Lo stesso il ministero del Lavoro. In attesa, la preoccupazione resta. Soprattutto per i rischi: «I lavoratori in edilizia devono seguire 16 ore di formazione sulla sicurezza, prima di cominciare. I voucheristi? Niente», spiega il segretario. Il tema è sociale, ma anche economico; nei 10 euro all’ora del ticket, il contributo Inail è standard: 70 centesimi. Che si tratti di un potatore arrampicato su un albero o di un’insegnante di greco, il versamento anti-infortuni è lo stesso. Così i rimborsi agli incidenti da “lavoro accessorio” ricadono sulla fiscalità generale. E gli infortuni, seppure pochi, accadono sempre più spesso: l’Inail ha registrato 1.180 denunce nei primi nove mesi del 2015, di cui 950 riconosciute valide. Nel 2014 erano state 1.400; nel 2012 solo 436. Ancora una volta è la categoria “altro” a coprire il 44 per cento dei casi. Seguito da ristorazione, agricoltura, giardinaggio. Ed edilizia. Appunto. La copertura Inail di centinaia di migliaia di mini-lavoretti che prima venivano eseguiti in contanti, senza alcuna assicurazione, è certamente un passo importante però. E dai riscontri immediati, a differenza forse di quanto si accantona per l’Inps: il 13 per cento dei 10 euro, una percentuale che non è mai stata aggiornata dal 2008, a differenza dei contratti a progetto. «Sono briciole», lamenta Corrado Brachetti della Cgil: «Le pensioni che torneranno ai lavoratori dalle ore retribuite coi voucher avranno cifre irrisorie». Senza incidere poi sull’anzianità contributiva. D’altronde i buoni erano nati per coprire gli extra, non per diventare “impieghi” a tutti gli effetti. E una polvere di versamenti, risponde convinto chi difende gli effetti positivi dei ticket, è sempre meglio del nulla. Anche se, come dimostrano le storie raccolte da “l’Espresso”, spesso i voucher servono più ad agevolare l’evasione, che a combatterla. Ma la soluzione del problema, per il governo, c’è, e a portata di clic. «Renderemo necessaria la pre-attivazione del voucher via sms da parte del datore di lavoro; che dovrà indicare giorno, ora e numero del buono che intende utilizzare», spiega Filippo Taddei, responsabile economico del Pd: «Non c’è bisogno di un decreto ad hoc: basterà una procedura di revisione. Tempo pochi mesi e macro abusi come quelli dei tagliandi tenuti in tasca, inattivi, non saranno più possibili. Senza aggravi per le imprese». Voucher-ottimismo.

Inscatolati in auto nella colonna di agosto. È la grande migrazione del Quarto Stato. Lo scrittore Giorgio Torelli racconta il 1° agosto 1975 l'esodo estivo che (per un mese) cancella le tensioni sociali. (Pubblicato da “Il Giornale” il 6/08/2016. "Il giorno è oggi: alba, motore, frizione, cambio, decollo lungo, primo semaforo, alt, soprassalto emotivo dei cinque congiunti adattati alla capienza della miniutilitaria, la saetta di un moccolo: «Abbiamo lasciato acceso lo scaldabagno!». Che si fa?, si torna? Per forza, si torna. Quel siluro di boiler, di sola bolletta Enel si mangia le ferie, basta figurarsi la spia che si spegne e riaccende; quindici giorni e quindici notti di energia pendolare nell'appartamento deserto, cinquanta litri di acqua potabile destinati a sbollentarsi per nessuno. E, allora, back: motore, frizione, cambio, portone, ascensore, giro di chiavi, porta col dispositivo dall'allarme nuovo e non ancora abitudinario, sarebbe bastato un accorgimento ma chi ci pensava?, ecco altissima la sirena, s'alza a spirale nella tromba delle scale, tre secondi per tamponarla, già si aprono le porte dei rimasti, meglio entrare in fretta, serrare il siluro, riuscire cauti, ascensore, autostrada. Sono le sei. Sorge un sole che ve la darà lui. Meno male che la nonna ha il ventilatore a pile fatto a Hong Kong. La corsia di sorpasso è tutta una nonna. A Lodi, la pila è scarica, già s'allarga una petizione generale di pipì, niente è più remoto del villaggio turistico calabro. La tabella di marcia, fatta con l'Olivetti elettrica della ditta, era tassativa ma ora, neanche a Piacenza Sud, comincia a disossarsi come la lira. Patrizia che vuole il croissant all'autogrill sarebbe niente, è la diaspora che monta. Nel letto dell'Autosole, ciò che nei mesi cosiddetti lavorativi di questo 1975 era corteo sindacale, lotta di popolo e sedizione degli oppressi da Fanfani, si è «mississippizzato» in vetture di tutte le taglie, stormi affiancati e complici nella trasvolata della Padania, meta la balneazione. Si vedrà a settembre inoltrato come combinare la tristitia post voluptatem col nuovo modello di sviluppo. Se, allora, sarà il caso di menarsi, bene: ci si affronterà, almeno da abbronzati, tutti in forma come Otelo de Carvalho reduce da Cuba. Adesso bisogna riposarsi dalla conflittualità permanente, niente è più logorante dello sciopero selvaggio. Quello a singhiozzo, poi, debilita. Partire a plotoni affiancati affrontando anche l'usura di una trasferta resa lenta dal gommone sull'imperiale, significa ripristinarsi ideologicamente. In fondo il gioco è più sottile di quanto non appaia: i lavoratori succhiano energie dalla ultima estate dell'economia di mercato per riversarle, ad autunno fatto, nell'avanzata socialista. Insomma: andare in ferie oggi con la busta-paga del capitale, e rinfrancarsene per poi battere meglio la Confindustria, è azione politica di classe. Lo slip diventa una sfida. Il tanga una arma impropria. Imprenditori: non illudetevi. La colonna semovente del Primo Agosto transita da Cantagallo a contatto di maniglie. Lenta, solenne, il biancore delle nonne, il turgore delle spose, la Lacoste-imitazione dei bambini, la grande migrazione del Quarto Stato brucia in un giorno tanta benzina da far piangere La Malfa e ottenere la scena madre nei telegiornali, mandati in onda presto per austerità. Stanotte, prima che anche il sabato spunti, metà del grosso sarà in linea e l'altra metà in ulteriore avvicinamento. Finché tutto si placherà e sembreremo un paese ammollo. Si dice ammollo per intendere coi piedi in acqua, non fraintendetemi. Non succederà nulla di rilevante anche perché già tutto è accaduto: Carli ha preso le distanze, Moro ha fatto il discorso soft a Helsinki, Umberto Agnelli s'è fidanzato col Pci, il telefono si prende lo scatto non si paga, Pajetta dice a chi lo gettona in un giornale milanese del pomeriggio che: allinearsi o sentirsi picchiare in testa, la pace sociale regna dunque sull'esodo. Perfino Bernacca sembra disposto a non dar conto di eventuali linee di perturbazione atlantica. Perché mai insidiare i meritati ozi di un popolo democratico e antifascista? Qualche morto di migrazione qua e là sull'inutile e abnorme rete autostradale italiana non farà storia. I parenti saranno avvertiti. Il ministro dell'Interno mica scherza. 1° agosto 1975

Fare "cose di sinistra" eterna ossessione del Pd. Dopo la sconfitta sull'Imu, Franceschini & Co. rivendicano la paternità delle misure varate dal governo. Ma sui temi economici rincorrono il Pdl, scrive Antonio Signorini, Sabato 31/08/2013, su "Il Giornale".  Se l'Imu è di destra, il cuneo fiscale è di sinistra. Ma il taglio all'Irap? Forse bipartisan, nel senso che in realtà non lo sostiene nessuno se non Confindustria. La Cassa integrazione senza dubbio di sinistra. Se non fosse che a rafforzarla in funzione anti crisi fu il governo Berlusconi. Probabilmente il ministro del lavoro Maurizio Sacconi, ai tempi, si confuse. Tagliare l'Iva sarebbe di sinistra, ma se ne sta appropriando la destra. Per il bene delle larghe intese ci sarebbe da avvertire Alfano e Brunetta: non invadete campi che non vi competono, fate cose di destra. Bonificate paludi, mietete il grano a torso nudo, ma lasciate stare il taglio delle imposte indirette. Sembra la canzone sfottò del più grande cantautore italiano - Giorgio Gaber - o la stucchevole invocazione identitaria di Nanni Moretti alla classe dirigente del suo partito. Invece è un danno collaterale della riforma dell'Imu. Sta riemergendo la voglia di dare un colore, se non una bandiera, alle politiche economiche. Con buona pace del premier Enrico Letta che le cataloga sotto il termine inglese policy, una patina asettica che dovrebbe proteggerle dalle bufere della politics, cioè la lotta per il potere. Il dibattito sull'abolizione dell'imposta sulla prima casa e l'arrivo della tassa di servizio, su questo versante ha preso una brutta piega. Ultimo complice Dario Franceschini, ministro ai Rapporti con il Parlamento, che in realtà gode di stima bipartisan. Forse per togliersi di dosso l'etichetta di mediatore e di colomba (specie che a sinistra più che a destra finisce impallinata), incalzato da un giornalista del quotidiano Repubblica, ha assicurato: «Stiamo facendo molte cose di sinistra», «mi dispiace per gli alleati ma è così». Esempi? «I 500 milioni per i cassintegrati; il salvataggio dalla disperazione di 6.500 esodati licenziati individualmente; il piano casa» e ancora «la soluzione per i precari della Pa, gli ecobonus, gli incentivi per le assunzioni di giovani, il decreto per la cultura». Ma il segretario Pd Guglielmo Epifani non ne è convinto. E ieri ha incalzato il governo: Serve più sinistra. «Deve fare cose di sinistra. In parte le ha fatte. Continuerà e dovrà farle ancora di più». Colpa, appunto dell'Imu. E colpa sicuramente del Pdl che si è appropriato del risultato. D'altro canto la battaglia l'ha condotta quasi in solitaria il primo partito del centrodestra. «La parte liberale della maggioranza ha semplicemente dimostrato di essere più in sintonia con il Paese», nella versione di Brunetta. Resta comunque difficile capire perché l'abolizione dell'imposta sulla prima casa debba per forza essere una cosa di destra. A essere maligni, verrebbe da pensare che la sinistra prima invochi il «diritto alla casa». Poi, una volta che le masse sono intrappolate dentro le quattro mura, cerchi di bastonarle con una tassa. In realtà la sinistra, quella del più puro che ti epura, non ha mai dato la precedenza alle politiche. Il perno di tutto resta la lotta per guidare il partito. I leader hanno ripetutamente cambiato l'etichetta destra e sinistra (cioè l'essere per politiche più liberali o più sociali, sempre dentro l'alveo della sinistra) con disinvoltura e spregiudicatezza. E a ben guardare il vizio non lo perderà nemmeno nel prossimo futuro. Basta guardare l'evoluzione di Matteo Renzi. Prima «destro» all'ennesima potenza, mai un accento contro Silvio Berlusconi e per questo bestia nera della nomenklatura ex Pci e dei militanti identitari. Su questo ha costruito la sua fortuna, intercettando il consenso dei moderati. Ora sta diventando il campione degli anti Cav. Anche a lui avevano chiesto di fare una cosa di sinistra.

Licenziare è di sinistra, assumere è di destra. Cari renziani, voi oggi dite che licenziare è di sinistra, noi crediamo che creare posti di lavoro sia di destra, scrive Salvatore Tramontano, Lunedì 18/01/2016 su "Il Giornale". Contrordine compagni: licenziare è di sinistra. Lo scrive, lo sottoscrive, lo giura L'Unità, quotidiano fondato da Antonio Gramsci. Adesso, quindi, bisogna riscrivere il passato. Chi ha sempre combattuto gli statali assenteisti? Il Pci, la Cgil, la Cosa rossa, il Pds, i Ds, l'Ulivo e naturalmente il Pd. Chi non sopporta i fannulloni? Sempre loro. Chi odia l'assistenzialismo, il welfare per i furbi, le rivendicazioni dei parassiti? Idem, vedi sopra. Chi crede nella meritocrazia? La sinistra. Chi sogna il posto fisso? Checco Zalone, storicamente di destra. Il Pd invece viene da una tradizione politica e culturale che ha sempre tutelato chi lavora seriamente, soprattutto nella pubblica amministrazione, contrastando con scioperi generali una volta a settimana chi lo impedisce. Se non ve ne siete mai accorti non è colpa vostra. Non ve l'hanno spiegato bene. Adesso per fortuna c'è il renzismo che riscrive la storia di questo Paese, mette le cose a posto, e cambia quei brutti errori di sceneggiatura. Il prossimo passo sarà raccontare che piccoli imprenditori, commercianti e artigiani sono stati l'avanguardia comunista, che hanno sempre votato Cossutta e che la destra cattiva li ha sempre messi all'indice come bottegai ed evasori. Basta ricordare tutti i movimenti e le pubblicazioni che negli anni '70 avevano già nel nome l'identità pro-commercianti: Potere Macellaio, Collettivo Falegnami, Tutto il potere alle partite Iva, Democrazia Pizzicagnola. Benvenuti allora nel mondo alla rovescia, in quello in cui purtroppo o per fortuna viviamo. Licenziare non è di destra o di sinistra. È qualcosa che fa male, che solo i cinici fanno a cuor leggero, e anche quando qualcuno se lo merita non è mai una vittoria. Di certo c'è che la sinistra ha alzato barricate per mantenere i privilegi degli statali. Non per particolare amore, ma perché quello era lo storico serbatoio elettorale di Botteghe Oscure e dei suoi eredi. La sinistra è quella dei diritti acquisiti. Sono i liberali che parlano di opportunità, di dare gli strumenti a chi ha voglia di fare, di abbattere le gabbie delle posizioni definite. È la sinistra che ha considerato intoccabili gli iper-garantiti, lasciando senza futuro e senza lavoro la grande massa di precari, giovani e ormai anche meno giovani. No, cari renziani, la storia dice altro. Voi oggi dite che licenziare è di sinistra, noi crediamo che creare posti di lavoro sia di destra. Liberale, liberista e libertaria.

Renzi vuole licenziare i fannulloni. Brunetta: con me era contrario. "Tutta la sinistra e tutti i giornaloni si rivoltarono", scrive il16 gen 2016 "Askanews". "Quando nel 2008 a combattere i fannulloni con norme, analisi, monitoraggi, trasparenza e sanzioni era l'allora ministro della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, tutta la sinistra e tutti i giornaloni si rivoltarono contro". Lo afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati di Forza Italia, che aggiunge: "Adesso che lo fa Renzi in maniera opportunistica, strumentale, becera e superficiale se ne stanno tutti zitti oppure plaudono". "Che ci sia qualcosa che non vada, non solo tra i fannulloni ma soprattutto in questo mondo di opportunisti - prosegue - che sembra avere nella sinistra politica e sindacale il suo habitat naturale? C'è n'era uno in particolare a sinistra che strillava e diceva a piè sospinto: “Non faccio mica il Brunetta io”, ed era l'allora sindaco di Firenze. Tale Matteo Renzi. Potenza dell'opportunismo".

PERCHÉ SUL LICENZIAMENTO VELOCE DEI FANNULLONI DELLA P.A. RENZI HA RAGIONE. Scrive il 17 gennaio 2016 Fabio Salanda su “Gli Stati Generali”. C’è qualcosa di surreale nella polemica scoppiata in queste ore tra il Presidente del Consiglio Matteo Renzi e ciò che resta dei sindacati, in particolare la CGIL. Vero. La norma che verrà discussa nel prossimo Consiglio dei Ministri porta in sé delle note di populismo, almeno per come è stata comunicata. Le #48ore che passeranno dal momento della contestazione dell’atto di assenteismo alla sospensione e all’avvio della procedura di licenziamento sembrano l’hashtag di uno dei tanti annunci del premier correlati da un numero, in questo caso, appunto, il 48. Tuttavia, l’atteggiamento del sindacato è ancora una volta incomprensibile, così come quello di quella parte non residuale del mondo della sinistra che ancora si ostina a voler proteggere delle “riserve indiane”, senza riuscire a guardare a ciò che è oggi il mondo del lavoro nel suo insieme, perdendosi ancora una volta per strada i tanti che non è mai riuscita a rappresentare. La verità è che non esiste alcun valido argomento per opporsi al licenziamento immediato di quei dipendenti pubblici che timbrato il cartellino, escono e vanno a fare i loro giri. Neanche uno. Ci sono generazioni che anche per colpa di quei dipendenti un cartellino non l’avranno mai. E con quel cartellino non avranno mai una tredicesima, una pensione, la possibilità di chiedere un mutuo, di fare figli. È un problema che ha radici ormai quasi ventennali e nasce dal 1997, quando con il pacchetto Treu iniziò la precarizzazione del mondo del lavoro e si divisero con un’accetta i destini di quei garantiti che sarebbero diventati via via sempre meno e quelli dei senza tutele, che al contrario sarebbero diventati sempre di più. Quella stagione politica ebbe come protagonisti le figure apicali della sinistra di allora: Massimo D’Alema e Sergio Cofferati. Vi fu un dibattito incentrato soprattutto sulla necessità di far emergere il sommerso, quel lavoro nero che strozzava l’economia e umiliava i lavoratori. Si scelse così di creare il lavoratore di serie B; la politica decise, il sindacato si adeguò opponendo una flebilissima resistenza. Quella legge fu il cavallo di Troia con cui si annientarono i diritti dei lavoratori, soprattutto quelli delle nuove generazioni. In quei giorni probabilmente si recise per sempre il cordone ombelicale tra gli eredi del PCI e gran parte del suo popolo. Moriva lì, all’alba dei Co.Co.Co., il “grande partito dei lavoratori”. E con il passare degli anni anche parte dell’elettorato più convinto lo capì rendendo meno dogmatico il suo voto. A trarne giovamento, nei primi anni, fu soprattutto la Lega; oggi in molti votano M5S. In quei giorni iniziava anche il declino del sindacato, che scegliendo di rappresentare solo una parte dei lavoratori divenne spesso inviso a tutti quelli che non erano rappresentati e anzi lo vedevano sempre più come un ostacolo alla propria crescita professionale. È il caso delle tante aziende private dove i pochi “tutelati” sono mediamente i meno produttivi e dove i precari sono quelli che mandano avanti la baracca, perché con la leva del ricatto occupazionale a quei lavoratori si può chiedere di più. Precari che il sindacato non ha mai considerato lavoratori “reali” perché sarebbe stato come “legittimare” quel tipo di contratti. Peccato che quei contratti sono stati sempre più legittimati dai numeri, numeri che hanno indebolito sempre più il ruolo e il peso dello stesso sindacato. Ma torniamo ai fannulloni della P.a., a quei tanti che timbrano il cartellino (quando non se lo fanno timbrare da altri) e poi vanno a fare la spesa, vanno in palestra, o se ne stanno semplicemente a casa a spese della comunità. Sono loro l’unico problema dell’inefficienza della macchina statale? Sicuramente no. Ci sono dirigenti che non dirigono, ci sono sprechi, ruberie e quant’altro. Ma questo non è un buon motivo per salvare questi lavoratori. Chi li protegge fa un torto a chi onora quel cartellino entrando in ufficio a fare il suo dovere, ma soprattutto a chi il suo diritto al lavoro se lo guadagna giorno per giorno, senza sapere se il giorno dopo lavorerà.

Crozza: “Fannulloni? Anche i parlamentari che vanno in tv non fanno un cazzo. Non è vero, lavorano. Alla cazzo”, scrive “Il Fatto Quotidiano TV" il 19 gennaio 2016. Copertina di Maurizio Crozza, che apre la nuova puntata di Dimartedì (La7), soffermandosi sull’annuncio che il premier ha fatto sul licenziamento dei dipendenti pubblici fannulloni: “Renzi ha detto che i fannulloni devono andare a casa entro 48 ore. Significa che, se oggi è martedì, entro giovedì si svuotano tutti gli uffici pubblici, che praticamente diventeranno oasi naturalistiche incontaminate. La natura, infatti, in assenza dell’impiegato pubblico, si riprende il possesso dei Comuni. Senza fannulloni nascerà il Parco Nazionale dell’Anagrafe”. Il comico ironizza sull’indolenza e sulle risposte non eccessivamente gentili di alcuni impiegati pubblici e aggiunge: “Non me la prendo con statali, perché ci sono anche degli statali che… che… Vabbè, non me la prendo con gli statali. Io ho visto anche statali che si facevano un mazzo così. A Berlino. Però li ho visti”. E aggiunge: “Ha ragione Renzi: uno statale che viene beccato da una telecamera a non fare niente invece che lavorare in 48 ore deve andare a casa. Solo che dovremmo estendere questo provvedimento a tutte le telecamere e quindi alle telecamere di Agorà, Porta a Porta, La Gabbia, Dimartedì, Ballarò, Otto e Mezzo, Piazzapulita, Quinta Colonna, Matrix, Virus, L’Arena, perché quelle trasmissioni sono piene di parlamentari che, invece di lavorare, non fanno un cazzo. Giusto?” – prosegue – “E i parlamentari sono statali. Giusto? Quindi, in questo Paese possiamo affermare che dal primo dei parlamentari all’ultimo degli impiegati nessuno fa una beata telecamera. Quindi, entro giovedì, Renzi, che è il capo degli statali, va a casa. Giusto? Perciò venerdì si vota. Giusto?”. Crozza osserva: “Non è vero che i parlamentari non fanno un cazzo. Purtroppo lavorano. Alla cazzo, ma lavorano. Volete uno stipendio senza lavorare? Rivolgetevi al sindacato. Bon per farvi aiutare, ma per farvi assumere”. Il comico imita, quindi, Maurizio Landini, ospite in studio, e Susanna Camusso. Tornato nei suoi panni, Crozza continua: “La domanda è: ma in questo Paese chi è che lavora? Le trattorie. E poi Juncker si lamenta che a Roma un interlocutore? Ma per forza. Ha provato a telefonare a Er Pallaro a Campo de’ Fiori? E come interlocutore c’è anche Gentiloni, che era il portavoce di Rutelli, mica un pupazzo. Era il portavoce del pupazzo. Non gli piace nemmeno Gentiloni? C’è Alfano. Ah, vedi che ora rivaluta Gentiloni?”. La copertina di Crozza si conclude con un riferimento alle banche: “Banca Etruria è fallita, il Monte Paschi di Siena sta trascinando tutti i titoli bancari nel baratro. Come mai tutte le banche che scricchiolano sono in Toscana? Ma scusa, Giova, quanti papà ha la Boschi?”

La battuta ha scatenato il popolo del web, che ha risposto con commenti più o meno eleganti. “Hai preferito lo stile bagaglino, Battute a Landini… luoghi comuni. E così in pochi minuti da satirico sei diventato giullare, hai insultato milioni di persone che lavorano – gli insegnanti di tuo figlio sono statali – ma hai portato a casa la pagnotta. Mauri hai pestato una merda. Gli insegnanti di tuo figlio sono lavoratori statali, hai insultato milioni di persone che lavorano'”. Qualcuno ci è andato giù pesante: “Caro Maurizio, vieni un giorno a lavorare in una casa di riposo. Dovrai indossare prima i guanti (altro che smalto sulle unghie) perché sai, per pulire la merda dagli anziani bisogna usare i guanti. Guanti pubblici”. E ancora “Crozza vergognati! Vai in miniera a 1.000€ al mese che magari impari il rispetto per chi lavora”, o “La battuta è bella, ma sei un poveraccio se pensi che tutti nella PA non lavorino”. C’è poi la categoria dei delusi: “Che delusione, pure tu con i luoghi comuni!”, “Il pezzo di ieri è stato davvero deludente, perché umiliare pubblicamente, per l’ennesima volta, tutta una categoria?”. Tra i tanti detrattori, c'è anche chi difende il comico di La7: "Qui si sta travisando, se non avete capito che Crozza è partito da un luogo comune per arrivare a definire i politici come i primi lazzaroni in Italia, da licenziare tutti, allora la comicità e la satira non fanno per voi". I commenti hanno costretto il comico a rispondere e correggere il tiro con un successivo post: "Amici statali perché ve la prendete così? Le mie sono iperboli, paradossi, a volte solo semplici battute" - ha spiegato Crozza - "Credo sia giusto ridere anche delle debolezze che attanagliano tutti noi. So benissimo che la maggior parte dei dipendenti pubblici lavora tanto ed è pagata poco".

 “L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.  La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione." Di Antonio Giangrande

C’è, chi è cristiano. C’è, chi è mussulmano. C’è, chi è comunista. Sì, perché il comunismo è una religione e non una ideologia.

A tal fine la lotta per l’uguaglianza, sbandierata dai comunisti, non è altro che una presa per il culo della massa, per arrivare a detenere il potere e fare le leggi nell’interesse del sistema di potere che ha sostenuto la sua presa di governo. 

Ecco perché, poi, succedono certe cose.

Colonia: a Capodanno donne aggredite da mille uomini ubriachi “di origini arabe o nordafricane”. La notte si è conclusa con oltre 90 denunce, una delle quali per stupro, anche se la polizia crede che aumenteranno nei prossimi giorni. Il sindaco Reker: "Quello che è accaduto è inaudito". E anche a Monaco si sono verificati episodi simili nella notte di San Silvestro, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 5 gennaio 2016. Circondate, palpate, molestate e derubate la notte di Capodanno. A Colonia un migliaio di uomini ubriachi tra i 15 e i 39 anni e “di origini arabe o nordafricane” hanno aggredito decine di donne la notte di San Silvestro nei pressi del Duomo e della stazione dei treni. Il risultato: 90 donne che hanno denunciato furti e molestie, incluso uno stupro, anche se la polizia ritiene che le segnalazioni aumenteranno nei prossimi giorni. “Quello che è accaduto è inaudito”, ha detto il sindaco di Colonia Henriette Reker, accoltellata in ottobre alla vigilia delle elezioni per il suo atteggiamento favorevole all’accoglienza dei rifugiati siriani. Un suo portavoce ha assicurato che il sindaco non intende tollerare che nella sua città vi siano aree dove la legge non è rispettata. Allo stesso tempo vi è il timore che la vicenda venga strumentalizzata da gruppi razzisti o anti migranti. La Reker vuole anche predisporre un piano di sicurezza per il Carnevale, che ogni anno richiama oltre un milione di visitatori nella città renana e oggi coordinerà l’unità di crisi che dovrà varare misure per tutelare in futuro le donne da violenze di questo genere. E anche Angela Merkel, secondo quanto riferito dal suo portavoce Steffen Seibert, ha chiesto una dura risposta dello Stato di diritto. In una telefonata al sindaco di Colonia, la Cancelliera ha espresso il suo sdegno per le violenze, ha aggiunto Seibert, e ha chiesto che ogni sforzo venga indirizzato per indagare e condannare al più presto i colpevoli, senza riferimento alla loro origine. La dinamica – Gli uomini si sono radunati in piazza per poi dividersi in gruppi più piccoli, di 5 persone circa ciascuno, che hanno proseguito la caccia alle donne e hanno lanciato, secondo quanto raccontato dalla polizia, una quantità fuori dall’ordinario di petardi e fuochi d’artificio. E gli aggressori non si sono fatti impressionare neppure dall’intervento della polizia, sempre più massiccio. Intanto alcune vittime hanno raccontato ai media tedeschi la loro notte dell’orrore. La 27enne Anna ha descritto così allo Spiegel online il suo arrivo con il fidanzato alla stazione centrale: “L’intera piazza era gremita di soli uomini. C’erano poche donne isolate, impaurite, che venivano fissate. Non posso descrivere come mi sono sentita a disagio”. Ma Colonia non è stata l’unica città in cui si sono verificati questi episodi. Anche la polizia di Amburgo sta indagando su reati simili, sempre avvenuti nella sera di Capodanno. Nella città anseatica, luogo delle aggressioni è stata la Reeperbahn, la via nel quartiere St. Pauli famosa per i locali a luci rosse. Anche qui gruppi di uomini hanno circondato e molestato sessualmente donne che festeggiavano l’inizio del nuovo anno, derubandole di soldi e telefonini. Un portavoce della polizia ha spiegato che si indaga su 9 casi.

Stranieri e rifugiati siriani fra gli assalitori di Colonia. Il rapporto: «Le donne hanno dovuto attraversare delle forche caudine». Denunciate altre aggressioni sessuali dalla Finlandia alla Svizzera, scrive Elena Tebano l'8 gennaio 2016 su “Il Corriere della Sera”. A sera la piazza tra la stazione e la cattedrale di Colonia è quasi vuota, pochi lampioni a illuminarla mentre i passanti si affrettano sul selciato battuto dalla pioggia e sfilano tra i quattro poliziotti in tenuta antisommossa che presidiano l’ingresso principale ai binari. Un tentativo di mostrare che lo Stato c’è, mentre montano sempre di più le critiche per la risposta insufficiente delle forze dell’ordine alle aggressioni che la notte di Capodanno hanno trasformato il cuore della città in un inferno per «le donne che - come si legge in un rapporto della polizia - sole o accompagnate hanno dovuto attraversare delle vere e proprie forche caudine formate da masse di uomini pesantemente ubriachi». Intanto sono salite a 121 le denunce: «In tre quarti dei casi - ha affermato un portavoce della polizia - si tratta di reati a sfondo sessuale spesso avvenuti in concomitanza con furti o borseggi». Due denunce sono per stupro, le altre per «furti o lesioni». Sedici i sospetti identificati, «in gran parte uomini di origine nordafricana». Secondo il settimanale Der Spiegel ci sarebbero inoltre 4 fermati: due nordafricani accusati di furto e arrestati già a Capodanno, e altre due persone, in cella da quattro giorni, su cui le autorità non hanno dato informazioni e che sono invece accusate di molestie sessuali. La polizia assicura adesso di aver messo al lavoro sulle aggressioni ben 80 agenti (una task force chiamata senza nessuna ironia «Neujahr», «anno nuovo»), ma dal rapporto interno pubblicato ieri da Der Spiegel e dal quotidiano Bild emerge che gli uomini dispiegati l’ultimo dell’anno erano invece del tutto insufficienti ad affrontare il «caos» di «risse, furti, assalti sessuali alle donne» e che «le forze presenti non hanno potuto controllare tutti gli avvenimenti, gli assalti e i reati, perché erano troppi contemporaneamente». In alcune fasi non è stato possibile, scrive il funzionario rimasto anonimo, neppure verbalizzare tutte le denunce. Ma a suscitare polemiche sono anche i particolari che emergono sui presunti aggressori: molte vittime hanno confermato che erano stranieri, all’apparenza immigrati. E persino rifugiati: «Sono siriano, dovete trattarmi amichevolmente, mi ha invitato la Signora Merkel!» avrebbe detto uno dei sospetti citato nel rapporto. Altri avrebbero strappato i loro permessi di soggiorno di fronte agli agenti: «Non potete farmi niente - avrebbero commentato sprezzanti - domani vado a prendermene uno nuovo». Le molestie di Colonia non sono un fatto isolato: altre 70 aggressioni a sfondo sessuale sono state denunciate ad Amburgo, 12 a Stoccarda, sei nella vicina Svizzera, a Zurigo. Anche a Helsinki, in Finlandia, nella notte di Capodanno ci sono state molestie sessuali diffuse nella piazza centrale, che ospitava circa ventimila persone per i festeggiamenti, e sono stati denunciati tre stupri nella stazione centrale, dove si erano radunate circa mille persone, per lo più iracheni. In quest’ultimo caso i presunti aggressori sono tre richiedenti asilo, che sono stati arrestati. Al momento non risultano legami tra quanto successo nelle diverse città, ma ci sono stati contatti tra le polizie europee e tra le ipotesi al vaglio degli investigatori c’è quella di una comune regia: forse da parte di gruppi xenofobi che potrebbero aver aizzato gruppetti di immigrati per poi cavalcare l’indignazione causata dagli assalti. Di certo a Colonia il problema furti e molestie non è nuovo: «Nella zona della stazione si aggirano bande di giovanissimi che sono arrivati da adolescenti in Europa da Tunisia, Algeria e Marocco, si spostano spesso da un Paese all’altro e vivono di espedienti - dice al Corriere un volontario che lavora con i migranti e chiede di rimanere anonimo -. È possibile che fossero tra coloro che hanno agito a Capodanno. In generale quando ci sono gruppi di soli uomini fatti o ubriachi, non conta da quale Paese arrivino, facilmente ne fanno le spese le donne. Di solito qui succede a Carnevale, che attira sempre una grossa folla. La polizia lo sa e arriva con gli autobus per arrestarli. A Capodanno però nessuno se lo aspettava».

Colonia, gli immigrati dopo le violenze: "Da qui non potete cacciarci, ci ha invitati Frau Merkel". "Persone di origine straniera hanno lanciato molotov". In un rapporto choc gli agenti di Colonia smascherano le violenze degli immigrati: "Capodanno fuori controllo". Ed emerge tutta l'arroganza degli stranieri nei confronti delle forze dell'ordine, scrive Andrea Indini Giovedì 07/01/2016 su “Il Giornale”. Il caos e il clima di violenza della notte di Capodanno, a Colonia, dove un centinaio di donne indifese sono state aggredite, molestate e derubate da un migliaio di immigrati ubriachi, avrebbero potuto "anche provocare dei morti". Il rapporto choc della polizia tedesca, di cui la Bild pubblica alcuni stralci, svela senza più ombra di dubbio le gravissime colpe degli immigrati che la notte di San Silvestro hanno tenuto in ostaggio Colonia. Nel dossier si descrivono fra l'altro gli attacchi con bottiglie molotov e oggetti contundenti contro la polizia a cui è stato del tutto "impossibile" identificare gli aggressori delle violenze denunciate da donne in lacrime a fatti ormai avvenuti. Mentre il bilancio dei sospettati sale a sedici, le donne che hanno denunciato di essere state aggredite nella notte di San Silvestro sono già 121. Due terzi delle denunce riguardano anche molestie sessuali. In due casi, invece, si tratta di stupro vero e proprio. I principali sospettati non sono ancora stati identificati per nome, ma gli inquirenti li avrebbero già chiaramente riconosciuti attraverso le immagini video. Per vittime e testimoni oculari gli aggressori erano per lo più di origine nordafricana e araba. "Se emergesse che fra i responsabili ci sono anche dei richiedenti asilo - ha assicurato il ministro della Giustizia Heiko Maas - questi potrebbero essere espulsi". Anche per la cancelliera Angela Merkel è necessario trarre estese conseguenze da quanto accaduto. "Ad esempio - ha detto - dobbiamo valutare se finora sia stato fatto abbastanza per le espulsioni di stranieri macchiatisi di reati". Nel rapporto della polizia di Colonia ci sono, poi, le voci provocatorie di alcuni immigrati. Voci che provano il fallimento delle politiche buoniste della cancelliera. Ascoltarle è un ulteriore affondo a tutte quelle donne che, durante i festeggiamenti di Capodanno, sono state molestate e aggredite. "Sono siriano - ha urlato in faccia un profugo a un agente che lo aveva fermato - dovete trattarmi bene, mi ha invitato Frau Merkel". Un altro straniero, dopo aver stracciato il permesso di soggiorno "con un ghigno", ha sfidato il poliziotto deridendolo:"Non puoi farmi niente. Ne prendo un altro domani". Anche se non vi è alcun collegamento con i drammatici fatti di Colonia, a Weil am Rhein quattro siriani sono stati arrestati per aver violentato due adolescenti la vigilia di Capodanno. Le ragazze si trovavano nell'appartamento di uno degli immigrati quando sono arrivati il fratello 15enne e altri due 14enni e la situazione è degenerata. Le giovani sono state ripetutamente stuprate, per tutta la notte.

VIOLENZA SU 80 DONNE A COLONIA DA PARTE DI 1.000 “INTEGRATI”! IL SILENZIO ASSORDANTE DEI NOSTRI MEDIA, DELLA NOSTRA POLITICA RADICAL-CHIC E DELLA NOSTRA “INTELLIGHENTIA” (di Giuseppe Palma il 7 gennaio 2016). Circa 1.000 uomini (di origine nord-africana ed araba) hanno abusato, molestato e in alcuni casi violentato circa 80 donne! Al di là dei pesanti aspetti criminosi, che ovviamente riceveranno – si spera – un’adeguata risposta da parte della giustizia tedesca, il problema è tutto politico: la totale assenza dell’UE e l’ipocrisia della classe dirigente della maggior parte degli Stati europei, soprattutto di quella italiana. La nostra intellighenzia radical-chic (che poi è quella che vota Partito Democratico, SEL e Scelta Civica), sempre pronta a lavarsi la bocca con le parole “integrazione” e “ci vuole più Europa”, dopo i fatti di Colonia tace vigliaccamente! Su tutti, Laura Boldrini & Co., cioè quel manipolo di finte femministe, finte europeiste e finte sostenitrici dei diritti civili che – di fronte alle violenze poste in essere dai 1.000 immigrati di Colonia su 80 donne indifese – si sono nascoste dietro un silenzio assordante! Ma la storia è vecchia! Il manovratore (UE e capitale internazionale) e i politici che ne sono a libro paga non vogliono che il popolo si renda conto delle bestialità che stanno accadendo! L’immigrazione selvaggia serve all’€uro per poter abbassare i salari e le garanzie contrattuali/di legge del lavoratore! Quindi, bisogna a tutti i costi tacere! Vero, Laura Boldrini? Di fronte alle cene di Arcore (che Berlusconi pagava coi soldi suoi e dove mai nessuna violenza – di nessun tipo – fu fatta) tutte queste ipocrite femministe, ben appoggiate dalla solita e sporca intellighenzia di casa nostra, si scagliarono contro il “degrado” in nome della “moralità” e dell’ “immagine internazionale”. Oggi tacciono! Di fronte a qualche offesa verbale di qualche politico nostrano verso il problema dell’immigrazione, quelle stesse femministe e quegli stessi intellettuali (si fa per dire!) non si tirano indietro dall’etichettare tali episodi con parole come xenofobo, razzista, fascista etc…Il doppio-pesismo della sinistra italiana (e soprattutto dei post-comunisti e dei falsi buonisti) è qualcosa di vergognoso! Dove sono la signora Kyenge (eurodeputata PD) e il signor Chaouki (deputato PD)? Dove sono questi ipocriti benpensanti? Dov’è Niki Vendola (SEL)? Dov’è Gennaro Migliore (PD)? Dov’è Marianna Madia (PD)? Dov’è Simona Bonafè (PD)? Dov’è Anna Ascani (PD)? E soprattutto, dov’è Laura Boldrini? In tutto questo, anche i media hanno taciuto! Del resto, si sa: le linee editoriali dei giornaloni e delle TV italiane sono a favore dell’immigrazione selvaggia e dei crimini €uropei! Siamo rappresentati dalla peggiore politica e dalla peggiore intellighenzia!

Colonia: staccate la spina a questo schifo di Europa, scrive il 7 gennaio Emanuele Ricucci su "Il Giornale". Barbari! Barbari approdati nella terra di nessuno, nella terra di niente, solo un corridoio per l’avvenire, solo una capanna per la pioggia, niente più. “Le donne che hanno denunciato di essere state aggredite nella notte di San Silvestro sono già 121. Due terzi delle denunce riguardano anche molestie sessuali. In due casi, invece, si tratta di stupro vero e proprio”. Capodanno, Germania. Uomini contro donne. Prima di imparare ad essere altro, dovremmo ricordarci di essere noi stessi. Dove sono i cortei di sdegno del regime dei benpensanti? Non vedo Laura Boldrini ed accoliti, piangere, fissare un angolo silenziosamente, ansimare di dolore durante le dichiarazioni pubbliche post accaduto. Non sento il tonfo dei “buoni per davvero” del mondo omologato cadere a terra, svenuti. Non sento gridare alla fine, alla barbarie, al dramma più epocale nella storia del femminismo e dell’umanità. Non sento la rabbia, la voglia di cambiare, per davvero. Calano – gentilmente oggigiorno – i barbari, si ammosciano gli attributi. Che sia abbia il coraggio di ammettere che la situazione è fuori controllo, per Colonia? Non soltanto. Da un mese? da ben più di qualche mese. Mentre i sinistri nostrani scoprono che il dolore e l’errore provengono anche da dove non gli conviene guardare, risalgono gli echi delle “marocchinate”, dei marocchini deI Corps expéditionnaire français en Italie agli ordini del generale Alphone Juin, barbari immondi colpevoli – durante la Campagna d’Italia nella Seconda Guerra Mondiale – di migliaia di violenze ed omicidi compiuti ai danni di uomini, bambini, anziani e soprattutto, delle nostre donne, madri dei nostri figli. Colonia come le “marocchinate”, quando cominciò la vigliacca genuflessione dell’Occidente, mascherata da progresso. Tra Arabia ed Iran ai ferri corti, Schengen schifato da Paesi “liberalissimi”, tra gli esperimenti atomici koreani e l’impazzimento generale, abbiamo fior fior di ragazzoni, ipertecnologici tra le fila dell’esercito. Armi di quarantaquattresima generazione, addestrati al judo, al pugilato, al Krav Maga, finanche al Monopoly da competizione; abbiamo testate, contro testate, iper Consigli di sicurezza, abbiamo tecnologia come se piovesse. Poi miliardi di Euro di fondi da spendere in aerei supersonici, guerre, guerrette, democrazia in scatola e a domicilio ancora fumante. Abbiamo, abbiamo, abbiamo. Abbiam tutto, non abbiamo nulla. Abbiamo due guerre mondiali sulle spalle, svariate guerre di indipendenza, ribelli e ribellioni, anni di terrorismo interno, ancor prima che esterno, paure e crisi, rivoluzioni e tentate rivoluzioni e poi, e poi non riusciamo neanche ad evitare l’impensabile, a difenderci dalla brutalità di strada, come a Colonia, dopo non essere riusciti a difendere le nostre sovranità, i nostri figli, le nostre tradizioni, le nostre culture, genoma delle nostre identità. Non occorre scrivere quale sia il rimedio e neanche quale trattato invocare, quale linea di politica estera da seguire. Quale iniziativa, a mo di legge speciale stilare, né descrivere dettagliatamente a quale disastro totale stiamo assistendo. Viene solo da pensare che non ci sia più da star, poi, così tranquilli, a fermare il vomito, ormai incastrati in una marea fangosa di bulimia di informazione, si passa oltre, alla prossima notizia, con freddezza, come uno stupro. C’è tanta nausea, lo stupro è duplice. Fisico e spirituale. Come anime del purgatorio (per chi avrà la bontà di crederci) lagnanti, spaventate, inutili ed invisibili, ormai, irrinunciabilmente connesse all’orrore, dettaglio dopo dettaglio, con gli occhi aperti, come quel mattacchione di Alex nel capolavoro di Kubric, Arancia Meccanica, costretto a tenere gli occhi aperti di fronte a scene maligne, zeppe di massacro, così da provocarne rigetto. Colonia si poteva prevenire? Inutile dirlo, certamente. Colonia non si doveva neanche immaginare. Non occorre stare a dire chi aveva ragione e chi torto, capire che ne ha fino in fondo, non occorre stare a soppesare la dichiarazione minchiona del politico di turno, UE e non UE, Italì o non Italì. Fa solo venire il voltastomaco questo ragazzino presuntuoso, sciocchino e immaturo che l’Occidente, versante Europeo, è diventato. Da castrare, chimicamente, artificialmente, spiritualmente. Senza orgoglio civile, né appartenenza. Rabbia stoppata in petto, l’Occidente è politicamente corretto. Neanche alla calata dei Lanzichenecchi. Io non credo in questo, non voglio questo. Questa Europa fa schifo, senza mezzi termini. Dunque, che tramonti, si spenga pure l’Occidente insipido, ipocrita, malato di Alzheimer; vigliacco e guerrafondaio, che ha rinnegato la propria identità, che sputa sulla linearità della propria storia, che calpesta la purezza delle proprie culture genitrici. Che tramonti, questo Occidente, così da esser pronti a generarne un altro, senza sprecare neanche una vita, un’altra vita ancora. Che si plasmino le parole di Oswald Spengler, questo forse il più grande augurio da fare alla marmaglia di coinquilini ai lavori forzati che siamo oggi: “Questo è il senso di ogni tramonto nella storia, il senso del compimento interno ed esterno, dell’esaurimento che attende ogni civiltà vivente. Di tali tramonti, quello dai tratti più distinti, il «tramonto del mondo antico», lo abbiamo dinanzi agli occhi, mentre già oggi cominciamo a sentire in noi e intorno a noi i primi sintomi di un fenomeno del tutto simile quanto a decorso e a durata, il quale si manifesterà nei primi secoli del prossimo millennio, il «tramonto dell’Occidente”.

Le misure antimolestie sdi Colonia che penalizzano le vittime, scrive il 7 gennaio 2016 Giovanni Giacalone” su "Il Giornale. Le misure anti-molestie annunciate dal sindaco di Colonia, Heriette Reker destano serie perplessità in quanto non soltanto non risolvono il problema sicurezza ma paradossalmente sembrano penalizzare le stesse vittime degli abusi. E’ plausibile credere che la Reker voglia continuare a sostenere ad oltranza le sue politiche di accoglienza, ma davanti ad episodi del genere è necessario prendere immediati provvedimenti che facciano rispettare la legge e che tutelino l’incolumità del cittadino e non l’ideologia. Le linee guida del Primo Cittadino sembrano invece andare in ben altra direzione per sfociare addirittura nel contraddittorio, ad esempio: “Mantenersi a distanza di sicurezza da persone dall’aspetto straniero”. La frase potrebbe far trasparire un certo razzismo, quasi a voler lasciar intendere che “straniero” equivalga a “molestatore”, paradossale per la ultra-tollerante Reker; oltre a ciò, il “consiglio” implica che la potenziale vittima debba girare per strada guardandosi continuamente intorno per scongiurare possibili molestatori. In poche parole, è la vittima che deve guardarsi le spalle e possibilmente evitare di girare sola, come suggerito da un altro consiglio, quello di “muoversi per le strade possibilmente in gruppo”. Fondamentale risulterebbe poi “evitare di assumere in pubblico atteggiamenti che possano essere fraintesi da persone di altre culture”. Decisamente agghiacciante! In questo modo non soltanto le vittime vengono colpevolizzate a discapito degli aggressori che, poverini, apparterrebbero a “culture” dove certi comportamenti “sarebbero ammessi”, ma limita palesemente la libertà di movimento della donna. Sono legali tali direttive? Qualche dubbio ce l’ho. Cosa significa poi quel “monitorare persone che potrebbero agire di nuovo”? Elementi sensibili e recidivi dovrebbero essere preventivamente messi in condizione di non nuocere, mentre sembra che diversi soggetti resisi responsabili delle aggressioni di Capodanno fossero già noti alle autorità. Davanti a episodi di questo tipo, che non dovrebbero neanche accadere, lo Stato ha il dovere di fornire risposte immediate ed efficaci per tutelare il cittadino, attraverso misure preventive e cautelative, ma nei confronti degli aggressori, non delle vittime. Segnali di debolezza e di non curanza da parte delle Istituzioni non fano altro che incentivare episodi come quelli di Colonia; speriamo di non dover assistere ad altri fatti del genere.

Germania, prove di sharia: immigrati islamici violentano, ma puniscono le donne, scrive “Riscatto Nazionale” il 6 gennaio 2016. Il sindaco della città annuncia una serie di regole per evitare il ripetersi delle violenze di Capodanno: vietato girare da sole e dare confidenza agli stranieri. L’amministrazione della città di Colonia ha annunciato che, a seguito delle violenze della notte di Capodanno, introdurrà un codice di comportamento per le donne e le bambine per scongiurare la possibilità che queste siano vittime di stupri o violenze. Ad annunciarlo è il sindaco della città Henriette Reker, che si è riunita ieri con i massimi esponenti delle forze dell’ordine locali, con i quali ha stabilito di introdurre nuove misure di sicurezza e dichiarato lo stato d’emergenza. La decisione è stata presa dopo che, durante la notte di San Silvestro, la stazione della città è caduta sotto il controllo di circa mille persone di origine mediorientale, che hanno importunato e derubato oltre 100 ragazze. “E’ importante prevenire questi incidenti” ha detto il sindaco. Il nuovo pacchetto sicurezza prevede anche l’introduzione di un codice di comportamento al quale le donne si devono attenere. Esso verrà presto reso disponibile su internet e le esorterà a mantenersi a “distanza di sicurezza da persone dall’aspetto straniero, di non girare per le strade da sole ma sempre in gruppo, di chiedere aiuto ai passanti in caso di difficoltà, di informare immediatamente la polizia in caso notino persone sospette e di non assumere in pubblico atteggiamenti che possano essere fraintesi da persone di culture altre (andere Kulturkreise)”. Durante le celebrazioni del Carnevale, uno degli eventi più celebri e tradizionali della città che si terrà a febbraio, verrà aumentata la presenza delle forze dell’ordine sul territorio, il cui compito principale sarà quello di monitorare le persone che si ritiene possano agire nuovamente come a Capodanno. Un occhio di riguardo verrà dato alle persone di origini mediorientali. Il sindaco ha sottolineato che le misure introdotte non hanno alcuno sfondo razzista o xenofobo. “Non tutti gli aggressori sono dei rifugiati giunti da poco in Germania. Alcuni di loro erano già da tempo conosciuti alle forze dell’ordine. Se alcuni richiedenti di asilo sono colpevoli verranno presi provvedimenti, ma ciò non deve indurre a reazioni discriminatorie nei loro confronti”. Heriette Beck è da sempre un’attiva sostenitrice e fautrice delle politiche di accoglienza dei migranti. Per questo lo scorso ottobre era stata gravemente ferita da un estremista di destra, che l’aveva accoltellata alla gola lasciandola in fin di vita per diverso tempo.

Crolla la tesi buonista della sinistra: tra gli stupratori anche rifugiati siriani, scrive Guglielmo Federici venerdì 8 gennaio 2016 su “Il Secolo d’Italia”. Vi ricordate la tesi buonista della sinistra che invitava a una distinzione quasi filologica tra rifugiati in fuga da paesi in guerra come la Siria, migranti e clandestini? Da non confondere, per carità, da non mettere tutti in unico calderone ad uso e consumo della propaganda “xenofoba”, sostenevano con le chiavi della verità in mano.  Anzi, secondo le tesi di chi gettava e getta acqua sul fuoco sui pericoli di un’invasione migratoria dagli effetti che abbiamo potuto constatare, gli illuminati della sinistra spiegavano che proprio i clandestini erano quelli che con i loro comportamenti gettavano fango su chi aveva lo status di rifugiato. Insomma, secondo il buonismo dilagante la maggior parte degli italiani sarebbe stata vittima di una cattiva comprensione del fenomeno immigrazione. Distinguere e non condannare, era la loro parola d’ordine di civiltà. Sorpresa! Questa tesi crolla, si è sbriciolata sotto i nostri occhi. A Colonia (e non solo) c’erano anche dei rifugiati all’interno del branco di un migliaio di nordafricani e mediorientali che hanno seminato panico e paura a San Silvestro. Lo riporta il Corriere on line: «Ma a suscitare polemiche sono anche i particolari che emergono sui presunti aggressori: molte vittime hanno confermato che erano stranieri, all’apparenza immigrati. E persino rifugiati: «Sono siriano, dovete trattarmi amichevolmente, mi ha invitato la Signora Merkel!» avrebbe detto uno dei sospetti citato nel rapporto della polizia», si legge sul quotidiano. Allora, continuiamo a distinguere, a capire, a minimizzare? «Altri avrebbero strappato i loro permessi di soggiorno di fronte agli agenti – si legge – «Non potete farmi niente – avrebbero commentato sprezzanti – domani vado a prendermene uno nuovo», riporta l’inviato. I fatti di Colonia, purtroppo, stanno diventando un caso europeo. Non solo a Stoccarda e ad Amburgo si sono registrati episodi di violenze analoghi, sempre a Capodanno, ma altre denunce sono arrivate dalla Svizzera – sei da Zurigo – e anche dalla Finlandia: anche Helsinki la notte di Capodanno è stata funestata da casi di molestie sessuali nella piazza centrale, che ospitava circa ventimila persone per i festeggiamenti, e sono stati denunciati tre stupri nella stazione centrale, dove si erano radunate circa mille persone, per lo più iracheni. Brutta sorpresa anche qui per i “professionisti” dei flussi migratori, perché anche in quest’ultimo caso tra i presunti aggressori ci sono tre richiedenti asilo, che sono stati arrestati. Insomma, le quisquilie dialettiche della sinistra, le distinzioni terminologiche tra immigrati bravi e cattivi, profughi, richiedenti asilo, rifugiati fanno ridere, non reggono alla prova dei fatti, non reggono alla prova di una realtà colpevolmente sottovalutata e minimizzata.

La Boldrini rompe il silenzio sugli stupri di Colonia ma non nomina i migranti, scrive Roberta Perdicchi giovedì 7 gennaio 2016 su “Il Secolo d’Italia”. In un tweet del 15 ottobre 2015, Laura Boldrini solidarizzava con il nuovo sindaco di Colonia, fresco di accoltellamento xenofobo, salutando il nuovo corso “accogliente e tollerante” della cittadina tedesca. Il tutto con la solita enfasi della donna di sinistra che riconosce i semi di un mondo migliore, fatto di buoni che aiutano poveri disperati, e vuole darne notizia al mondo con i toni del messìa. Peccato che le cose, a Capodanno, siano andate in maniera un po’ diversa e che l’accogliente Colonia sia passata alle cronache per le violenze e i tentati stupri di massa degli immigrati ai danni di decine di donne tedesche. Dopo alcuni giorni di silenzio, il presidente della Camera ha finalmente sentito il bisogno di esprimere solidarietà, alle donne violentate, stavolta, non agli immigrati. Ma dimenticando di citare quel tweet nel quale la Boldrini spargeva demagogia ed enfasi sulla presunta convivenza multietnica e culturale di Colonia. «I fatti di Colonia sono molto gravi: quello che è accaduto è veramente inaccettabile e da parte nostra c’è la più ferma condanna», ha finalmente detto la Boldrini dopo che per giorni, sui social, era girato quel tweet imbarazzante e ridicolo, col senno di poi. «Io mi auguro che le autorità tedesche riescano quanto prima a fare chiarezza e le persone che si sono permesse questi atti di mancanza di rispetto, anche violenti – ha concluso – ne rispondano davanti alla giustizia». Mai, però, ha pronunciato la parola “immigrati”: come se quel termine, associato a una qualsiasi forma di violenza, fosse da nascondere, da occultare.

Il silenzio delle femministe dopo i fatti di Colonia. La paura di essere definite razziste ha fatto tacere tante attiviste di sinistra in prima linea contro la violenza sulle donne. Ma questo atteggiamento fa bene all'accoglienza? Scrive Claudia Sarritzu giovedì 7 gennaio 2016 su “Globalist”. Bisogna chiedersi cosa significa essere femminista, come significa essere di sinistra e cosa significa essere per l'accoglienza e per la libera circolazione di idee e persone, per capire cosa sta accadendo dopo i fatti di Colonia, tra le attiviste occidentali che difendono la dignità delle donne. La paura di essere marchiate come razziste, in questa occasione, a mio avviso ha fatto mettere in secondo piano la battaglia più importante per il genere femminile: quella per la nostra libertà, quella di poter circolare liberamente per le nostre città senza la paura di essere molestate o addirittura stuprate. Questo nostro inviolabile diritto non può certo essere messo in discussione solo perché si sospetta che tra i mille aggressori ci siano uomini di origine araba. Il razzismo sta proprio in questa differenza di trattamento. Un criminale, un violento, è violento qualsiasi sia il colore della sua pelle o la religione in cui crede. Siamo tutti uguali non solo nelle cose belle e onorevoli, ma anche in quelle meschine e orride. Altra questione. I fatti di Colonia non sono del tutto chiari, e solo le indagini potranno chiarire se si è trattato realmente di un attacco programmato e organizzato contro i costumi occidentali delle donne. Ma se così fosse, proprio in nome dell'integrazione, non dobbiamo venir meno alla difesa dei nostri valori, solo per paura di apparire meno "pro-immigrazione". L'immigrazione è sempre positiva quando porta pluralismo, non quando impone violenza in nome di una falsa identità culturale. Non è cultura molestare una donna. In fine credo che noi donne di sinistra dobbiamo assolutamente intraprendere un dibattito che abbia come tema l'equilibrio tra il nostro modello di vita e quello di tante donne immigrate. Tentare di trovare una conciliazione tra libertà e tradizione, senza ledere la libertà di espressione delle donne straniere, ma anche la nostra. Magari potremmo partire da una semplice distinzione tra burqa e velo. Dovremmo smetterla con l'ipocrisia tutta di sinistra di considerare il velo integrale (il burqa appunto) una scelta. Nessuna donna libera sceglierebbe di andare in giro per strada ad agosto con un telo nero che non le permette di respirare e di vedere se non da una retina. Essere dunque femminista e di sinistra e per un mondo accogliente e solidale, significa essere sempre e comunque per la libertà delle donne, libere dalla paura di etichette inutile e pericolose.

Colonia, il silenzio delle femministe sulle violenze degli immigrati. Dalla Boldrini alle femministe del Pd, tutte hanno paura a dire che i violenti erano immigrati. Per timore di dare ragione alla destra, scrive Giuseppe De Lorenzo Mercoledì, 06/01/2016, su "Il Giornale". Nemmeno il numero elevato di donne violentate nella loro intimità, nemmeno l'indignazione della pubblica opinione, niente di quello che è successo a Colonia è riuscito a scalfire il muro dell'incoerenza delle femministe nostrane. Mille uomini, di origine mediorientale, hanno violentato e derubato oltre 100 ragazze nella notte di Capodanno. Ma loro non parlano. Anzi, è bene specificare. A farlo sono stati 1000 immigrati, profughi, clandestini. Bisogna essere chiari, perché le femministe italiane vivono in questi giorni un dramma interiore che le distrugge. Sono divise tra l'accoglienza-a-tutti-i-costi e la difesa dell'integrità delle donne, dell'emancipazione, della libertà femminile. Su questi bei propositi hanno fatto una legge, quella sul femminicidio, di dubbia utilità ma dal forte impatto mediatico. Eppure, si dimenticano di condannare ad alta voce gli stupri degli immigrati. Perché? Cosa le ferma? Semplice, il buonismo. O chiamatelo come volete. Ovvero il rischio di dar ragione ai beceri della destra, ai populisti che da anni mettono la politica di fronte al problema - evidente - dell'integrazione degli altri popoli, delle culture diverse. Di quella islamica in particolare. Che in molti casi ha con la donna una relazione offensiva, lesiva dei diritti, barbara. Come si può scindere le violenze di Colonia dagli stupri di Boko Haram, dalle violenze dell'Isis, dalle schiave Yazide e dall'imposizione del burqa? Non si può. Sono principi e modi di comportamento che superano le barriere e arrivano sulle nostre coste. Immutati. E poi si manifestano nelle nostre strade, nelle nostre periferie. Pur di non dire che a mettere le mani sui seni e tra le gambe di quelle ragazze tedesche sono stati degli immigrati, le attiviste tutte preferiscono cucirsi la bocca. Quando invece occorrerebbe raccogliere gli avvertimenti di chi dice da tempo che ad integrarsi deve essere lo straniero e non un intero popolo adattarsi ai desideri di chi arriva in Occidente. Tace la Boldrini, che nel discorso di insediamento da Presidente della Camera aveva ricordato il suo impegno contro la violenza sulle donne. Quella volta era scattato l'applauso unanime dell'Aula. Oggi, invece, la Presidente ha scelto l'oblio. Dire che aveva ragione Salvini fa male. Essere d'accordo con la Meloni, pure. E' dalla parte del giusto anche la Santanché, che ha definito i fatti di Colonia "un atto di terrorismo contro le donne". "Hanno dimostrato bene il loro concetto del femminile - ha aggiunto - e cioè che non sono persone ma oggetti. Come si può dialogare con chi non rispetta le persone? Dove sono le donne del Pd e le femministe? Il loro silenzio è assordante". L'unica ad uscire dal coro del silenzio è stata Lucia Annunziata. Che sul suo blog ha riconosciuto come "il rapporto dell'Islam con le donne è un tema devastante, intriso di violenza e di politica", ha messo in dubbio che tutti i migranti arrivati in Europa siano davvero in fuga dalle guerre, ha chiesto "barriere successive per fare dell'ammissione in un paese un lavoro di integrazione". Peccato che il suo sia un risveglio tardivo. Le aggressioni di Colonia, per l'Annunziata, sarebbero il "primo episodio di scontro di civiltà". Ma non è così. Ce ne sono stati altri. Solo che sono rimasti fuori dalla porta dei salotti radical-chic. La direttrice chiede alle femministe di iniziare una discussione sull'immigrazione per "evitare che la giustissima accoglienza di chi ha bisogno diventi la vittoria di Pirro della nostra sicurezza e indipendenza". Ma è già tardi. Oggi sarebbe bastato stigmatizzare le violenze degli immigrati. Condannare quello che è un attacco non solo alle donne, ma al modo di essere dei Paesi che accolgono, cioè dell'Europa. Invece è prevalso il silenzio. Colpevole.

Sul corpo delle donne no pasaran, scrive Lucia Annunziata su L'Huffington Post. Non c'è molto da dire ma va detto. E nel più semplice dei modi: noi donne, noi donne europee, abbiamo bisogno di cominciare una discussione vera su quello che l'immigrazione sta portando nei nostri paesi; sul disagio, e sulle vere e proprie minacce alla nostra incolumità fisica che avvertiamo nelle strade, sui bus, nei quartieri delle nostre città. Una franca discussione su come evitare che la giustissima "accoglienza" di chi ha bisogno diventi la vittoria di Pirro della nostra sicurezza e indipendenza. Mi pare che qualcosa si muova in questo senso fra le donne tedesche. E se è così saremo con loro. Sull'Europa che si è riunita per affrontare la caotica situazione della immigrazione, le ripetute sospensioni di Schengen, pesa l'emozione di quanto è accaduto nella notte di Capodanno a Colonia: l'aggressione sessuale inflitta da "un migliaio di giovani arabi e nordafricani" a tutte le donne che hanno incontrato sul loro cammino. Una violenza le cui modalità rivelano un episodio ben più grave della notte di follia, della frustrazione estrema ed ormonale di maschi frustrati. Quel migliaio di giovani erano preparati, il loro assalto è stato organizzato ed eseguito come una operazione semi-militare. Assalto per altro ripetuto in altre due città. Erano tanti, usavano il numero come arma di annientamento, e l'accerchiamento come trappola: le donne prese in mezzo, inclusa una donna poliziotto, sono state toccate e passate dall'uno all'altro, senza nessuna cura di proteste e reazioni. "Urlavamo, picchiavamo con quello che potevamo, ma inutilmente" raccontano le testimonianze (incluse quelle di uomini che hanno cercato di intervenire). Una madre e la figlia quindicenne sono state bloccate e "palpate ripetutamente al seno e in mezzo alle gambe". Un'operazione di molestie così vasta, continuata e determinata non può essere vista solo come un gesto contro le donne; si configura come un atto di scontro, umiliazione e dominio esercitato nei confronti delle donne sì, ma mirato a inviare un segnale di disprezzo e di sfida all'intero paese che quegli uomini ha accolto. Cioè noi, l'Europa tutta e non solo la Germania. La notte che ha inaugurato il 2016 nel paese che ha generosamente aperto le porte al maggior numero, circa un milione, di profughi dal Medioriente e da altre zone di guerra, è stata macchiata da quello che possiamo definire il primo episodio di scontro di civiltà, la prima sfida consapevole dei nuovi arrivati al nostro mondo. Un annuncio gravido di molte cose a venire. Tanto più grave perché qui non si tratta di Isis, qui non siamo di fronte a nessuna motivazione religiosa: anzi i giovani immigrati arrivati a migliaia di migliaia in Europa in questi mesi e generosamente accolti in Germania sono tecnicamente in fuga dalla guerra. Il pericolo dell'episodio di Colonia si nasconde proprio nelle pieghe della "normalità" di chi ne è stato protagonista. La verità di cui dobbiamo discutere è proprio questa: il rapporto dell'Islam con le donne è un tema devastante, intriso di violenza e di politica, e non è tale solo nelle forme più estreme, nelle terre più bruciate del Medioriente, nelle esperienze più allucinate e militanti delle guerre dell'Isis o del terrorismo. Tutto questo lo sappiamo, ci conviviamo da anni, è stato al centro di tante nostre analisi e battaglie civili a favore delle donne in tanti e altri paesi. Ma negli ultimi venti anni, proprio sotto la spinta di guerre e rotture interne al mondo islamico, il rapporto fra Islam e donne si è metamorfizzato in una agenda culturale e politica di dominio, usata come arma, o anche solo espressione di potere, in una vastissima area sociale, la cui linea di rottura passa dentro lo stesso mondo mussulmano. Quel che voglio dire è che tutti ricordiamo gli stupri e le violenze in Iraq durante la conquista da parte dell'Isis, e i rapimenti di Boko Haram, la schiavitù sessuale imposta alle donne cristiane, yazide. Ma val la pena qui di cominciare a ricordare anche che il maggior numero di violenze viene usato nei confronti delle stesse donne musulmane. Vogliamo ricordare le condizioni in cui progressivamente stanno scivolando all'indietro tutte le società musulmane. Ricordiamo qui, ad esempio, il trattamento subito da centinaia di donne egiziane al Cairo durante la "primavera araba", come punizione per una partecipazione, o anche solo come occasione da non perdere. Ma andrebbe ora prestata più attenzione al fatto che questo modo di rapportarsi dell'Islam alle donne proprio perché deriva dalla politica non si ferma alle frontiere. Ci sono storie che solo le organizzazioni dei diritti umani seguono: nei campi profughi europei ci sono casi di violenze, e stupri. Queste violenze sono per altro la ragione per cui i cristiani quasi mai si sono uniti alle grandi migrazioni collettive di questi ultimi mesi. Ma è anche tempo di mettere in questo elenco l'aggressività, la mancanza di rispetto, che denunciano molte donne giovani ed anziane nei quartieri delle varie città europee, incluse quelle di molte città italiane: ricordate Tor Sapienza, la disperazione e la rabbia delle donne che raccontavano (inutilmente) le offese che subivano dai gruppi di giovani immigrati illegali parcheggiati in tutte le case di accoglienza? Tutto questo non è destinato a finire. L'attuale immigrazione non è un flusso ordinato. È il frutto di eventi traumatici, multipli e contemporanei, di guerre che hanno un'espansione globale e di lungo periodo. Non sarà aggiustabile secondo la logica di un progressivo assorbimento. La gestione di questa immigrazione è già da oggi uno dei maggiori problemi economici e sociali in Europa, il motore di uno sconvolgimento politico il cui impatto è già visibile. La sospensione di Schengen da parte di due degli stati da sempre più disponibili, la Danimarca e la Svezia, segnala che davvero si sta raggiungendo un livello di guardia. E indica anche come su questo tema la socialdemocrazia (e la sinistra) sia da tempo in difficoltà a mantenere una posizione "aperturista" a tutti i costi. Le formule con cui abbiamo fin qui vissuto si rivelano inefficaci di fronte alle nuove dimensioni. Ma dentro il problema di tutti con l'integrazione, c'è un problema specifico per noi donne, come stiamo vedendo. E credo tocchi anche a noi trovare una voce in merito. La prima idea su cui lavorare per il futuro non è forse difficile da individuare perché è un po' nelle cose: costruire un doppio percorso nella accoglienza. Dare priorità e immediata accettazione alle famiglie, ai bambini, alle donne, agli anziani. In qualunque condizioni e per qualunque ragioni arrivino. Costruire invece un percorso più lungo e approfondito per le migliaia di giovani uomini che per altro costituiscono la stragrande maggioranza anche degli illegali e clandestini. Davvero tutti questi giovani uomini sono in bisogno immediato e irreversibile di rifugio? Sono tutti alla ricerca di una nuova vita? Sono tutti decisi a non ritornare nei loro paesi d'origine? Domande scomode, ma realistiche. Le regole attuali, e possono essere migliorate, forniscono già la definizione per distinguere coloro che hanno diritto all'asilo politico; ugualmente esistono chiari requisiti necessari per poter invece entrare in un paese come immigrato. Intorno a queste definizioni vanno costruite barriere successive per fare dell'ammissione in un paese un lavoro di "integrazione" che cominci ben prima della stessa entrata. E se questo processo porta a prevedere più controlli, e dunque anche a una formulazione più elastica di Schengen, va ricordato che questo è già nelle cose. È un momento delicato, in cui l'opinione pubblica deve uscire dalle emozioni, dalle rabbie per cercare di capire davvero quale sia la strada migliore per il futuro. Le donne, anzi i diritti delle donne, devono essere una delle pietre miliari di questa chiarezza. In maniera uguale e contraria al modo come questi diritti negati vengono usati come un atto di aggressione nei nostri confronti. Non voglio pensare che mia figlia, le nostre figlie, vivranno in un mondo in cui abbiamo perso i diritti che avevamo conquistato per loro. Integrare e integrarsi con le tante diversità è la più dinamica opzione della nostra società per crescere. L'accoglienza è un valore supremo. Ma senza definizioni, senza regole e senza domande è possibile che diventi la semplice riproduzione al nostro interno delle disperate periferie del mondo, la ricreazione di permanenti masse di profughi, senza che noi sappiamo cosa far né di loro né di noi stessi.

Colonia e l’attentato di massa: quanto è ancora depredabile il corpo femminile? Scrive Andrea Pomella il 7 gennaio 2016 su "Il Fatto Quotidiano. Nella notte di Capodanno, mille uomini – la maggior parte dei quali giovani e stranieri – si sono radunati nei pressi della stazione ferroviaria di Colonia e hanno dato il via a un feroce attacco di massa. Un centinaio di donne sono state sessualmente molestate, aggredite e derubate, vittime di una strategia tanto coordinata da costituire, secondo il ministro della Giustizia tedesco Heiko Maas, una forma di crimine “di una dimensione completamente nuova”. Sui giornali italiani tuttavia la notizia ha assunto una certa rilevanza solo a partire dalla mattina del 6 gennaio. I primi cinque giorni dell’anno li abbiamo passati a discutere di una bestemmia passata in sovrimpressione sulla Rai e dei sette (poi diventati ventidue) milioni di euro incassati dal nuovo film di Checco Zalone. C’è da farsi qualche domanda. Perché la notizia di mille uomini che in una sola notte aggrediscono cento donne in un luogo ristretto di una città che sorge nel cuore funzionale dell’Europa non suscita clamore né choc collettivo? Perché un evento di questa portata non riceve lo status giornalistico di “attentato di massa”? E perché la notizia non sfonda sui social network, ossia perché non fruisce neppure di quella spinta dal basso che nella contemporaneità spesso dà voce a fatti omessi dai media tradizionali? Faccio due considerazioni.

La prima: due mesi fa, a seguito degli attentati di Parigi, in mezzo al diluvio di notizie laterali, approfondimenti che approfondivano dettagli insignificanti (SkyTg24 il 15 novembre mandò in onda per tre ore, quasi ininterrottamente, un filmato che mostrava il panico a Place de la Republique, anche una volta appurato che si era trattato di un falso allarme), opinionismi più o meno autorevoli, più o meno centrati, ho impiegato tre giorni a capire – per dire – la dinamica dei fatti allo Stade de France. In pratica, la ricostruzione dei fatti non catturava l’interesse, non dico dello spettatore, ma degli stessi giornalisti che erano chiamati a farne una ricostruzione. Per chi appartiene a un pubblico d’antan e chiede semplicemente di essere informato, la vendita sentimentale delle informazioni sta diventando un problema. Così, in assenza di una ricostruzione emotiva, cento donne molestate in una notte non scaldano il pubblico dei lettori, e quindi non fondano una notizia degna di primo piano. La gravità di un fatto non è più data dal fatto in sé, ma da ciò che suscita.

La seconda: viviamo in un’era in cui è ancora radicato, anche a livello inconscio, lo stereotipo patriarcale secondo cui la molestia sessuale è il semplice risultato della natura umana. Se in uno strato più o meno profondo di coscienza collettiva l’idea del dominio maschile sulla donna non fosse ancora così consolidata, l’assalto di Colonia monopolizzerebbe l’attenzione dei lettori e quindi imporrebbe ai direttori di giornale, agli elzeviristi e ai divulgatori culturali di trattare la notizia con la rilevanza che merita. Il disinteresse generale, lo sbadiglio, la freddezza rappresentano invece l’agghiacciante risultato di un involontario test sulla coscienza popolare del cittadino europeo del Ventunesimo secolo posto di fronte al tema del corpo femminile, e alla provocatoria questione di quanto esso sia “ancora depredabile”. Credo che, anche per questo primo ventennio di secolo, ci stiamo assicurando una discreta riserva di mostruosità.

Zanardo: «No al silenzio sulle violenze di Colonia». La scrittrice e autrice de Il corpo delle donne sulle aggressioni nella città tedesca: «Pericoloso che le mie compagne siano intimorite nel prendere posizione dalla strumentalizzazione delle destre xenofobe», scrive Antonietta Demurtas il 07 Gennaio 2016 su “Lettera 43”. Hanno attraversato la piazza della stazione centrale di Colonia nella notte di San Silvestro. E per loro è iniziato l'inferno: circondate, molestate sessualmente (uno stupro già accertato), palpeggiate, derubate di soldi e telefonini da circa mille uomini di origine nordafricana, ubriachi. Le vittime sono un centinaio di donne che nella città tedesca volevano solo festeggiare il Capodanno e che sono rimaste vittime di un attacco che ora le indagini iniziano a definire «premeditato» e messo in atto da «un'organizzazione proveniente dalla vicina Düsseldorf». Il ministro della giustizia Heiko Maas ha parlato di una «dimensione completamente nuova per la criminalità organizzata». C'è chi si è concentrato nel sottolineare che l’obiettivo delle aggressioni fosse il furto, e che le violenze sessuali fossero «solo un diversivo». Resta il fatto che le donne molestate e violentate a Colonia non hanno sinora ricevuto la solidarietà che in altri casi è stata manifestata alle vittime di violenza. Si è scritto: succede a Colonia come in piazza Tahrir al Cairo o al parco Gezi di Istanbul, si è cercato di mantenere un basso profilo sull'accaduto per non alimentare razzismo, intolleranza e violenza nei confronti dei migranti, proprio in un momento in cui la politica dell'accoglienza si sta rivelando il più grande fallimento dell'Ue, incapace di gestire flussi migratori e spinte discriminatorie. Con il risultato che però, alla fine, «per l'ennesima volta le donne vengono strumentalizzate, comunque vada, ci violentino o meno», dice a Lettera43.itLorella Zanardo, scrittrice e autrice del documentario Il corpo delle donne, che da anni si batte contro la mercificazione della dignità femminile. «Una reazione che definirei miserabile», dice riferendosi al modo in cui sono stati racconti i fatti di Colonia, in alcuni casi silenziati dall'opinione pubblica politically correct e dall'altra esacerbati a soli fini xenofobi. E «per rendersene conto, basta vedere come si sta raccontando nel nostro Paese».

DOMANDA. Forse po' troppo a voce bassa?

RISPOSTA. Come viene gestita la questione in Italia è vergognoso. Se diciamo: siamo donne libere e così vogliamo restare, improvvisamente leggo sul web una serie di voci critiche secondo le quali se non vogliamo dare manforte alla destra razzista e xenofoba, dobbiamo in un qualche modo stare zitte. Lo trovo un consiglio mostruoso, miserabile.

D. Che cosa si dovrebbe fare: urlare e scendere in piazza?

R. Non è una questione di femminismo, credo che un certo modo di interpretare i diritti in Italia sia superato. Indignarsi è però un diritto e un dovere, e questo non vuol dire essere xenofobi: io sono assolutamente dalla parte dei profughi, sono per l'apertura delle frontiere, voglio un'Europa accogliente.

D. Ma?

R. Ciò non toglie che davanti ai crimini di Colonia, fossero essi stati compiuti da svedesi, cinesi o marocchini, la mia condanna è comunque fortissima. Io sto dalla parte delle donne. Questa è la prima cosa.

D. Non per tutte è così, c'è chi preferisce tenere un profilo più basso per paura di essere tacciata di razzismo.

R. In questo momento trovo molto pericoloso che le mie amiche e compagne siano un po' intimorite nel prendere posizione per la paura della strumentalizzazione delle destre xenofobe. Se noi non ci facciamo sentire questo nostro silenzio può essere penalizzante non solo verso le donne ma verso i profughi stessi.

D. Che cosa si aspettava?

R. Che dicessimo tutte forte e chiaro: noi donne condanniamo assolutamente gli episodi di Colonia, e condanniamo quanto detto dalla sindaca di Colonia.

D. Henriette Reker si è spinta a dettare un 'codice' di comportamento alle donne, invitandole a tenere «a un braccio di distanza» gli sconosciuti.

R. Io sono solidale con Reker, è stata persino accoltellata proprio a causa delle sue posizioni favorevoli all'immigrazione. La sua può essere stata una uscita mal meditata, detta in un momento di tensione ma comunque pericolosa.

D. Il suo decalogo è suonato come un'inversione della colpa a carico delle donne.

R. Per questo sono preoccupatissima: noi donne abbiamo lottato secoli, rischiando anche la vita, per essere libere di autodeterminare i nostri corpi, di metterci una minigonna, di uscire a mezzanotte, per quanto, purtroppo, sappiamo bene quanto questo nel nostro Paese non sia poi così facile.

D. Ora invece il consiglio è tenere gli uomini a distanza, diffidare, temere.

R. Sì purtroppo, e se non ci alziamo tutte insieme ora per dire: al nostro territorio di libertà non rinunceremo, la situazione diventerà ancora più pericolosa. Ma dobbiamo essere abili a non farci strumentalizzare: fuori la destra da questo dibattito, da chi ci vuole dare ragione solo per fini politici.

D. Al posto del decalogo che cosa avrebbe preferito sentire?

R. Tenere gli uomini a «un braccio di distanza» è quello che mi diceva mia nonna 50 anni fa. Dobbiamo fare più attenzione alle parole, al mondo che stiamo preparando per le nostre figlie.

D. Che cosa propone?

R. La politica giusta è apertura totale e allo stesso tempo condanna verso chi non ci rispetta. Se il criminale è marocchino, siriano, turco o svedese non ci deve interessare. Non prendere posizione ora sarebbe davvero come dire che siamo un po' delle imbranate, donne impotenti.

D. In che senso?

R. Dato che non ci vogliamo far strumentalizzare, tacciamo, minimizziamo? No, dobbiamo essere fortemente dalla parte delle donne di Colonia, che questo non avvenga mai più.

D. Insomma, essere politically correct non porta a niente?

R. No, inoltre che le violenze accadono tutti i giorni non rende meno grave l'accaduto. Il fatto è che sul corpo delle donne si sono fatte le guerre, anche molto recenti se pensiamo a quanto accaduto nella ex Jugoslavia. Per questo dobbiamo difendere il nostro territorio conquistato faticosamente.

D. Sta facendo discutere un articolo del quotidiano tedesco Die Tageszeitung e riportato da Internazionale, dove si legge che: «In tutte le grandi manifestazioni in cui l’alcol abbonda, le donne devono affrontare una triste realtà...; che per certi maschi tedeschi, il carnevale o l’Oktoberfest non sono divertenti senza qualche palpatina; che succede a Colonia come in piazza Tahrir al Cairo o al parco Gezi di Istanbul». Un modo per riportare l'attenzione al fenomeno generale della violenza e minimizzare l'accaduto?

R. Spero di no, anche perché se già queste cose succedono all'Oktoberfest o in altre manifestazioni, è gravissimo, non è che perché già accaduto è meno grave. Così come sarebbe grave se si scoprisse che i fatti di Colonia sono stati resi pubblici solo 5 giorni dopo solo per non strumentalizzarlo.

D. Così a essere strumentalizzate e dimenticate sono ancora una volta le donne.

R. E non solo a Colonia. In questi giorni arrivano appelli di nuove formazioni che stanno per nascere in Italia, partiti, partitini, associazioni, tra i nomi dei futuri leader papabili non c'è una donna. E in questi momenti si spiega perché.

D. Perché?

R. Noi donne non abbiamo coraggio. Arrivano uomini di ultima categoria che senza vergogna si propongono come sindaci, amministratori, ministri, ma non c'è una italiana che faccia lo stesso. Questo dimostra la nostra incapacità di essere concentrate sui nostri interessi di donne e su chi verrà dopo di noi, e il terrore di scontentare qualche formazione di sinistra racconta questa nostra incapacità. C'è un silenzio preoccupante.

D. Silenzio che si rompe per difendere le donne solo per ribadire che «non c'è posto in Europa per chi non rispetta le nostre leggi e la nostra cultura», come ha fatto Giorgia Meloni.

R. Eppure c'è una terza via. Io temo questo popolarismo italiano ignorantissimo che si basa su: o chiudiamo le frontiere o ci violentano. Dobbiamo rifiutare questo modello, basta guardarsi intorno.

D. Dove?

R. In Norvegia, un piccolo Paese di 4 milioni di abitanti che ha avuto un flusso migratorio importante e si è trovato persone che venivano da Stati dove obiettivamente la realtà e il rapporto uomini-donne è molto diverso; così hanno creato un progetto di introduzione al Paese dove gli immigrati vengono formati agli usi e costumi del posto. Una parte è dedicata a come viene vissuto il femminile e il maschile, l'altra alla sessualità nel Nord Europa.

D. Crede che questo sia sufficiente?

R. Io credo alla possibilità che le persone cambino, si trasformino, quindi per chi viene in Europa ci deve essere un percorso di introduzione e integrazione culturale. E c'è un compito anche per noi.

D. Quale?

R. Continuare a essere molto duri e dure nel condannare la violenza contro le donne, altrimenti nessuno ci garantisce che non avverrà ancora. Ma per fare questo non c'è bisogno di conoscere la nazionalità dei violentatori.

D. Anche perché, frontiere aperte o meno, nell’Unione europea una donna su due è stata vittima di violenze fisiche o sessuali e nella maggior parte dei casi sono conoscenti e famigliari a commettere questi reati dentro le mura domestiche...

R. Esatto. Inoltre facendo finta di niente potremmo anche alimentare uno stereotipo al contrario, ovvero: nel timore che la nostra critica venga stigmatizzata dalle destre, quando questi criminali sono immigrati stiamo zitte. Se fossero stati tutti tedeschi ubriachi ci sarebbe stata una sollevazione popolare da parte delle donne europee.

D. Una discriminazione al contrario...

R. Sì, dato che sei africano ti ritengo inferiore e chiudo un occhio. Per questo bisogna fare chiarezza e non farne un fatto di razza o etnia, ma condannare per i fatti in sè che sono gravi indipendentemente da cosa c'è scritto nel passaparto di chi li ha commessi.

Germania, una epidemia di stupri da parte dei migranti, scrive Soeren Kern il 21 settembre 2015. Traduzioni di Angelita La Spada pubblicata su Imola Oggi l’1 ottobre 2015. Dove sono le donne? Dei 411.567 rifugiati/migranti che sono entrati nell’Unione Europea via mare nel 2015, il 72 per cento è costituito da uomini. Anche se lo stupro è avvenuto a giugno, la polizia ha taciuto per quasi tre mesi, fino a quando i media locali non hanno pubblicato un articolo a riguardo. Secondo un commento editoriale espresso nel quotidiano Westfalen-Blatt, la polizia si rifiuta di rendere pubblici i crimini commessi dai migranti e profughi perché non vuole conferire legittimità agli oppositori delle migrazioni di massa. Una 13enne musulmana è stata violentata da un altro richiedente asilo in un centro di accoglienza a Detmold, una città situata nella parte centro-occidentale della Germania. La ragazzina e la madre avevano abbandonato il loro paese di origine per sfuggire a una cultura di violenza sessuale. Circa l’80 per cento dei profughi/migranti accolti a Monaco sono uomini (…) il prezzo per fare sesso con una donna richiedente asilo ammonta a 10 euro. – L’emittente radiotelevisiva pubblica della Baviera (Bayerischer Rundfunk). La polizia della città bavarese di Mering, dove una 16enne è stata stuprata l’11 settembre, ha avvisato i genitori di non permettere ai loro figli di uscire da soli. Nella città bavarese di Pocking, gli amministratori del Wilhelm-Diess-Gymnasium hanno avvertito i genitori di non fare indossare abiti succinti alle loro figlie, al fine di evitare “malintesi”. “Quando gli adolescenti musulmani si recano nelle piscine all’aperto, sono turbati nel vedere le ragazze in bikini. Questi giovani, che provengono da una cultura dove non si approva che le donne mostrino la pelle nuda, seguiranno le ragazze e le infastidiranno senza rendersene conto. Naturalmente, questo genera paura”. – Un politico bavarese citato da Die Welt. Durante un raid in una struttura di Monaco che ospita rifugiati la polizia ha scoperto che gli addetti alla sicurezza erano implicati in un traffico di droga e armi e chiudevano un occhio sulla prostituzione. Nel frattempo, gli stupri delle donne tedesche da parte dei richiedenti asilo sono sempre più dilaganti. Sempre più donne e ragazze ospiti dei centri di accoglienza per profughi, in Germania, vengono stuprate, molestate sessualmente e costrette alla prostituzione dagli uomini richiedenti asili, secondo quanto asserito dalle organizzazioni di assistenza sociale tedesche. Molti degli stupri avvengono nelle strutture che ospitano uomini e donne dove, a causa della mancanza di spazio, le autorità tedesche costringono i migranti di entrambi i sessi a condividere i dormitori e i servizi igienici. Le condizioni per le donne e le ragazze presenti in queste strutture sono talmente pericolose che le donne vengono definite “selvaggina”, occupate a respingere gli assalti dei predatori maschi musulmani. Ma gli assistenti sociali affermano che molte vittime tacciono, per paura di rappresaglie. Allo stesso tempo, un numero crescente di donne tedesche di tutta la Germania viene violentato dai richiedenti asilo provenienti dall’Africa, dall’Asia e dal Medio Oriente. Molti di questi crimini sono minimizzati dalle autorità e dai media tedeschi, a quanto pare per evitare di alimentare sentimenti contrari all’immigrazione. Il 18 agosto, una coalizione composta da quattro organizzazioni di assistenza sociale e di gruppi per i diritti delle donne ha inviato una lettera di due pagine ai leader dei partiti politici del parlamento regionale dell’Assia, uno stato federato della Germania centro-occidentale, informandoli di come la situazione delle donne e dei minori sia peggiorata all’interno dei centri di accoglienza. La lettera diceva: “L’afflusso sempre più crescente dei rifugiati ha complicato la situazione per le donne e le ragazze ospiti nel centro di Giessen (HEAE) e nelle strutture succursali. “Il fatto di fornire alloggio in grandi tende, la mancanza di servizi igienici separati maschili e femminili, di locali in cui non ci si può chiudere a chiave, la mancanza di rifugi sicuri per le donne e le ragazze – tanto per citare solo alcuni fattori spaziali – aumenta la vulnerabilità delle donne e dei minori dentro queste strutture. Questa situazione gioca a favore di quegli uomini che assegnano alle donne un ruolo subordinato e trattano le donne che viaggiano sole come se fossero selvaggina. “Di conseguenza, si verificano numerosi stupri e molestie sessuali. Stiamo ricevendo sempre più segnalazioni di casi di prostituzione coatta. Va sottolineato che questi non sono episodi isolati. “Le donne e le ragazzine raccontano di essere state violentate o molestate sessualmente. Pertanto, molte donne dormono vestite. E raccontano anche di non usare i servizi igienici di notte, per paura di essere stuprate o derubate. Anche di giorno, attraversare l’accampamento è una situazione terribile per molte donne. “Molte donne – oltre a fuggire dalla guerra – scappano per evitare i matrimoni forzati o le mutilazioni genitali. Queste donne che affrontano rischi particolari, scappano da sole o con i loro figli. Anche se sono accompagnate da parenti maschi o da conoscenti, questo non sempre garantisce loro una protezione dalla violenza, perché ciò può portare a specifiche dipendenze e allo sfruttamento sessuale. “La maggior parte dei profughi di sesso femminile ha vissuto una serie di esperienze traumatizzanti nel loro paese di origine e durante la fuga. Esse sono vittime di violenze, rapimenti, torture, stupri ed estorsioni – a volte per anni. “Essere arrivate qui sane e salve e poter muoversi senza paura, è un dono per molte donne. (…) Vi invitiamo pertanto (…) a unirvi al nostro appello per creare urgentemente delle strutture protette (abitazioni o appartamenti muniti di serrature) per donne e minori che viaggiano da sole…“Queste strutture devono essere attrezzate in modo tale che gli uomini non vi abbiano accesso, ad eccezione degli operatori del soccorso e del personale addetto alla sicurezza. Inoltre, le camere da letto, i salotti, e cucine e i servizi igienici devono essere interconnessi in modo da formare un’unità completamente autonoma e che può essere raggiunta solo attraverso un accesso dotato di serratura e monitorato”. Dopo che diversi blog hanno richiamato l’attenzione sulla lettera il LandesFrauenRat (LFR) Hessen, un gruppo di pressione che si batte per i diritti delle donne, ha reso pubblico il documento politicamente scorretto sul proprio sito web, per poi rimuoverlo all’improvviso il 14 settembre, senza spiegarne il motivo. In Germania, il problema degli stupri e delle molestie sessuali nei centri di accoglienza dei profughi è un problema a livello nazionale. In Baviera, le donne e le ragazze ospiti della struttura di Bayernkaserne, una ex base militare a Monaco, ogni giorno rischiano di essere stuprate e indotte alla prostituzione coatta, secondo i gruppi per i diritti delle donne. Sebbene la struttura disponga di dormitori femminili, le stanze sono prive di serrature e gli uomini controllano l’accesso ai servizi igienici. Circa l’80 per cento dei profughi/migranti accolti a Monaco è costituito da uomini, secondo l’emittente radiotelevisiva pubblica della Baviera (Bayerischer Rundfunk), che ha riportatola notizia che il prezzo per fare sesso con una donna richiedente asilo ammonta a 10 euro. Un assistente sociale ha definito così la struttura: “Noi siamo il più grande bordello di Monaco”. La polizia continua a dire di non essere in possesso di alcuna prova che nel centro si commettono stupri, anche se in un raid è stato scoperto che gli addetti alla sicurezza erano implicati in un traffico di droga e armi e chiudevano un occhio sulla prostituzione. Il 28 agosto, un 22enne eritreo richiedente asilo é stato condannato a un anno e otto mesi di carcere per tentata violenza sessuale ai danni di una donna curda irachena di 30 anni in un centro di accoglienza della città bavarese di Höchstädt. Il giovane ha avuto una riduzione della pena grazie agli sforzi dell’avvocato della difesa, che ha convinto il giudice del fatto che la situazione dell’imputato nella struttura era disperata: “Da un anno, egli se ne sta con le mani in mano senza pensare a niente”. Il 26 agosto, un 34enne richiedente asilo ha tentato di stuprare una donna di 34 anni nella lavanderia situata in un centro di accoglienza a Stralsund, una città nei pressi del Mar Baltico. Il 6 agosto, la polizia ha rivelato che una 13enne musulmana era stata violentata da un altro richiedente asilo in una struttura di Detmold, una città situata nella parte centro-occidentale della Germania. La ragazzina e la madre avevano abbandonato il loro paese di origine per sfuggire a una cultura di violenza sessuale; e a quanto pare, lo stupratore era un loro connazionale. Anche se lo stupro è avvenuto a giugno, la polizia ha taciuto per quasi tre mesi, fino a quando i media locali non hanno pubblicato un articolo a riguardo. Secondo un commento editoriale espresso nel quotidiano Westfalen-Blatt, la polizia si rifiuta di rendere pubblici i crimini commessi dai profughi e migranti perché non vuole conferire legittimità agli oppositori delle migrazioni di massa. Il capo della polizia Bernd Flake ha ribattuto dicendo che il silenzio era finalizzato a tutelare la vittima. “Noi continueremo con questa politica [di non informare l'opinione pubblica], quando i reati sono commessi nelle strutture temporanee per profughi”, egli ha detto. Durante il fine settimane del 12-14 giugno, una ragazza di 15 anni ospite di un centro di accoglienza di Habenhausen, un quartiere della città settentrionale di Brema, è stata ripetutamente violentata da altri due richiedenti asilo. La struttura è stata descritta come una “casa degli orrori” a causa della spirale di violenza perpetrata da bande rivali di giovani provenienti dall’Africa e dal Kosovo. Il centro, che ospita complessivamente 247 richiedenti asilo, ha una capacità di accogliere 180 persone, e una caffetteria con 53 posti a sedere. Nel frattempo, gli stupri sulle donne tedesche da parte dei richiedenti asilo sono dilaganti. Qui di seguito alcuni casi di stupro commessi solo nel 2015. L’11 settembre, una 16enne è stata violentata da uno sconosciuto “uomo dalla pelle scura che parlava un tedesco stentato” nei pressi di un centro di accoglienza della città bavarese di Mering. L’aggressione è avvenuta mentre la ragazza si stava recando dalla struttura alla stazione ferroviaria. Il 13 agosto, la polizia ha arrestato due richiedenti asilo, di 23 e 19 anni, per aver stuprato una 18enne tedesca dietro una scuola di Hamm, una città del Nord Reno-Westfalia. Il 26 luglio, un ragazzino di 14 anni è stato molestato sessualmente nel bagno di un treno regionale, a Heilbronn, una città situata nella parte sudoccidentale della Germania. La polizia sta cercando un uomo “dalla pelle scura” tra i 30 e i 40 anni e “dall’aspetto arabo”. Lo stesso giorno, un 21enne tunisino richiedente asilo ha stuprato una ragazza di 20 anni, nel quartiere di Dornwaldsiedlung a Karlsruhe. La polizia ha taciuto sul crimine fino al 14 agosto, quando un giornale locale ha reso pubblica la notizia. Il 9 giugno, due somali richiedenti asilo, di 20 e 18 anni, sono stati condannati a sette anni e mezzo di carcere per aver violentato una 21enne tedesca a Bad Kreuznach, una città della Renania-Palatinato, il 13 dicembre 2014. Il 5 giugno, un somalo di 30 anni richiedente asilo chiamato “Ali S” è stato condannato a quattro anni e nove mesi di carcere per aver tentato di stuprare una 20enne di Monaco. Ali aveva già scontato una condanna a sette anni per violenza sessuale, e cinque mesi dopo il suo rilascio aveva colpito ancora. Nel tentativo di proteggere l’identità di Ali S., un quotidiano di Monaco ha fatto riferimento a lui chiamandolo con il nome più politicamente corretto di “Joseph T.”. Il 22 maggio, un marocchino di 30 anni è stato condannato a quattro anni e nove mesi di carcere per aver tentato di stuprare una 55enne a Dresda. Il 20 maggio, un 25enne senegalese richiedente asilo è stato arrestato dopo una tentata violenza sessuale ai danni di una ragazza tedesca di 20 anni, nella piazza Stachus, nel cuore di Monaco. Il 16 aprile, un iracheno di 21 anni richiedente asilo è stato condannato a tre anni e dieci mesi di carcere per aver stuprato una 17enne al festival della città bavarese di Straubing, nell’agosto 2014. Il 7 aprile, un 29enne richiedente asilo è stato arrestato per la tentata violenza sessuale ai danni di una ragazzina di 14 anni, nella città di Alzenau. Il 17 marzo, due afgani richiedenti asilo, di 19 e 20 anni, sono stati condannati a cinque anni di carcere per lo stupro “particolarmente aberrante” di una 21enne tedesca aKirchheim, una città nei pressi di Stoccarda, il 17 agosto 2014. L’11 febbraio, un eritreo di 28 anni richiedente asilo è stato condannato a quattro anni di carcere per aver violentato una 25enne tedesca a Stralsund, sul Mar Baltico, nell’ottobre 2014. L’1 febbraio, un somalo di 27 anni richiedente asilo è stato arrestato per aver tentato di stuprare una donna nella città bavarese di Reisbach. Il 16 gennaio, un immigrato marocchino di 24 anni ha violentato una 29enne a Dresda. Decine e decine di altri casi di stupro e tentata violenza sessuale – casi in cui la polizia sta cercando specificatamente stupratori stranieri (la polizia tedesca spesso li chiama Südländer ossia “meridionali”) – restano irrisolti. Qui di seguito è riportata una lista parziale di episodi commessi nell’agosto 2015. Il 23 agosto, un uomo “dalla pelle scura” ha tentato di violentare una donna di 35 anni a Dortmund. Il 17 agosto, tre uomini “meridionali” hanno cercato di stuprare una 42enne a Ansbach. Il 16 agosto, un uomo “meridionale” ha violentato una donna a Hanau. Il 12 agosto, un uomo “meridionale” ha stuprato una 17enne a Hannover. Lo stesso giorno, un altro uomo “meridionale” ha mostrato i genitali a una donna di 31 anni a Kassel. La polizia ha detto che un episodio simile si era verificato nella stessa zona l’11 agosto. Il 10 agosto, cinque uomini “di origine turca” hanno tentato di violentare una ragazza a Mönchengladbach. Lo stesso giorno, un uomo “meridionale” ha stuprato una 15enne a Rintein. L’8 agosto, un altro uomo “meridionale” ha violentato una 20enne a Siegen. Il 3 agosto, un “nordafricano” ha stuprato una bambina di 7 anni, in pieno giorno, in un parco di Chemnitz, una città della Germania orientale. L’1 agosto, un uomo “meridionale” ha tentato di violentare una 27enne nel centro di Stoccarda. Intanto, i genitori sono stati avvertiti di tenere d’occhio le loro figlie. La polizia della città bavarese di Mering, dove una 16enne è stata violentata l’11 settembre, ha avvisato i genitori di non permettere ai loro figli di uscire da soli. La polizia ha inoltre consigliato alle donne di non recarsi da sole alla stazione ferroviaria essendo quest’ultima nelle vicinanze di un centro di accoglienza per rifugiati. Nella città bavarese di Pocking, gli amministratori del Wilhelm-Diess-Gymnasium hanno avvertito i genitori di non fare indossare abiti succinti alle loro figlie, al fine di evitare “malintesi” con i 200 profughi musulmani ospitati in alloggi di emergenza in un edificio vicino alla scuola. La lettera diceva: “I cittadini siriani sono per lo più musulmani e parlano arabo. I profughi hanno la loro cultura. Poiché la nostra scuola si trova proprio accanto la struttura in cui essi risiedono, le vostre figlie dovrebbero indossare abiti modesti per evitare malintesi. Camicette e top scollati, pantaloncini corti o minigonne potrebbero creare malintesi. Un politico locale citato dal quotidiano Die Welt ha detto: “Quando gli adolescenti musulmani si recano nelle piscine all’aperto, sono turbati nel vedere le ragazze in bikini. Questi giovani, che provengono da una cultura dove non si approva che le donne mostrino la pelle nuda, seguiranno le ragazze e le infastidiranno senza rendersene conto. Naturalmente, questo genera paura”. L’aumento dei reati sessuali in Germania è alimentato dalla preponderanza di uomini musulmani nel mix di profughi/migranti che entrano nel paese. Una cifra record di 104.460 richiedenti asilo è arrivata in Germania ad agosto, facendo salire, nei primi otto mesi del 2015, il numero complessivo a 413.535. Il paese prevede di accogliere quest’anno 800.000 arrivi tra profughi e migranti, una cifra che si è quadruplicata rispetto al 2014. Almeno l’80 per cento dei migranti e profughi arrivati è musulmano, secondo una recente stima fornita dal Consiglio centrale dei musulmani in Germania (Zentralrat der Muslime in Deutschland, ZMD), un gruppo musulmano di copertura, con sede a Colonia. Anche i richiedenti asilo sono prevalentemente di sesso maschile. Dei 411.567 migranti e rifugiati che finora quest’anno sono entrati nell’Unione Europa via mare, il 72 per cento è costituito da uomini, il 13 per cento da donne e il 15 per cento da bambini, secondo i calcoli dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Le informazioni sull’identità sessuale di chi arriva via terra non sono disponibili. Secondo le statistiche tedesche sulla migrazione, dei richiedenti asilo arrivati in Germania nel 2014, il 71,5 per cento di quelli di età compresa tra i 16 e i 18 anni era costituito da uomini; lo stesso dicasi per il 77,5 per cento di coloro che avevano tra i 18 e i 25 anni, così come per il 73,5 per cento di chi aveva tra i 25 e i 30 anni. I dati per il 2015 non sono ancora disponibili.

Dio e la Bibbia sono caratterizzati da discriminazione sessuale? Scrive "gotquestions.org". Domanda: "Dio e la Bibbia sono caratterizzati da discriminazione sessuale?" Risposta: La discriminazione sessuale avviene quando un genere sessuale, di solito quello maschile, domina sull’altro genere, di solito quello femminile. La Bibbia contiene molti riferimenti a donne che, visti dalla nostra mentalità moderna, sembrano discriminatori nei confronti delle donne. Dobbiamo tuttavia ricordare che, quando la Bibbia descrive un’azione, non necessariamente la Bibbia sta dicendo che quell’azione sia giusta. La Bibbia descrive uomini che trattano le donne come se fossero mera proprietà, ma ciò non significa che Dio approva quel modo di agire. La Bibbia ha più interesse a riformare le nostre anime e meno a riformare le nostre società. Dio sa che un cuore cambiato produrrà un comportamento cambiato. Ai tempi dell’Antico Testamento, quasi ogni cultura nel mondo aveva una struttura patriarcale. La condizione storica di quei tempi è molto chiara, non solo nella Scrittura ma anche nelle regole che governavano la maggior parte delle società. Quando quelle condizioni sono giudicate dai valori moderni e dal punto di vista del mondo, sono etichettate come sessualmente discriminanti. Dio ha stabilito l’ordine nella società, non l’uomo, e Lui è l’autore dei principi costitutivi di autorità. Tuttavia, come in ogni altra cosa, l’uomo caduto ha corrotto questo ordine. Ciò ha provocato l’ineguaglianza tra la posizione degli uomini e delle donne in tutta la storia. L’esclusione e la discriminazione che troviamo nel nostro mondo non sono una novità. Sono il risultato della caduta dell’uomo e dell’ingresso del peccato nel mondo. Quindi, possiamo giustamente dire che la terminologia e la pratica della discriminazione sessuale sono il risultato del peccato. La rivelazione progressiva della Bibbia ci porta alla cura della discriminazione sessuale e a tutte le pratiche peccaminose della razza umana. Per poter trovare e mantenere un equilibrio spirituale tra le posizioni di autorità volute da Dio, dobbiamo guardare alla Scrittura. Il Nuovo Testamento è l’adempimento dell’Antico e in esso troviamo in principi che ci indicano la giusta linea di autorità e la cura del peccato, che è il male dell’umanità, e che include la discriminazione sessuale. La croce di Cristo è il grande fattore equalizzante. Giovanni 3:16 dice “Chiunque crede” e questa affermazione inclusiva non lascia fuori nessuno a causa di posizioni sociali, capacità mentali o genere sessuale. Anche in Galati troviamo un brano che parla delle pari opportunità riguardanti la salvezza: “Perché siete tutti figli di Dio per la fede in Cristo Gesù. Infatti voi tutti che siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c'è qui né Giudeo né Greco; non c'è né schiavo né libero; non c'è né maschio né femmina; perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù” (Galati 3:26-28). Non c’è discriminazione sessuale alla croce. La Bibbia non fa discriminazioni sessuali nella sua attenta presentazione dei risultati del peccato sia negli uomini che nelle donne. La Bibbia parla di ogni tipo di peccato: tanto la schiavitù e i legami quanto i fallimenti dei suoi più grandi eroi. Eppure ci dà anche la risposta e il rimedio per quei peccati contro Dio e contro il Suo ordine stabilito – un giusto rapporto con Dio. L’Antico Testamento anticipava il supremo sacrifico, e ogni volta che veniva fatto un sacrificio per il peccato, esso insegnava quanto fosse importante la riconciliazione con Dio. Nel Nuovo Testamento, “l’Agnello che toglie i peccati del mondo” nasce, muore, viene sepolto e risuscita e poi ascende al Suo posto in cielo da dove intercede per noi. Credendo in Lui si trova la cura per tutto il peccato, incluso quello della discriminazione sessuale. L’accusa che nella Bibbia c’è la discriminazione sessuale si fonda su una conoscenza superficiale della Scrittura. Quando uomini e donne da ogni epoca hanno rispettato i loro ruoli stabiliti da Dio e hanno vissuto in base al “così dice il Signore”, allora c’è stato un meraviglioso equilibrio tra i generi sessuali. Quell’equilibrio corrisponde a come Dio aveva stabilito le cose nel principio e a come Egli le stabilirà alla fine. C’è troppa attenzione dedicata ai vari prodotti del peccato e troppa poca attenzione alle sue radici. Solo quando c’è una riconciliazione personale con Dio attraverso Gesù Cristo troviamo vera uguaglianza. “Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Giovanni 8:32). E’ anche molto importante comprendere che, sebbene la Bibbia attribuisca ruoli diversi a uomini e a donne, ciò non equivale ad una discriminazione sessuale. La Bibbia rende molto chiaro che Dio si aspetta che siano gli uomini a condurre la chiesa e la casa. Ma ciò non rende inferiori le donne? Assolutamente no! Significa che le donne sono meno intelligenti, meno capaci o che sono considerate inferiori agli occhi di Dio? Assolutamente no! Significa è che, nel nostro mondo contaminato dal peccato, ci deve essere una struttura e delle autorità. Dio ha stabilito i ruoli di autorità per il nostro bene. La discriminazione sessuale è l’abuso di questi ruoli, non l’esistenza di questi ruoli.

L'ISLAM CONSIDERA LA DONNA INFERIORE ALL'UOMO: ECCO LE CONSEGUENZE PER CHI SPOSA UN MUSULMANO. Una ragazza che si innamora di un islamico dovrebbe tenere a mente le 7 differenze giuridiche che priveranno della libertà lei e i suoi figli (anche se abitano in Occidente), scrive Gianfranco Trabuio. Un approccio corretto alla conoscenza della antropologia culturale di popolazioni diverse da quelle occidentali, deve necessariamente fare riferimento alla religione di quelle popolazioni. La dimensione religiosa è certamente quella più importante e più pervasiva presso tutti i popoli, per l'Islam addirittura è la religione che regolamenta anche la vita civile, il diritto civile e penale, la politica. [...] La concezione occidentale dei diritti universali dell'uomo, come deliberati dall'ONU, non trova riscontro nelle legislazioni dei paesi musulmani. Tanto meno dopo le recenti rivoluzioni popolari che hanno portato al potere i partiti di ispirazione fondamentalista, rigidamente ancorati alla legislazione di derivazione coranica. [...] E' opportuno illustrare, anche se brevemente, cosa si trova nei testi sacri dell'Islam, per esempio negli Hadith (sentenze) del profeta. La considerazione di Muhammad per le donne: dagli hadith (editti) del profeta: [...] Sahih Al Bukhari, Hadith 3826, narrato da Abu Said Al Khudri Il Profeta disse: "Non è vero che la testimonianza di una donna equivalga alla metà di quella di un uomo?". La donna rispose: "Sì". Lui disse: "Il perché sta nella scarsezza di cervello della donna". [...] L'AFFERMAZIONE SULLA INFERIORITÀ DELLA DONNA RISPETTO ALL'UOMO, HA CONSEGUENZE IMPORTANTI PER LA VITA DI TUTTI I GIORNI. Non ci si riferisce qui alle disuguaglianze che possono esistere a livello sociologico tra uomo e donna, queste sono purtroppo diffuse in tutte le società, nel mondo musulmano come in altre culture o civiltà. È necessario parlare della disuguaglianza giuridica, che ha delle conseguenze durature perché è normativa, spesso impedendo o comunque ritardando qualunque adeguamento alla mentalità dei musulmani e delle musulmane di oggi. [...]

1. LA DONNA HA SOLO IL RUOLO DI OGGETTO DI PIACERE E DI RIPRODUZIONE. C'è anzitutto una disparità nella possibilità di contrarre il matrimonio. All'uomo viene riconosciuta la possibilità di avere contemporaneamente fino a quattro mogli (poligamia), mentre alla donna viene negata la facoltà di sposare più di un uomo (poliandria). La poligamia legalmente sancita significa una differenza radicale tra uomo e donna. All'uomo dà la sensazione che la donna è fatta per il suo piacere e, al limite, che è una sua proprietà che può "arare" come vuole, come afferma letteralmente il Corano (sura della Vacca II, 223). Se ha la possibilità materiale, ne "acquista" un'altra. La donna si trova in una condizione di sottomissione nel ruolo di oggetto di piacere e di riproduzione; questo ruolo è confermato dal fatto che non viene mai chiamata con il suo nome, ma sempre in relazione a un uomo: figlia di…, moglie di…,

2. I FIGLI NATI DA UN MUSULMANO SONO AUTOMATICAMENTE MUSULMANI (LA RELIGIONE DELLA MOGLIE NON CONTA). La donna musulmana non può sposare un uomo di un'altra fede, a meno che questi non si converta prima all'Islam. Il divieto è dovuto al fatto che, nelle società patriarcali orientali, i figli adottano sempre la religione del padre. Ma è anche giustificato dal fatto che il padre è il garante dell'educazione religiosa dei figli, e quindi solo se è musulmano può assicurare la loro crescita secondo i principi islamici. Ricordo a questo proposito che i figli nati da un musulmano sono considerati a tutti gli effetti musulmani, anche se battezzati. Perciò ogni matrimonio misto (tra un musulmano e una cristiana o un'ebrea, gli unici due casi contemplati nella sharia) accresce numericamente la comunità musulmana e riduce la comunità non musulmana. Non mi soffermo in questa sede per approfondire questo argomento così tragico per le conseguenze delle mogli cristiane sposate a un musulmano. I fatti di cronaca sono lì a dimostrare quanta leggerezza, e ignoranza, ci sia da parte delle nostre donne e da parte della Chiesa cattolica nel contrarre e nel concedere la dispensa per questi matrimoni misti.

3. L'UOMO PUO' RIPUDIARE LA MOGLIE QUANDO E COME VUOLE (LA DONNA NON PUO'). Il marito ha la facoltà di ripudiare la moglie ripetendo tre volte la frase «sei ripudiata» in presenza di due testimoni musulmani maschi, adulti e sani di mente, anche senza ricorrere a un tribunale. La cosa più assurda è che se il marito dovesse in seguito pentirsi della sua decisione e intendesse "recuperare" nuovamente sua moglie, quest'ultima dovrebbe prima sposarsi con un altro uomo che dovrà a sua volta ripudiarla. La donna passa in tal caso di mano in mano per rispettare formalmente la Legge. La moglie invece non può ripudiare il marito. Potrebbe chiedere il divorzio, che però diviene per lei motivo di riprovazione e la mette in una condizione sociologica molto fragile. Il ripudio è comunque vissuto come un'umiliazione per la donna e si presume sempre che lei abbia qualche problema a livello fisico o morale. Infine, la facilità con la quale il marito può ripudiare la moglie senza dover giustificare la decisione, la rende totalmente dipendente dal suo stato d'animo, con il costante timore di essere allontanata. È come una spada di Damocle che pende sulla sua testa: se non si comporta secondo il desiderio del marito potrebbe essere ripudiata, e allora dovrà cercarne un altro che accetti di prenderla con sé.

4. DIVORZIO FACILE SENZA TRIBUNALE. In quarto luogo c'è da considerare la facilità con cui si ottiene il divorzio, che avviene quasi sempre su richiesta dell'uomo. Tradizionalmente, non c'è neppure bisogno di andare in tribunale. È vero che un hadith di Muhammad, il Profeta, dice che «il divorzio è la più odiosa delle cose lecite», ma comunque è permesso.

5. I FIGLI SONO CONSIDERATI DI PROPRIETA' DEL PADRE (ANCHE IN CASO DI DIVORZIO). L'affidamento della prole, in seguito al divorzio, è un altro esempio di disuguaglianza. I figli "appartengono" al padre, che decide della loro educazione, anche se sono provvisoriamente affidati alla madre fino all' età di sette anni. Solo il padre ha la potestà genitoriale.

6. ANCHE NELL'EREDITA' LA DONNA E' CONSIDERATA INFERIORE. C'è poi la questione dell'eredità. Alla femmina ne spetta la metà del maschio, un provvedimento che trova fondamento nella situazione socio-economica in cui la famiglia viveva anticamente: dato che, secondo il Corano, è l'uomo che ha l'obbligo di mantenere la donna e l'intera famiglia, era logico che dovesse disporre di un piccolo fondo a cui attingere. Anche in questo caso una disuguaglianza fissata dalla legge divina aumenta la dipendenza della donna dall'uomo.

7. LA TESTIMONIANZA DI UN UOMO VALE COME QUELLA DI DUE DONNE. Una settima differenza a livello giuridico è che la testimonianza del maschio vale come quella di due femmine. Questo si basa su un hadith di Muhammad, molto diffuso negli ambienti musulmani nonostante la sua autenticità sia piuttosto discussa, in cui si afferma che «la donna è imperfetta nella fede e nell'intelligenza». Quando si chiede ai fuqaha, agli esperti della legge, di spiegare il motivo rispondono che la donna è imperfetta quanto alla fede perché, in certe situazioni, ad esempio durante le mestruazioni, la sua preghiera e il suo digiuno non sono validi e la sua pratica religiosa è dunque imperfetta. Riguardo la seconda parte dell'affermazione – l'"imperfezione" nell'intelligenza- forse un tempo questo poteva essere spiegato sociologicamente tenendo presente che le donne studiavano meno, che erano meno coinvolte nella vita sociale e dedite soltanto ai lavori domestici, ma da tempo tutto ciò non vale più. Eppure nella maggioranza dei tribunali dei Paesi islamici vige ancora questo principio nonostante le proteste delle associazioni femministe. In alcuni Paesi i fondamentalisti chiedono anche che alle donne sia vietato di fare da testimoni nei processi in cui sono previste le pene coraniche.

Nota di BastaBugie: il Corano prevede esplicitamente che le mogli non ubbidienti vadano picchiate. Si potrebbe obiettare che ci sono anche cristiani che picchiano la moglie, ma il paragone non regge. Infatti il Nuovo Testamento prevede che non si possa mai picchiare la moglie. La lettera di San Paolo Apostolo agli Efesini (Ef 5,25.28) nei rapporti tra moglie e marito afferma: "E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei. (...) Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso". Dunque il cristiano che picchia la moglie è un cattivo cristiano, mentre un musulmano che picchia la moglie è un buon musulmano. Anzi il musulmano che non picchiasse la moglie ribelle sarebbe un cattivo musulmano che non applica il Corano. Consigliamo la lettura di un articolo pubblicato in BastaBugie n.170 del 10 dicembre 2010: IL CORANO PERMETTE AL MARITO DI PICCHIARE LA MOGLIE - Allah ha onorato le donne istituendo la punizione delle bastonate, che però vanno date secondo regole precise: senza lasciar segni visibili e solo per una buona causa (ad esempio se lei si nega a letto). Fonte: Io amo l'Italia, 07/09/2012 Pubblicato su BastaBugie n. 262

In Occidente la parità uomo-donna è veramente realizzata? La parità uomo-donna è ancora una meta da raggiungere, non un fatto acquisito. Nella realtà, toccano spesso alle donne compiti gravosi e poco gratificanti. Le loro possibilità di coltivare i propri interessi e seguire le proprie inclinazioni possono essere fortemente limitate. Sul lavoro, una donna trova spesso più difficoltà di un uomo. L'obiettivo di tutelare i diritti delle donne è perseguito dai movimenti femministi e fatto proprio da alcuni soggetti politici. A livello di leggi, l'Italia può vantare un ordinamento fra i più avanzati del mondo. La parità di diritti e di dignità fra uomo e donna è affermata senza mezzi termini, nella famiglia come nella società. Poiché le discriminazioni esistono di fatto, è a volte necessario prevedere garanzie speciali per le donne, ma è auspicabile che queste diventino inutili con l'evoluzione del costume. Leggi che riguardano espressamente le donne si giustificano solo in casi particolari, per esempio per la tutela della maternità. Il cammino verso un'effettiva parità è in pieno svolgimento e i progressi nell'arco dei decenni sono evidenti. La emancipazione della donna dai soli compiti familiari e la partecipazione alla vita pubblica e al lavoro esterno è realizzata da un numero crescente di donne. Nelle scuole di ogni livello il numero di studentesse e studenti è uguale. Abbiamo buon numero di donne nella magistratura, nell'insegnamento, nella medicina, alla guida di autobus, operaie, commercianti. In campi come la politica, l'ingegneria, la dirigenza burocratica e industriale, il numero delle donne è ancora minore di quello degli uomini, ma la loro presenza non è vista come un fatto eccezionale. Sono state eliminate norme odiose, come il delitto d'onore o l'obbligo per la moglie di "seguire il marito" per la residenza. Oggi ogni donna ha realmente la possibilità di scegliere il tipo di vita che vuole intraprendere. Trova ancora, però, maggiori difficoltà di un uomo, e in particolare rischia spesso di dover scegliere fra realizzazione familiare e realizzazione sul lavoro. Gustavo Avitabile.

"Stereotipi, rinunce e discriminazioni di genere". A parole progressisti, a casa sessisti. Dossier Istat sugli stereotipi di genere, scrive "L'Huffington Post" il 09/12/2013.  La maggioranza schiacciante degli italiani (77,5%) è convinta che non debba toccare all'uomo prendere le decisioni più importanti della famiglia, e sempre una percentuale altissima (80%) è sicura che gli uomini non sono affatto dirigenti o leader politici migliori delle donne. Allo stesso tempo, nonostante per quattro cittadini su dieci le donne subiscano evidenti discriminazioni di genere, un italiano su due ritiene che gli uomini siano meno adatti ad occuparsi delle faccende di casa e la metà della popolazione in fondo trova giusto che in tempo di crisi i datori di lavoro debbano dare la precedenza ai maschi. Non solo: nelle coppie - anche in quelle che litigano per decidere chi carica la lavatrice e porta il bambino dal dottore - sia le donne che gli uomini arrivano alla conclusione che il carico di lavoro casalingo sia equo. E' il ritratto di una nazione ancora intrappolata negli stereotipi di genere quello presentato oggi dal dipartimento Pari Opportunità della presidenza del Consiglio dei ministri e dall'Istat che ha curato lo studio "Stereotipi, rinunce e discriminazioni di genere". "Sebbene una parte cospicua della popolazione sembra aver lasciato perdere la convinzione che gli uomini debbano prendersi maggiori responsabilità delle donne, continua a esistere uno zoccolo duro che resiste al cambiamento", commenta la curatrice dello studio Linda Laura Sabbadini, capo dipartimento dell'Istat. Gli stereotipi contro le donne - più diffusi al Sud, negli anziani e nei ceti sociali meno istruiti - sono maggiormente cari agli uomini: il 60,3% e' convinto che una madre lavoratrice non possa stabilire un buon rapporto con i figli come una madre che non lavora. E, in generale, quattro uomini su dieci stima che non esista alcuna discriminazione di genere nei confronti delle donne. Sorprendentemente sono anche le donne a nutrire gli stereotipi su se stesse oppure a negarli: se per la maggioranza degli italiani (57,7%) gli uomini godono di una situazione migliore, il 50,6% delle italiane pensa che le donne in Italia non patiscano alcuna discriminazione. Gli svantaggi riconosciuti sono legati al lavoro: le donne sono maggiormente svantaggiate nel trovare una professione adeguata al titolo di studio, nel guadagnare quanto i colleghi maschi, nel fare carriera e conservare il posto di lavoro. Ecco perché moltissime donne (il 44,1% contro il 19,9% degli uomini) ammettono di avere fatto rinunce in ambito lavorativo perché hanno dovuto occuparsi della famiglia e dei figli. "La politica non può intervenire proponendo una misura legislativa per cambiare l'immaginario degli italiani", afferma Maria Cecilia Guerra, viceministra al Welfare con delega alle Pari Opportunità. Meglio "fare in modo che la società si faccia carico dei soggetti deboli come i bambini, gli anziani, i disabili" liberando le donne da quel tradizionale compito di cura. Non esiste invece alcuna differenza di genere nelle discriminazioni che gli italiani (25%) dicono di avere subito, specialmente a scuola e nel lavoro, e legate secondo gli intervistati alla condizione sociale originaria e alla provenienza territoriale (Sud). Una scarsissima mobilità sociale che secondo Lucia Annunziata "e' accentuata dalla crisi economica e racconta la rabbia delle persone che sentono di essere escluse dalla possibilità di riscatto", un senso di impotenza specialmente avvertito nelle regioni del Meridione "che sta anche alla base del grillismo". Quanto alle donne, la direttrice dell'Huffington Post sente che "ancora faticano a proporsi con sicurezza nel campo delle professioni poiché si sentono in difetto e invece dovrebbero pensare che il lavoro non ha genere". E' ancora la parte economicamente più debole del Paese a colpire la curatrice Sabbadini: "nonostante la condizione delle donne nel Sud sia peggiore dal punto di vista lavorativo e sociale, la percezione degli stereotipi e delle discriminazioni subite sia molto meno evidente". Il segno che "la presa di coscienza degli stereotipi e' ancora lenta nelle regioni meridionali". In definitiva, conclude, servirebbe "un barometro delle opinioni" curato dall'Istituto di Statistica per misurare le idee e le percezioni degli italiani sui fenomeni sociali politici. Uno strumento che darebbe il polso del Paese sulle questioni fondamentali.

Parità uomo donna: a che punto siamo. La quota di donne che lavorano è cresciuta incessantemente in Europa negli ultimi anni, e il livello d'istruzione delle donne è oggi superiore a quello degli uomini. Ciò nonostante, la maggior parte delle donne sono ancora escluse dai vertici della vita sociale, economica e politica. La differenza media di retribuzione tra uomini e donne, ad esempio, si è stabilmente assestata sul 15% dal 2003, scendendo di un solo punto dal 2000, e la maggior parte delle donne recentemente affacciatesi sul mercato del lavoro sono entrate in settori e professioni dove si riscontrava già una forte presenza femminile. La presenza di donne dirigenti nelle imprese ristagna al 33%, mentre progredisce assai lentamente in campo politico; infatti appena il 23% dei parlamentari nazionali ed il 33% degli eurodeputati sono donne. Lo stesso dicasi quanto alla presenza delle donne nei governi nazionali, che da alcuni anni viene regolarmente monitorata dalla Fondazione Robert Schuman per tutti i paesi dell'UE. Un recente studio della CES mostra come anche tra le organizzazioni dei lavoratori la presenza delle donne nei posti di responsabilità sia ancora troppo debole, nonostante sia in crescita l'affiliazione delle donne ai sindacati di tutta Europa. Il Rapporto dell'Organizzazione mondiale del lavoro (OIL) sulle tendenze del lavoro delle donne nel mondo, pubblicato in occasione della Giornata internazionale della donna, mostra chiaramente come i progressi che pure si sono realizzati in questi ultimi anni hanno ridotto in maniera ancora insufficiente le disparità tra uomini e donne. In occasione della Giornata internazionale della donna, la Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro ha raccolto tutti i suoi lavori più recenti sul tema della parità uomo-donna. Il Consiglio d’Europa invita invece gli Stati membri e i loro cittadini a rafforzare l’impegno contro la violenza nei confronti delle donne. Si stima infatti che una percentuale compresa tra il 20% e il 25% delle donne abbia subito violenze fisiche almeno una volta nella loro vita e che oltre il 10% ha subito violenza sessuale. Anche l'Unesco celebra in questi giorni la giornata internazionale della donna, mettendo l'accento sul ruolo delle donne nella scienza. Per quanto riguarda l'Italia, il Consiglio dei Ministri del 27 febbraio scorso ha approvato lo schema di decreto legislativo di recepimento della Direttiva comunitaria 2006/54/CE concernente l'attuazione del principio delle pari opportunità fra uomini e donne in materia di occupazione e di impiego. Con questo decreto si introducono anche nel nostro paese molte novità nel codice delle pari opportunità. Ad esempio: il principio generale del "mainstreaming di genere", che obbliga a tener conto dell'obiettivo della parità tra uomini e donne in tutti gli atti legislativi e amministrativi; si ampliano le nozioni di discriminazione, rendendo più forti e omogenee le tutele, s'include la discriminazione legata al cambiamento di sesso, si vieta di discriminare attraverso i criteri di selezione e nelle condizioni di assunzione, si vietano trattamenti economici differenziati a parità di lavoro, si vietano discriminazioni in caso di licenziamento e di sospensione temporanea, si assicura il diritto di beneficiare, dopo congedi parentali, degli eventuali miglioramenti delle condizioni di lavoro che sarebbero spettati alla lavoratrice o al lavoratore durante il periodo di assenza. (Marzo 2008 Osservatorio Inca).

Donne, carriere in trappola. Colpa di discriminazioni e pregiudizi. Troppo carina per far l’ingegnere. Troppo emotiva per decidere. Troppo dolce per comandare. Sono tutti stereotipi: che danneggiano anche le aziende, scrive Francesca Sironi su "L'Espresso" il 03 gennaio 2016. Quanto può dire una foto. È il 9 novembre, sul palco parla Lella Golfo, presidente della Fondazione Bellisario, il suo nome saldato alla legge che dal 2011 impone la presenza femminile nei board delle società quotate (allora le donne erano il 6 per cento, ora sono il 23). In prima fila, ad ascoltarla, siedono Giuseppe Vegas, presidente della Consob, e Raffaele Jerusalmi, amministratore delegato della Borsa italiana. Dormono, entrambi. O per lo meno, se ne stanno a capo chino, occhi chiusi, mani in grembo. Istantanea casuale di un rapporto che resta burrascoso: cosa devono fare le manager, le parlamentari, le funzionarie, le impiegate, le ingegnere, per essere prese sul serio dai colleghi? Cosa devono dimostrare, ancora, per farsi arruolare, assumere, riconoscere e ascoltare, alla pari degli uomini? È solo una foto, certo, ma il problema è globale. Isis Anchalee, una sviluppatrice che ha prestato il proprio sorriso a una campagna pubblicitaria per l’azienda informatica in cui lavora, è stata coperta di insulti sul web, perché considerata “falsa”, “troppo carina” per essere davvero una programmatrice. Uno stereotipo, validato da stuoli di smanettoni nerd rappresentati in occhialoni e jeans nelle serie tv. Uno stereotipo, comune anche ad altri universi, secondo il quale c’è chi è “adatto” e chi no a un mestiere solo a seconda del suo aspetto, o del suo sesso. Su un forum che raccoglie storie di donne occupate in ambienti tecno-scientifici, un’ingegnera nucleare scrive del suo primo incontro con un nuovo capo: «Io non ti avrei mai assunta», le dice lui. «Perché so che le donne non hanno la stessa conoscenza intuitiva dei meccanismi che servono per avere successo in questo campo». Le discriminazioni di genere dentro e intorno al lavoro, insomma, nonostante tutte le lotte, restano radicate, soprattutto nei campi tecnici. Ma forse - forse - in Italia meno che altrove. Almeno ad ascoltare le due “cacciatrici di teste” contattate da “l’Espresso”. La domanda nasceva dalle storie di cui sopra: il corpo delle donne è tutt’ora un “problema” nei colloqui, in ufficio? Le colleghe sono meno rispettate? La loro risposta è che possiamo forse ritenere finalmente fuori gioco almeno i preconcetti più banali. «Non mi è mai capitato di ascoltare una valutazione che pesasse l’essere “carina” fra i candidati proposti», sostiene Francesca Contardi, amministratore delegato di Page Personnel: «Gli stereotipi restano, ma quelli più profondi o inconsci. Come i pregiudizi verso le leader donna, ad esempio: ingiustificati eppure ancora saldi. Anche perché ci sono pochi modelli da seguire». Concorda Beatrice Roitti, partner associato di Key2People: «Molto raramente ho percepito distinzioni dovute al genere o alla bellezza quando ho presentato dei professionisti», spiega: «È vero però che la donna è considerata “più complessa da gestire” rispetto a un uomo; oppure “più debole” e quindi meno adatta a certi impieghi, nonostante la nostra esperienza ci dica esattamente il contrario: siamo altrettanto resistenti noi ai lunghi orari e alla fatica, se non è muscolare». Gli stereotipi però mantengono la loro forza perché si specchiano in una realtà che non cambia. Isis Anchalee risultava tanto “falsa” a chi la insultava quanto rare sono le ragazze nelle imprese hi-tech e nelle startup della Silicon Valley. E non è una questione solo californiana, ovviamente. I dati dell’osservatorio di Key2People sui contatti da loro avviati confermano la stessa polarizzazione in Italia: nel settore “Ict” (ovvero strutture d’informazione, comunicazione, tecnologia), le donne impiegate oggi sono solo il 15 per cento del totale. Ancora meno se ne trovano nei ruoli che riguardano “Direzione tecnica, ricerca e sviluppo, o produzione”: il 13 per cento. E poco meglio va nel commerciale (22 per cento) e negli uffici legali o fiscali: 24 per cento. Ognuno di questi numeri potrebbe avere una spiegazione diversa. Quella più evidente riguarda un divario che si annuncia già prima, nel corso degli studi. La sporadicità della presenza femminile fra hardware, server, reti e computer, infatti, è ereditata direttamente dall’università: su 3.824 iscritti maschi a “Ingegneria dell’informazione”, le donne sono 686. Gli immatricolati in “Scienze e tecnologie informatiche” sono divisi fra 17.910 ragazzi e 2.564 femmine. Poco più di una su 10. E lo stesso vale per l’ingegneria industriale: 56mila maschi, 14mila iscritte. Va meglio che in informatica - due su 10 - ma è sempre un abisso che si rispecchia poi nel lavoro. Da qui si potrebbe poi risalire ulteriormente seguendo quella che per molti è in fondo la linfa del problema: la mancanza d’attrazione verso codici, algoritmi, tavole o sistemi meccanici delle giovani sarebbe essa stessa tara di un lungo stereotipo, che fin da piccole alleva le bambine a non amare i numeri, a preferir le bambole da accudire e curare (nell’area sanitaria le donne sono il 63 per cento del totale, in università) - ma allora forse è dai colloqui per un impiego che bisogna ripartire. Le stesse statistiche però mettono in dubbio altre percentuali. Per esempio nella “Ricerca di nuovi prodotti”, o nelle squadre di esperti fiscali o legali, perché le donne sono così poche? Nelle discipline che inviano a quei mestieri, ormai, le laureate sono infatti pari o superiori ai compagni. Cosa le tiene allora lontane dalla realizzazione dei loro studi? «Per quanto riguarda le “direzioni tecniche” e i reparti produttivi può essere una questione di flessibilità», spiega Francesca Costardi. «Sono ruoli che richiedono spesso una presenza 7 giorni su 7, o turni il sabato e la domenica. E l’Italia è ancora ferma, statica, quando si parla di conciliazione familiare. Se sul lavoro stiamo dimostrando moltissimo, infatti, nessuno ci ha insegnato come essere anche, allo stesso tempo, delle buone madri; come seguire la carriera e la maternità insieme. Che rappresenta però anche il futuro demografico del paese». Mentre su altre posizioni resistono vecchi stereotipi: «Come appunto quello secondo cui, in quanto “sesso debole” le donne non potrebbero reggere i chilometri percorsi in auto dai venditori o le notti passate sui documenti dai consulenti», aggiunge Beatrice Roitti: «Mentre molte nostre colleghe stanno dimostrando ogni giorno il contrario». Qualcosa sta cambiando, dicono loro. Anche se il tasso di occupazione femminile resta inchiodato in Italia al 50,3 per cento, 13 punti sotto la media europea. Le donne, con la crisi, hanno perso meno posti rispetto agli uomini, è vero, ma per le giovani la strada è in salita. Soprattutto perché i segnali positivi di “parificazione” - minor divario negli stipendi, ad esempio - stanno arrivando, anche se al ribasso: sono peggiorate le condizioni degli uomini, non migliorate quelle dell’altro sesso. E se nei consigli di amministrazione delle società presenti in Borsa il vento rosa è stato imposto per legge - portando, è stato dimostrato, a board più giovani e preparati, oltre che paritari -, ai vertici delle aziende le donne sono ancora poche. Il “top management” monitorato nel 2015 da Key2People è femminile soltanto al 21 per cento. Il “middle management” al 34. «La settimana scorsa abbiamo incontrato un grande imprenditore che sta cercando un manager», racconta Roitti. «Aspettando le quattro persone proposte, due candidate e due candidati, ha detto: “Ah, vediamo finalmente cosa possono fare queste donne”». “Finalmente”. Nel 2015. È tardi, tardissimo. Ma forse è almeno un inizio.

Donna e uguaglianza di genere: tra discriminazione e diritti negati, la strada è ancora lunga, scrive Luca Lampugnani il 7.03.2015 su "Ibtimes". Se le parole sono importanti (e lo sono), non è un caso che si dica "dietro ad un grande uomo c'è sempre una grande donna". Un'affermazione certamente ad effetto, sia chiaro, ma che nasconde un'interpretazione del mondo che da decenni e decenni - seppur tra molte migliorie - rimane nella sostanza immutata: le donne (per quanto grandi), fanno grandi gli uomini nell'ombra, in sordina. Dietro, appunto. E proprio in questi giorni, quando siamo alla vigilia dell'8 marzo, Giornata internazionale della donna, è giusto chiedersi quanto altro tempo sarà necessario affinché tutte le donne possano giustamente ritrovarsi non più dietro agli uomini, ma accanto, fianco a fianco. (Dis)Uguaglianza di genere: dalla Piattafroma di Azione di Pechino (1995) ad oggi. Sono passati esattamente vent'anni dall'adozione della Piattaforma di Azione di Pechino, progetto ratificato da 189 Paesi in tutto il mondo con l'obiettivo di ridurre in modo costante e sensibile i numerosi gap esistenti tra uomo e donna. In questo lasso di tempo la situazione globale è indubbiamente migliorata sotto numerosi aspetti, dalla salute all'istruzione, dalla presenza in politica e ai vertici delle grandi aziende internazionali. Tuttavia, affinché si possa vedere realizzato in futuro quanto la Conferenza mondiale sulle donne di Pechino ha messo sulla carta nel 1995, molto rimane ancora da fare. Non a caso, intervistata dall'Associated Press a pochi giorni dall'8 marzo, il direttore esecutivo dell'Ente delle Nazioni Unite per l'uguaglianza di genere e l'empowerment femminile (abbreviato in inglese con UN Women), Phumzile Mlambo-Ngcuka, è stata lapidaria sul tema: nessun Paese del mondo ha raggiunto ad oggi una piena uguaglianza tra uomo e donna, ha spiegato, ricordando inoltre che tanto la sotto-rappresentanza di donne nei processi decisionali quanto la violenza di genere sono "fenomeni globali" tristemente di grande attualità. Un po' di numeri sulle differenze globali tra uomo e donna. Dato spesso tra i più riportati per sottolineare la disuguaglianza di genere che divide il sesso maschile da quello femminile, stando alle Nazioni Unite a parità di lavoro le donne hanno in media una remunerazione inferiore rispetto agli uomini che varia tra il 10 e il 30%. Alla luce di queste cifre, secondo l'Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO, dall'inglese International Labour Organization) gli stipendi delle lavoratrici rimarranno più bassi rispetto a quelli degli uomini per almeno altri 70 anni, riporta il The Guardian. Significativo, nel determinare tale lasso di tempo, è il lento, lentissimo migliorare della situazione: negli ultimi 20 anni, spiega ancora l'ILO, il rapporto globale tra le remunerazioni di uomini e donne è migliorato di soli 3 punti percentuali. Altro aspetto da non sottovalutare nell'analisi del divario tra uomo e donna riguarda la presenza femminile ai vertici delle grandi aziende. Secondo l'ONU, ad oggi sono 25 le donne che ricoprono il ruolo di amministratore delegato in altrettante compagnie inserite tra le 500 più importanti dalla rivista Fortune. Un passo in avanti non indifferente, se si considera che al 1998 ne venina contata solamente una. Tuttavia, sottolinea ancora l'UN Women, sul totale di tutti gli amministratori delegati ai vertici delle compagnie nella lista Fortune, solo il 5% è donna. Particolarmente simile a quest'ultimo caso, inoltre, è la questione della partecipazione delle donne alla politica. Stando alle Nazioni Unite, infatti, la presenza femminile globale nei parlamenti è pressoché raddoppiata negli ultimi 20 anni. Ma, nonostante tutto, tale aumento si traduce con una poco incoraggiante presenza media (sul totale dei parlamentari) del 22%. La situazione degli stipendi in Europa e in Italia. Secondo i dati relativi al 2013 Eurostat pubblicati il 5 marzo in occasione della Giornata internazionale della donna, nel Vecchio Continente le lavoratrici, a parità di impiego, guadagnano il 16,4% in meno rispetto agli uomini. Un gap che è migliorato rispetto alle più recenti rilevazioni dell'agenzia europea (nel 2008 le donne ricevevano stipendi inferiori del 17,3%), ma che comunque dimostra quanto sia ancora lontana una vera e propria uguaglianza. Entrando nello specifico, le differenze più profonde sono registrate in Estonia, Austria, Germania e Repubblica Ceca, rispettivamente con un gap salariale uomo-donna del 29, del 23, del 21,6 e del 21,1%. Al contrario, il divario appare decisamente più contenuto in Croazia (7,4%), Polonia (6,4%), Malta (5,1%) e Slovenia (3,2%). E l'Italia? Guardando semplicemente al dato finale del 2013, la Penisola si annovera certamente tra i virtuosi, facendo registrare un gap pari al 7,3%. Tuttavia, guardando più da vicino le cifre snocciolate dall'Eurostat, è impossibile non notare come proprio l'Italia abbia avuto uno dei declini (quindi aumento della differenza) peggiori tra il 2008 e il 2013, arrivando alla percentuale già accennata partendo dal 4,9%. Inoltre, stando al Global Gender Gap Report stilato annualmente dal World Economic Forum (WEF), la situazione è ulteriormente in peggioramento. In tal senso, l'Italia si è classificata per quanto riguarda il gap salariale al 129esimo posto su 142 Paesi analizzati: nel 2014, infatti, a parità di lavoro una donna ha guadagnato in media il 48% dello stipendio di un uomo. Non solo disuguaglianza: la strada è lunga anche per quanto riguarda i diritti. Così come per i numerosi gap esistenti tra uomo e donna, il mondo è ancora ben lontano da una situazione in cui i diritti di quest'ultime siano pienamente e globalmente rispettati. E se è vero che in molti Paesi del Medio Oriente (e non solo) si può parlare sostanzialmente di segregazione - in Arabia Saudita è ad esempio fatto divieto alle donne di guidare -, è altrettanto vero che anche il mondo Occidentale ha ancora grandi passi in avanti da compiere. Innanzitutto, è necessario pensare ed implementare un argine efficace alla piaga della violenza sulle donne in ogni sua forma, dall'arma dello stupro usata nel corso di conflitti passati e attualmente attivi, sino alle brutalità domestiche che molte donne subiscono ogni giorno - contro tale realtà è stata ratificata nel 2011 da 32 Paesi la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica. In secondo luogo, sarebbe necessario che i Paesi del mondo adottassero sistemi di assistenza alla maternità più efficaci, permettendo così alle donne di non essere svantaggiate nei confronti degli uomini nella scelta tra famiglia e lavoro, spesso una discriminante non indifferente incontrata dalle donne che vorrebbero portare avanti entrambe. Ancora, una maggiore attenzione globale dovrebbe essere dedicata al tema dell'istruzione, con molte giovani ragazze in tutto il mondo impossibilitate dalla povertà, dalla famiglia o dal pregiudizio a proseguire gli studi dopo un certo livello. Da non sottovalutare, inoltre, è anche la questione relativa al diritto all'aborto, una decisione che in molti casi e in molti Paesi del mondo viene espressamente negata facendo si che un gran numero di donne ricorra ad aborti clandestini e in condizioni igieniche al limite del disumano, rischiando spesso la vita. In ultimo, proprio a partire da questo aspetto, di primaria importanza è il diritto alla salute, messa a rischio ad esempio anche dalle mutilazioni genitali femminili - o dal matrimonio precoce, altra piaga cui moltissime ragazze sono costrette ogni anno -, pratiche purtroppo ancora oggi molto diffuse. 

"I camionisti sono tutti maschi" e altre scuse grottesche contro le quote rosa, scrive Laura Eduati, Giornalista de "L'Huffington Post" l'11/03/2014. Il dibattito sulla parità di genere ha stimolato nei (tanti) uomini contrari alle quote rosa un florilegio di ragionamenti che spesso sconfinano nel grottesco. A partire dal bollettino di informazione di Forza Italia, Il Mattinale, che nei giorni scorsi spiegava con orgoglio di avere introdotto nel 2003 grazie a Stefania Prestigiacomo una modifica all'art. 51 della Costituzione per promuovere normativamente proprio le quote rosa. Tuttavia, spiegavano contriti gli estensori della nota forzista, non era possibile votare gli emendamenti sulla parità di genere perché il partito di Silvio Berlusconi ora crede fermamente nel "merito delle donne". Abbiamo cambiato idea: quelle brave prima o poi arrivano. Soprattutto quando c'è un capo (maschio) che sa sceglierle, come spiega Gian Marco Chiocci sul quotidiano romano "Il Tempo": "Non ci piace questa storia della parità di genere perché a voi, come a noi, dà soddisfazione soltanto il merito". E per confermare che questa opposizione ai meccanismi di genere non nasce dal maschilismo, cita la lettera che una sua redattrice gli avrebbe spedito parlando della propria esperienza: "Non sono favorevole alle quote rosa perché un editore ha tutto il diritto di scegliere chi mettere alla guida del suo tg o del suo giornale, e un direttore come te ha tutto il diritto di scegliere a chi dare fiducia". Per grazia ricevuta. E se non è nella redazione di un giornale, capiterà a un professore (maschio) applicare le quote rosa a suo piacimento. Lo ha spiegato in aula Rocco Buttiglione: "Se io sono in una commissione di laurea faccio passare i più bravi. Ma se mi capitasse di far passare sette maschi e tre femmine mi porrei il problema se inconsciamente non sto discriminando". L'onorevole Pino Pisicchio invece ha spiegato seriamente ai cronisti che il problema delle quote rosa stava tutto nell'assenza delle preferenze all'interno della legge elettorale. Fintantoché l'Italicum prevede liste bloccate, ha detto, "non c'è modo" di garantire una adeguata parità tra maschi e femmine, ma nessuno gli ha chiesto quale fosse la straordinaria qualità magica delle candidate donne per la quale risulta quasi impossibile aumentare la loro presenza in Parlamento attraverso una legge. Filippo Facci su Libero non comprende come mai si faccia tanto baccano: "I camionisti, anche nei paritari Stati Uniti, in genere sono uomini. E anche gli agricoltori, gli operai edili, gli addetti alle trivellazioni e i tagliaboschi: mestieri che vantano il primato mondiale dei morti sul lavoro". Senza un solo lamento. Non si dica, però, che gli uomini poco amanti delle quote rosa non vogliano bene alle donne. L'onorevole Gianluca Buonanno (leghista) ha indossato una giacca bianca da cameriere per scimmiottare le novanta deputate che avrebbero voluto la parità di genere nell'Italicum: "Io sono contro a queste quote di genere ma non sono contro le donne, anzi dico: viva le donne e per fortuna che esistono". Di più: "Le donne sono migliori. Non hanno bisogno di riserve indiane costruite per legge. Non servono, soprattutto in una stagione come questa", è l'editoriale odierno de Il Giornale. Non sono mancati i parlamentari femministi come Mario Sberna, appartenente a una delle formazioni più maschili del Parlamento (gli ex montiani) e che improvvisamente vorrebbe abbandonare lo scranno pur di favorire una collega donna: "Signor Presidente, sono di quegli uomini di questo partito che è convinto di essere di troppo qui dentro; di troppo perché siamo in troppi eletti, tanto è vero che, se mi dimettessi, prima di trovare un'altra donna dietro di me bisognerebbe scorrere addirittura cinque posizioni". Come ha ben sintetizzato la deputata Gea Schirò (Scelta civica): " Rimane solo una cruda verità, quella di perdere un po' di "potere"". Eppure alla Camera non c'è stata una riproposizione della guerra dei sessi: molti uomini si sono schierati a favore delle quote rosa, e alcune donne invece si sono proclamate contrarie. Irene Tinagli (PD) è stata l'unica ad ammettere di non aver mai pensato alla questione: "Io fino a pochi mesi fa non ne ero consapevole, devo essere sincera, e quindi non mi ero mai posta il problema di una parità di genere e della rappresentanza". Un pugno di sue colleghe di partito hanno voluto, purtroppo, puntare sul vittimismo: "Ma noi non siamo casta, siamo cittadini, madri di famiglia che ogni sera sentono i figli e li sentono piangere perché siamo qui e non siamo a casa" ha esclamato Marilena Fabbri. Perché le donne, è risaputo, sono emotive: "In casa si prendono tutti i compiti, sul lavoro tutte le responsabilità, soffrono di più ma tengono botta, hanno ansie e picchi di angoscia, ma non si arrendono" (Luisa Botta). Un valzer degli stereotipi.

La discriminazione che non fa scandalo: le quote rosa, scrive il 19 febbraio 2014  su "avoiceformen.com". In un era in cui quotidianamente vengono affrontati i temi dell’uguaglianza e delle pari opportunità, il femminismo radicale trova il suo fertile terreno di coltura. Utilizzando argomentazioni populistiche che fanno presa sull’interlocutore medio, esso sta attuando, silenziosamente e con la complicità dei poteri forti, un profondo mutamento culturale e sociale che nei sui sviluppi futuri potrebbe mettere seriamente in pericolo la libertà e le opportunità del genere maschile. Il lettore superficiale e frettoloso, lobotomizzato da anni di dottrina femminista, esercitata attraverso slogan, campagne mediatiche d’effetto e finti dati snocciolati in tv, potrebbe sorridere di fronte a questa affermazione. Ma la realtà, se ci si sofferma qualche minuto, è più drammatica di quel che si pensa. In nessun’ epoca storica, il mondo occidentale ha mai dato tanto valore alle donne e alle loro problematiche come in quella contemporanea, al punto che oggi, se di discriminazione si vuol parlare, essa sta colpendo gli uomini, divenuti il capro espiatorio dei fallimenti del gentil sesso e valvola di sfogo delle sue frustrazioni. L’ideologia femminista, abusando del principio delle pari opportunità, ha finito per scavalcarlo, facendo apparire addirittura legittimo e positivo il suo superamento. Essa non solo ha imposto coattivamente la partecipazione femminile in alcuni settori lavorativi e in politica, ma si è fatta promotrice di iniziative finalizzate alla tutela di genere che, paradossalmente, si sono tradotte in vere e proprie discriminazioni nei confronti del mondo maschile. In ambito nazionale e internazionale, conseguenza diretta della propaganda femminista sono state le quote rosa. Introdotte con la legge 120/2011, cosiddetta Golfo-Mosca, esse hanno imposto alle società quotate in borsa, sia pubbliche che private a partecipazione statale, di rinnovare i propri organi sociali, riservando una quota pari al 30% dei propri membri alle donne. Successivamente, questo vero e proprio privilegio d’ancien regime è stato esteso alle liste elettorali comunali, (aumentando la percentuale a un terzo e introducendo addirittura la doppia preferenza in lista), e alle commissioni esaminatrici pubbliche. In totale spregio del principio di uguaglianza e della meritocrazia, di cui oggi se ne fa un gran parlare, questo strumento è una vera e propria corsia preferenziale che consente a qualsiasi persona di occupare un posto di rilievo, in un Consiglio di Amministrazione societario o in politica, solo perché di sesso femminile. A prescindere dalle reali ed effettive capacità, una donna dovrebbe avere un posto riservato solo perché tale, per l’unico motivo che una legge, ideologicamente orientata, ne imponga coattivamente la presenza. Il merito, per le femministe, dovrebbe valere per tutti tranne che per le donne, al punto che, ancora oggi, riguardo alla recente riforma della legge elettorale di cui si discute in Parlamento, sono state avanzate proposte di imporre nelle liste elettorali il 50% di presenze femminili. Addirittura, con legge cost. del 30 maggio 2003 è stato modificato l’art 51 della Costituzione, per rendere legittima questa vergognosa pratica discriminatoria, giudicata incostituzionale già nel 1995, perché le quote: «non si propongono di “rimuovere” gli ostacoli che impediscono alle donne di raggiungere determinati risultati, bensì di attribuire loro direttamente quei risultati medesimi» (Corte Costituzionale, sent. n. 422 del 1995). Sfruttando strumentalmente il principio di uguaglianza, si è arrivati ad attribuire alle donne veri e propri privilegi di genere, con la grave compiacenza delle Istituzioni che sul rispetto effettivo di tale principio dovrebbero vigilare. Vorremmo però chiedere alle lobbies femministe e a coloro che le rappresentano, per quale motivo tali battaglie ideologiche non vengono intraprese per garantire il rispetto della parità di genere in quei settori in cui a prevalere è la presenza femminile, ad esempio nelle scuole, nelle pubbliche amministrazioni o nei servizi sociali. Oppure perché non si impongono quote rosa anche in quei settori lavorativi usuranti e pericolosi che sono totalmente appannaggio del genere maschile. Le pari opportunità non fanno comodo in questo caso? Recentissima è la notizia dell’esplosione di una miniera in Ucraina il cui bilancio è di sette morti, ovviamente tutti di sesso maschile. Non abbiamo sentito nessuna femminista impegnata mostrare sdegno per le condizioni pietose in cui sono costretti a lavorare migliaia di uomini quotidianamente, correndo seri pericoli per la propria incolumità e rischiando la morte, né visto sventolare lo spauracchio dell’uguaglianza di genere in nome di un effettiva parità. La logica deduttiva femminista è la seguente: dove le donne sono in minoranza, la causa è del maschilismo che impedisce loro l’accesso, ad eccezione dei settori in cui conviene non essere affatto presenti (cantieri, pescherecci, miniere, ecc.). Laddove, invece, esse sono in maggioranza, il merito è tutto personale e conseguenza della loro capacità, tenacia e intraprendenza.

Le oche del Campidoglio, scrive il 10 luglio 2015  su "avoiceformen.com". Narra la leggenda che i Romani assediati vennero salvati dalle oche sacre a Giunone. Queste si misero a strepitare mentre i Galli stavano scalando le mura e così misero in allarme i difensori che reagirono in tempo e salvarono la città. Lo strepito delle oche sacre è una similitudine assai appropriata per quanto è accaduto di recente in tema di alienazione parentale. L’associazione Doppia Difesa ha presentato una proposta di legge per rendere reato l’alienazione parentale. Per promuovere questa proposta di legge Michelle Hunziker ne ha parlato con Fabio Fazio a Che Tempo che Fa, ed è scoppiato un putiferio sulla rete dei blog pseudo femministi. Nel giro di pochi giorni, dopo una noiosa e sussiegosa lettera aperta del blog Ricciorno, molte commentatrici si sono esercitate nell’arte del monito e dell’intimidazione a tornare sulla retta via del politicamente corretto. Un noto avvocato delle madri alienanti ha addirittura cercato di cogliere l’occasione per salire alla ribalta mediatica ed ha  intimato a Fazio di concedergli il diritto di replica: Chiediamo al Direttore di Rai Tre, Andrea Vianello, a Fabio Fazio, che ha ospitato la Hunziker alla trasmissione che “Tempo che Fa”, a prendere le distanze dalla PAS (menzionata in trasmissione dalla Hunziker) e rettificare l’informazione anche invitando esponenti […] in grado di spiegare la pericolosa mistificazione in atto. Per dare un’idea della tempesta in un bicchier d’acqua scoppiata su questo caso basta cercare con Google le tracce dei rilanci della notizia che sono veramente numerose, e tutte più meno ispirate dalla più sfrenata isteria, tanto da far pensare allo strepito delle oche del Campidoglio. Ma se ci concentriamo sui mass media ufficiali vediamo subito che il clamore su Internet è in realtà andato a vantaggio delle proponenti. Proprio in seguito alle reazioni isteriche della rete, infatti, l’avvocato Giulia Bongiorno ha potuto spiegare pacatamente a La Stampa e a L’Espresso la fondatezza della sua proposta e la scarsa ragionevolezza degli oppositori. La campagna intimidatoria quindi si è ritorta contro chi la ha promossa ed ha fatto conoscere il termine alienazione parentale anche al grande pubblico. E quelli che speravano ardentemente di ottenere un invito da Fabio Fazio per spiegare che “la PAS è una falsa malattia inventata da un attivista della pedofilia rifiutata dalla comunità scientifica” (sic!), stanno ancora aspettando… Le oche sacre a Giunone avevano il genio della chiaroveggenza, le blogger femministe invece si sono dimostrate per quelle che sono, delle semplici e normali oche.

Il nazi-femminismo ed il gender entrano nella scuola, scrive il 10 luglio 2015  su "avoiceformen.com". In base all’articolo 16 della nuova legge sulla scuola, femministe saranno assunte a spese nostre per indottrinare i bambini alla falsa e calunniosa ideologia secondo cui esisterebbe una «violenza di genere».  Tale ideologia, secondo cui le donne sarebbero vittime e gli uomini violenti, è sostenuta dai centri anti-violenza per sole donne spesso coinvolti in false accuse contro i papà finalizzati ad aiutare donne separate a sottrarre i figli e ad abusarli alienandoli a credere che i papà siano cattivi. Il tutto ebbe inizio negli anni 70, quando donne per bene come Erin Pizzey e Anne Cools fondarono i primi centri anti-violenza, che aiutando sia uomini che donne ebbero enorme successo. Le femministe, in cerca di una falsa buona causa con cui mascherare il proprio progetto criminale di distruggere le famiglie arricchendosi con false accuse, si impadronirono di tali centri cacciando con la violenza chi li aveva fondati. Dopo aver tentato di resistere alle minacce di morte contro i suoi figli, all’uccisione del suo cane, Erin Pizzey fuggì in America abbandonando i centri anti-violenza alle femministe, che avviarono «l’industria multi-milionaria delle false accuse». In Italia, per ottenere soldi pubblici per i loro centri le femministe hanno nel 2011 usato la stampa per montare la calunnia del “femminicidio”, quando in realtà l’Italia è uno dei paesi al mondo più sicuri per le donne. Un parlamento di pecore, sentendo parlare di “violenza sulle donne”, approvò la Convenzione di Istanbul senza accorgersi che era un cavallo di Troia che nascondeva l’ideologia gender ed il nazi-femminismo. La crisi economica ha per ora rallentato i finanziamenti di stato alle calunnie contro i papà separati, ma appoggiandosi a tale Convenzione, le femministe hanno ora ottenuto di entrare nelle scuole. Questa volta numerosi parlamentari hanno tentato di opporsi alla nuova legge, che sta costando molti voti al Partito Donnista che la ha imposta. E, per fortuna, la società civile sta capendo cosa si nasconde dietro a queste manovre: centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza contro l’ideologia gender, e sentinelle promettono di vigilare per proteggere i bambini da uno stato che vuole usare le scuole per indottrinarli ad una falsa ideologia dell’odio.  Una famiglia può proteggere i figli iscrivendoli ad una scuola privata che prometta di non indottrinare i bambini.

Come alcune femministe hanno innescato il fenomeno dell’isteria sugli abusi, scrive il 14 febbraio 2015  su "avoiceformen.com". Debbie Nathan è una giornalista e scrittrice americana, vincitrice di vari premi, ha scritto sul tema dell’isteria collettiva degli abusi sessuali. Nel corso degli anni 80 negli Stati Uniti si verificò un fenomeno definito in inglese Day-care Sex Abuse Hysteria, che successivamente è stato oggetto di vari studi.  (si veda a questo proposito la pagina di Wikipedia). Gli italiani sanno benissimo che cos’è perché ne hanno sperimentato gli effetti con venti anni di ritardo, l’ultimo episodio è stato quello di Rignano Flaminio. Per ragioni non facili da spiegare per un lungo periodo di tempo, sia negli USA che in altri paesi si è prestato fede a denunce di abusi sessuali collettivi che sarebbero avvenuti in scuole o altre istituzioni per la cura dei minori che non avevano nessun altro fondamento che le dichiarazioni dei minori stessi, ottenute da sedicenti esperti con tecniche di intervista particolari. Le caratteristiche delle denunce erano tali che una persona comune dotata di normale buon senso avrebbe dovuto rendersi conto immediatamente del fatto che erano inventate, invece investigatori, magistrati e consulenti dei tribunali le hanno considerate degne di essere credute e portate a processo. L’esito di questi processi è stato nella maggior parte dei casi l’assoluzione, in alcuni casi persone innocenti sono state incarcerate ingiustamente. Una lunga scia di vite rovinate, suicidi e altre tragedie ha caratterizzato lo svolgersi di questo fenomeno, che, vale la pena di ripeterlo, si è verificato anche in Italia con vent’anni di ritardo. La giornalista americana Debbie Nathan ha seguito alcuni di questi processi e ha pubblicato un libro che ancora oggi è considerato un classico del giornalismo investigativo. Il libro pubblicato nel 1995 si intitola Satan’s Silence, scritto assieme a Michael Snedeker, analizza il fenomeno del panico morale americano che è sfociato nella catena di processi per abusi sessuali collettivi. I primi capitoli del libro sono i più interessanti perché ricostruiscono gli antefatti del fenomeno. Meritano di essere letti attentamente perché tra gli apprendisti stregoni che hanno innescato l’isteria collettiva compaiono anche i seguaci dell’ideologia femminista nella variante radicale. La Nathan spiega come si debba retrodatare l’avvio del fenomeno ai primi anni 70, quando i servizi sociali cominciarono a occuparsi seriamente del tema dei bambini maltrattati in famiglia. Erano spesso le madri della famiglie povere che picchiavano i figli, ma la spiegazione che veniva data dalla psicologia era che il problema non era la povertà ma che si trattava di una psicopatologia, un disturbo trattabile con la terapia o con la partecipazione a gruppi di mutuo aiuto ispirati al modello degli alcolisti anonimi. Vennero concessi fondi in tutti gli Stati Uniti per promuovere questo approccio e risolvere finalmente il problema dei bambini maltrattati, e anche alcuni gruppi di femministe radicali appoggiarono attivamente il programma. Successivamente il focus dell’attenzione dei servizi sociali venne spostato sul tema dell’incesto. Come per il maltrattamento il fenomeno era prevalente nelle famiglie povere, ma visto il successo ottenuto con il programma per “curare” i genitori che picchiavano i figli gli ambienti che avevano promosso il programma pensarono di giocare la carta terapeutica anche in questo caso. Il tema però si prestava ad interpretazioni radicalmente opposte, alcune femministe ritenevano che la famiglia fosse la causa dell’incesto e che non ci fosse nessuna cura. Tuttavia per un complesso insieme di circostanze si creò una coalizione tra gli ambienti politici conservatori e le femministe radicali. Ad ambedue i fronti ideologici conveniva sostenere che c’era la necessità di un programma per “aiutare” i padri incestuosi ad uscire dal tunnel, perché da un lato apparentemente ciò serviva a “salvare le famiglie” e dall’altro ciò metteva in evidenza il ruolo negativo svolto dal predominio maschile nella società. Il programma per il trattamento dell’incesto venne sperimentato con grande successo in California nella Silicon Valley. I casi denunciati aumentarono del 90%. La ragione di questo impressionante incremento delle denunce è semplice. Il programma di trattamento era basato sul modello della “proposta che non si può rifiutare” del film Il Padrino. Il caso standard prevedeva che le notizie sulla possibile esistenza dell’incesto venissero dal contesto ambientale in cui viveva la ragazzina (scuola, vicinato ecc.). A quel punto i servizi sociali sentivano altre fonti di informazione e poi facevano la proposta in stile Don Corleone al padre sospettato di incesto. Se ammetteva il fatto e accettava di sottoporsi alla terapia non ci sarebbero state conseguenze penali e nessuno lo avrebbe saputo, in caso contrario poteva attendersi un trattamento molto punitivo. Anche la figlia e la moglie dell’accusato ricevevano una proposta dello stesso tenore, se non avessero collaborato confermando le accuse, la loro famiglia sarebbe stata rovinata economicamente perché il padre che portava i soldi a casa sarebbe finito in carcere, magari all’ergastolo. Con questo meccanismo i padri reclutati per la terapia contro l’incesto aumentarono in modo vertiginoso in tutti gli Stati Uniti e la coordinatrice del programma Kee MacFarlane  (una lobbista per conto della organizzazione femminista National Organization of Women)  guadagnò fama ed influenza. Quindi, ricapitolando, un’alleanza opportunistica tra politici conservatori (che volevano dimostrare di salvare le famiglie con la terapia psicologica senza toccare le condizioni economiche alla base dei problemi) e femministe radicali (che volevano dimostrare che moltissimi padri sono pericolosi per i loro stessi familiari), mise in piedi un sistema che costrinse molti padri della classe media a confessare crimini non commessi per cavarsela con una serie di sessioni di terapia ed evitare la prigione. I frutti avvelenati della vicenda dei programmi per “curare l’incesto” furono molteplici:

un abnorme aumento dei poteri inquisitori degli assistenti sociali, che operavano come una polizia speciale non dissimile dai servizi segreti dei regimi totalitari;

l’accettazione dell’idea che per questo tipo di crimini non servivano prove, perché il solo fatto che l’accusato negava era una prova della sua colpevolezza;

l’utilizzo di metodi di intervista sui minori che miravano non a conoscere la verità ma a suggestionarli e costringerli a dire quello che l’inquisitore pensava di conoscere già.

Ma questo fu solo l’antefatto di una tragedia ben più grave che prese l’avvio negli anni ottanta. E come nei film dell’orrore una delle attrici del prologo degli anni settanta ebbe un ruolo da protagonista nel sequel. Kee MacFarlane condusse personalmente le interviste alle presunte vittime della McMartin preschool. Il modo come vennero fatte queste interviste è descritto in Satan’s Silence (tradotto in “Abusi sessuali collettivi sui minori” di Angelo Zappalà, Franco Angeli 2009) e non necessita di commenti. Ultimo dettaglio (non il meno significativo): il metodo delle interviste ai minori inaugurato negli anni settanta con la benedizione delle femministe radicali per inguiare i padri, venne usato poi per accusare ingiustamente un gran numero di donne (maestre di asilo e bidelle) che vennero coinvolte nei successivi decenni nei numerosi casi di isteria da abuso, come si è visto in Italia nel caso di Rignano Flaminio.

 La discriminazione nei confronti dell’uomo, scrive il 13 ottobre 2014 Irene Facheris su "Bossy”. Classe 1989. Laureata in Psicologia, ha frequentato corsi sull'influenza sociale e sulla psicologia delle disuguaglianze. Ora lavora come formatrice e coordina il progetto Bossy. Ma tanto tutti se la ricordano per aver parlato male di "50 sfumature di grigio" su internet.

L’uomo vero non deve piangere.

L’uomo vero non deve parlare dei propri sentimenti.

L’uomo vero non deve mostrare le proprie debolezze.

L’uomo vero non deve curarsi più di tanto. Ti metti la crema in faccia? Spero tu stia scherzando.

L’uomo vero non subisce violenze da parte delle donne. Mai. Violenza sugli uomini? Ma di cosa stiamo parlando? Esiste? No, giusto? Ah ecco, dicevo.

L’uomo vero non deve sapere cucinare, a meno che non sia il suo lavoro.

L’uomo vero deve avere uno stipendio più alto della sua compagna.

L’uomo vero non può commuoversi vedendo un film. (Il mio fidanzato ha pianto per una puntata di Game of Thrones, adesso cosa faccio?)

L’uomo vero non può ballare. Di sicuro non può fare danza classica, ma se evita proprio di muoversi è meglio. Vedetela così, se le persone fossero dei film, l’uomo vero sarebbe Footloose.

L’uomo vero non può dire che si è fatto male. Anche se si vede l’osso.

Ma perché?

Perché un uomo non può mostrarsi emotivo, incapace di difendersi o sofferente?

Perché l’uomo non può piangere?

Fateci caso: l’emozione, il pianto, la manifestazione dei sentimenti… Tutti questi comportamenti definiti “deboli”, a quale universo fanno riferimento? A quello femminile. Se dei membri del gruppo “forte” attuano dei comportamenti tipici del gruppo “debole”, cominceranno ad essere trattati come deboli. Un leone che sviene dalla paura come le pecore, non avrà vita lunga nel branco. La discriminazione nei confronti dell’uomo è estremamente legata alla convinzione che la donna sia inferiore e così anche i suoi comportamenti “classici”. Quando dico che l’uguaglianza conviene a tutti, mi riferisco proprio a questo. Finché alle donne non sarà concesso di essere Persone degne della stessa stima degli uomini, agli uomini non sarà concesso piangere. È per questo che parliamo di uguaglianza e abbiamo il simbolo della donna nel logo. Statisticamente è la donna che viene penalizzata nella società, ma non vuol dire che all’uomo non accada. E accade quando ha dei comportamenti tradizionalmente associati all’universo femminile. Tra l’altro, un uomo che ha degli atteggiamenti tipicamente femminili come viene chiamato? Esatto, “gay”. Perché i gay nell’immaginario comune sono quegli uomini che scimmiottano le donne perché vorrebbero essere come loro. Ci rendiamo conto della pericolosità di questi ragionamenti? Se piangi sei per forza gay e se sei gay sei “meno uomo”. La cosa più sconvolgente è che ci sono moltissime DONNE che pensano che un uomo che manifesta le proprie emozioni sia “meno uomo”. E questo è – per tutti – un buon motivo per piangere.

Uomo, discriminato e solo. La Cecla commenta il nuovo sessismo, scrive Bruno Giurato su “Lettera 43” il 4 Giugno 2012. È possibile che il maschio, il «fallocrate», il «grande oppressore», quello che indossa lo stivale che ogni donna vorrebbe avere sulla faccia (come scriveva Sylvia Plath) rappresenti il sesso debole della nostra epoca? A quanto ne ha scritto il filosofo sudafricano David Benatar è così. Nel mondo anglosassone è già polemica dura sul suo ultimo libro intitolato The second sexism. Discriminination against men and boys (Wiley Blackwell, 2012). Secondo Benatar, che insegna all'università di Città del Capo, nella cultura contemporanea il genere maschile soffre di una discriminazione tanto diffusa quanto inespressa. Una forma di sessismo latente, e per questo più violento, opprime i maschi, in particolare nel mondo occidentale. Statistiche alla mano, Benatar fa notare che «un più alto numero di ragazzi rispetto alle ragazze lascia la scuola, un numero maggiore muore giovane e viene incarcerato». Tra barboni e homeless, poi, la popolazione maschile è prevalente. Certo, ovunque si ricorda come per le donne sia più difficile accedere a posizioni dirigenziali, ma ci sono ricerche Usa che evidenziano come agli uomini siano riservati i lavori più umili (dal netturbino al manutentore delle fognature) e come, sempre gli uomini lavorino, in media, più ore alla settimana delle donne (in Inghilterra in media 39 contro 34). Si aggiunga il fatto che gli uomini tendono a suicidarsi 10 volte più delle donne. La questione dei padri separati, che praticamente non riescono quasi mai a ottenere la custodia dei figli, e a volte devono corrispondere cifre insostenibili per gli alimenti, è un problema conosciuto anche in Italia. Ma Benatair va oltre. Anche nell'immaginario il genere maschile è spesso oggetto di un'ironia sottilmente «razzista». Ne è un esempio la figura di Peter Pan, un monumento all'inaffidabilità che ritroviamo continuamente tra film e tivù. Attenzione, però. Benatar, che è anche noto per posizioni piuttosto radicali (è un esponente dell'anti-natalismo, e nel suo precedente libro ha argomentato come per l'uomo e la donna sia decisamente meglio non nascere), non si sogna nemmeno di contestare che esista una discriminazione verso le donne. Non è, insomma, un negazionista del femminicidio, e nemmeno del fatto che la violenza verso le donne sia una infamia pura. Non a caso il libro si intitola Il secondo sessismo, lasciando intendere che il primo è, appunto, quello nei confronti delle donne. Nonostante questo, il libro di Benatair ha ricevuto solenni schiaffoni polemici, per esempio da parte dell'editorialista del Guardian Suzanne Moore, e poi dall'Observer, dal New Statesman e dall'Independent. Lettera43.it sul tema ha sentito l'antropologo Franco La Cecla, autore della ricognizione sulla condizione del maschio contemporaneo Modi Bruschi (Eleuthera). Secondo La Cecla il problema della discriminazione maschile, in particolare nei Paesi anglosassoni esiste. «Una volta c'era la dominazione maschile», ha spiegato, «ma al suo venire meno è emersa la guerra tra i sessi. Semplicemente si tende a sostituire alla dominazione maschile quella femminile. Non c'è una vera dialettica, un vero confronto, fra uomo e donna». Secondo l'antropologo ci sarebbe bisogno «di un nuovo Contratto sociale, sulla scia di Rousseau». «Sarebbe necessaria una nuova negoziazione civile e politica tra uomo e donna», ha aggiunto. «Il femminismo estremo ha semplicemente sottratto la donna dalla società, incasellandola in una categoria a sé». «Chi sostiene che gli uomini provino invidia del vittimismo femminile», ha aggiunto riferendosi alle accuse rivolte a Benatar dalla stampa inglese, «identifica il femminile con il vittimismo, con il senso di rivalsa». Secondo Benatar la violenza sugli uomini non viene considerata soprattutto perché il maschio è per natura meno incline a chiedere aiuto, a manifestare la sua condizione di disagio. «E a chi potrebbe chiedere aiuto, anche volendo?», ha risposto La Cecla. «Qui non ci sono psicanalisti o strutture culturali che possano aiutare: il mondo femminile è altrettanto confuso del maschile». Mal comune nessun gaudio, quindi. E se la cultura di riferimento e il dialogo vengono meno, emergono spinte identitarie, fondamentaliste, puramente ideologiche». «Leggendo certe prese di posizione polemiche sembra che gli uomini siano cattivi per il solo fatto di essere uomini», ha continuato l'antropologo. «In Francia ci sono stati casi di donne infanticide a cui sono stati affidati gli altri figli, perché la matenità sarebbe più naturale della paternità. Come se la natura potesse da sola garantire il risultato educativo, indipendentemente dai comportamenti». Anche in questo caso, insomma, si tratta di pure prese di posizione ideologiche, del tutto staccate dalla realtà. Ma a giudicare dalle reazioni internazionali al libro di Benatar (in Italia per ora tutto tace), la via attraverso cui uomo e donna dovrebbero affermare la loro «fratellanza» (parola usata da un'icona della liberazione femminile come Simone De Beauvoir) sembra quantomeno accidentata.

Colonia, i pensieri della fava e Pippo, scrive Antonella Grippo il 18 gennaio 2016 su “Il Giornale”. La miserevole, parodica mimica del glorioso paleo-femminismo, meglio nota con la ragione sociale del “se non ora, quando”, al cospetto delle impietose cronache di Colonia, ha prodotto l’ultimo flebile rantolo. Poi è esalata (per fortuna). Lo spettacolare assalto al cielo che, negli anni ‘ 60-’70, aveva tumulato l’idea protocollare ed anemica del corpo femminile, sottraendolo all’ipoteca statutaria della procreazione e promuovendone la soggettività impeccaminosa, è stato tumulato, a sua volta, nel recente passato, da un nugolo di parashampiste a cottimo. In realtà, paracule per le quali l’inquietudine del basso ventre maschile è a geometrie variabili. Insomma: c’ è fallo e fallo. Quello immigrato, lo si sappia, detiene un’intrinseca ragionevolezza sociologica persino nella sua massima e ruvida erezione animale. Non è che puoi fare la combattente femminista se non c’è di mezzo Berlusconi. Come fai a prendertela con il piffero musulmano? E’ poetico, intriso di lirismo ancestrale. Di fremiti da guerra e povertà. Un fiotto di antropologia tribale. Va argomentato e discusso. Giammai decontestualizzato dalle braghe di riferimento. Parola del femminino formato tessera della provincia nostrana. Vuoi mettere… Altro che la saccente protuberanza virile dell’impiegato del catasto di Casalpusterlengo, che, seppur dimessa, oltre ogni ostacolo, si sollazza con lo stupro della suocera, colpevole assertice della secessione della Romagna. Per non parlare dei ragionieri di Avellino, delle cui incontinenze sessuali consta l’intera indagine clinica di Sigmund Freud. Non è un mistero per alcuno che proprio dall’osservazione del ceto medio maschio campano, egli abbia ricavato, empiricamente, la teoresi edipica. E che dire della fava del benzinaio di Matera che quando s’ingrifa, non corrisposta, è capace di ispirare l’arte operaia del Femminicidio. Da non dimenticare, inoltre, la maschietà violenta del brianzolo che osò recintare nel perimetro di Arcore tutte le modulazioni possibili del Male, attentando alle virtù dell’illibata, incappuccettatarossa Rubj-fotticuore. Tutto il resto non fa dottrina. Men che meno, Colonia. Ma davvero si poteva immaginare che le damine di San Vincenzo disertassero i summit settimanali sui prodigi terapeutici del ricamo ad uncinetto, o i raduni circa le qualità insuperate del CifAmmoniacal,in quanto killer di batteri da bidet , per occuparsi di femmine , perdippiù tedesche, incapaci di interloquire con la bestia che abita i calzoni profughi, al fine di capirne i bisogni, interrogarne le aspettative, in un clima  di multimazza? Meglio falcidiare l’assioma partenopeo per eccellenza, secondo cui “il pisello non vuole pensieri.” Contrordine, compagne:il pisello  musulmano convoca tutta la storia del pensiero planetario. Esige e reclama lo sguardo delle scienze umane.Chiede di essere indagato, decriptato. Accolto. E’ un’innocenza analitica. Politically correct. Se non lo sai, non sei trendy come la Maraini. Rischi l’anatema della Pinotti. Boldriniche omissioni ti sorvegliano. E poi, lo stupro ad opera di più Ma(n)ometti rifugiati collettivizza la fava come mezzo di (ri) produzione. Una figata marxista. Per noi, sparigliatrici romantiche, una gracile speranza: il sussulto femminista di Civati. Gli assorbenti a basso costo. Tramonta la “via menopausale al socialismo” e si apre un nuovo” ciclo”. Assaltiamolo ancora, il cielo. A bordo di un salvaslip. Dei leggins si occuperà Fassina.

25 cose che le donne dicono e gli uomini non capiscono, scrive “La Repubblica” il 2 febbraio 2016. Che per capirsi non basta parlare la stessa lingua non è una novità: gli uomini vengono da Marte e le donne da Venere, come si diceva spesso negli anni Novanta, parafrasando l'omonimo libro. Ma quali intenzioni e concetti, esattamente, gli uomini non colgono? Quali parole fraintendono? Senza alcuna pretesa di scientificità, né di esaustività, ecco una divertente lista delle 25 parole o frasi che vengono equivocate, con tanto di traduzione e suggerimento di risposta a beneficio di mariti, amanti, amici e compagni, che ancora traducono in maniera letterale quel che diciamo, sbagliando. Condividetelo con il vostro "lui", perché impari a capirvi e soprattutto per ridere assieme dei luoghi comuni sui misunderstanding di coppia.

1) "Niente..." Vuol dire "tutto". Se la tua donna dice "niente", ti conviene scoprire in fretta cosa voglia dirti... 

2) "Pensi che questo vestito mi faccia grassa?" È come dire "pensi sia brutta?". Non pensare, rispondi categoricamente NO. 

3) "Gira al largo". No, non mostrarti carino, non cercare il riavvicinamento, non fraintendere, non considerarlo un permesso. Va preso alla lettera, è un divieto. 

4) "No". Vuol dire no. Punto.

5) "Sì": in alcuni casi vuol dire "no". Ci sono eccezioni ed è davvero difficile distinguere un vero sì da un falso. Statisticamente, l'uomo sbaglia sempre.

6) "Forse". Vuol dire comunque "no".

7) "Sarebbe bello se…" Il "se" nasconde sempre un ordine categorico.

8) "Fine, stop". Vuol dire che la discussione è finita, lei ha vinto e tu hai perso.

9) "Ok". Non è mai un "va bene", significa solo che lei ha bisogno di tempo per pensare alla giusta punizione per te.

10) "Mi stai ascoltando?" No, non la stavi ascoltando. Non ci sono mai prove sufficienti a provare il contrario. Arrendersi subito è la sola cosa tu possa fare.

11) "Decidi tu". Se credi che sia una concessione a prendere una decisione, sbagli di grosso. La vera traduzione è: "sta a te scegliere la giusta alternativa che io penso ma non ti dico perché lo devi sapere da solo". Fare la scelta giusta significa farsi rispondere "ok" (vedi punto 9).

12) Silenzio... Segnale significativo, e preoccupante. Tradotto: "non posso credere che io stia qui a scontrarmi con la tua stupidità". 

13) "5 minuti". Dipende dal contesto: se si sta vestendo valgono tra i 30 e i 40 minuti. Se invece tu stai vedendo la tv, significa che la devi spegnere in 0 minuti, tradotto: "perché vedi la tv quando potremmo fare qualcosa di più produttivo, assieme?" 

14) "Qualsiasi...". È come "ok" (punto 9), ma peggio. Molte volte è seguito dal punto 10: mi stai ascoltando? Non promette insomma mai nulla di buono, abbassa le orecchie subito.

15) "Grazie!". Vuol dire "grazie!". Respira, rilassati, rispondi "prego".

16) "Grazie molte!". Sottile differenza con il precedente, vuol dire l'esatto contrario. Sarcastico. Non rispondere mai "prego".

17) "Non ti preoccupare di questo". Vuol dire che dopo averti chiesto di fare qualcosa alla fine lo sta facendo da sola. Ogni tentativo di rimediare da parte tua porta al punto 12: silenzio.

18) "Possiamo andare dove vuoi". In molti casi vuol dire "scegli il mio ristorante preferito". Se non ricordi qual è, procedi per esclusione: è sempre quello più caro.

19) "Dobbiamo parlare..." Sei morto.

20) "Cosa stai facendo?" Non è una domanda, significa: "stai facendo qualcosa di sbagliato".

21) "Devi farlo proprio ora?" Anche questa non è una domanda, significa interrompi subito e preparati a ricevere ordini.

22) "Devi imparare a comunicare". Comunicare significa "essere d'accordo con me". 

23) "Non sono arrabbiata!!!". È arrabbiata. 

24) "Abbiamo bisogno…" = Lei vuole qualcosa.

25) "Non voglio parlare di questo". Lei vuole parlarne, eccome, ma al momento vuole che tu te ne vada perché sta raccogliendo prove contro di te.

15 errori beauty che gli uomini non sopportano di noi, scrive Angela Croce il 27 gennaio 2016 su “La Repubblica”. Anche al più fedele e collaudato compagno certe (cattive) abitudini beauty femminili proprio non piacciono! Per esempio, trovarsi di fronte unghie aggressive, sopportare un trucco esagerato, farsi andare a genio quei capelli dal look finto/spettinato e soprattutto accarezzare la pelle tendente al ruvido... Sfogliate questa gallery e correte ai ripari.

Le labbra che "incollano". Lascia perdere i lucidalabbra vistosi, appiccicosi e zero attraenti. Punta invece sulle nuove texture lucide e sottili.

Le gambe ruvide. Mai abbassare la guardia e anche se indossi le calze, le gambe devono essere sempre lisce e perfette. Attenzione a curarle in modo adeguato sempre: è brutto mostrare i peletti che stanno ricrescendo...

Il lungo voluminoso. Non cotonare le lunghezze, evita che le doppie punte siano troppo visibili e che l'effetto crespo sia troppo invasivo. Queste pettinature stanno bene alle modelle e solo in qualche occasione speciale a tutte le altre donne.

La manicure creativa. È inutile illudersi: anche i maschi più evoluti amano le cose semplici... Elimina le nail art troppo eccentriche (brillantini, decori, cuoricini ecc) soprattutto in ufficio.

Quelle ciglia un po’ così. Certo, lo sguardo da cerbiatta è sexy, eccedere con chili di mascara come fa Kim Kardashian invece no! Meglio optare per effetti più naturali.

Esagerare con il profumo. 1. Evita le fragranze troppo invasive. 2. Evita anche le sovrapposizioni tanto di moda per ottenere un jus personalizzato: è un'arte che non tutte sanno mettere in pratica. Applica la tua eau de toilette preferita solo sui polsi e sulle caviglie, lascia “libero” il collo: gli uomini adorano sentire il profumo naturale della pelle nuda.

Il fondotinta a strati. Quando il viso è troppo “finto” con quell’effetto stratificato e spesso, è controproducente soprattutto al primo appuntamento. Punta su una base naturale ma coprente, attenuando le imperfezioni con un correttore.

Gli hair styling spettinati. Da qualche anno sono all'ultima moda, ma sono interessanti soprattutto in passerella. Nella vita di tutti i giorni, questo casual look è sinonimo di disordine e trascuratezza... 

La scollatura "ruvida". È vero è difficile applicare la crema sulla schiena ma è spiacevole vedere (ed eventualmente) accarezzare la pelle secca. A questo punto, gioca d'astuzia: scegli un balsamo doccia/idratante-nutriente, un prodotto che mentre lava, idrata e ammorbidisce la pelle.

L’occhio troppo... fumoso. Bellissimo il trucco smokey eyes ma attenta: rendilo sempre “portabile” perchè gli uomini facilmente lo considerano “troppo pesante” e si chiedono se struccata sarai altrettanto attraente... 

Le labbra "trascurate". Quando il colore del rossetto risulta poco omogeneo e a macchie significa che la mucosa labiale è disidratata. Per levigarla, prima ci vuole uno scrub specifico che elimini le pellicine, poi un balsamo nutriente.

I capelli a "cofana". Niente maxichignon se il tuo lui è un tipo timido e geloso... Questo tipo di hair styling sa attirare gli sguardi e tu sarai al centro dell'attenzione.

Il gipsy look in città. Sicuramente perfetto per un party sulla spiaggia con tanto di pareo a piedi nudi, decisamente fuori luogo per una cena nel suo ristorante preferito. Adori l'eyeliner? Usalo in modo più classico.

I capelli iperaccessoriati. Mollettine, cerchietti, fermagli, nastrini tra i capelli è un altro fortunato trend da sfilata. Se ti piacciono le decorazioni, adotta il principio "Less is more" per evitare di sembrare un albero di Natale.

Il rossetto sui denti. Per avere un sorriso smagliante: spazzola i denti delicatamente con un pizzico di bicarbonato. Attenzione, fallo solo quando serve altrimenti lo smalto si rovinerà. Per togliere le macchie di rossetto dai denti, invece, dopo aver applicato il rossetto, togli l'eccedenza nella parte interna della mucosa con un kleenex oppure metti un dito in bocca e poi sfilalo con la bocca chiusa: il rossetto rimarrà sul dito. 

La lobby degli omo ora punta al potere. Il partito degli omosessuali getta la maschera: spera di trasformare la supremazia culturale in predominio politico. Non si accontentano più della parità: adesso puntano alla vittoria, scrive Mario Giordano, Giovedì 20/09/2012, su “Il Giornale”. C'era una volta il gay pride, l'orgoglio gay. Adesso c'è il gay party, il partito gay. C'era una volta la rivendicazione dei diritti. Adesso c'è la rivendicazione del governo. C'era una volta l'aspirazione all'uguaglianza. Adesso c'è l'aspirazione al potere. Non si capisce quello che sta succedendo in Italia se non si esce un po' dagli schemi abituali (destra/sinistra, Pd/Pdl) e si provano a mettere in fila i fatti sotto una luce diversa. E diversa, nella circostanza, sia detto senza alcuna allusione. Nichi Vendola in una intervista a Pubblico, il nuovo giornale di Luca Telese, lancia la bomba della propria voglia di paternità, spaccando volutamente il Pd. Il medesimo Nichi Vendola, in precedenza, aveva annunciato il matrimonio con il suo fidanzato storico, il giovin canadese Eddy, creando altrettanto scompiglio. Giuliano Pisapia a Milano accelera sulle unioni civili, riempiendo i giornali di Riccardo&Roberto o Paolo&Giuseppe che celebrano para-matrimoni davanti alle istituzioni. Altri sindaci (dal genovese Doria al napoletano De Magistris) sono pronti ad accodarsi. In Sicilia Rosario Crocetta si candida con corredo di ostentazione omosessuale, come se l'essere gay bastasse per salvare la Regione dal crac economico. Rosy Bindi alla festa democratica di Bologna viene assalita a suon di riso e brillantini. Vogliamo andare avanti?  Sono tanti piccoli segnali di un percorso scritto: il partito dei gay, evidentemente, ha gettato la maschera. Basta con i travestimenti e le piume di struzzo, basta con il folclore dei gay pride, basta con la muccassassina e l'allegria del carnevale bisex, basta con gli scherzi e i lazzi: ora si fa sul serio. Ora si punta al potere. La lobby esce allo scoperto. Non si accontenta più di fare una campagna per i diritti: fa una campagna per il governo. Legittima, per l'amor del cielo. Ma devastante per i medesimi partiti, a cominciare proprio dal Pd. Non si riesce a cogliere, infatti, la difficoltà con cui i vertici democratici maneggiano la candidatura Vendola e il fastidio provocato dal suo crescendo di dichiarazioni esplosive, non si riesce a interpretare questo continuo alzare il tiro del governatore pugliese in sintonia con i sindaci della nouvelle vague di sinistra, se non si prende atto del salto di qualità che sta facendo il movimento gay: da rassemblement sostanzialmente libertario e un po' gruppettaro a struttura che punta alla scalata dei vertici delle istituzioni. Dalle paillettes alla livrea, dai carri allegorici alla stanza dei bottoni. Il percorso era stato preparato con cura. Come ogni ascesa al potere che si rispetti, infatti, era cominciata sul versante culturale. Così, nel corso degli anni, abbiamo assistito a un'escalation di film gay, personaggi gay, fiction gay, amori gay, canzoni gay... Da Nonno Libero ai reality, ormai, non c'è più una storia che non preveda un ruolo importante per un omosessuale, a parte forse la Bella Addormentata e Cappuccetto Rosso. E comunque sul cacciatore nessuno è disposto a mettere la mano sul fuoco. Si è arrivati al paradosso che la presunta diversità è la normalità: una famiglia tradizionale, mamma papà e due figlioli secondo natura, non la si vede nemmeno nella pubblicità della Barilla. Invasi tutti gli spazi comunicativi, dunque, non restava da compiere che l'ultimo passo, e cioè trasformare la supremazia culturale in supremazia politica. Ecco fatto: la lobby si sta muovendo e spara in alto. Il punto, come è evidente, non sono le primarie del Pd o le fughe in avanti di Giuliano da Milano: il punto è la discesa in campo del partito omosessuale che non s'accontenta più della sbandierata parità ma ora vuole la vittoria. Che, dopo una storia passata in minoranza, si candida a guidare la maggioranza. Chi l'avrebbe detto: la colorata sfilata del gay pride punta a finire fra le grisaglie del palazzo. E non per creare scompiglio, ma per dettar legge.

Quando il potere forte è gay. Tim Cook è un manager da sballo che decide di dirsi gay per aiutare gli altri. Encomiabile. Poi ci sono i problemi. La gay culture pretende di eguagliare ciò che è diverso, e in questo è prepotente e minacciosa, scrive Giuliano Ferrara su "Il Foglio" del 1 Novembre 2014. Tim Cook è quello dello smartphone, del tablet, dell’airbook e di tutte le utili diavolerie che amiamo usare, perfino quando non le incensiamo o cerchiamo di non rendercene schiavi. E’ grande amico e sodale del capo di Goldman Sachs, il re di Wall Street, Lloyd Blankfein. E’ un potere forte, anzi fortissimo, con aspetti anche controversi quanto alla gestione della – scusate il vecchio termine classista – “forza di lavoro” (nel formichiere asiatico se la passano così e così, i suoi dipendenti). E’ un potere ideologico, erede dell’impronta perfino religiosa o addirittura messianica che il suo predecessore Steve Jobs diede alla fame di vita di nuove generazioni di esseri umani che sono anche e sopra tutto, dato il loro ambiente di lavoro e di produzione, dato il core business, nuove generazioni di consumatori. Tim ha i ritratti di Luther King e di Robert Kennedy, come da noi più modestamente Walter Veltroni, appesi al posto d’onore sui muri del suo ufficio. Tim è americano fin nel midollo e parla la lingua del sogno e della città in cima alla collina, un faro delle libertà umane. Tim è gay, è omosessuale. Lo sapevano tutti, ma Tim ha deciso di dirlo apertamente in una occasione retorica solenne. E’ stata una lectio magistralis, è un manifesto il suo discorso, il suo coming out. Il mondo è a rumore. Grande risonanza, ha detto solidale, ammirato, incantato, il capo di Goldman Sachs. Il filo ideologico del discorso è semplice e in tutti i media mondiali ha fulminato l’immaginazione collettiva. “A me che sono nato in Alabama, luogo di arretratezza e discriminazione per eccellenza, Dio ha fatto tra altri anche il regalo, uno dei più grandi, di essere gay; per questo ho potuto avere empatia per le minoranze, tutte, e per chi è discriminato in nome della sua diversità. E ora – conclude Tim – esco allo scoperto perché la mia privacy è meno importante della mia vocazione ad aiutare altri che soffrono, che si chiudono nel loro altrove sessuale rispetto agli standard maggioritari: hanno diritto al mio aiuto”. Non è magico? Non è perfetto? Non è una grandissima figata? Non è so american? Sì e no, diciamo noi. E’ bello che un potere forte, impersonato da un manager che sta in cima alla classifica dei ricchi e famosi, e mostra libri dei conti aziendali da record ogni anno, si pieghi su un aspetto sofferente della condizione umana ovvero il senso di esclusione e di frustrazione sentito da tanti che provano l’amore che non osava dire il suo nome ancora venti, trent’anni fa. E’ bello che ci venga ricordata l’inciviltà della paura del sesso contro natura, l’omofobia. E’ bello che tutto questo venga fatto per proteggere la diversità sessuale e insieme per esigere la perfetta eguaglianza di tutti gli esseri creati da Dio di fronte al diritto e alla cultura. Non bello. Bellissimo. Poi arrivano problemi seri. La differenza cardine della condizione umana non è la diversità degli orientamenti sessuali, una variante importante e anche feconda in certi casi ma caduca, legata alla cultura, allo spirito di ogni tempo in forma differenziata, variante che oggi aspira giustamente alla libertà di dirsi come si è anche con orgoglio, di riconoscersi e abbattere muri di incomprensione e inimicizia fatti di pregiudizi. La differenza cardinale è quella tra uomo e donna o tra maschio e femmina. Chiedo scusa ai vescovi Bruno Forte e Mogavero, cookiani dell’ultima ora, ma questa è la differenza intorno a cui gira il mondo nei secoli dei secoli, a partire dalla procreazione non come scelta ingegneristica ma come atto d’amore fertile. E a questa differenza o diversità sono legati il matrimonio e i figli, almeno nell’occidente cristiano e nella stragrande maggioranza delle civilizzazioni antropiche. Qui Tim, sostenitore dei matrimoni gay e dell’eguaglianza anche delle funzioni parentali, toppa. O meglio confonde amore, piacere, gratificazione spirituale con concetti desueti ma ancora solidi come famiglia, educazione di figli maschi e femmine, attesa del frutto del matrimonio tra uomo e donna, tra donna e uomo se preferite. Tim e quelli che la pensano come lui qui toppano non per ragioni di dottrina, ma per ragioni di logica e di cultura stringenti. Ragioni che anche Luther King e Robert Kennedy, famosi “puttanieri” oltre che icone della giustizia per tutti, hanno creduto giuste nella loro epoca, magari facendo leva sui loro pregiudizi capaci di generare sogni e incubi. La gay culture va criticata perché eguaglia ciò che è differente, perché omologa intollerabilmente ciò che creaturalmente, e non dico biblicamente se no incorro nella scomunica, è altro da sé, et pour cause. La libertà di essere omosessuali e di definirsi anche gay è una conquista preziosa, per motivi che non sto nemmeno a richiamare tanto sono chiari di per sé, ma è una minaccia culturale, una prepotente minaccia di marketing che ora è approdata all’altezza dei poteri forti, quando diventa eguaglianza come moralismo sentimentale e diritto come desiderio. Let different human beeings be different. 

Se i gay da perseguitati diventano persecutori. Sul sito storico della comunità italiana la lista di proscrizione contro le unione e le adozioni, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 15/01/2016, su "Il Giornale". Il sito web storico della comunità gay italiana ieri ha pubblicato una lista di proscrizione dei parlamentari di sinistra scettici o contrari alla nuova legge sulle unioni e sulle adozioni di coppie omosessuali. Da perseguitati a persecutori, da vittime dell'indice a puntatori di indice, da discriminati a discriminatori: è un peccato che i gay non riescano a uscire dal ghetto nel quale erano stati chiusi per anni non senza sofferenze. Ghetto che oggi non esiste più, se non nella mente di chi ha paura ad affrontare il mare aperto dell'eguaglianza, per certi versi più complicato e rischioso della trincea della diversità. Chiunque di noi singolarmente o in quanto categoria - può lamentare carenze e limitazioni delle proprie libertà o aspirazioni. Ma nessuno di noi può imporre allo Stato le proprie ragioni se non attraverso i processi della democrazia. La coscienza di parlamentari di sinistra e di destra - contrari alle adozioni tra persone dello stesso sesso (o a trasformare le unioni civili in matrimoni religiosi di Stato) non conta meno di chi la pensa diversamente. E per quel poco che vale, la mia di coscienza è in sintonia con quella degli onorevoli messi all'indice dalla comunità gay. Penso che ognuno abbia il diritto di amare chi meglio crede, anche perché l'amore è un sentimento non condizionabile dalla ragione, figuriamoci dal legislatore. Penso anche che un coppia omo o etero che sia debba potersi tutelare reciprocamente e che lo Stato bene fa a introdurre nel diritto strumenti in grado di garantirlo. Ma andare oltre cioè parificare qualsiasi amore a quello tra uomo e donna - significa entrare in un campo minato. Come la mettiamo con la poligamia, con la pedofilia tra un adulto e una bambina innamorata e consenziente? E se - per paradosso - uno è innamorato del suo gatto può pretendere per lui la reversibilità della pensione? Non scherziamo. Libero amore in libero Stato, questo sempre. Ma uno Stato deve anche essere libero di dire dei no se una richiesta può minare, direttamente o indirettamente, la tenuta del sistema sociale e valoriale su cui è fondato. Per esempio, che i bambini non si comperano, non si ordinano a terzi, non li si costruiscono in laboratorio. Questo vale sia per coppie omo che etero. Perché tra le tante eguaglianze e i tanti diritti da rispettare, ci sono anche i loro, convitati di pietra di questa discussione.

Chi ci sta, alzi la mano. Perché a decidere tutto non sia «il potere dei più buoni», scrive il 31 Gennaio 2015 Francesco Agnoli su “Tempi”. Gli ultimi vani tentativi dei cattolici di incontrarsi in politica hanno segnato l’incapacità di avere un’idea comune. Ma in questo torpore fioriscono associazioni e iniziative. C’è qualcosa da difendere e promuovere. Recentemente, in una lunga intervista sull’aereo di ritorno dalle Filippine, papa Francesco ha parlato di povertà, di finanziarizzazione economica, di ingiustizie sociali, di Humanae Vitae e, a proposito del gender imposto ai paesi poveri, di colonialismo ideologico: ha spaziato cioè in campi apparentemente diversi, per dire che tutto si tiene; che il credente non è un estraneo, uno straniero della vita terrena, ma una creatura che intravede nella molteplicità della realtà il filo unitario che la tiene insieme. E quel filo è la persona umana, così come Dio l’ha voluta: creatura che origina dall’amore di Dio stesso, tramite l’amore di un uomo e una donna. Può un cristiano passare accanto a un fratello povero e non fermarsi, come il buon Samaritano? Può credere che la giustizia sia un affare solo dei politici o dei magistrati? Può, nello stesso modo, assistere passivamente al tentativo di togliere a un bimbo non il pane ma la sua stessa identità, i suoi genitori, quel contesto d’amore che Dio ha voluto come luogo in cui germogli, nella solidità e nella fiducia, la vita di ogni creatura umana? Non può. Anche se il prendere posizione può scatenare un putiferio. Si stava ancora celebrando la libertà di espressione senza limiti, innalzando cartelli con la scritta “Je suis Charlie”, e i grandi giornaloni dedicavano, nelle pagine interne, ampio spazio a un quesito: si può accettare una conferenza pro famiglia, con il patrocino della Regione Lombardia? Possiamo davvero dare a tutti il diritto di parola? La campagna delegittimatrice preventiva, e quindi censoria, contro quel convegno, ha svelato la sostanza dell’idea di libertà di molti: libertà di deridere, di desacralizzare ogni valore, ogni realtà. Null’altro. Si decide di accusare qualcuno, falsamente, di aver bollato gli omosessuali come malati, per poi condannare questo qualcuno come malato, psicopatico, criminale, in altre parole “omofobo”! Il colmo dell’assurdo. Ma perché? Non c’è rispetto della logica, né dell’altro, nei predicatori del relativismo. Già gli antichi sofisti greci, con i loro Ragionamenti doppi, lo avevano ben chiaro: se non esiste la verità, dello stesso oggetto o persona si può dire tutto e il suo contrario. L’importante è vincere. Così gli intolleranti tacciano gli altri di intolleranza, e i violenti dell’ideologia tacciano i pacifici di violenza. Così i numeri (400 fuori, a contestare, duemila dentro, ad applaudire) possono essere capovolti senza scrupoli, scambiando il dentro con il fuori e il fuori con il dentro. Così i censori, che volevano impedire un libero convegno, tacciano di censura chi ha ingenuamente impedito che un giovane, unico su duemila presenti, decidesse di fare, in casa altrui, il suo discorso, salendo d’imperio sul palco. Il giornalista collettivo e la sua idea alla moda sono “la misura di tutte le cose”. Del resto, il gender è esattamente questo: ognuno è misura di se stesso, sino al punto di poter negare ciò che è. Benedetto XVI la chiamava dittatura del relativismo. Va avanti da tempo: i sostenitori dell’aborto hanno difeso la fecondazione artificiale in nome del diritto dei bambini a nascere; i fautori dell’eutanasia, rivendicano la sperimentazione occisiva sugli embrioni umani per curare i malati gravi. Ai tempi del divorzio, i fautori della legalizzazione dicevano di volerla per il bene della famiglia; nel 1978 la legge sull’aborto, necessaria secondo la propaganda per porre fine agli aborti clandestini, depenalizzò gli stessi aborti clandestini (oggi assai numerosi, ma non interessano più a nessuno, né i bambini, né le madri). Oggi, gli amici della libertà sessuale sono i nemici della differenza sessuale; i sostenitori del libero amore, vogliono il bollino del sindaco per i conviventi e il matrimonio omosessuale in costituzione; i sostenitori dell’emancipazione femminile difendono il commercio degli ovuli e il ritorno alla schiavitù femminile con l’utero in affitto… E sempre si sentono i più buoni: «È il potere dei più buoni», avrebbe detto Giorgio Gaber. Una direzione irresistibile? E i cattolici? Abbiamo visto cosa abbia significato per buona parte del mondo cattolico la scelta, per tanti anni, di non sporcarsi le mani con la politica; di non entrare nelle discussioni sull’etica, per evitare il moralismo. La fede si è piano piano ritirata dalle menti e dal cuore di tanti, assediata in uno spazietto sempre più stretto, sinché un giorno è definitivamente evaporata in modo quasi impercettibile, perché era già ininfluente, inutile. Oggi c’è una sfida immensa per l’Europa. Questa Europa che, in quanto figlia della fede cristiana, ha visto la genesi delle idee di persona, di libertà e di sacralità della vita, laddove vi erano prima la schiavitù, l’infanticidio seriale, i giochi sanguinari dei circhi… proseguirà nella sua corsa verso l’autodistruzione? L’Europa di oggi, che tramite i missionari e la sua cultura ha portato nel mondo le sue più grandi invenzioni (le università, gli ospedali, la medicina, la scienza…), esporterà oggi e domani solo scetticismo e morte? Il papa, si diceva, ha parlato di colonialismo ideologico: continueremo a cercare di travolgere anche gli altri popoli, come gli africani, imponendo il gender dietro ricatto (o gender nelle scuole e matrimoni gay nelle legislazioni, o niente aiuti economici, come hanno denunciato al Sinodo i vescovi africani), mentre questi stessi popoli hanno da tempo intrapreso un cammino verso la civiltà cristiana, e hanno sempre più chiaro che quello stesso matrimonio che qui si vuole distruggere lì sta significando la crisi della poligamia, il riconoscimento della dignità delle donne, la liberazione di tanti uomini e dei figli stessi? Molti osservatori sembrano rassegnati: questa è ormai la direzione irresistibile presa dalla storia. Nel mondo cattolico, almeno a livello macroscopico, sembra regnare la resa. Politicamente, Todi 1 e 2 hanno segnato chiaramente l’incapacità di avere un’idea di politica. A menare le danze dell’incontro fu il direttore del Corriere della Sera; da fuori si spiegò previamente ai cattolici che sì, avrebbero potuto anche incontrarsi, riaggregarsi, mettendo però da parte i princìpi non negoziabili. Così da Todi uscì il governo Monti, e il rettore della Cattolica Lorenzo Ornaghi, a cui era stata promessa l’Istruzione, lasciò un incarico assai prestigioso per scivolare nella casellina vuota dei Beni culturali: ai cattolici, i musei. Poi, alle elezioni del 2013, il ripetersi dell’operazione giolittiana del 1913 (un nuovo patto Gentiloni, che dovrebbe restare alla storia come “patto Monti-Riccardi”): i cattolici mettano pure i voti e qualche sporadico candidato, il resto lo faranno Monti e i suoi uomini. Così furono garantiti alcuni posti in parlamento ai cattolici di Scelta Civica, senza alcun disegno, se non quello altrui, a cui si doveva essere funzionali. Tanto che Monti – mentre veniva fotografato un giorno sì e uno no a Messa, con il Papa, con il cardinal Bertone… –, piazzava nel suo contenitore esponenti di mondi del tutto antitetici a quello cui chiedeva i voti, candidando financo Alessio De Giorgi, direttore di Gay.it (costretto poi a ritirarsi per non essere travolto dagli scandali legati alle attività poco edificanti dei suoi siti). Quel governo, con il ministro Elsa Fornero, colpì una delle ultime risorse della famiglia italiana, le nonne; pose le basi per la colonizzazione gender nelle scuole, e preparò la quasi scomparsa dei cattolici dal parlamento che risulterà eletto nel maggio 2013. Ricordiamo cosa accadeva a quella data. Sembrava che certe idee portate avanti per anni dai pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, sulla vita e la famiglia, fossero completamente scomparse dalla politica. Che il disegno di legge Scalfarotto, che promette la galera a chi difenda il matrimonio tra l’uomo e la donna, e lo dica forte e chiaro, dovesse passare in un giorno d’estate, senza dibattito né in parlamento né nel paese. E ad esso sarebbero seguiti matrimoni gay, eutanasia, utero in affitto, o, come si dice ormai sempre più spesso, gestazione per altri… Rotta la diga, infatti, le acque tracimano da ogni parte. Ma contro l’aspettativa dei più, è accaduto qualcosa. I processi storici sono lunghi, ma, come la valanga che cresce, inesorabili. Ci vogliono dei Davide che sfidino Golia, e la partita si riapre. La legge Scalfarotto si arenò grazie a una pattuglia di coraggiosi e tenaci: Eugenia Roccella, Carlo Giovanardi, Alessandro Pagano…Mentre costoro arginavano la frana, mentre la nuova e crescente realtà dei Giuristi per la vita faceva rinascere la voce del diritto naturale, sorgevano, in sordina, la Manif Pour tous Italia, e da un piccolo gruppo di persone al di fuori della politica e delle associazioni, Le sentinelle in piedi: un fenomeno associazionistico spontaneo, leggero, dal basso, non di semplice protesta, ma di ricostruzione e di educazione. Non contro qualcuno, ma per testimoniare pubblicamente che vi sono dei beni di tutti da difendere e da promuovere. Qualcuno ricorda il 2005? Un mondo di cattolici ma anche di laici, come Giuliano Ferrara, di medici, giuristi, lavoratori, giornalisti… costretto alla sfida referendaria, produsse in pochi mesi una quantità incredibile di incontri sul territorio, di libri, testimonianze e persino una vittoria referendaria quasi miracolosa, che certamente avrebbe dovuto servire da punto di partenza, e non di arrivo. Nonostante l’avversità di gran parte dei partiti e dei media. Qualcosa di simile sta riaccadendo? È tutto un pullulare di associazioni e iniziative: Manif, Sentinelle, il mensile Notizie pro Vita, la nascita di Vita è, di Articolo 26 contro l’imposizione del gender nelle scuole, di Nonni 2.0, Sì alla famiglia, la Festa della famiglia naturale istituita in Veneto dalla consigliera leghista Arianna Lazzarini…, fino alla nascita di un quotidiano cartaceo come La Croce di Mario Adinolfi. Là dove sembrava non crescesse più erba, il risvegliarsi di forze assopite, e in gran parte, di forze nuove. Con bella novità: la capacità di parlarsi, di allearsi, di intraprendere un percorso comune, al di là delle differenti provenienze. In nome di valori universalmente condivisibili: non è la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, all’articolo 16, a dichiarare che «la famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato»?

In Parlamento le caste e le lobbies vanno per farsi le leggi. Scalfarotto: "Io, primo gay dichiarato al governo, chissà ora Giovanardi cosa farà..." Il neo sottosegretario: spero di essere stato scelto per i miei meriti, io non mi considero un gay professionale, scrive Concetto Vecchio su "La Repubblica" il 1 marzo 2014.

Sottosegretario Scalfarotto!

"Sto andando a giurare".

È vero che Renzi l'avrebbe inserita nella lista solo per dare un dispiacere a Giovanardi?

"Oddio, dice sul serio?"

Così pare. Galeotto fu l'ultimo attacco.

"Ma quello per cui "se io diventavo sottosegretario cadeva il governo"?".

Quello lì.

"Pensa! Io non gli avevo mica dato importanza. Il solito Giovanardi esorbitante, poco elegante".

Eppure deve dirgli quasi grazie.

"Giovanardi è tecnicamente monomaniaco: parla solo di droghe, Ustica, gay.

(Improvvisamente dubbioso).

Però voglio sperare che Renzi mi abbia scelto anche per altre ragioni".

Ma sicuro, la stima molto.

"E io sono onorato, è una grande responsabilità".

E come l'ha saputo?

"Da Maria Elena Boschi. Mi ha mandato un messaggio: "Lavorerai con me"".

Non avrebbe preferito occuparsi di diritti civili?

"Ma io non mi considero un gay professionale. Occuparmi del titolo V mi appassiona moltissimo: le riforme saranno cruciali".

Franco Grillini però ha fatto notare che lei è il primo gay dichiarato al governo.

"E un po' ha ragione. Come sorprendersi per la prima donna ministro della Difesa, il primo ministro di colore, siamo una società più lenta di altre, ma stiamo evolvendo".

Perché la Barracciu indagata in Sardegna e Gentile sospettato di pressioni sui giornalisti in Calabria?

"Non so, non mi sono noti i processi decisionali, sono persone che non conosco, quindi non mi sembra elegante commentare".

L’ipocrisia linguistica sulle unioni civili gay. Sia i favorevoli sia i contrari si nascondono dietro parole inglesi (stepchild adoption) o strani giri di parole oscure. Matrimonio non si può dire? Chiamiamolo «gaytrimonio», scrive Michele Ainis su “Il Corriere della Sera” del 20 gennaio 2016. Tutto gira intorno a una parola: matrimonio, guai a chi lo bestemmia. Sicché l’ultima trincea contro il didielle Cirinnà bis (uno scioglilingua) sta nell’uso della lingua. Vietato riferirsi alle nozze fra uno sposo e una sposina nella nuova legge sulle unioni omosessuali, vietato ogni rinvio alla disciplina che il codice civile ritaglia per i coniugi. Non si può: sarebbe incostituzionale, anzi immorale, anzi criminale. E infatti stuoli d’imbianchini sono già all’opera per cancellare quelle scritte che feriscono l’iride del nostro Parlamento. Domanda: ma se è un tabù l’analogia coi matrimoni, a cosa dovrebbe rimandare questa legge, ai funerali? Eppure non vi risuona uno stile troppo esplicito e diretto, non si direbbe insomma che quei 23 articoli escano dalla penna di Tacito. Semmai di Gadda, o di Céline, campioni del funambolismo letterario. Difatti la famiglia gay viene immediatamente definita (articolo 1) come «specifica formazione sociale». Ma da quale specie si è specializzata questa speciale formazione? Non dalla specie umana, dal momento che la legge non menziona l’uomo, né la donna, né il papà o la mamma. No, in questo caso ciascun nubendo è «parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso». Appellativo chilometrico, come i titoli d’un nobile spagnolo; però in linea con la nostra tradizione, quando le leggi italiane sono costrette a misurarsi con le gioie del sesso. Negli anni Settanta fu la volta della legge sull’aborto (n. 194 del 1978), dove si parla di contraccettivi. E come vengono denominati? «Mezzi necessari per conseguire le finalità liberamente scelte in ordine alla procreazione responsabile». Prova a chiederne una confezione al farmacista, bene che vada ne otterrai in cambio qualche pasticca contro l’emicrania. E a proposito di procreazione, di figli, di figliastri. L’istituto maggiormente divisivo, la norma che può incendiare il Parlamento, consiste per l’appunto nell’adozione del figliastro, ossia del figlio naturale del partner. Siccome il fumo dell’incendio s’avvertiva già nell’aria, i difensori della legge hanno provato a battezzare l’istituto stepchild adoption, confidando nella scarsa conoscenza dell’inglese da parte dei loro oppositori. Niente da fare, qualche oscuro interprete deve averli smascherati. Allora hanno scritto la norma in lettere ostrogote. Occultandola nell’articolo 5, intitolato «Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184», che s’apre con queste parole: «All’articolo 44, comma 1, lettera b), della legge…». Un altro buco nell’acqua, li avrà traditi qualche esperto di lingue orientali. L’ultima risorsa, a quanto pare, consiste nel sostituire l’adozione con un affido rinforzato, istituto sconosciuto al nostro ordinamento. Più che una norma, un aperitivo. Tre secoli fa Ludovico Muratori (Dei difetti della giurisprudenza) puntava l’indice contro le oscurità legislative, denunziando un vizio etico, prima ancora che giuridico. Aveva ragione: l’ipocrisia verbale, oggi come allora, è il cancro dei nostri costumi nazionali, e non soltanto nella sfera del diritto. Mentre l’uso di «parole precise» comporta un impegno d’onestà, come ha osservato in ultimo Gianrico Carofiglio. D’altronde, in caso contrario, resta impossibile lo stesso confronto delle idee. Dovrebbero saperlo proprio i politici cattolici, che in questi giorni si stanno dando un gran daffare per edulcorare il testo della legge sulle unioni civili, per annacquarne le parole. «Sia il vostro dire: sì sì, no no; il di più viene dal maligno», recita la massima evangelica (Matteo, 5, 37). Ma c’è sempre un di più, c’è sempre un aggettivo accozzato alla rinfusa al solo scopo di confondere le menti, nel linguaggio col quale ci governano i politici italiani. Oppure c’è un tabù, in questo caso il matrimonio gay. Chiamiamolo «gaytrimonio», e non ne parliamo più. 

L'ipocrisia linguistica in generale. In regalo un libro di barzellette sui gay: bufera sul settimanale "Visto". "Giochi a nascondino? Se mi trovi mi puoi violentare". Il libro di barzellette sui gay scatena il web. "Ti va di giocare a nascondino?". "Ok, se mi trovi mi puoi violentare. Se non mi trovi... sono nell'armadio". È la copertina del libro di barzellette sui gay allegato al settimanale "Visto", scrive “Leggo” del 18 agosto 2014.  Immediata è scattata la protesta sul web che ha giudicato di cattivo gusto l'iniziativa del settimanale. Il volume è edito nel 2012 da "Edizioni & Comunicazione" nella collana "Come fare ridere". Su change.org è addirittura partita una petizione per il ritiro dalla distribuzione del libro accompagnato dalle scuse del direttore della rivista Roberto Alessi.

Commenti:

"Ma per cortesia. Si rilassino un po' gli amici gay e non, è una cosa simpatica non razzista allora i carabinieri cosa dovrebbero dire? Su su con il morale ridetene anche voi". Commento inviato il 2014-08-18 alle 15:15:38 da forza7.

"Non se ne può più...del finto "politically correct". Ha detto bene blek macigno qui sotto: allora cosa dovrebbero dire e fare i Carabinieri...?!?" Commento inviato il 2014-08-18 alle 15:13:41 da Paolino2.

"Io leggo di tutto e non mi indigno. Lo cercavo in edicola ed è esaurito. Nel periodo estivo si legge di tutto e i settimanali allegano la qualsiasi. Visto, si poteva comprare anche da solo. Io ho preso quello col cruciverba, sperando che qualcuno non si indigni! Non vedo cosa ci sia di strano. Ho quattro libri sulle barzellette dei Carabinieri e anche loro ci ridono sopra!" Commento inviato il 2014-08-18 alle 14:36:48 da blek macigno.

"Indignato !! Mi sento veramente indignato. Ho comprato un libro di barzellette sui gay e ci ho trovato Visto come allegato!" Commento inviato il 2014-08-18 alle 11:54:31 da f3rn4nd0.

"Allora io mi offendo e chiedo il ritiro di tutti i libri, libricini e riviste con le barzellette sugli etero. Ma per piacere..."Commento inviato il 2014-08-18 alle 10:29:49 da visionet.

"Il libro è una vergogna, mi dispiace per il direttore che ho sempre considerato persona simpatica, un colpo di sole?" Commento inviato il 2014-08-18 alle 09:20:47 da donna44.

"Triturazione di attributi senza fine. Insieme agli sbarchi dei clandestini si produce una moltiplicazione di razzisti e omofobi." Commento inviato il 2014-08-17 alle 21:20:02 da Royfree.

Scuola di Stato Lgbt. Ecco cosa insegnerà ai nostri figli il maestro unico della “teoria del gender”, scrive il 3 Febbraio 2014 Benedetta Frigerio su “Tempi”. Ora che il governo ha stanziato 10 milioni per mandare studenti e insegnanti a lezione di sessualità gay, tutti impareranno ad «aprirsi» verso le unioni omosessuali e gli altri temi dell’agenda arcobaleno. La nostra inchiesta. È ufficiale. Senza rumore, in punta di piedi, il governo italiano ha dato il via libera a un programma di istruzione degli studenti e di aggiornamento degli insegnanti secondo la visione che della sessualità e dell’affettività hanno le organizzazioni militanti sotto la bandiera gay. Si rischia di trasformare la scuola in una palestra di scontro, proselitismo e indottrinamento ideologico? Niente di tutto questo, sostengono gli “esperti” ingaggiati nell’operazione. Si tratta solo di «ampliare le conoscenze e le competenze di tutti gli attori della comunità scolastica sulle tematiche lesbo, gay, bisessuali, transessuali (Lgbt); favorire l’empowerment delle persone Lgbt nelle scuole, sia tra gli insegnanti che tra gli alunni». E in conseguenza di «contribuire alla conoscenza delle nuove realtà familiari, superare il pregiudizio legato all’orientamento affettivo dei genitori». Come si realizzeranno questi obiettivi? Con «percorsi innovativi di formazione e di aggiornamento per dirigenti, docenti e alunni sulle materie antidiscriminatorie, con un particolare focus sul tema Lgbt e sui temi del bullismo omofobico e transfobico (…). In particolare la formazione dovrà riguardare: lo sviluppo dell’identità sessuale nell’adolescente; l’educazione affettivo-sessuale; la conoscenza delle nuove realtà familiari». Queste, all’epoca del governo Monti, erano le “linee guida” che l’allora ministro del Lavoro con delega alle Pari opportunità, Elsa Fornero, approvò sotto l’impegnativo titolo di “Strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere (2013-2015)”. Linee che vengono ora confermate e finanziate dal governo Letta. Ripetono in molti che questa “Strategia nazionale” si sia resa necessaria per applicare una raccomandazione europea del 2010 (Cm/rec 5) uscita dal comitato dei ministri del Consiglio d’Europa. Anche in quella sede, però, viene precisato che «una raccomandazione non è vincolante e non ha conseguenze sul piano giuridico», semplicemente «consente alle istituzioni europee di rendere note le loro posizioni e di suggerire linee di azione senza imporre obblighi giuridici». Dunque né un ministro né tantomeno i governi italiani erano vincolati a dar seguito a “posizioni” elaborate negli uffici di Bruxelles. Se ne poteva e doveva discutere pubblicamente in Italia, in parlamento, nel mondo della scuola, visto che si tratta di opinioni e non di direttive, invece che porsi problemi e agire per default, “perché lo dice l’Europa”? Evidentemente sì. Ma tant’è, a partire dal novembre 2013, il governo Letta ha ereditato la famosa “Strategia” pensando bene di finanziarla con 10 milioni di euro dei contribuenti. E chi attuerà concretamente tale “Strategia”? Per decreto della presidenza del Consiglio dei ministri del 20 novembre 2012, essa verrà implementata nelle scuole grazie alle ventinove associazioni che hanno partecipato alla stesura della stessa. Associazioni tutte rigorosamente di area Lgbt e precisamente queste qui, secondo l’ordine in cui compaiono nel decreto del governo Monti: Comitato provinciale Arcigay “Chimera Arcobaleno” Arezzo, Ireos Centro Servizi Autogestito Comunità Queer, Arcigay, Comitato Provinciale Arcigay “Ottavio Mai” Torino, A.Ge.Do, Parks – Liberi e Uguali, Equality Italia, Ala Milano Onlus, Arci Gay Lesbica Omphalos, Polis Aperta, Dì Gay Project, Circolo Culturale Omosessuale Mario Mieli, Gay Center, Gay Help Line, Famiglie Arcobaleno, Arcilesbica Associazione Nazionale, Rete Genitori Rainbow, Shake Lagbte, Circolo Culturale Maurice, Associazione Icaro Onlus, Circolo Pinkus, Cgil Nuovi Diritti, Mit Movimento Identità Transessuale, Associazione Radicale Certi Diritti, Avvocatura per i Diritti Lgbt Rete Lenford, Gay.net, I Ken, Consultorio Transgenere, Libellula, Gay Lib. Ora, secondo il decreto 104/2013 controfirmato dal presidente Napolitano, gli insegnanti saranno tenuti a partecipare a lezioni di aggiornamento per migliorare le loro competenze relative «all’educazione all’affettività, al rispetto delle diversità e delle pari opportunità di genere e al superamento degli stereotipi di genere». La “teoria del genere” diviene dunque ufficialmente materia scolastica (e guai a chi pensa, discute e, eventualmente, contesta: il ddl Scalfarotto sull’“omofobia” non è lì, pronto per essere definitivamente approvato – questione di giorni, dicono in Senato – proprio per impedirlo?). In effetti già nel 2011 il Friuli Venezia Giulia, allora governato dal centrodestra di Renzo Tondo, aveva lanciato un progetto pilota in materia. Il programma fu premiato dal presidente della Repubblica con un’onorificenza destinata alle iniziative ritenute particolarmente meritevoli. E il plauso presidenziale spalancò le porte all’applicazione di quel modello pionieristico, promosso dai circoli gay e inizialmente chiamato “A scuola per conoscerci”. Oggi, dopo l’elezione alla presidenza regionale della renziana Debora Serracchiani, quel modello è diventato un ben più impegnativo “Progetto regionale di prevenzione e contrasto al fenomeno del bullismo omofobico: rilevazione del problema, strategie d’intervento e attività di formazione”. Il compito di attuarlo spetta direttamente all’Ufficio scolastico regionale, al dipartimento di Scienze della vita dell’Università di Trieste e alle associazioni Circolo Arcobaleno Arcigay Arcilesbica Trieste e Gorizia, Arcigay Nuovi Passi di Udine e Pordenone e Arcilesbica Udine. «Questo risultato è il frutto di più di due anni di lavoro, svolto con costanza e in maniera gratuita dai volontari delle associazioni Lgbt», spiega la professoressa Giovanna Pelamatti, rappresentante dell’ateneo triestino per la raccolta dati nelle scuole. «Abbiamo deciso di muoverci sia sul fronte scientifico sia su quello educativo. E lo scorso dicembre il progetto è stato approvato dall’assessorato del Lavoro, Formazione, Istruzione e Pari opportunità. Inizialmente la Regione ci ha assegnato solo cinquemila euro simbolici, ma ci ha messo gratuitamente a disposizione alcuni psicologi. Presto saranno stanziati i fondi necessari per tutto il 2014». Il programma, già avviato nei licei statali, coinvolge un campione di duemila studenti rappresentativi di ogni tipologia di scuola superiore e di tutto il territorio regionale. «Ci occupiamo – racconta Pelamatti – di distribuire questionari a studenti, docenti e personale amministrativo delle scuole per monitorare il livello di omofobia». Domandiamo cosa si intende nei questionari distribuiti per “omofobia”. «Come “cosa si intende”? Chiediamo quante volte alunni e docenti hanno assistito o partecipato a comportamenti fisici ma anche verbali offensivi nei confronti degli omosessuali e come hanno reagito». E se un alunno avesse sentito dire da qualcuno, mettiamo in casa, che “l’omosessualità non è naturale”, avrebbe dovuto segnalarlo nei questionari come “comportamento omofobico”? «Certo. Il nostro scopo è contrastare ed eliminare gli stereotipi. E abbiamo successo. Nelle scuole dove è già stata svolta un’attività educativa analoga alla nostra non c’è più traccia di pensieri omofobici, neppure tra gli studenti più refrattari alle regole. Sono questi i risultati che hanno portato il presidente Napolitano a premiare i circoli Arcigay. E altre Regioni, come l’Emilia Romagna, il Piemonte e la Basilicata, a chiedere di esportare il progetto». Quali sono i contenuti essenziali? «Insegniamo la “teoria del genere”, tra i cui contenuti fondamentali c’è che, indipendentemente dal sesso biologico, si può e si deve essere liberi di scegliere il proprio orientamento sessuale. Certamente poi moduliamo le lezioni, visto che riguardano un pubblico di studenti compreso tra la terza media e l’ultimo anno di liceo». Nelle classi, continua la professoressa, si affronta anche il tema «della flessibilità, per dire che non siamo mai uguali a noi stessi e possiamo cambiare», fino alla questione delle «famiglie omosessuali e dell’adozione. Sempre in chiave di “normalità”, perché il nostro obiettivo, ripeto, è combattere l’omofobia». A delineare nel dettaglio questo tipo di insegnamento è il responsabile della formazione del progetto, il professor Davide Zotti, presidente del Circolo Arcobaleno Arcigay e Arcilesbiche di Trieste e Gorizia: «Spieghiamo che l’identità sessuale è una costruzione frutto di diversi dati. C’è quello relativo al sesso biologico, per cui una persona nasce maschio o femmina. C’è l’identità di genere, che può essere diversa da quella biologica, perché una persona può non riconoscersi in essa. Esiste poi il ruolo di genere, quello che ci è imposto dalla società e dalla cultura attraverso il cliché secondo cui i maschi hanno certe caratteristiche diverse dalle femmine. E poi c’è l’orientamento sessuale, che include l’attrazione verso le persone del proprio sesso e che è naturale, innato: sfatiamo il mito che sia un problema derivante da vissuti particolari o da traumi». Ovviamente però, continua Zotti, non saranno presentati i percorsi legati alle cosiddette “teorie riparative”, che dimostrano che le persone con emozioni omosessuali possono cambiarle. Nella conversazione con il nostro interlocutore a questo punto nasce un piccolo screzio. Perché non spiegate anche le cosiddette “teorie riparative”? Esiste anche una letteratura al riguardo. Circolano testimonianze. Persone che provavano disagio nel vivere la propria omosessualità e che in seguito a un certo approccio psicoanalitico sono cambiate. «Veramente non mi risulta. Comunque alcuni sanno già che cosa vogliono a tredici anni, altri lo decidono più tardi». Non le sembra rischioso questo determinismo? Si potrebbero confondere i ragazzi nella fase delicata dell’adolescenza. «Ma come fa una giornalista a parlare ancora così? Si vergogni!». Anche a Roma l’assessorato alla Scuola ha approvato per l’anno scolastico in corso la campagna “Lecosecambiano@Roma”, con il fine di contrastare il bullismo omofobico tra gli studenti delle superiori. E anche in questo caso sono stati stanziati fondi per ricerche sul fenomeno “omofobia” e programmati incontri formativi con la partecipazione di esponenti del mondo della cultura, del cinema, del teatro e della medicina. Fra gli altri spiccano i nomi di Serena Dandini, ex madrina del Gay Pride, di Maria Sole Tognazzi, firmataria della lettera inviata al sindaco Marino per invitarlo «a chiedere agli insegnanti di parlare di omosessualità, di bisessualità e transessualità», di Francesca Vecchioni, che nel 2012 venne immortalata sulla copertina del settimanale Chi insieme alla sua compagna e alle due gemelline concepite con fecondazione eterologa in Olanda. Il Comune di Venezia si distingue invece per un “Piano di formazione 2013-2014” riservato alle “educatrici e insegnanti dei servizi per l’infanzia comunali” che ha «l’obiettivo di aumentare le informazioni relative alle nuove tipologie di famiglia in Italia» e «di accrescere la conoscenza sulle famiglie omogenitoriali e sui loro bambini». Tiziana Agostini, assessore alle Politiche educative, spiega a Tempi che «tutto è nato dal fatto che nelle nostre scuole abbiamo famiglie omogenitoriali. Quindi il progetto mira alla formazione delle educatrici per la comunicazione e all’apertura verso le famiglie omosessuali». Nell’ordinamento legale italiano, però, non esiste una tale tipologia di famiglia. “Rispetto della legalità”. O no? «Io parto da quello che è la realtà e che bisogna accettare per non creare disordini», replica Agostini. Ma secondo questa linea del “non creare disordini”, quante cose illegali e reali che ci sono in giro dovremmo accettare? Non potrebbe, questa logica dell’ineluttabile, accendere un disordine ancora più grande nei bambini piccolissimi? «Io non posso farci niente se i fatti stanno così. E come assessore con delega alla Cultura delle differenze mi spetta di agire: qui ci dobbiamo preoccupare che sia tutto ben ordinato e rassicurante per i nostri bimbi. Questo è il ruolo che mi è stato assegnato. Ed è quello che ci richiede una società pluralista e laica». Ma è rassicurante un’enfasi psicologista che – sono le parole usate nel progetto formativo – suona così: «Succede talvolta che gli sguardi e le parole che gli adulti rivolgono ai bambini veicolino una valorizzazione o una svalutazione legate al maschile e al femminile che si insinua negli esempi, nei giochi e nei giocattoli, nei libri letti, nelle filastrocche e nelle fiabe, nei modi di dire»? L’assessore rincara: «Se è per questo anche parlare di colori “maschili” e colori “femminili” non è rassicurante e serve solo a ipostatizzare i bambini e a ghettizzarli in stereotipi». Il rosa e l’azzurro ipostatizzano e ghettizzano? «Certo. È per causa di questi steccati ideologici che poi la società è divisa e frammentata».

LA QUESTIONE GENDER. Linee guida per i mass media, testi nelle scuole, iniziative di formazione per gli insegnanti degli asili, persino riscritture della modulistica di istituzioni pubbliche: l’ideologia del gender, che pretende di annullare il dato della differenza sessuale per sostituirlo con una astratta equiparazione di tutti i possibili orientamenti, sta scendendo dal piano del dibattito di idee per entrare nella vita quotidiana di cittadini e famiglie. In questo dossier raccogliamo cronache, interviste, analisi e documenti pubblicati da Avvenire su questo decisivo tema.

Tutti pazzi per il gender, scrive “La teoria del gender è un’ideologia a sfondo utopistico basata sull’idea, già propria delle ideologie socio-comuniste e fallita miseramente, che l’eguaglianza costituisca la via maestra verso la realizzazione della felicità. Negare che l’umanità è divisa tra maschi e femmine è sembrato un modo per garantire la più totale e assoluta eguaglianza – e quindi possibilità di felicità – a tutti gli esseri umani. Nel caso della teoria del gender, all’aspetto negativo costituito dalla negazione della differenza sessuale, si accompagnava un aspetto positivo: la totale libertà di scelta individuale, mito fondante della società moderna, che può arrivare anche a cancellare quello che veniva considerato, fino a poco tempo fa, come un dato di costrizione naturale ineludibile”. A scriverlo è la storica Lucetta Scaraffia (“La teoria del gender nega che l’umanità sia divisa tra maschi e femmine”, L’Osservatore Romano, 10 febbraio 2011). Chi è che vuole negare l’esistenza e la differenza tra maschi e femmine? E quando sarebbe successo? Rispondere è facile: nessuno e mai. Tuttavia da qualche tempo è emersa questa strana e inesistente creatura, metà fantasia, metà film dell’orrore: è l’“ideologia del gender”. Non è facile individuarne la data di nascita, ma quello che è certo è che nelle ultime settimane la sua ombra minacciosa è molto invadente. È buffo vedere quanta paura faccia il riflesso di quest’essere mostruoso (ma allucinatorio come Nessie), nato in ambienti angustamente cattolici, conservatori e ossessionati dalla perdita del controllo. Il controllo sulla morale, sul comportamento, sull’educazione e sul rigore feroce con cui si elencano le categorie del reale con la pretesa che siano immutabili e incontestabili in base a un argomento d’autorità: “È così perché lo diciamo noi”. Questa perfida chimera che vorrebbe annientare le differenze sessuali si nutre della continua e intenzionale confusione tra il piano biologico (“per fare un figlio servono un uomo e una donna”) e quello sociale e culturale (“per allevare un figlio o per essere buoni genitori bisogna essere un uomo e una donna”). Come vedremo, perfino il piano biologico è meno rigido e, no, non significa che “non ci sono differenze biologiche tra uomo e donna” – nessuno lo ha mai detto. Ma le Cassandre della “ideologia del gender” combattono contro un nemico che hanno immaginato, o che hanno costruito, stravolgendo il reale, per renderlo irriconoscibile e poterlo così additare come un mostro temibile (si chiama straw maned è una fallacia molto comune: si prende un docile cane di piccola taglia e lo si trasforma in un leone famelico; poi si litiga con il padrone del cane e lo si accusa di irresponsabilità: “Girare con una bestia feroce in luoghi affollati e con tanti bambini!”). Perché essere tanto spaventati da esseri che non esistono e da ombre sulle pareti? Perché non girarsi per rendersi conto, finalmente, che va tutto bene? Se state poco sui social network e scegliete bene le vostre letture forse non ne avete mai sentito parlare. Ma è sempre più improbabile che non ne sappiate nulla visto che lo scorso 21 marzo Jorge Maria Bergoglio ha detto che la “teoria del gender” fa confusione, è uno sbaglio della mente umana e minaccia la famiglia. “Come si può fare con queste colonizzazioni ideologiche?”, ha domandato. Un paio di giorni dopo Angelo Bagnasco, presidente della Cei, ha aggiunto che “l’ideologia del gender” si “nasconde dietro a valori veri come parità, equità, autonomia, lotta al bullismo e alla violenza, promozione, non discriminazione… ma in realtà pone la scure alla radice stessa dell’umano per edificare un transumano in cui l’uomo appare come un nomade privo di meta e a corto di identità”. È addirittura una “manipolazione da laboratorio”. E poi si è rivolto accorato ai genitori: “Volete voi questo per i vostri figli?”. E qualche giorno più tardi ci è tornato il cardinale Carlo Caffarra, ricorrendo a una metafora oftalmica: “Esiste oggi una cataratta che può impedire all’occhio che vuole vedere la realtà dell’amore di vederlo in realtà. È la cataratta dell’ideologia del ‘gender’ che vi impedisce di vedere lo splendore della differenza sessuale: la preziosità e lo splendore della vostra femminilità e della vostra mascolinità”. Minacce individuali e familiari, errori mentali, colonizzazioni ideologiche, furti di identità e di umanità, manipolazioni, cataratte: mai tanti e tali disastri erano stati attribuiti a qualcosa che non esiste. Chi se la prende con la presunta “ideologia del gender”, come dicevo, confonde intenzionalmente i termini e i concetti per deriderli, banalizza le differenze per farne una caricatura, si ostina a non capire le questioni e invece di domandare spiegazioni si nasconde dietro una presuntuosa e rivendicativa ignoranza. Ci sono molti esempi e vengono dalla cronaca (tra gli ultimi il gioco “porno” all’asilo di Trieste) o da documenti più o meno ufficiali (sempre di area ultraconservatrice e fortemente miope). Eccone un altro esempio, forse più grave ancora perché Roberto Marchesini è psicologo e psicoterapeuta (“Il ragazzo curato a ormoni per diventare ragazza”, La Bussola Quotidiana, 9 marzo 2015): “Non importa se ci sono due cromosomi Y, o un cromosoma Y e due X: se c’è il cromosoma Y siamo maschi, punto. E non è questione di organi genitali: siamo maschi o femmine in tutto il nostro corpo, perché ogni cellula del nostro corpo ha quel benedetto cromosoma. Possiamo mutilarci, possiamo aggiungerci appendici siliconiche in ogni parte del corpo, depilarci, limarci la mascella e sottoporci a qualsiasi altra tortura, ma resteremo maschi. Senza genitali, magari, con protesi sul petto, ma sempre maschi. Quindi non è possibile che questo ragazzo diventi una ragazza. Qualcuno ha mentito ai genitori e a lui. […] È l’ideologia di genere che ci fa credere una cosa assurda, cioè che sia possibile ‘cambiare sesso’. Si chiama ideologia proprio per questo”. In questo caso la confusione è aumentata da possibili interventi (ormonali e chirurgici). Su questo torneremo. Sempre a marzo, Paola Binetti era molto allarmata: “Presentata all’Onu richiesta di inserire movimento femminista e alle associazioni Lgbtq, nel quadro teorico e pratico del ‘sistema gender’” (5 marzo 2015, Twitter). C’è anche il filosofo Diego Fusaro che, in occasione della polemica scatenata da Dolce & Gabbana, aggiunge un po’ di Asimov che ci sta sempre bene. Fusaro: “Dolce e Gabbana? Li attaccano perché ora c’è la prova. Gender, siamo all’ingegneria sociale”, 16 marzo 2015. Alla domanda, “Dopo tutte le polemiche gli asili nido di Trieste hanno fatto bene a fare retromarcia sui ‘giochi gender?’” Fusaro risponde: “Ormai per manipolare bisogna partire anzitutto dai bambini. Siamo al cospetto di una vera e propria ingegneria sociale, è evidente, una mutazione antropologica direbbe Pasolini, si cerca di inculcare fin dalla giovane età che non esistono uomini e donne ma ognuno si sceglie il sesso che vuole. Tutto ciò per me è una sciocchezza, i sessi sono due, poi ci sono tutti gli orientamenti sessuali possibili, ma un omosessuale resta sempre un uomo così come una lesbica rimane sempre una donna”. Ho già detto che nessuno vuole eliminare la differenza tra uomini e donne? È davvero un peccato che Fusaro abbia rinunciato al ruolo principale della filosofia: cercare di chiarire i termini e i concetti. Offrirsi cioè come uno strumento per capire meglio e non per mescolare le parole come si farebbe in un caleidoscopio, perché il risultato non è più colorato ma più annebbiato. Spesso completamente fuori fuoco. Per capire come l’“ideologia del gender” rimescoli parole a caso – aspirando a sembrare qualcosa di sensato – dobbiamo fare una premessa.Le definizioni sono arbitrarie, ci servono per semplificarci la vita. Dovremmo sempre ricordarci però che la realtà è un insieme in cui i confini netti non esistono – ma esistono contiguità, sovrapposizioni, intrecci sui quali tracciamo linee e diamo definizioni – e che, più conosciamo più possiamo (o dobbiamo) specificare, come quando ci avviciniamo a qualcosa (sedia, tavolo, gioco: provate a dare una definizione necessaria e sufficiente e vi accorgerete che è meno facile di quanto possiate immaginare). Ciò non significa che non esistono differenze o che sia tutto nella nostra testa (nella nostra percezione), almeno nella prospettiva realista. Significa che quello che osserviamo è più fluido di un interruttore che spegne e accende una luce. Lo si dimentica a volte. Lo si rimuove sempre quando si parla di (ideologia del) gender. La biologia, per cominciare, fa distinzioni meno nette rispetto ai termini maschio/femmina. In biologia ci sono i due estremi (M e F), ma ci sono anche molte possibilità intermedie. Esistono molti stadi di intersessualità, come l’ermafroditismo, la sindrome di Morris e quella di Swyer, e ci sono casi in cui è controversa la definizione di intersessualità, come la sindrome di Turner o di Klinefelter (si veda il film XXY). Anche alcune di queste condizioni sono definite patologiche (disordini di differenziazione sessuale o di sviluppo sessuale), ma pure definire una “patologia” non è così agevole come potrebbe sembrare. Questo soltanto se parliamo di sesso, ovvero dell’appartenenza a un genere sessuale indicato come XX e XY (sono i cromosomi sessuali a distinguere, a un certo punto dello sviluppo embrionale, gli individui che saranno maschi da quelli che saranno femmine). Se però cominciamo a parlare di identità di genere, di ruoli e di orientamenti sessuali le cose si complicano ulteriormente. Si può essere di sesso M e avere una identità sessuale maschile oppure femminile (oppure ambigua, oscillante, cangiante). Nulla di tutto questo è intrinsecamente patologico o sbagliato e soprattutto ciò che è femminile e maschile è profondamente determinato culturalmente, tant’è che i ruoli maschili e femminili cambiano nel tempo e nello spazio. Il rosa non è intrinsecamente un colore da femmine (F), almeno lo è in modo diverso rispetto all’avere o no l’utero, anche se si può essere donne – in un senso meno claustrofobico della riduzione del ruolo femminile a un patrimonio cromosomico o al possesso di alcuni organi sessuali – senza averlo: perché sei nata senza, perché te l’hanno tolto, perché eri nata come M ma la tua identità di genere è femminile. I ruoli sono il risultato di stratificazioni lunghe e tortuose e non rappresentano qualcosa di immobile e determinato per sempre, né tanto meno quello che è giusto e buono (trasformare tutto questo in “mica pretenderete che due uomini si riproducano?” è un problema di chi equivoca così malamente e non del gender). Poi ci sono le preferenze o gli orientamenti sessuali: eterosessuale, omosessuale, bisessuale, queer, eccetera. Ci sono anche gli asessuali (in Giappone le percentuali di individui non interessati alle relazioni affettive e sessuali sono altissime) e ovviamente ci sono i casti, non per mancanza di interesse sessuale ma per un fioretto come Sophia Loren in Ieri, oggi e domani, oppure per un voto di castità meno temporaneo. “Ideologia del gender” (cioè del genere sessuale) non vuol dire nulla. È come dire ideologia del sapone o del cielo. Tra l’altro è ancora più insensato se si pensa che è attribuita a chi vuole alleggerire la pressione del dover essere – perciò in caso dovrebbe essere “anarchia del gender”, o “relativismo del gender” visto che per alcuni è un insulto essere relativista (anche questo rasenta l’insensatezza, soprattutto se ci ricordiamo che l’alternativa è l’imposizione e il dogmatismo).La sfumatura di imposizione che si vuole attribuire, dal sapore complottista, suona davvero strana perché imporre un giogo meno stretto è un po’ bizzarro. Sono quelli che strepitano contro la temibile “ideologia del gender” che vogliono imporre decaloghi e regole rigide e stabilite da loro – mentre i gender studies si muovono in un dominio di libertà, in una fluidità dei modelli (individuali e familiari); sono per la loro desacralizzazione e per i diritti per tutti. Basta cercare su Google. Basterebbe anche solo leggere il recente documento approvato dall’Associazione italiana di psicologia che ha l’intento di “rasserenare il dibattito nazionale sui temi della diffusione degli studi di genere e orientamento sessuale nelle scuole italiane” e di “chiarire l’inconsistenza scientifica del concetto di ‘ideologia del gender’”. Non ha molto senso nemmeno il termine “omosessualismo”, se non in un senso di scherno e di intenzionale disprezzo. Peggio di “frocio”, perché almeno frocio è limpidamente aggressivo (poi ovviamente l’offesa dipende dal contesto, dalle intenzioni dei mittenti e dallo spirito dei destinatari) mentre “omosessualista” ammicca a una correttezza formale e superficiale che nasconde la convinzione che tu faccia schifo e sia inferiore in quanto non eterosessuale – è l’“in-quanto” a essere sbagliato, sia in senso dispregiativo sia in senso adulatorio. Non c’è nessun merito a essere donna o lesbica. E non c’è nemmeno nell’essere omosessuale, casto o indeciso. Ma, è chiaro, non c’è nemmeno un demerito o un peccato. C’è un altro termine che suscita reazioni scomposte: cisgender. È un termine usato per indicare la coincidenza tra il genere sessuale (M o F) e l’identità sessuale (maschile e femminile). Gli ottusi abituati a distinguere solo M e F come XX e XY (e a pensare come giusto solo l’orientamento eterosessuale, immaginato fisso e immobile come Aristotele pensava la sua cosmologia) ne sono spiazzati e reagiscono come si reagisce alle scuole medie davanti all’ignoto: ridono imbarazzati, giudicano quello che non sanno e non vogliono sapere come un capriccio di menti disturbate. Rivendicano identità che nessuno vuole mettere in discussione – “io sono femmina!” – un po’ come succede quando si parla di matrimoni e di famiglie: “Volete distruggere la famiglia!”. Stanno cercando di fare il contrario di quanto è avvenuto con il termine queer: originariamente un insulto, è stato trasformato nel tempo fino a diventare una parola dal significato ampio ma essenzialmente non dispregiativo (ci sono i dipartimenti universitari queer e queer studies nelle università più prestigiose – si veda Yale, per esempio). Ci sono poi ovviamente le patologie sessuali, le perversioni o le ossessioni, che sono indipendenti dall’essere M, F, eterosessuale o indeciso. Per fare un esempio cattolico ufficiale della miopia che caratterizza l’“ideologia del gender”, basta leggere il discorso del santo padre Benedetto XVI del 21 dicembre 2012, perché nonostante alcuni ci tengano a sottolineare che la loro avversione non c’entra con la religione, si parte sempre dalla dicotomia M e F (e spesso lì si rimane, come in un’inutile corsa sul posto): “Egli [il gran rabbino di Francia, Gilles Bernheim] cita l’affermazione, diventata famosa, di Simone de Beauvoir: ‘Donna non si nasce, lo si diventa’ (On ne naît pas femme, on le devient). In queste parole è dato il fondamento di ciò che oggi, sotto il lemma ‘gender’, viene presentato come nuova filosofia della sessualità. Il sesso, secondo tale filosofia, non è più un dato originario della natura che l’uomo deve accettare e riempire personalmente di senso, bensì un ruolo sociale del quale si decide autonomamente, mentre finora era la società a decidervi. La profonda erroneità di questa teoria e della rivoluzione antropologica in essa soggiacente è evidente. L’uomo contesta di avere una natura precostituita dalla sua corporeità, che caratterizza l’essere umano. Nega la propria natura e decide che essa non gli è data come fatto precostituito, ma che è lui stesso a crearsela. Secondo il racconto biblico della creazione, appartiene all’essenza della creatura umana di essere stata creata da Dio come maschio e come femmina. Questa dualità è essenziale per l’essere umano, così come Dio l’ha dato. Proprio questa dualità come dato di partenza viene contestata. Non è più valido ciò che si legge nel racconto della creazione: ‘Maschio e femmina Egli li creò’ (Gen 1,27). No, adesso vale che non è stato Lui a crearli maschio e femmina, ma finora è stata la società a determinarlo e adesso siamo noi stessi a decidere su questo. Maschio e femmina come realtà della creazione, come natura della persona umana non esistono più”. Se non si riesce a sottrarci a questa visione semplicista e ingessata quando si parla di sesso (biologico), è inevitabile che quando è necessario introdurre la differenza tra gender, identità e ruolo di genere e preferenze sessuali l’effetto è quasi comico. È ovvio che de Beauvoir intendesse qualcosa di molto diverso da quanto Bernheim lascia intendere, proprio come chi oggi è tanto spaventato dal gender. Il comico muta in grottesco quando si azzardano metafore al rialzo: “L’ideologia del #gender è più pericolosa dell’Isis”, avverte durante la messa don Angelo Perego, parroco di Arosio (Como). E non è certo il primo né il più originale. Tony Anatrella, prete e psicoanalista, nella prefazione del volume Gender, la controverse denuncia la cultura di genere come un’ideologia totalitaria, più oppressiva e perniciosa dell’ideologia marxista. L’elenco è molto lungo e poco fantasioso. Un capriccioso puntare i piedi contro la frammentazione di una realtà che non è mai stata monolitica (ma solo presentata come tale) e, inevitabilmente, contro la (ri)attribuzione dei diritti. Sarebbe già abbastanza ingiustificabile usare fantasmi e spauracchi per limitare i diritti, soprattutto perché garantire diritti a tutti non li toglie a nessuno. Ma tutto questo rischia di diventare inutilmente crudele quando è diretto ai bambini e agli adolescenti – scenario non inverosimile se si pensa che uno dei luoghi di scontro è proprio la scuola. Non solo: ritrovarsi con dei genitori che ti mandano a farti aggiustare se sei frocio o ridicolizzano la tua identità di genere (che non è come la vorrebbero loro o come dice il prete) “perché sei piccolo” è davvero penoso. Si sopravvive (non sempre), ma c’è un carico pesantissimo di dolore evitabile.“Chi difende i diritti del bambino diverso?”, domandava Paul B. Preciado in un articolo di due anni fa. “I diritti del bambino che vuole vestirsi di rosa. I diritti della bambina che sogna di sposarsi con la sua migliore amica. I diritti del bambino e della bambina queer, omosessuale, lesbica, transessuale o transgender. Chi difende i diritti del bambino di cambiare genere se lo desidera? Il diritto alla libera autodeterminazione del genere e della sessualità. Chi difende i diritti del bambino a crescere in mondo senza violenza di genere e senza violenza sessuale?”. Dovremmo rispondere a tutte queste domande (dovrebbero provare a rispondere gli agitatori della “ideologia”), ricordando che “mio padre e mia madre durante la mia infanzia non proteggevano i miei diritti. Proteggevano le norme sessuali e di genere che loro avevano assorbito dolorosamente, attraverso un sistema educativo e sociale che puniva ogni forma di dissidenza usando la minaccia, l’intimidazione, la punizione, la morte”.

Gender a scuola, i bambini e l’orco. Ma la famiglia dov’è? Scrive il 17 ottobre 2015 "Libre Idee". Gender: tutti diversi, tutti uguali. Bellissimo, ma se poi la faccenda scappa di mano e la scuola diventa il paradiso degli orchi? A rimetterci sarebbero loro, i minori. A meno che non entri in scena un soggetto troppo spesso assente: la famiglia, con le sue responsabilità educative. «Quando sentii parlare di questa teoria e della sua diffusione nelle scuole, lì per lì pensai a una bufala perché veniva proposta come una specie di invito esplicito alla masturbazione e all’omosessualità anche per i bambini delle elementari e dell’asilo». L’ideologia Gender in classe? Superficialmente, scrive Paolo Franceschetti, si potrebbe credere che tutta la questione si riduca a un derby tra gay e omofobi, sinistra progressista e Vaticano conservatore. Già il governo Letta invitava gli insegnanti a educare alla diversità (“Rosa e i suoi due papà hanno comprato tre lattine di tè freddo al bar; se ogni lattina costa 2 euro, quanto hanno speso?”). «La necessità di approfondire la questione – ammette Franceschetti – mi è venuta quando ho letto che il ministro dell’istruzione minacciava querele contro chi osasse sostenere che la riforma Renzi introducesse la teoria Gender». A livello teorico, tutto nasce dagli studi di Margareth Mead, che dimostrano che i ruoli possono benissimo ribaltarsi, come in certe società tribali dell’Oceania: le donne a caccia, gli uomini a casa a farsi belli. Succede anche da noi, scrive Franceschetti nel suo blog: c’è l’amico Maurizio, «che fa il supermacho superscopatore, ma in privato mi confessa che gli piacciono le gonne e i vestiti femminili e quando è solo si veste con le scarpe coi tacchi della moglie». E all’opposto c’è l’amica Ambra, a cui domandi “cosa facciamo stasera?” e ti risponde “andiamo a tirare col fucile”, e al poligono «fa cento colpi e cento centri, una cosa mai vista in vita mia». Autore di clamorose denunce sul “lato oscuro del potere” (gli omicidi rituali, il Mostro di Firenze, la misteriosa setta criminale denominata Ordine della Rosa Rossa), l’ex avvocato Franceschetti, autore di un recentissimo libro, “Le Religioni”, che indaga sulla comune matrice spirituale delle grandi confessioni religiose del pianeta, si è anche distinto per i ripetuti allarmi lanciati in favore dei minori: ne spariscono troppi, anche in Italia. Centinaia, ogni anno. Dove finiscono? Nel traffico di organi e nelle reti potentissime dei pedofili d’alto bordo. Di fronte alle istanze “Gender”, Franceschetti riconosce che «la rigida divisione tra sessi che per secoli ha dominato la società ha portato, e porta tuttora, a degli squilibri». Una donna in carriera è considerata “poco femminile” e temuta dagli uomini, mentre un uomo “casalingo” «è visto con sospetto, come un parassita nullafacente». L’uomo che va con molte donne «è guardato con ammirazione», mentre la donna che ha molti uomini «è quasi sempre una troia». La divisione in sessi? Ha penalizzato chiunque, uomo o donna, rifiutasse gli obblighi sociali. «Non parliamo poi delle problematiche che sorgono se una persona vuole cambiare sesso, o se durante il matrimonio scopre di avere tendenze omosessuali». La teoria Gender vuole sicuramente «porre rimedio a questo stato di cose, introducendo una nuova mentalità, rispettosa delle differenze individuali, per educare la popolazione a una nuova concezione della sessualità e delle differenze di genere». E fin qui, tutto bene. Si prefigura «un meraviglioso mondo, dove l’uomo che voglia andare in giro con i tacchi a spillo e il rossetto venga rispettato, così come una donna che si metta a ruttare e fare a braccio di ferro bestemmiando al bar». Idem per i piccoli: «Nessun trauma arrivi a un bambino che sia allevato da due papà o due mamme, perchè la salute psichica del bambino si misurerà in funzione dell’affetto e degli insegnamenti che riceve, e non dal fatto che abbia necessariamente un padre maschio e una mamma femmina». Ma le ricadute pratiche? Utile leggere il dossier “Standard per l’educazione sessuale in Europa”, commissionato dall’Oms, per capire cosa si vuole fare nelle scuole. Rispetto, equilibrio, attenzione: un documento “amorevole”. Ma «il bello viene da pagina 37 in poi, dove ci sono le direttive sintetiche che gli insegnanti di educazione sessuale dovrebbero applicare sui bambini di varie fasce di età». Sono 144 disposizioni: «Il problema sorge per solo una ventina di direttive in tutto, sparse qua e là quasi innocentemente», specie quelle rivolte ai bambini dai 9 ai 12 anni. L’educatore deve «mettere il bambino in grado di decidere se avere esperienze sessuali o no, effettuare una scelta del contraccettivo e utilizzarlo correttamente, esprimere amicizia e amore in modi diversi, distinguere tra la sessualità nella vita reale e quella rappresentata dai media». E deve «aiutare il bambino a sviluppare l’accettazione della sessualità (baciarsi, toccarsi, accarezzarsi)», nonché «trasmettere informazioni su masturbazione, piacere e orgasmo». Amarcord inevitabile: «Il pensiero corre ai miei professori del liceo», dice Franceschetti. «Quello di matematica che toccava sempre i seni alle ragazze, tranquillo dell’impunità del preside, tanto che quando fu denunciato da una ragazza fu la ragazza a dover cambiare istituto, non il professore». O quello di storia e filosofia, che sprecava intere lezioni «coi suoi racconti tesi a dimostrare che il sesso è peccato». Già alle elementari fioccavano ceffoni: rudi maestre, anziché «improvvisati educatori sessuali protetti dallo scudo delle direttive europee». L’idea Gender? «Meravigliosa e auspicabile se fossimo in un mondo ideale, e se chi la dovesse applicare fosse un essere umano ideale». Ovvero: un educatore «equilibrato, centrato, e amorevole», capace di «saper amare davvero l’altro e il prossimo e saperlo rispettare», dopo «essersi confrontato con la propria parte omosessuale ed essersi interrogato, ove tale parte sussista, su come viverla». L’insegnante-modello, inoltre, dovrebbe essere «monogamo per scelta, convinto che la fedeltà sia un dono, non un obbligo», dunque «una persona sessualmente attiva», che desidera altri partner ma si trattiene, e inoltre è «disposta ad accettare la poligamia del proprio». Di fronte al tradimento subito, massima comprensione: «Caro/a, ho scoperto che mi tradisci; è evidente che ho sbagliato in qualcosa». E poi dev’essere «uno che, scoperta l’omosessualità del figlio, anziché preoccuparsi, veda questo come un’opportunità di crescere insieme e apprendere di più dalla vita e da se stessi». E ancora, scoprendo l’omosessualità del partner, gli dovrebbe dire: «Ti amo, e per rispetto vorrei che tu vivessi appieno questa tua esperienza, finché non deciderai in che ruolo collocare il nostro rapporto». Tutto bene, «se esistesse un essere umano che ha raggiunto un tale grado di consapevolezza». Quanti ne conosciamo, nella vita quotidiana? Ovviamente, «questo ritratto di essere umano quasi perfetto è praticamente introvabile». La realtà, infatti, è desolatamente opposta: «Dal punto di vista sessuale, la maggior parte delle persone non solo non è affatto equilibrata, ma ha quelle che in psicologia sono considerate devianze o problemi: eiaculazione precoce, impotenza, anorgasmia, sadomasochismo, feticismo». E poi le “stranezze”, «come l’eccitarsi solo in determinate condizioni ambientali», magari con l’impiego di “oggetti particolari”, «per non parlare della percentuale, altissima, di coloro che hanno delle vere e proprie perversioni criminali». Morale: «Il problema dell’ideologia Gender è, molto semplicemente, che non esiste un numero sufficiente di educatori che abbia l’equilibrio tale da poter insegnare ai bambini il rispetto di genere (altrui e proprio) per il semplice motivo che ancora non hanno raggiunto tale equilibrio in loro stessi». Che medico sei, se non sai nemmeno curare te stesso? Sicché, le «demenziali 20 regole» indicate da Franceschetti «porteranno a una conseguenza inevitabile nelle scuole: abusi, facilitazioni della pedofilia e traumi vari ai bambini». Quindi, anche se «l’obiettivo teorico della riforma è lodevole e teoricamente condivisibile», visto che propone che i bambini devono essere educati al rispetto di genere, di fatto «la riforma conseguirà (volutamente, è il caso di dirlo) l’obiettivo opposto: aumenterà gli abusi sui minori nel lungo termine, e nel breve termine creerà la falsa contrapposizione tra progressisti e conservatori omofobi». Una riforma di questo tipo, «in mano a insegnanti e politici inconsapevoli e non in grado di gestire una problematica come quella del genere», secondo Franceschetti produrrà scontri, tensioni e cause legali: «Cattolici contro omosessuali, omosessuali contro eterosessuali, politici contro politici, genitori contro insegnanti, magistrati contro cittadini». Tutto questo, «in un clima in cui a risentirne e a restarne traumatizzati saranno soprattutto i bambini». Tradotto: anche questa del Gender «si inquadra in quel contesto di riforme volute dal Parlamento Europeo in tutti i campi (economico, politico, finanziario, sociale, scolastico) per distruggere i fondamenti della società e ricostruirne una nuova, basata sul Nwo, creando caos sociale ad ogni livello». Nuovo ordine mondiale? «La tecnica è nota», insiste Franceschetti: «Si parte da una premessa giusta (educare al rispetto delle diversità) e si fa una legge in parte giusta (educare i bambini alla sessualità) con qualche appiglio per ribaltare completamente il risultato e creare più caos di quanto già non ce ne sia (dando mano libera ai pedofili e ai pervertiti di poter agire liberamente nelle scuole)». E i primi frutti dell’introduzione dell’ideologia Gender si vedono già: «Alcuni sindaci hanno ritirato alcuni libri ispirati all’ideologia Gender dalle scuole. Una maestra è stata denunciata da un rappresentante dell’Arcigay e linciata mediaticamente, su tutti i giornali, per aver detto a scuola che l’omosessualità è una malattia (salvo poi essere scagionata dagli allievi, che hanno detto “ma no, veramente ha detto tutt’altro”)». Stefania Giannini, ministro dell’istruzione, minaccia denunce contro chi sostiene che la riforma Renzi della “buona scuola” obblighi a educare sessualmente i giovani secondo le teorie Gender: la riforma imporrebbe solo di “educare al rispetto della diversità”. «Ogni tanto sui giornali escono notizie di genitori preoccupati per i vibratori a scuola. Una preside ha inviato una lettera al ministero per denunciare l’introduzione della teoria Gender nelle scuola, e il ministero ha mandato gli ispettori (sic!) ritenendo inaccettabile il comportamento della preside». E ancora: «In una scuola sono state denunciate delle suore che, stando ai giornali, avevano fatto educazione alla masturbazione a bambini di 10 anni». In alcuni Comuni già si raccolgono firme “contro”. Ma attenzione: «La maggior parte delle notizie sono false e volutamente distorte, per poter essere interpretate come uno preferisce. Come è falso che questa teoria sia “imposta” dall’Ue», che in realtà «impone solo, con vari regolamenti, direttive e indicazioni, di abolire le differenze di genere tra uomo e donna in tutti gli ambiti, il che è sacrosanto». Le teorie Gender a scuola sono già applicate in diversi paesi europei, «ma la situazione è di estremo caos». La confusione impazza, anche nel privato: «Solo per fare un esempio personale – racconta Franceschetti – ho postato sulla mia pagina Facebook un video dell’avvocato Amato, di tendenza dichiaratamente cattolica. Una ragazza omosessuale mi ha ritirato l’amicizia sentendosi profondamente ferita dal video (sue parole testuali). Un altro mi ha dato del fascista, dicendo in aggiunta che probabilmente poi di nascosto vado a trans». Tutto questo, «a riprova che non si può discutere serenamente di Gender senza creare conflitti: se sei contro questa nuova tendenza, sei omofobo e retrogrado; se sei a favore, sei un pedofilo o un frocio». Dobbiamo quindi preoccuparci, gridare allo scandalo e arroccarci sulle vecchie posizioni, o sposare le teorie Gender? «Nulla di tutto ciò. C’è invece la possibilità di trasformare la questione Gender in un’occasione favorevole per la crescita dei nostri figli e di noi stessi». E come? Mobilitando – per la prima volta, in molti casi – la cara, vecchia famiglia, troppo spesso assente, o peggio. «Lo sfascio del sistema in cui viviamo è inevitabile, e questa ideologia porterà, col tempo, allo sfascio della famiglia tradizionale e dei valori tradizionali», insiste Franceschetti. «I bambini saranno spesso abusati e traumatizzati. Ma purtroppo, occorre dirlo, i bambini sono da sempre stati abusati e traumatizzati perché – in questo ha ragione l’ideologia Gender – l’imposizione rigida dei ruoli ha provocato da sempre una serie di problemi psicologici». Il bambino è inoltre traumatizzato su vari fronti, non solo quello sessuale, e peraltro in tutte le epoche, «perché la maggior parte dei genitori riversa inevitabilmente i propri disturbi personali sul bambino stesso, che fin da piccolo è costretto a subire limitazioni prive di senso, ad essere sgridato senza criterio, talvolta picchiato, costretto a subire le urla dei genitori tra di loro, gli abbandoni, la violenza verbale e fisica che a volte sussiste nella coppia». Basta rileggere gli studi di Alice Miller: “Il dramma del bambino dotato”, “Il bambino inascoltato”, “La fiducia tradita”, “La chiave abbandonata”. Niente di nuovo sotto il sole: i bambini «saranno “solo” costretti a un ulteriore abuso, oltre a quelli che quotidianamente subiscono dagli ignari genitori», spesso convinti di essere impeccabili. «Questa situazione di caos e ulteriore abuso, però, potrà avere effetti positivi qualora le famiglie si riappropriassero del proprio ruolo, senza delegare alla scuola l’educazione dei bambini», sostiene Franceschetti. «Se fino ad oggi, a casa, di sesso non se ne parlava, o se ne parlava male», a questo punto «per arginare l’effetto traumatico della riforma Gender l’unica possibilità è che i genitori si sforzino sempre di più di dialogare con i figli, di accettare davvero le diversità e di spiegare loro che se l’insegnante si masturba in classe è solo un pervertito, non un educatore». E a fronte di un insegnante che vorrà “far provare nuove esperienze” al bambino di 9-12 anni, come da protocollo, «gli si spieghi che forse, a quell’età, tali esperienze potrebbero provocargli un trauma: sarà meglio rimandarle magari a quando sarà adulto e in grado di decidere da solo quali esperienze diverse provare». E di fronte a un insegnante che magari «esalterà l’omosessualità dicendo che è normale, invitando i bambini di 9 anni a farne esperienza», il genitore dirà: «Sì tesoro, in effetti è normale, ma statisticamente l’80% delle persone è ancora eterosessuale, quindi direi che potrai fare queste prove più in là, magari dopo i vent’anni». Così, «invece di portarli al doposcuola, forse sarà la volta buona che un genitore anaffettivo trovi una buona scusa per portare i figli con sé e passarci più tempo insieme», conclude Franceschetti. In pratica, proprio perché la riforma Gender è arrivata nel momento in cui l’istituzione familiare «si era deresponsabilizzata dal suo ruolo educativo», forse «è proprio questo il momento buono affinché l’educazione sessuale dei figli venga riportata nel luogo principale dove dovrebbe essere effettuata: la famiglia». Gender: tutti diversi, tutti uguali. Bellissimo, ma se poi la faccenda scappa di mano e la scuola diventa il paradiso degli orchi? A rimetterci sarebbero loro, i minori. A meno che non entri in scena un soggetto troppo spesso assente: la famiglia, con le sue responsabilità educative. «Quando sentii parlare di questa teoria e della sua diffusione nelle scuole, lì per lì pensai a una bufala perché veniva proposta come una specie di invito esplicito alla masturbazione e all’omosessualità anche per i bambini delle elementari e dell’asilo». L’ideologia Gender in classe? Superficialmente, scrive Paolo Franceschetti, si potrebbe credere che tutta la questione si riduca a un derby tra gay e omofobi, sinistra progressista e Vaticano conservatore. Già il governo Letta invitava gli insegnanti a educare alla diversità (“Rosa e i suoi due papà hanno comprato tre lattine di tè freddo al bar; se ogni lattina costa 2 euro, quanto hanno speso?”). «La necessità di approfondire la questione – ammette Franceschetti – mi è venuta quando ho letto che il ministro dell’istruzione minacciava querele contro chi osasse sostenere che la riforma Renzi introducesse la teoria Gender». A livello teorico, tutto nasce dagli studi di Margareth Mead, che dimostrano che i ruoli possono benissimo ribaltarsi, come in certe società tribali dell’Oceania: le donne a caccia, gli uomini a casa a farsi belli. Succede anche da noi, scrive Franceschetti nel suo blog: c’è l’amico Maurizio, «che fa il supermacho superscopatore, ma in privato mi confessa che gli piacciono le gonne e i vestiti femminili e quando è solo si veste con le scarpe coi tacchi della moglie». E all’opposto c’è l’amica Ambra, a cui domandi “cosa facciamo stasera?” e ti risponde “andiamo a tirare col fucile”, e al poligono «fa cento colpi e cento centri, una cosa mai vista in vita mia». Autore di clamorose denunce sul “lato oscuro del potere” (gli omicidi rituali, il Mostro di Firenze, la misteriosa setta criminale denominata Ordine della Rosa Rossa), l’ex avvocato Franceschetti, autore di un recentissimo libro, “Le Religioni”, che indaga sulla comune matrice spirituale delle grandi confessioni religiose del pianeta, si è anche distinto per i ripetuti allarmi lanciati in favore dei minori: ne spariscono troppi, anche in Italia. Centinaia, ogni anno. Dove finiscono? Nel traffico di organi e nelle reti potentissime dei pedofili d’alto bordo. Di fronte alle istanze “Gender”, Franceschetti riconosce che «la rigida divisione tra sessi che per secoli ha dominato la società ha portato, e porta tuttora, a degli squilibri». Una donna in carriera è considerata “poco femminile” e temuta dagli uomini, mentre un uomo “casalingo” «è visto con sospetto, come un parassita nullafacente». L’uomo che va con molte donne «è guardato con ammirazione», mentre la donna che ha molti uomini «è quasi sempre una troia». La divisione in sessi? Ha penalizzato chiunque, uomo o donna, rifiutasse gli obblighi sociali. «Non parliamo poi delle problematiche che sorgono se una persona vuole cambiare sesso, o se durante il matrimonio scopre di avere tendenze omosessuali». La teoria Gender vuole sicuramente «porre rimedio a questo stato di cose, introducendo una nuova mentalità, rispettosa delle differenze individuali, per educare la popolazione a una nuova concezione della sessualità e delle differenze di genere». E fin qui, tutto bene. Si prefigura «un meraviglioso mondo, dove l’uomo che voglia andare in giro con i tacchi a spillo e il rossetto venga rispettato, così come una donna che si metta a ruttare e fare a braccio di ferro bestemmiando al bar». Idem per i piccoli: «Nessun trauma arrivi a un bambino che sia allevato da due papà o due mamme, perchè la salute psichica del bambino si misurerà in funzione dell’affetto e degli insegnamenti che riceve, e non dal fatto che abbia necessariamente un padre maschio e una mamma femmina». Ma le ricadute pratiche? Utile leggere il dossier “Standard per l’educazione sessuale in Europa”, commissionato dall’Oms, per capire cosa si vuole fare nelle scuole. Rispetto, equilibrio, attenzione: un documento “amorevole”. Ma «il bello viene da pagina 37 in poi, dove ci sono le direttive sintetiche che gli insegnanti di educazione sessuale dovrebbero applicare sui bambini di varie fasce di età». Sono 144 disposizioni: «Il problema sorge per solo una ventina di direttive in tutto, sparse qua e là quasi innocentemente», specie quelle rivolte ai bambini dai 9 ai 12 anni. L’educatore deve «mettere il bambino in grado di decidere se avere esperienze sessuali o no, effettuare una scelta del contraccettivo e utilizzarlo correttamente, esprimere amicizia e amore in modi diversi, distinguere tra la sessualità nella vita reale e quella rappresentata dai media». E deve «aiutare il bambino a sviluppare l’accettazione della sessualità (baciarsi, toccarsi, accarezzarsi)», nonché «trasmettere informazioni su masturbazione, piacere e orgasmo». Amarcord inevitabile: «Il pensiero corre ai miei professori del liceo», dice Franceschetti. «Quello di matematica che toccava sempre i seni alle ragazze, tranquillo dell’impunità del preside, tanto che quando fu denunciato da una ragazza fu la ragazza a dover cambiare istituto, non il professore». O quello di storia e filosofia, che sprecava intere lezioni «coi suoi racconti tesi a dimostrare che il sesso è peccato». Già alle elementari fioccavano ceffoni: rudi maestre, anziché «improvvisati educatori sessuali protetti dallo scudo delle direttive europee». L’idea Gender? «Meravigliosa e auspicabile se fossimo in un mondo ideale, e se chi la dovesse applicare fosse un essere umano ideale». Ovvero: un educatore «equilibrato, centrato, e amorevole», capace di «saper amare davvero l’altro e il prossimo e saperlo rispettare», dopo «essersi confrontato con la propria parte omosessuale ed essersi interrogato, ove tale parte sussista, su come viverla». L’insegnante-modello, inoltre, dovrebbe essere «monogamo per scelta, convinto che la fedeltà sia un dono, non un obbligo», dunque «una persona sessualmente attiva», che desidera altri partner ma si trattiene, e inoltre è «disposta ad accettare la poligamia del proprio». Di fronte al tradimento subito, massima comprensione: «Caro/a, ho scoperto che mi tradisci; è evidente che ho sbagliato in qualcosa». E poi dev’essere «uno che, scoperta l’omosessualità del figlio, anziché preoccuparsi, veda questo come un’opportunità di crescere insieme e apprendere di più dalla vita e da se stessi». E ancora, scoprendo l’omosessualità del partner, gli dovrebbe dire: «Ti amo, e per rispetto vorrei che tu vivessi appieno questa tua esperienza, finché non deciderai in che ruolo collocare il nostro rapporto». Tutto bene, «se esistesse un essere umano che ha raggiunto un tale grado di consapevolezza». Quanti ne conosciamo, nella vita quotidiana? Ovviamente, «questo ritratto di essere umano quasi perfetto è praticamente introvabile». La realtà, infatti, è desolatamente opposta: «Dal punto di vista sessuale, la maggior parte delle persone non solo non è affatto equilibrata, ma ha quelle che in psicologia sono considerate devianze o problemi: eiaculazione precoce, impotenza, anorgasmia, sadomasochismo, feticismo». E poi le “stranezze”, «come l’eccitarsi solo in determinate condizioni ambientali», magari con l’impiego di “oggetti particolari”, «per non parlare della percentuale, altissima, di coloro che hanno delle vere e proprie perversioni criminali». Morale: «Il problema dell’ideologia Gender è, molto semplicemente, che non esiste un numero sufficiente di educatori che abbia l’equilibrio tale da poter insegnare ai bambini il rispetto di genere (altrui e proprio) per il semplice motivo che ancora non hanno raggiunto tale equilibrio in loro stessi». Che medico sei, se non sai nemmeno curare te stesso? Sicché, le «demenziali 20 regole» indicate da Franceschetti «porteranno a una conseguenza inevitabile nelle scuole: abusi, facilitazioni della pedofilia e traumi vari ai bambini». Quindi, anche se «l’obiettivo teorico della riforma è lodevole e teoricamente condivisibile», visto che propone che i bambini devono essere educati al rispetto di genere, di fatto «la riforma conseguirà (volutamente, è il caso di dirlo) l’obiettivo opposto: aumenterà gli abusi sui minori nel lungo termine, e nel breve termine creerà la falsa contrapposizione tra progressisti e conservatori omofobi». Una riforma di questo tipo, «in mano a insegnanti e politici inconsapevoli e non in grado di gestire una problematica come quella del genere», secondo Franceschetti produrrà scontri, tensioni e cause legali: «Cattolici contro omosessuali, omosessuali contro eterosessuali, politici contro politici, genitori contro insegnanti, magistrati contro cittadini». Tutto questo, «in un clima in cui a risentirne e a restarne traumatizzati saranno soprattutto i bambini». Tradotto: anche questa del Gender «si inquadra in quel contesto di riforme volute dal Parlamento Europeo in tutti i campi (economico, politico, finanziario, sociale, scolastico) per distruggere i fondamenti della società e ricostruirne una nuova, basata sul Nwo, creando caos sociale ad ogni livello». Nuovo ordine mondiale? «La tecnica è nota», insiste Franceschetti: «Si parte da una premessa giusta (educare al rispetto delle diversità) e si fa una legge in parte giusta (educare i bambini alla sessualità) con qualche appiglio per ribaltare completamente il risultato e creare più caos di quanto già non ce ne sia (dando mano libera ai pedofili e ai pervertiti di poter agire liberamente nelle scuole)». E i primi frutti dell’introduzione dell’ideologia Gender si vedono già: «Alcuni sindaci hanno ritirato alcuni libri ispirati all’ideologia Gender dalle scuole. Una maestra è stata denunciata da un rappresentante dell’Arcigay e linciata mediaticamente, su tutti i giornali, per aver detto a scuola che l’omosessualità è una malattia (salvo poi essere scagionata dagli allievi, che hanno detto “ma no, veramente ha detto tutt’altro”)». Stefania Giannini, ministro dell’istruzione, minaccia denunce contro chi sostiene che la riforma Renzi della “buona scuola” obblighi a educare sessualmente i giovani secondo le teorie Gender: la riforma imporrebbe solo di “educare al rispetto della diversità”. «Ogni tanto sui giornali escono notizie di genitori preoccupati per i vibratori a scuola. Una preside ha inviato una lettera al ministero per denunciare l’introduzione della teoria Gender nelle scuola, e il ministero ha mandato gli ispettori (sic!) ritenendo inaccettabile il comportamento della preside». E ancora: «In una scuola sono state denunciate delle suore che, stando ai giornali, avevano fatto educazione alla masturbazione a bambini di 10 anni». In alcuni Comuni già si raccolgono firme “contro”. Ma attenzione: «La maggior parte delle notizie sono false e volutamente distorte, per poter essere interpretate come uno preferisce. Come è falso che questa teoria sia “imposta” dall’Ue», che in realtà «impone solo, con vari regolamenti, direttive e indicazioni, di abolire le differenze di genere tra uomo e donna in tutti gli ambiti, il che è sacrosanto». Le teorie Gender a scuola sono già applicate in diversi paesi europei, «ma la situazione è di estremo caos». La confusione impazza, anche nel privato: «Solo per fare un esempio personale – racconta Franceschetti – ho postato sulla mia pagina Facebook un video dell’avvocato Amato, di tendenza dichiaratamente cattolica. Una ragazza omosessuale mi ha ritirato l’amicizia sentendosi profondamente ferita dal video (sue parole testuali). Un altro mi ha dato del fascista, dicendo in aggiunta che probabilmente poi di nascosto vado a trans». Tutto questo, «a riprova che non si può discutere serenamente di Gender senza creare conflitti: se sei contro questa nuova tendenza, sei omofobo e retrogrado; se sei a favore, sei un pedofilo o un frocio». Dobbiamo quindi preoccuparci, gridare allo scandalo e arroccarci sulle vecchie posizioni, o sposare le teorie Gender? «Nulla di tutto ciò. C’è invece la possibilità di trasformare la questione Gender in un’occasione favorevole per la crescita dei nostri figli e di noi stessi». E come? Mobilitando – per la prima volta, in molti casi – la cara, vecchia famiglia, troppo spesso assente, o peggio. «Lo sfascio del sistema in cui viviamo è inevitabile, e questa ideologia porterà, col tempo, allo sfascio della famiglia tradizionale e dei valori tradizionali», insiste Franceschetti. «I bambini saranno spesso abusati e traumatizzati. Ma purtroppo, occorre dirlo, i bambini sono da sempre stati abusati e traumatizzati perché – in questo ha ragione l’ideologia Gender – l’imposizione rigida dei ruoli ha provocato da sempre una serie di problemi psicologici». Il bambino è inoltre traumatizzato su vari fronti, non solo quello sessuale, e peraltro in tutte le epoche, «perché la maggior parte dei genitori riversa inevitabilmente i propri disturbi personali sul bambino stesso, che fin da piccolo è costretto a subire limitazioni prive di senso, ad essere sgridato senza criterio, talvolta picchiato, costretto a subire le urla dei genitori tra di loro, gli abbandoni, la violenza verbale e fisica che a volte sussiste nella coppia». Basta rileggere gli studi di Alice Miller: “Il dramma del bambino dotato”, “Il bambino inascoltato”, “La fiducia tradita”, “La chiave abbandonata”. Niente di nuovo sotto il sole: i bambini «saranno “solo” costretti a un ulteriore abuso, oltre a quelli che quotidianamente subiscono dagli ignari genitori», spesso convinti di essere impeccabili. «Questa situazione di caos e ulteriore abuso, però, potrà avere effetti positivi qualora le famiglie si riappropriassero del proprio ruolo, senza delegare alla scuola l’educazione dei bambini», sostiene Franceschetti. «Se fino ad oggi, a casa, di sesso non se ne parlava, o se ne parlava male», a questo punto «per arginare l’effetto traumatico della riforma Gender l’unica possibilità è che i genitori si sforzino sempre di più di dialogare con i figli, di accettare davvero le diversità e di spiegare loro che se l’insegnante si masturba in classe è solo un pervertito, non un educatore». E a fronte di un insegnante che vorrà “far provare nuove esperienze” al bambino di 9-12 anni, come da protocollo, «gli si spieghi che forse, a quell’età, tali esperienze potrebbero provocargli un trauma: sarà meglio rimandarle magari a quando sarà adulto e in grado di decidere da solo quali esperienze diverse provare». E di fronte a un insegnante che magari «esalterà l’omosessualità dicendo che è normale, invitando i bambini di 9 anni a farne esperienza», il genitore dirà: «Sì tesoro, in effetti è normale, ma statisticamente l’80% delle persone è ancora eterosessuale, quindi direi che potrai fare queste prove più in là, magari dopo i vent’anni». Così, «invece di portarli al doposcuola, forse sarà la volta buona che un genitore anaffettivo trovi una buona scusa per portare i figli con sé e passarci più tempo insieme», conclude Franceschetti. In pratica, proprio perché la riforma Gender è arrivata nel momento in cui l’istituzione familiare «si era deresponsabilizzata dal suo ruolo educativo», forse «è proprio questo il momento buono affinché l’educazione sessuale dei figli venga riportata nel luogo principale dove dovrebbe essere effettuata: la famiglia».

«Sono cresciuta con due mamme e questa è la mia storia. Per favore, non approvate il matrimonio gay», scrive il 22 Novembre 2014 Benedetta Frigerio su “Tempi”. B.N. Klein ha reso la sua testimonianza davanti alla Corte d’appello del Texas: «Nella comunità Lgbt i bambini sono usati per provare che le famiglie gay sono come le altre». «Conosco la loro violenza. Sono stata una loro vittima. Non sono loro le vittime. Per favore, usate buon senso e mantenete in Texas la definizione di matrimonio tra uomo e donna». Nell’aula del quinto circuito della Corte d’appello dello Stato del Texas la signora B.N. Klein, 54 anni, è stata chiamata a testimoniare riguardo alla sua vita come figlia di una coppia di lesbiche e attiviste Lgbt. La legge texana definisce il matrimonio come unione tra uomo e donna ma a febbraio, dopo il ricorso di una coppia, un giudice federale ha dichiarato incostituzionale il divieto di celebrare nozze gay. Lo Stato del Texas ha fatto ricorso e la signora Klein ha reso la sua testimonianza in aula il 15 settembre nell’ambito del processo di appello. «Ho visto – ha esordito Klein – che i bambini nelle famiglie gay sono spesso trattati come arredi da mostrare pubblicamente per provare che le famiglie gay sono esattamente come quelle eterosessuali. Mio fratello più piccolo è stato usato per questo scopo». Anche a Klein è stato assegnato un ruolo da piccola: «Mi chiedevano di difendere mia madre e la sua compagna anche quando non venivano criticate. Dovevo alzarmi e dire cose di questo tipo: “Non puoi permetterti di parlare così ai miei genitori!”». Nella comunità gay, continua, ai bambini «insegnavano che quasi tutti gli ebrei (come me) e la maggioranza dei cristiani sono stupidi, che odiano i gay e sono violenti. Mi hanno insegnato che i gay erano più creativi e artistici perché non erano sessualmente repressi e che erano naturalmente più sensibili. Inutile dire che non era la mia esperienza». A 11 anni Klein scoprì «che la comunità gay aveva anche un’ossessiva ed invasiva preoccupazione per la sessualità dei loro figli. Incoraggiavano l’attività sessuale perché erano “aperti di mente”. Mia madre mi disse che essere vergine era da stupidi». Questo «dimostra che [gli attivisti Lgbt] guardano i figli come una mera estensione di sé e non come esseri umani separati da loro». Influenzata dal clima, durante l’adolescenza «non ho mai avuto un fidanzato né interesse per gli uomini. (…) Non mi era neppure permesso di esprimere la mia femminilità nel modo di vestire». Dopo il divorzio dei genitori, la madre si è portata dietro Klein nella casa della compagna, dove ha vissuto «fino alla morte». La nuova casa «era sempre in pessimo stato», anche se «né mia madre né la sua partner lavoravano». Però le due donne erano «molto attive nella causa della “liberazione gay”», motivo per cui «i pasti erano infrequenti» e «quando venivano preparati erano o bruciati o crudi. Pesavo 36 chili a 16 anni». La sera, mentre la compagna beveva, la madre si drogava. La maggioranza delle comunità gay frequentate dalla madre di Klein «si fondavano su sesso e odio», la droga «era abbondante» e «assunta apertamente». L’aspetto più difficile della vita di Klein era rappresentato dal «dover rendere continuamente omaggio alla loro omosessualità». In generale, «la loro omosessualità condizionava qualsiasi cosa: le loro amicizie, quello che leggevano, le vacanze che facevano». Come gli altri membri della comunità Lgbt conosciuti da Klein, «odiavano tutte le persone religiose (…) e ogni persona che non era omosessuale, perché essendo gay si percepivano come dotati di intelligenza e gusti superiori. (…) Era un’ossessione condivisa da molti dei loro amici e conoscenti». È per questo che «ad ogni cameriera veniva chiesto di “portare un po’ d’acqua per la mia amata”. Ad ogni commesso [dicevano] “noi stiamo insieme”». Ogni persona che incrociavano «doveva essere informata della loro omosessualità». Spesso le due donne rimproveravano la gente usando qualche pretesto, «a volte magari si trattava della madre o del fratello di qualche mio compagno di classe. E questo rendeva la mia vita ancor più difficile». Per loro «non contava la storia di una persona», i «suoi successi» o «fallimenti», perché «l’unica cosa che importava era cosa pensasse dei gay. Questo mi trasmise una certa arroganza e una visione a senso unico che nessun bambino così piccolo dovrebbe sviluppare», perché «non gli permette di vedere le persone nel loro complesso» né «di trovare un posto nel mondo quando gli si insegna a vivere nel disprezzo». Quando le due donne capirono che Klein non approvava il loro modo di vivere «fui condannata a una vita di dura ostilità da parte di mia madre e della sua compagna. Portata avanti con il sostegno di tutti i loro amici gay». Fra gli episodi più eclatanti, Klein racconta di quando si ruppe una tibia e rimase alcune settimane in ospedale praticamente senza ricevere visite, perché la madre «non amava le occhiate dell’infermiera». Uscita dall’ospedale, la tibia fece infezione e Klein iniziò a provare dolori fortissimi per cui «non potevo smettere di piangere». Ma solo dopo tre mesi la madre la portò dal medico perché secondo la compagna stava «cercando di attirare l’attenzione». Il medico constatò che l’osso non si era riposizionato correttamente, perciò «fui sottoposta a diverse operazioni chirurgiche, da sola». La madre e la compagna «portavano il gatto dal veterinario più di quanto io vedessi il medico». Ora «tutti direbbero che sono state irresponsabili, ma ogni adulto che passava allora in casa era d’accordo con loro: fingevo il dolore per attirare l’attenzione». A causa della noncuranza circa il suo stato di salute, la ragazza non riuscì a terminare le scuole superiori e «non fui mai incoraggiata né aiutata a recuperare quanto perso. Allo stesso modo mia madre e la sua compagna non mi insegnarono a guidare». Dopo molte peripezie, Klein riuscì a rimediare ai buchi nella sua educazione e a iscriversi all’università. Pensando di riguadagnarsi la stima delle due donne, Klein ne informò la madre solo per sentirsi dire che «ero troppo stupida e ignorante e che l’università aveva fatto un errore e che tutti i suoi amici e chiunque mi conosceva erano d’accordo sul fatto che fossi uno “zero”». La madre cercò perfino di farla espellere dalla State University di New York ma un professore, capendo la situazione, riuscì a proteggerla: «Mi disse anche di stare lontana da mia madre e dalla sua compagna. Mi spiegò che erano malsane e offensive. Questi erano termini che non avevo mai sentito e che allora non capii». Solo più avanti la ragazza si rese conto pienamente dei danni psicologici subiti, quando si ritrovò a provare «una completa liberazione» in seguito alla morte della compagna e della madre, nonostante «il dispiacere». Capì poi di non essere la sola: «Poco tempo fa ho parlato con un uomo cresciuto [nella comunità Lgbt], sapendo che sua madre era morta gli ho scritto un biglietto per digli che mi dispiaceva: “Era una donna gradevole”. Mi ha risposto dicendo: “Gradevole non è ciò che era, ma ormai è acqua passata”. Sapevo cosa intendeva». Klein non pensa che «tutti i gay siano de facto cattivi genitori» ma «so che la comunità gay non ha mai messo i figli al primo posto, se non come un pezzo di proprietà, un errore del passato o uno strumento politico». Racconta di un uomo ricco, amico della madre, «che cercò di abusare di mio fratello» e condanna la comunità Lgbt in quanto «maschilista» perché le donne vengono usate dagli attivisti uomini come strumenti per ottenere figli. Ecco perché ritiene che il matrimonio gay sia «un cavallo di Troia che non farebbe che danneggiare le donne e i bambini». Come lei stessa è stata danneggiata: «Ho speso la maggior parte della mia vita nella paura. Sapendo che potevo essere calunniata o molestata su internet o altrove (…) e che due o più attivisti avrebbero potuto provare a farmi perdere il lavoro» o «toccare la mia famiglia. Ho ancora paura. Conosco la loro violenza. Sono stata una loro vittima. Non sono loro le vittime». Klein oggi ha una famiglia sua e se ha deciso di testimoniare è per i bambini: «So dalla mia esperienza e da quella di altre persone cresciute in famiglie Lgbt che» crescere in una famiglia del genere «danneggia i bambini». Oggi «l’unica immagine che vedete delle famiglie gay è manipolata e controllata» ma esistono molti casi di abusi. Come quello eclatante di Mark Newton e Peter Truong, i due papà gay condannati «per gli abusi sessuali sul figlio». Se questo caso è stato riportato è «solo perché l’abuso è così palese che non è possibile nasconderlo», ma so di «molti uomini, esposti e attivi nella comunità gay, che avevano rapporti sessuali con i figli dei loro amici». Conclude Klein: «Può funzionare [una simile famiglia]? A volte sì, certo. Tutto può funzionare qualche volta. Ma questo non significa che vada nell’interesse primario dei bambini». Per questo «chiedo alla Corte di usare buon senso e di essere prudente. (…) Per favore, mantenete in Texas la definizione di matrimonio tra uomo e donna».

Sgarbi show alla Camera: "I matrimoni gay? Sono 'culimoni'", scrive “ADN Kronos” il 29/10/2015. Dai matrimoni gay che "andrebbero chiamati 'culimoni'", alla "catastrofe" delle donne in politica, come Boldrini e Bindi, quest'ultima "peggio persino di Verdini, che è il massimo della nequizia umana"; passando per la famiglia come "luogo dell'orrore" e Giovanardi linciato in piazza dall'Arcigay stile Saddam Hussein. E' lo show alla Camera di Vittorio Sgarbi, invitato da Carlo Giovanardi per una conferenza sulle unioni civili. Tra avventure boccaccesche ("Ho avuto figli che poi le madri hanno attribuiti al loro marito cornuto. Ci sono due-tre casi in cui ho fatto da donatore assistito...") ed altri aneddoti tratti dalla vita privata, il critico d'arte ha parlato della sua esperienza di padre: "Ho tre figli che ho riconosciuto ma non ho visto per anni e posso confermare che loro hanno mantenuto per me un amore non ricambiato. Io non amo i miei figli, se non di un amore che è quello che ho per tutta l'umanità". "Il padre - ha spiegato - è una figura ininfluente, ma potenziata dalla storia e dalla società nel ruolo del pater familias, di una famiglia che esisteva quando la donna fortunatamente era priva di potere. La donna è chiaramente superiore all'uomo e l'uomo lo sa, per questo l'ha umiliata finché ha potuto", e a un certo punto poi è diventato "un genere inferiore. Avete mai visto un ministro uomo delle pari opportunità? Siamo a un momento sociale di conclusione dell'uomo". Tema da cui Sgarbi è partito per parlare della "catastrofe" delle donne in politica: "Guardate la Pivetti, la Boldrini... L'Anselmi, che ha inventato la P2 che non c'è, la Bindi... Perfino Verdini, il massimo della nequizia umana, è meglio della Bindi". Una volta la donna doveva essere "protetta ed esiliata in una casa, doveva coltivare i bambini e non rompere i coglioni. Il matrimonio? Si chiama così perché il punto centrale è la madre, il dono della modernità. La famiglia è il luogo dell'orrore, dove tutto capita: cosa c'è di peggio? In questo nucleo c'è solo una cosa da difendere: il diritto del bambino", ha sottolineato lo scrittore. I matrimoni omosessuali, secondo Sgarbi, "dovrebbero essere chiamati 'culimoni' perché non c'è maternità possibile. Ma meglio due padri che nessuno", ha comunque riconosciuto il critico. "Prendi un ragazzo dell'Etiopia che è messo in un orfanotrofio senza nessuno, dopo che la madre vera l'ha abbandonato: chiunque si occupi di lui, che sia maschio o femmina, anche Giovanardi che ha un cuore di pietra capirà che è meglio che nessuno". Piccolo siparietto poi con Giovanardi, definito da Sgarbi "un sovrintendente ai valori etici": "Ormai è su una posizione su cui non è neanche più il Papa. Viene disegnato come un reazionario ma cerca di difendere quel mondo antico che viene tutelato in tutti i livelli (la cucina, i monumenti, ecc.), meno che nei valori etici" e la sua battaglia "lo porterà al martirio in una piazza dell'Arcigay, come se fosse Saddam Hussein", ha ironizzato Sgarbi suscitando l'ilarità generale.

Battersi per i gay non serve alla lotta di classe. Ci concedono i diritti civili, distruggono quelli sociali. E lo chiamano «progresso», scrive Diego Fusaro su “Lettera 43” il 12 Gennaio 2016. Lasciate che vi spieghi in due parole perché non faccio mie le battaglie omosessuali, pur non avendo assolutamente nulla contro gli omosessuali e, anzi, pensando che l'omosessualità sia perfettamente secondo natura. Gli omosessuali non sono una classe sociale. Marxianamente, non ha alcun senso essere contro gli omosessuali o dalla parte degli omosessuali. Ha invece senso stare in concreto dalla parte dei lavoratori e degli oppressi, omosessuali o eterosessuali che siano. Del resto, non si capisce perché un omosessuale disoccupato o precario dovrebbe lottare insieme (e sentirsi affratellato) con un omosessuale miliardario o broker finanziario. L'alleato non è l'omosessuale o l'eterossessuale: è il lavoratore, lo sfruttato, omosessuale o eterosessuale che sia. Complici le prestazioni della fabbrica dei consensi, il nemico è oggi sempre individuato nell’altro particolare, mai nel sistema economico dominante; con la conseguenza, del tutto paradossale, per cui il giovane disoccupato islamico si illuderà che il suo rivale sia il giovane disoccupato cristiano e non il magnate della finanza che pratica la delocalizzazione del lavoro e la volatilizzazione dei capitali. O, ancora, l’omosessuale disoccupato o precario riterrà surrettiziamente di essere più simile a un omosessuale proprietario di imprese multinazionali che a un eterosessuale disoccupato o precario. Il potere raggiunge il grado massimo del controllo sulle anime, allorché riesce a convincere le menti degli schiavi che il nemico sia chi è nella loro stessa condizione o, addirittura, chi sta più in basso e non più in alto rispetto a loro: che il nemico sia, appunto, l’omosessuale o l’eterossessuale, il destro o il sinistro, il bianco o il nero, e non il capitale finanziario, il classismo planetario, l’alfiere della finanza. Questo è il solo punto fondamentale della questione. Quando la lotta si ridispone come conflitto tra gli ultimi, come guerra tra omosessuali ed eterosessuali, migranti e autoctoni, uomini e donne, il potere vince e stravince: la contraddizione classista diventa invisibile. Per questa via, il “grande dissenso” - così potremmo battezzarlo, variando la nota formula di Marcuse - è dispersivamente frammentato nei mille rivoli delle opposizioni secondarie o, in ogni caso, tali da distogliere l’attenzione dalla contraddizione principale e da creare contrapposizioni tra gli ultimi. Per questa via, si polverizza la coscienza di classe e si impedisce preventivamente il costituirsi di un fronte unitario degli offesi del pianeta contro l’oligarchia finanziaria e in difesa di un assetto autenticamente democratico, fondato su rapporti tra individui - omosessuali ed eterosessuali che siano - liberi, uguali e solidali. Per queste ragioni, non ho nulla contro i diritti civili o contro le unioni civili. Contesto, però, la prospettiva secondo cui il matrimonio gay sia il maximum dell’emancipazione possibile; ancora, critico fermamente il fatto che le sinistre puntino ormai solo sulle battaglie civili rinunciando completamente a quelle sociali. La dinamica in atto è esattamente questa: concedere diritti civili per nascondere che stanno rimuovendo linearmente quelli sociali. E hanno pure il coraggio di chiamare questa follia «progresso». Parola di Matteo Renzi: «Nel 2016 legge sulle unioni civili». Matteo Renzi, colui che rottamò l’articolo 18. Distruggono il lavoro e i diritti sociali e nascondono questo processo elargendo i diritti civili. Non vi è altro da aggiungere.

Sarri e il solito coro del "Politicamente corretto" a giorni alterni, scrive "Il Piccolo D'Italia il 20 gennaio 2016. Fonte: Fabrizio Verde, Francesco Guadagni e Alessandro Bianchi per L’Antidiplomatico. In occasione della partita di calcio tra Napoli e Inter, valevole per la qualificazione alla semifinale della Coppa nazionale, è entrata in azione la solita ipocrisia e doppia morale di marca italica. Evento scatenante, un litigio tra i tecnici delle due compagini calcistiche Maurizio Sarri e Roberto Mancini. Quest’ultimo, allenatore dell’Inter, nel dopo partita ha lanciato accuse di razzismo nei confronti del tecnico toscano che allena la squadra partenopea, colpevole di averlo apostrofato con i termini ‘frocio’ e ‘finocchio’. Per Maurizio Sarri, che dichiara di non ricordare le parole esatte ma si è scusato a telecamere spente nello spogliatoio dell’Inter prima dell’accusa mediatica di Mancini, si è trattato di una caduta di stile, questo è fuor di ogni dubbio. Ma è l’intero contesto di abnorme colpevolizzazione dell’allenatore del Napoli ad essere oggettivamente fuori luogo. Innanzitutto bisogna ricordare che l’Italia è il paese dove in occasione di ogni partita di calcio vengono gridati i più beceri cori razzisti nei confronti della città di Napoli e dei suoi abitanti, nel generale disinteresse di giornalisti e addetti ai lavori, che fanno a gara nel minimizzare questi atti di razzismo, declassandoli a semplici sfottò da stadio, senza tener contro del retroterra culturale che vi è dietro a questi slogan beceri e razzisti. Si tratta degli stessi personaggi che da ieri cercano di ergersi a improbabili moralizzatori del mondo del calcio. Si tratta, si sa, del solito “politicamente corretto” creato ad arte. Che dire poi dello stesso Roberto Mancini che si è precipitato ai microfoni della Rai a denunciare indignato delle offese ricevute, dopo aver provato nello spogliatoio del Napoli a venire alle mani con il tecnico toscano? Si tratta dello stesso Mancini che nel 2000 intervenne in difesa del suo amico Sinisa Mihailovic, il quale aveva definito il centrocampista dell’Arsenal Vieira un «negro di merda», con queste testuali parole riportate dal quotidiano ‘La Repubblica’: «Nel corso di una partita l’agonismo esasperato può portare a momenti di tensione e di grande nervosismo. Credo che anche qualche insulto ci possa stare. L’importante è che tutto finisca lì». Lo stesso Mancini che da allenatore del Manchester City rischiò di finire alle mani con ben due suoi giocatori Adebayor e Tevez. Il primo accusato di fingere un infortunio poi rivelatosi vero, il secondo per divergenze tecnico-tattiche. Il litigio tra il tecnico di Jesi e l’attaccante argentino trovò il suo culmine quando Mancini affermò nei confronti di Tevez ‘l’elegante’ frase «go fuck your mother». Insomma, il tecnico che ieri si è tanto scandalizzato non ha nulla da invidiare alle tante teste calde che popolano il calcio mondiale. In ultima analisi è curioso notare come quegli stessi giornalisti che ieri si sono affrettati nel crocifiggere un allenatore per un insulto proferito in un momento di grande concitazione e nervosismo, siano gli stessi che da anni ignorano il più becero razzismo, le ruberie, i macroscopici brogli e quant’altro accade nel mondo del calcio. E, infine, un ultimo punto, il più importante perché non parliamo più di qualcosa attinente ad un gioco, è curioso notare come quegli stessi giornalisti che ieri si sono affrettati nel crocifiggere un allenatore per un insulto proferito in un momento di grande concitazione e nervosismo, siano gli stessi che ignorano e tollerano ogni giorno lo stupro di diritti, democrazia e della nostra Costituzione che avviene ogni giorno. Lo stato in cui versa un’Italia sempre più schiacciata della dittatura europea neoliberista dipende anche, e soprattutto, dal coro del “politicamente corretto” dei bombardatori umanitari a giorni alterni.

Mancini-Sarri, il direttore (napoletano) di Tuttosport: «Chiedo scusa per il titolo, Roberto è un ipocrita», scrive “Il Mattino” il 21 gennaio 2016. A Radio Crc nel corso di "Si Gonfia la Rete" di Raffaele Auriemma è intervenuto Paolo De Paola, direttore (napoletano) di Tuttosport che ha fatto marcia indietro rispetto al titolo del quotidiano sportivo torinese di ieri: «Chiedo scusa per il titolo su Tuttosport, ho creduto alla sua buona fede, ma invece Mancini è un ipocrita - ha detto De Paola -. Ho preso visione di una realtà che era diversa rispetto a quella che avevo prospettato e scritto su Tuttosport con quel titolo “Siamo tutti Mancini” e non ho difficoltà a dire che alla luce di quanto emerso, mi scuso perché Mancini è un ipocrita». «La denuncia del tecnico - ha spiegato il direttore - sembrava veritiera e coraggiosa, Mancini sembrava un paladino e invece era solo una cosa falsa perché lo stesso allenatore ha proferito la stessa accusa ad un giornalista quando era a Firenze e mi dispiace di aver fatto quel titolo perché Mancini è un ipocrita. L’ho seguito in buona fede, ma alla luce della verità, ripeto, Mancini è un’ipocrita. Mi piace confrontarmi con i fatti e al di là della mia buona fede, mi sembrava che quello di Mancini fosse un rincrescimento vero. Ritengo che nascondersi dietro quella frase “sono cose da campo” possa fungere da alibi per giustificare tutto, anche le combine, per cui resto convinto del fatto che ci sia comunque un muro da abbattere. Ma faccio un passo indietro perché non può esserci un moralismo facile, lo scheletro di Mancini lo abbiamo scoperto, il caso è identico e la parola giusta è ipocrisia. Mancini l’ha usata in cattiva fede portando avanti una bandiera che evidentemente non è la sua. Il problema è che poi il tecnico è ritornato sull’argomento e anche il padre lo ha fatto. Preferirei che anche la famiglia si chiudesse nel silenzio perché tutto questo gli può tornare indietro come un boomerang. La vicenda si è rivestita di un nesso sgradevole e andrebbe chiusa al più presto. Sarri ha sbagliato, ma più volte ha chiesto scusa. Quel modo di pensare non deve esistere né in campo, né fuori dal campo. Ma, ne esce bene da questa situazione perché si è scusato immediatamente ed ha mille giustificazioni a differenza di Mancini che ne esce sminuito. Su Tuttosport, sul giornale e sul sito certamente vedrete qualcosa di diverso rispetto a quanto emerso nella giornata di domenica. C’è da indignarsi e mi spiace che siamo di fronte ad un’altra pagina sgradevole».

La Gazzetta conferma: "Mancini chiamò 'frocio di merda' il nostro giornalista Da Ronch nel 2001", scrive "Tutto Napoli" il 21.01.2016 12:44. Figuraccia colossale quella rimediata da Roberto Mancini, dopo che ancora oggi ha ribadito la gravità dell'insulto di Maurizio Sarri. Da Firenze in giornata hanno ricordato che lo stesso tecnico dell'Inter chiamò 'frocio' un giornalista ai tempi della sua esperienza alla Fiorentina e la Gazzetta dello Sport ha confermato (perchè solo oggi, e non ieri?) l'accaduto specificando che si tratta del collega Alessio Da Ronch: "Fine dicembre 2001: la Gazzetta dello Sport svela un episodio relativo ad Amaral, centrocampista della Fiorentina tornato in Brasile prima delle vacanze. La versione ufficiale del club è che il giocatore è in permesso, in realtà ha avuto un alterco con Mancini che lo riteneva fuori dal progetto e ha preferito andare via. Letto l'articolo, l'allenatore viola prima di una conferenza fa chiamare il nostro giornalista dall'addetto stampa: vuole un colloquio privato per chiarire. Così Alessio lascia la sala stampa e va a parlare con Mancini che però comincia a insultare: Alessio fa per andarsene e a quel punto Mancini lo apostrofa così: "Sei un frocio di m..., vieni qui". A quel punto Alessio reagisce, soltanto verbalmente, torna indietro sui suoi passi e Mancini viene trattenuto prima che la lite degeneri. Il tutto davanti a un altro giornalista, all'addetto stampa viola e a parte della squadra che era uscita dallo spogliatoio dopo aver sentito le urla".

Il precedente del Mancio: nel 2001 apostrofò un giornalista: "Frocio di m...". Ma lui smentisce tutto, scrive Pasquale Tina il 21 gennaio 2016. La querelle tra Sarri e Mancini è infinita e si arricchisce di un nuovo capitolo, come svelato dal sito firenzeviola.it . "Mi ha dato del frocio e del finocchio", così Mancini ha accusato Sarri al termine di Napoli-Inter. Ma in serata il tecnico dell'Inter smentisce categoricamente tutto. Gli stessi epiteti di Sarri, secondo il sito, li aveva utilizzati pure il Mancio quindici anni fa contro Alessio Da Ronch, giornalista de La Gazzetta dello Sport, che ha confermato l'episodio. Era il dicembre 2001. Mancini, allora alla Fiorentina, non gradisce un articolo della rosea sulla vicenda Amaral e chiede all'autore un colloquio privato prima della conferenza stampa. I toni sono concitati, Da Ronch è sul punto di andarsene e a quel punto Mancini lo apostrofa così. "Sei un fr.... di m...., vieni qui". Solo l'intervento di altre persone - tra cui l'addetto stampa della società viola - ha evitato che la lite degenerasse. Roberto Mancini però non ci sta e mentre la notizia fa il giro del web, in serata decide di replicare. Dalle pagine del proprio sito, il tecnico dell'Inter torna ancora una volta su quanto accaduto nel finale della gara del San Paolo, ribadendo che "le esternazioni nel dopo gara di Napoli sono semplicemente in linea con la mia storia e la mia cultura calcistica. Non chiedo di condividere il mio modo di stare nel calcio, ma pretendo rispetto: in queste ore si sta montando una polemica e si stanno creando fazioni che spostano l'attenzione dal vero problema! Per questo vorrei che si mettesse un punto a questa storia che è stata oggetto di fin troppe strumentalizzazioni - chiarisce Mancini - Non ultima quella secondo cui, 15 anni fa, sarei stato perfino autore dello stesso insulto nei confronti di un giornalista, cosa non vera: non ho mai utilizzato quel termine perchè non ha mai fatto parte del mio linguaggio. Ribadisco la mia delusione, ma vorrei che la concentrazione tornasse ora sui nostri obiettivi sportivi e sulla prossima partita, fondamentale per il prosieguo della stagione dell'Inter".

Ipocrisia al potere nel caso. Sarri-Mancini: anche la sentenza è un’offesa per tutti, scrive Goffredo Buccini il 22 gennaio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Le parole, per dirla con Nanni Moretti, sono importanti: chi lo nega vi sta imbrogliando. Tra «negro» e «nero» passa la distanza tra l’America segregazionista di Rosa Parks e quella liberal di Obama. Ora, inerpicarsi sull’esegesi di Maurizio Sarri, fermo agli epiteti da angiporto contro Roberto Mancini alla fine di Napoli-Inter, potrà pure far sorridere. Ma la voglia di sorridere svanisce subito di fronte alla sentenza del giudice sportivo che condanna l’allenatore del Napoli a un buffetto sulla guancia: dare del «frocio» all’avversario costa appena due giornate di squalifica nella prossima Coppa Italia (in questa il Napoli non c’è più, le prime partite della prossima le giocherà contro squadre minori, il danno è zero). L’insulto, attenzione, è rilevato: ma, interpretando in modo a nostro avviso surreale il regolamento (articolo 11, discriminazione razziale), non sarebbe omofobo, perché Mancini non è gay, quindi non ha di che adontarsi troppo. Poco conta che quell’insulto, usato così, offenda tutti gli omosessuali e (ha ragione Mancini) tutti gli eterosessuali dotati di sensibilità e civiltà appena medie. Non dubitiamo che il giudice Tosel abbia le sue pezze d’appoggio disciplinari, le sue pandette di scorta. Ma ci permettiamo di eccepire che ha dato un ennesimo, pessimo esempio a un Paese dove da tempo il discorso pubblico è slittato nel turpiloquio, dove invoca l’omertà calcistica («cose di campo...») anche chi ha rappresentato lo Stato ai livelli più alti (Berlusconi), dove un presidente di Federazione (Tavecchio) è finito sulla graticola Uefa per i suoi vaniloqui razzisti sul «mangiabanane» Optì Poba. In questo Paese di maschi da caricatura, in cui la categoria del «politicamente corretto» viene ridotta a sinonimo di ipocrisia e la mitezza diventa «buonismo», noi, caro giudice Tosel, sommessamente, preferiamo stare dall’altra parte. O, come forse direbbe Sarri a man salva, dall’«altra sponda».

Se Mancini diventa il cattivo. È evidente che la vera colpa dell’allenatore dell’Inter è aver infranto la legge non scritta su cui si regge il calcio italiano: l’omertà. Chi mette in discussione il silenzio – sugli insulti, sullo strapotere delle curve, sulle scommesse, sulle combine – è fuori dal gioco, scrive Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera” del 22 gennaio 2016. Sono bastate 48 ore perché la parte lesa diventasse il colpevole, e il colpevole diventasse la parte lesa. Giornali che cambiano idea e fanno ammenda, giudici sportivi molto clementi – come ha ben scritto sul Corriere Goffredo Buccini -, il consueto intervento a sproposito di Berlusconi; fatto sta che Sarri ora pare la vittima, e Mancini il cattivo. È fin troppo evidente che la vera colpa dell’allenatore dell’Inter è aver infranto la legge non scritta su cui si regge il calcio italiano: l’omertà. Il fatto che poche ore prima un altro tecnico, Gian Piero Gasperini del Genoa, avesse violato l’omertà per denunciare i capi ultrà che l’hanno costretto a girare sotto scorta, agli occhi dei conservatori non fa che aggravare le eccezioni destinate a confermare la regola. Chi mette in discussione il silenzio – sugli insulti, sullo strapotere delle curve, sulle scommesse, sulle partite comprate e vendute – è fuori dal gioco. Basti pensare a quel che è successo a un altro allenatore: Cesare Prandelli. Mai, dai tempi della Corea (1966), si è visto il linciaggio mediatico di un ct come quello seguito all’eliminazione della nazionale in Brasile. E l’ostracismo nei confronti di Prandelli continua pure oggi. Poco conta che quasi tutte le sue contestatissime scelte si siano confermate inevitabili: Pepito Rossi non poteva giocare i Mondiali; il Mattia Destro visto nella Roma non meritava di farlo; Cassano resta - purtroppo da fermo - il calciatore italiano di maggior talento; Verratti quando sta bene è una certezza (resta il buco nero Balotelli). Ma la questione non è tecnica. Prandelli è stato irriso per aver tentato di avvicinare la nazionale alla nazione, per aver portato calciatori viziati e ignoranti ad Auschwitz, per averli fatti giocare nell’Emilia colpita dal terremoto e sui campi sequestrati alla camorra. Però la sua vera grande colpa, che l’ambiente non gli ha mai perdonato, è stata convocare il terzino del Gubbio, Simone Farina, che aveva denunciato una combine, una partita truccata. Ma come? Il reietto che ha infranto l’omertà viene addirittura premiato? Non lo sa Prandelli che certe cose non si fanno? Gasparini è proprio sicuro di voler denunciare i violenti? Mancini non poteva tacere le «cose da campo»? Non è meglio stare zitti? Siamo seri. La sola cosa che può fare l’opinione pubblica è, per una volta in Italia, schierarsi con chi ha subito un torto ingiusto, e non con chi l’ha causato.

Luca Telese e il "frocio" su “Libero Quotidiano" del 21 gennaio 2016: Mancini volpone, cosa c'è davvero dietro l'accusa a Sarri. È Napoli-Inter, bellezza, mica la gag di Checco Zalone sugli «uomini sessuali/ che sono gente tali e quali/ come noi normali». Fosse stata gridata in bar, forse, sarebbe potuta restare solo una gag scurrile, una battutaccia da commedia all’Italiana: «Finocchio!». Ma siccome l’insulto è volato tra due top mister in diretta tv, lo scandalo è diventato molto di più: una sfida tra cosmopolitismo e provincialismo, una decisione che sposterà equilibri di potere e classifica, un duello che segnerà il nostro costume. Sarà una squalifica che in Italia farà giurisprudenza, e che - per il senso comune - varrà di certo molto più della tormentata legge sull’omofobia. Forse loro ancora non lo sanno, ma i giudici sportivi chiamati a pronunciarsi sulla dibattutissima contesa calcistica#sarrimancini, in realtà decideranno su due grandi temi: sia sul campionato che sul costume italiano. Diciamolo subito: Roberto Mancini è un genio. Uno che ha respirato l’aria dell’Europa, che in campo ha fiutato subito la potenzialità drammatizzante dell’ingiuria politicamente scorretta, e che l’ha (legittimamente) trasformata in un’arma sportiva, e splendida, in prima persona, e rompendo il tradizionale adagio para-omertoso del nostro mondo pallonaro: «Quel che succede in campo resta in campo». Nel tempo dei labiali e delle moviole tv questa non può che essere una pia illusione. E diciamolo con altrettanta franchezza: Maurizio Sarri ha fatto un madornale errore di leggerezza e sottovalutazione: non solo quando a caldo ha dato a Mancini del «frocio» (il che già equivale ad aver perso la testa) ma anche quando dopo - a mente fredda - si è messo a minimizzare, a fare battute, e suscitare ironie in conferenza stampa: «Gli ho detto il primo insulto che mi è venuto in mente.... avrei potuto dirgli democristiano!». Troppe iperboli - Sarri, e forse con lui De Laurentiis, hanno giocato la carta dell’iperbole e della minimizzazione insieme: si può dire tutto perché nulla di tutto questo, in fondo, è grave. Errore. Gli uomini del Napoli hanno consapevolmente continuato a scommettere sull’insostenibile ombra di un gossip (magari falso, ma non per questo meno contundente nello sport più maschile per eccellenza). Oggi chi difende Sarti continua a farlo anche in sede sportiva quando per evitare una squalifica letale in campionato (almeno quattro mesi) cerca di sostenere che dare del «finocchio» a qualcuno non sarebbe un insulto, se il destinatario dell’epiteto fosse eterosessuale. Seguendo questa logica in campo si potrebbe dire tranquillamente «sporco negro» a un bianco (non sarebbe razzismo) e «figlio di puttana» a chiunque, (magari poi chiedendo l’esame del Dna dei genitori per essere scagionati in sede federale). Quello che frega Sarri - però - è la risatina con cui ha accompagnato le sue frasi, e i sorrisi che ha volutamente suscitato mentre teoricamente stava chiedendo scusa. Quello che dà forza all’affondo di Mancini - invece - è la durezza lucida che ha messo in campo. Tutti sanno che una squalifica di Sarri lo favorirebbe, ma la forza del suo primo piano quando dice «quello non dovrebbe più allenare» mette in secondo piano ogni cosa. In Italia è la prima volta che accade, ma all’estero no. Forse l’unico precedente simile nel nostro Paese sono le volgarissime corna rivolte in fotografia via Twitter da Maurito Icardi all’ex amico Maxi Lopez (ancor più dolorose, perché facevano riferimento a una moglie scippata, Wanda Nara). Ma accadeva fuori dal campo. Forse solo Mancini martedì sera aveva in mente un precedente britannico, l’incredibile scandalo esploso nell’ottobre 2012, quando durante una sfida fra Chelsea e Qpr, il capitanoJohn Terry, secondo una ricostruzione labiale, aveva gridato «Fucking Black cunt!» (letteralmente «Fottuta fica nera») contro Anton Ferdinand(un rivale mulatto del Qpr). Il cosmopolita Mancini sa che nella severissima Europa, lo sventurato Terry - che pure negava - fu costretto alle scuse, alla rinuncia al ruolo di capitano, a una squalifica e a una esosissima multa. Lo scandalo aveva travolto anche il ct della nazionale inglese dell’epoca, Fabio Capello (che cercó di difendere Terry dalla degradazione), e il suo amico Ashley Cole (appena svincolato dalla Roma) che si beccó 90mila sterline di multa e il divieto di capitanare la nazionale (solo per aver solidarizzato con l’amico Terry via Twitter!). «Sei un negro» - Sempre al Chelsea un tifoso, Stephen Fitzwater, pochi mesi prima era stato bandito a vita dallo stadio per aver insultato Didier Drogba. E solo un anno prima, nel 2011, la Federcalcio inglese non aveva avuto nessuna pietà nemmeno per Luis Suarez (all’epoca al Liverpool) accusato da Patrice Evra di insulti razzisti nei suoi confronti, durante una partita pareggiata 1-1 ad Anfield. Vicenda incredibile: una commissione indipendente comprovó che le accuse erano fondate, ed inflisse ben 8 giornate di squalifica a Suarez (costretto a pagare una multa di 40mila sterline) prima che chiunque sapesse di quale insulto si trattasse. Evra infatti - proprio come Mancini - aveva denunciato il bomber uruguagio in televisione, affermando che Suarez lo aveva apostrofato con un termine razzista per ben 10 volte. Aveva però aggiunto: «Mi rifiuto però di ripeterlo in pubblico». Il fattaccio era avvenuto il 15 ottobre 2011, durante la partita Liverpool-Manchester United. Solo dopo l’archiviazione del report della Federazione la dinamica era stata rivelata: Evra aveva chiesto spiegazioni a Suarez per un fallo duro e lui gli aveva risposto simpaticamente: «Perché tu sei un negro!». A quel punto, Evra aveva sfidato l’avversario a ripetere quel che aveva detto, e Suarez lo aveva liquidato con altrettanta sobrietà: «Io non parlo con i negri». Suarez avrebbe ripetuto sette volte in due minuti la parola «nigger», e nessuno si era messo a sottilizzare sullle sfumature di colore della pelle di Evra prima di censurarlo. Dopo le condanne esemplari, né il Liverpool né lo United avevano fatto ricorso. Non solo: i reds erano stati subissati di polemiche per non essere stati abbastanza severi. Il cosmopolita Mancini conosce benissimo queste storie, sa che la modernità arriverà anche in Italia e non si limiterà alle telecamere per accertare i goal sulla linea di porta. Ma anche l’allenatore dell’Inter ha il suo scheletro nell’armadio: nel 2000 - ha ricordato ieri Dagospia - il Mancio era il vice allenatore di Eriksson alla Lazio e la sfida di Champions tra biancocelesti e Arsenal fu caratterizzata anche dalle accuse di Vieira a Mihajlovic: il centrocampista rivelò che il serbo lo aveva chiamato «bastardo negro» e «scimmia negra di merda». E il Mancini de 2000 commentava: «L’agonismo esasperato può portare a momenti di tensione e grande nervosismo. Credo che anche qualche insulto ci possa stare. L’importante è che tutto finisca lì». Nel 2007, dopo lo striscione «Napoli fogna d’Italia», esposto a San Siro, il mister aveva detto: «Era solo uno sfottò, come ce ne sono ogni domenica su tutti i campi. Non è stato bello, ma non si è trattato di una cosa così grave…». Il paradosso vuole che Mancini, che non era ancora andato ad allenare in Inghilterra, dunque, minimizzasse come il Sarri di oggi. Ma l’allenatore del Napoli, evidentemente, ha continuato a ignorare il rischio che sta correndo, soprattutto perché non è più un problema fra loro due: nel tempo dei social la notizia ha fatto il giro del mondo, e la Figc adesso ha su di sé gli occhi del pianeta. In questo caso, l’ingresso della battaglia civile nel campionato italiano più incerto e combattuto degli ultimi anni, il politicamente corretto applicato al calcio, diventa una vera arma non convenzionale. Il Mancini allenatore, con la sua denuncia, potrebbe ottenere di mettere fuori dal campionato il suo diretto concorrente Sarri per almeno quattro giornate. Anche perché il Napoli ha già vissuto (malissimo) la decapitazione del tecnico subita contro il Torino, quando - per la doppia espulsione dei mister - Sarri era stato costretto a dare indicazioni solo grazie ad un surreale balletto di massaggiatori che facevano la staffetta fra panchina e la tribuna. L’idea un po’ medievale che Mancini dovrebbe dimostrare di essere eterosessuale per non essere offeso, oppure dichiararsi gay per poter ottenere la squalifica la dice lunga su quanto il Napoli stia rischiando. Chissà come gongola Berlusconi secondo cui Sarri non aveva stile per il Milan. Chissà quanta sofferenza per tutti coloro che avevano esaltato in Sarri il figlio di operai diventato impiegato di banca, e poi - per testardaggine - mister. Con il giudizio di oggi - comunque vada - due belle favole si concluderanno senza lieto fine. Di Luca Telese.

Se anche il calcio dà lezioni di correttezza è la fine…, scrive Emanuele Riciscci il 21 gennaio 2016 su “Il Giornale”.

Va bene, forse Sarri ha un po’ esagerato con la sua visceralità, non fosse altro per la figura formale e “pubblica” che incarna. Ma da qui a prendere tutti il cazziatone dal mondo del calcio, no, non ci sto! Già è un nugolo di anime candide e di ramanzine finto-moraliste ovunque, per carità. Se anche dal calcio bisogna imparare, se anche il calcio è occasione per offrire lezioni buonine, di bon ton soft e cotillons, di savoir faire, di antirazzismo e corretta correttezza è la fine. Chiudete tutto, addio. Ne riparliamo con calma. Figurarsi se Mancini fosse gay per davvero; avrebbero squartato Sarri in mezzo al campo mentre suonava la banda dell’Aeronautica Militare. Mamma mia quante gonne lunghe, quanto candore. Quanti rientri a casa presto e quanti sessi sicuri. Sarri è uno di cuore, scravattato, diretto e genuino. Gli è scappato il frocio. Alè. Scommettiamo che se a Mancini fosse scappato un “fascista”, diretto verso Sarri, o un ricco bestemmione da bettola a microfono aperto, non sarebbe successo nulla o quasi? Niente gogna totale o, al massimo, una gognetta di nicchia. Nessun clamore mediatico generale. La giustizia sportiva, intanto, potrebbe optare per la multa o la squalifica breve, figlioccia di quella magistrale che si dà solo ai “fanculo”, sempre con la f iniziano, come finocchio e fascista, dei giocatori all’arbitro. In ogni caso il problema non sta in chi ha torto o ragione. Ormai ci si sveglia la mattina e ci si chiede quale contrapposizione sia stata montata ad arte per ammazzare la noia sociale e moltiplicare l’amarezza dell’inevitabile annichilimento. La vera tristezza è assistere all’ennesimo conato di paradossi che piovono dal cielo. Ogni volta che accade qualcosa di pubblicamente rilevante, speri, in cuor tuo, che le considerazioni successive mantengano un contegno, una certa aura di serietà, di dignità e delicatezza. E invece no! Un paradosso: nel paese dei balocchi, i balocchi funzionano, coerente effettivamente, il resto no. La giustizia sportiva funziona, quella ordinaria, no. Per un Ermes Mattielli crepato di cuore dopo essersi legittimamente difeso da due infami bastardi entratigli in casa, assisti alle squalifiche ab eternum di Platini e Blatter, per quanto non di italica paternità, scattano procure federali, giudici sportivi, avvocati, società, tutti sull’attenti; intercettazioni, volanti che irrompono in campo in piena partita, condanne, certezze della pena, Guardie di Finanze, Polizie di Stato, paladini, eroi, scudi crociati (…), Sarri è strunz, deve pagà e pagherà, come le squadre retrocesse in B, C, D e pure E, come i dirigenti indagati e radiati da ogni dove. E che paghi pure, allora. Ma insieme a lui, come diceva quel gran genio di Alberto Sordi ne Il Marchese del Grillo, paghino tutti, sì, proprio nel migliore dei mondi possibili, ipertollerante, multiculturale, multi vibrante, ipercorretto, ipergentile, ipereducato, con la gonna lunga, tanto candido, che rientra a casa presto e fa sesso sicuro. “Sono pronto a passare tutto il resto dei miei giorni dentro a Castel San Angelo a meditare. Santità avevo fatto un torto a un piccolo falegname giudio, ma sono riuscito corrompendo giudici, testimoni, uditori, avvocati, guardie, abati, funzionari, periti, amministratori a far condannare quel poveraccio solo perché lui è povero e giudio e io ricco e cristiano. Comunque io, Santità, mi inchino alla vostra volontà e sono disposto ad andare di buon grado in galera purché in compagnia dei monsignori Ralli, Fanta e Bellarmino, dei cardinali Fioravanti e Bucci, degli uditori di prima istanza, Ardenghi principe di Colleterzo, Soffici duca di Sezze, del conte Unte von Kaiper comandante della Guardia svizzera e dell’abbate di Santa Maria della Minerva…”. Sotto, tutti in Castel Sant’Angelo, anime candide, buonisti, fricchettoncelli, razzisti al contrario, italofobici compresi. L’altro paradosso: prendere il cazziatone dallo sport più scorretto e tribale, grezzo e rozzo che ci sia, è veramente troppo. Quello dei “non esempi” di allenatori e calciatori, quasi sempre incapaci di articolare una frase di senso compiuto a fine partita, del fairplay di plastica, dello squallore, delle simulazioni, delle risse sul prato, degli sputi e dei menischi rotti “quasi a posta”, delle bestemmie in campo, tronfio e ritronfio di episodi omofobi, razzisti, squadristi, stalinisti, nazisti, colecisti e chi più ne ha più ne metta. Impossibile farne una cernita da chiamare a testimonianza. Troppi. Da sempre. Ma il calcio e il suo mondo sono anche questo. E chiunque sia piombato in uno stadio, abbia giocato al pallone, non potrà aver fatto a meno di cadere in questa bolgia che solitamente, cominciava con gli insulti dei genitori all’arbitro, o tra loro, nei campi della “promozione”. Il teatro che ne deriva è tragicomico.

Il calcio, anche dopo questo siparietto, rimane un gioco maschio, l’Italia, invece, un gioco neutro…

Frocio! Finocchio! Uomo! Offese a bordo campo…, scrive Nino Spirlì su “Il Giornale”. Mercoledì 20 gennaio 2016 – San Sebastiano martire – Redazione SUD, Area industriale Porto di Gioia Tauro. Oggi si celebra la Grandezza di San Sebastiano, Patrono delle confraternite della Misericordia e degli Agenti, Comandanti, Ufficiali e Sottufficiali di Polizia Locale. Degli omosessuali (anche se santamadrechiesa fa finta di non sentire le preghiere dei “froci”, di cui, peraltro, è infarcita a tutti i livelli. Dai seminaristi ai papi). E proprio in questa santa giornata “ricchiona”, prendiamo atto dell’ennesimo attacco razzista su base “finocchia”. Due Mister, due Allenatori, Sarri e Mancini, due Educatori,due Maestri di Vita litigano per uno stupidissimo pallone e uno di loro, Sarri, per offendere l’altro, Mancini, gli spara alle spalle due proiettili vigliacchi “Frocio! Finocchio!” Così, d’emblée! Con il preciso intento di deriderlo. E se anche lo fosse, dico io? Dove sarebbe lo scandalo, il peccato, il reato, l’orrore? Non è lontano il giorno in cui anche io sono stato offeso pubblicamente proprio per la mia omosessualità.  Come ebbi a dire, a scrivere, in quell’occasione, l’attacco non mi ha minimamente scosso. Anzi, ci ho anche sorriso sulla scempiaggine di chi lo aveva macchinato. Ma, essendo io persona conosciuta, ho ritenuto necessario denunciare, altrettanto pubblicamente, l’accaduto, proprio per dare un segno a chi, più debole, di queste offese, spesso, ne muore. Suicida. Mi chiesi, allora, e mi chiedo, oggi, se avessi avuto il diritto di subire l’offesa in silenzio. E cosa avrebbe significato per il timido omosessuale fermo lì, in fondo alla piazza, vedere crocifiggere il temerario Nino Spirlì senza che lo stesso contrattaccasse con la sfrontatezza e il coraggio che tanto scoriandola ad ogni occasione. Dunque, lo feci. E ferii a mia volta. Giustamente. Ieri come oggi. Dalla pubblica piazza, allo stadio. Ad ogni piè sospinto, c’è un cretino che scambia l’omosessualità per menomazione. Per handicap.  Sapendo che così non è, e, probabilmente, avendone paura. Forse, terrore della possibile propria. Ieri, una sconosciuta portavoce, oggi un illustre allenatore come Sarri,mister del (o della?) Napoli, che da del frocio a Mancini, allenatore dell’Inter. E sì che di tradizione omosessuale nella Capitale del Sud ce n’è parecchia…E non solo omosessuale, fra l’altro, ma multisessuale e multiaffettiva. Che vogliamo dire, per esempio, dei femminielli? Sono celebrati per le vie di Napoli come Cristo all’altare. E, loro sì, che vanno ben oltre l’omosessualità! “Orgoglioso di essere frocio, se lui è un uomo…” è, più o meno la risposta di Mancini al suo offensore. Sarri ribatte “Cose che succedono in campo e che lì dovrebbero restare…” Alla luce dei fatti, mi chiedo cosa significhi veramente essere Uomo. Per alcuni, probabilmente, significa “ficcarsi” dentro una donna e “governarla” a suon di schiaffi o gioielli riparatori. Per altri, invece, significa rendere gloria a Dio e ringraziarlo del dono della vita. Altri ancora, senza affetti per il trascendente, vivono rispettosi della Legge e delle regole naturali. E, poi, non ultimi, ci sono coloro che vivono alla “je m’en fous”…. Un ventaglio di varie umanità e disumanità…Fra me e me, sempre più convinto che essere Uomo sia la cosa più difficile

Virus Rai 2, 21 gennaio 2016: Vittorio Sgarbi esplosivo su “Finocchio” Sarri-Mancini. Come di consueto il giovedì sera su Rai 2 va in onda il docu-talk, condotto da Nicola Porro, Virus Il contagio delle idee che vede la partecipazione straordinaria di Vittorio Sgarbi che cura una rubrica in anteprima al programma Gli Sgarbi di Virus. Vittorio Sgarbi a Virus non si è reso protagonista del suo spazio prima dell’inizio del programma ma anche nel corpo a corpo di Virus Il contagio delle idee quando l’argomento trattato è stato quello relativo alla lite fra Sarri e Mancini ed alle parole “Frocio, Finocchio” pronunciate dal tecnico del Napoli.

Il Corpo a Corpo di Virus del 21 gennaio 2016 Rai 2: argomento è stato l’insulto omofobo di Maurizio Sarri a Roberto Mancini, avvenuto durante la partita Napoli – Inter. I protagonisti del corpo a corpo, Vittorio Sgarbi e Michele Ainis. Le parole di Vittorio Sgarbi a Virus: “Dopo la partita, il più violento sembrava Mancini e il più mite era Sarri. Mancini e Sarri sembravano due froci. Dire frocio è uno sfogo come la bestemmia. La bestemmia è un modo per dire di essere incazzato. Anche la parola “finocchio” non significa più niente. Oggi è solo un ortaggio. Mancini di cosa sei offeso?”. Poi Vittorio Sgarbi prosegue: “Finocchio non è un insulto. E’ un sfogo di una persona che ha una debolezza. Non è omofobia. Al massimo è maleducazione”. Rivediamo lo sfogo in campo dell’allenatore Carlo Mazzone. Finocchio è una parola vintage, una parola che non c’è più. Se a Mancini fosse stato detto gay, non si sarebbe offeso”. Infine nuovamente Sgarbi: “Uno incazzato con se stesso si scarica con un altro. Sono sfoghi. Mancini e Sarri sono due vecchi rincoglioniti”. Vittorio Sgarbi show ieri sera a Virus: il critico d’arte, ospite fisso del talk show di Nicola Porro, ha commentato la vicenda che sta tenendo banco da una settimana, Maurizio Sarri che ha dato del “finocchio” a Roberto Mancini sul finire di Napoli – Inter, martedì sera. Com’era prevedibile Sgarbi non si è risparmiato: agli spettatori è stato chiaro che avrebbero assistito a un vero e proprio flusso di coscienza fin dalla copertina di Virus ad opera di Sgarbi stesso: Per gentile concessione mia, intorno alle undici ci troverete a dialogare in maniera molto urbana su questa materia di “finocchi, froci, gay”. Adesso parliamo d’arte. Perché tanto adesso gli insulti sono stati depenalizzati: se io vado da questo qua e gli dico stronzo e poi gli do cinquecento euro, lui mi dice: “Me lo dica ancora!”. Quanto a capra, non è un’offesa ma un riconoscimento di valore. Tanto che voglio essere pagato, visto che incontro molti giovani che mi dicono “Mi dia della capra!”, però non gratis. La puntata di Virus prosegue come di consueto: si è parlato di banche, di furbetti del cartellino e dell’attuale situazione politica e, ormai in seconda serata, arriva il “tanto atteso” momento di Sgarbi. Dopo una lunga clip in cui si fa la storia del turpiloquio nelle aule parlamentari italiane ed europee, tra un “somaro” e un “rompicoglioni”, si torna in studio per il dibattito tra Sgarbi e il costituzionalista Michele Ainis, con Alba Parietti in collegamento. Ed è proprio dall’eterno scontro con la Parietti che Sgarbi dà fuoco alle polveri: Chi attacca la Parietti è un finocchio, perché la Parietti ha solo una cosa da dare: il suo amore. È un bene divino. Chi la attacca non capisce un cazzo. E poi, entrando più nel merito della questione, tra depenalizzazione dell’ingiuria e valutazioni su cosa sia davvero un’ingiuria Sgarbi dà la stura a un ampio repertorio di espressioni colorite: Finocchio non è un insulto. È un sfogo di una persona che ha una debolezza. Non è omofobia. Al massimo è maleducazione. Finocchio è una parola vintage, una parola che non c’è più. Se a Mancini fosse stato detto gay, non si sarebbe offeso. Mancini e Sarri sono due vecchi rincoglioniti. L’atmosfera in studio si scalda, con Sgarbi che se la prende con i calzini di Nicola Porro: Guarda che calzini da finocchio che hai. Rossi con i pallini blu. Ma ti sembra il caso? Vuoi vergognarti di fare il finocchio a Rai2! È una cosa scandalosa! E conclude, evidentemente annoiato dalla discussione: Che rottura di coglioni questa puntata!

Sgarbi sta con Sarri: "Quale insulto, solo incazzatura. Un finto caso". Sembra che la polemica Sarri-Mancini sia destinata a tenere banco ancora per un po' di tempo. Argomento del momento, anche Vittorio Sgarbi, intercettato da TuttoMercatoWeb, ha voluto dire la sua a riguardo, prendendo le difese del tecnico partenopeo: "Mi sembrano discussioni senza senso, puro vaniloquio. Non se ne può più. E' ormai un modo di dire, non vedo l'elemento omofobo. Mi sembra un finto caso: anche se ci fosse del malanimo, non è un insulto, anche perchè stiamo parlando di una categoria rispettabilissima. Del resto cosa ha detto Sarri?". E sull'appellativo di "frocio" o "finocchio", il noto critico d'arte non ha alcun dubbio: "Finocchio è una parola tramontata, desueta. Se oggi dico ad un bambino finocchio non sa a cosa mi riferisco. Dire frocio ad una persona può essere una forma di 'incazzatura', ma non vedo l'insulto. Anni fa dissi ad un gruppo di ragazzi che erano dei... culattoni raccomandati ma perchè a loro avevo chiesto se avessero fatto il servizio militare e mi risposero di no. Era un modo di dire, non un insulto. E anche adesso tendo ad escludere che sia un insulto quello di Sarri a Mancini".

L'ipocrisia linguistica nello sport. Duro faccia a faccia nel finale di partita tra Napoli e Inter di Coppa Italia del 19 gennaio 2016 delle 20.45 su Rai 1. I due allenatori Roberto Mancini e Maurizio Sarri hanno avuto un duro scontro verbale, che si è concluso con l’espulsione del tecnico nerazzurro. Mancini accusa duramente il tecnico dei partenopei: “E’ un razzista. Uomini come lui non possono stare nel mondo del calcio. Ha usato parole razziste, mi sono alzato per chiedere dei cinque minuti di recupero. Ha gridato ‘fr…o’ e ‘finocchio’. Sarei orgoglioso di esserlo, se lui fosse un uomo”. “Persone così non dovrebbero stare nel calcio – lo sfogo di Mancini nel dopopartita – Ha sessanta anni, il quarto uomo ha sentito e non ha detto nulla. Siamo stati allontanati entrambi. Questo episodio cancella tutto il resto della gara, ma è una vergogna. Negli spogliatoi l’ho cercato e mi ha chiesto scusa. Ma deve vergognarsi, non parlo della partita. In Inghilterra non l’avrebbero messo nemmeno su un campo di allenamento”. La replica del tecnico partenopeo non si fa attendere: “Mi ero innervosito per l’espulsione di Mertens, non ce l’avevo assolutamente con Mancini. Ho visto che si lamentava per i minuti di recupero e mi è scappata una parola, ma sono cose da campo e dovrebbero terminare lì – ha dichiarato Sarri –. Sarebbe stato meglio se non fosse accaduto nulla, ma per me si è trattato di una litigata da campo. Mi è sfuggito un insulto, gli ho chiesto scusa e lui era contrariato, mi aspetto che ora si scusi anche lui”. “Non mi parlate di omofobia o cose del genere, è un’esagerazione – prosegue Sarri -. Ero inferocito per l’episodio, non ce l’avevo con Mancini e la mia parola non aveva nessun secondo fine. Non ricordo cosa gli ho detto. Queste cose dovrebbero rimanere in campo, perché lì c’è una tensione diversa dal solito, non come nella vita normale. Era qualcosa che doveva finire in pochissimi secondi. Io non l’avrei fatta uscire dal campo, però accetto anche che un’altra persona la pensi diversamente. E’ stata un’offesa inopportuna, ma non è normale fare uscire questi episodi dal campo. Più di chiedergli scusa non so cosa altro fare, domani glielo ripeterò se mi procuro il numero. In campo ho sentito e visto di peggio, sotto stress può succedere. Non c’è nessun tipo di discriminazione, mi è sfuggito questo termine”.

TRA IL ‘’FIGHETTO’’ MANCINI E IL ‘’CAFONE’’ SARRI, scrive Giancarlo Dotto (Rabdoman) per Dagospia. I due se le sono dette di santa ragione. Ha cominciato Maurizio Sarri. “Frocio” o “finocchio”, non s’è capito bene. Il concetto non cambia, anche se, come vedremo, si tratta di un “frocio” o “finocchio” senza concetto. Traviato dalle sue letture, Sarri. Quello sporcaccione di Charles Bukowski, da incazzato, avrebbe apostrofato il Mancio allo stesso modo, dovendo semplificare la sua avversione da uomo di tuta, viscere e pelo selvatico per un damerino col nodo sempre alla moda e il foulard che non diventa mai un nodo scorsoio. “Vecchio cazzone!”, ha replicato da par suo, il Mancio, a sua volta reo confesso del subliminale che percepisce nel tipo alla Sarri (solo cinque anni più di Mancini) un patetico parvenu, praticamente uno straccione abusivo che non ha mai pagato un lustrascarpe e puzza di rutto da osteria. Poche storie. Da che parte stai? Da quella di Sarri, ovvio, dovendo stare. Detto che “frocio” o “vecchio cazzone” (l’insulto come voluttà a offendere poggia sulla prima), dal momento in cui sono ufficialmente entrati nel dizionario degli insulti, non sono più concetto,  sfilati dall’ideologia eventualmente razzista che li sottende (ma i froci e i vecchi cazzoni sarebbero una razza?), ma solo astrazioni della bile, maniglie del subitaneo scoppio di odio, non sarebbe stato più elegante che i due se la fossero vista negli anfratti del San Paolo, magari con un manesco regolamento di conti, in cui probabile il Mancio avrebbe avuto la peggio, penalizzato oltre che dal fisico anche dal dover prestare attenzione alla piega del cappotto e alla sfregiabilità del lineamento che lo fa così putto a cinquant’anni? E, invece, Mancini, a partire dal promettente e sembrava minaccioso gesto del “ci vediamo dopo”, s’è lasciato andare al deplorevole: “Maestra, ha sentito cosa mi ha detto quel cafone di Sarri, dell’ultimo banco, la bestia in tuta?”. Aggiungendo, per aggiustare la mira da fighetto, l’odiosamente corretta accusa del “razzista”. Per dirla tutta, ho trovato assolutamente perfetto e inesorabilmente etico a suo tempo lo Zinedine Zidane che si cancella dalla partita più importante della sua vita, trasformandosi da alato fuoriclasse in Minotauro, nel momento in cui quel mediocre di Materazzi gli tocca le donne della famiglia. Un’esemplare capocciata in pieno torace, e poi zitto per la vita, altro che maestrina. E niente scuse. Scuse di che? Dettaglio non piccolo: nel corso dei cento minuti che passano dal primo all’ultimo tunnel i ragazzi del pallone, allenatori e dirigenti inclusi, se ne scambiano a tonnellate d’insulti sanguinosi, tra quelli più gettonati nel buon mercato dell’offesa all’ingrosso. E dunque? Che si fa? Imponiamo la dittatura del galateo nella gabbia del macho?

«Mi ero innervosito per la decisione su Mertens, ho visto che lui si lamentava del recupero, sono cose da campo che dovrebbero finire in campo. I vecchi mi hanno sempre detto che quello che succede in campo finisce lì, poi ci si stringe la mano e finisce tutto. Ho chiesto scusa a Mancini negli spogliatoi, lui non le ha accettate perché era contrariato, domani penso le accetterà. E mi aspetto anche io delle scuse perché, da uomini di sport, se una persona ti chiede scusa sarebbe giusto accettare». È la risposta di Maurizio Sarri alle accuse di Roberto Mancini dopo la lite nel finale di Napoli-Inter. «Cosa che gli ho detto? Non lo ricordo - continua Sarri a Rai Sport - ero inferocito e può darsi che lo abbia offeso. Insulti omofobi? Mi sembra esagerato, erano insulti di rabbia e senza secondi fini. Gli posso aver detto democristiano, gli posso avere detto qualsiasi cosa, ma non mi ricordo. Non ce l'ho con Mancini, mi è scappata una parola e ho perso lucidità dopo l'espulsione di Mertens perché per me non era simulazione. Certe litigate però non dovrebbero uscire dal campo e non è normale questo. Scuse agli omosessuali? Mi è sfuggito questo termine, ma da parte mia non c'è discriminazione di nessun tipo». ''Negli spogliatoi ho cercato Mancini e mi sono scusato. Ma lui non le ha accettate e mi ha detto: ''Sei un vecchio cazzone''. Mi sembra abbastanza razzista questa cosa''. E ora Sarri rischia 4 mesi di squalifica per le regole FGCI...

Maurizio Sarri non è nuovo a dichiarazioni sugli omosessuali. Ai tempi dell'Empoli, in Serie B, l'attuale tecnico del Napoli sbottò in conferenza stampa dopo un ko con il Varese. «Il calcio è diventato uno sport per froci - disse -. Abbiamo subìto il doppio dei falli, ma abbiamo avuto più gialli noi. E' uno sport di contatto e in Italia si fischia molto di più che in Inghilterra con interpretazione da omosessuali».

Sarri ha sbagliato, sue parole gravi e inopportune. Ma è incredibile il processo mediatico che ha subito in Rai, scrive Valerio Andalò. Dopo Milk e Andrews ecco Mancini, Nagatomo, Felipe Melo novelli paladini per i diritti della comunità LGBT. Da stasera, grazie alla denuncia di Roberto Mancini, eroe dei nostri tempi e degno erede di Martin Luther King, il mondo sarà finalmente un posto migliore. Mancano pochi minuti al fischio finale di Napoli Inter, con i nerazzurri in vantaggio. Mancini protesta, Sarri pure, la tensione è alle stelle. I due allenatori litigano, se ne dicono di cotte e di crude e alla fine vengono espulsi. A match concluso, durante le interviste di rito, ecco il j'accuse dell'allenatore nerazzurro: "Sarri è un razzista, mi ha dato del frocio. Non può stare nel mondo del calcio". Dopo questa affermazione, uno "scosso ed emozionato" Mancini si congeda dai giornalisti preferendo lasciare il San Paolo. Nel mentre la Società di Appiano Gentile imponeva il silenzio stampa ai suoi tesserati. Su mamma RAI (Zona 11 pm, trasmissione condotta da Marco Mazzocchi) inizia il processo mediatico, come se già non bastassero le agenzie di stampa, anche internazionali, e la rete. Sarri è messo sulla graticola fin dall'inizio, si chiedono punizioni esemplari e si sostiene che l'omofobia del tecnico toscano sia "reiterata". In particolare Giampiero Timossi, che si distinguerà per tutta la serata sottolineando il gesto eroico di Mancini e criticando aspramente l'allenatore toscano, attribuisce a Sarri ulteriori "esternazioni omofobe". Pronunciate in epoche passate e in campionati minori e per questo passate inosservate. Nel frattempo "il becero razzista" interviene in diretta. Visibilmente contrito e mortificato ripete più volte di aver sbagliato, sostiene di essersi scusato con Mancini, ricorda il suo passato e ritiene che certe cose potrebbero pure chiudersi al fischio finale. Apriti cielo, già messo alla berlina da tutto lo studio (Di Marzio escluso), la dose viene rincarata. Si richiedono nuovamente pene esemplari, si sottolinea per l'ennesima volta l'eroico comportamento di Mancini, neppure fosse Libero Grassi e si spera che questo spiacevole episodio possa servire a qualcosa, essere utile "affinchè qualcosa cambi nel mondo del calcio". Peppino Impastato Timossi, supportato egregiamente da Marino Bartoletti Mujica, chiedeva la scomunica di Sarri, riteneva che questa volta non si poteva stare zitti e voltarsi dall'altra parte, si vergognava per come i magazine esteri avessero trattato lo scottante caso. Il tutto condito da Marco Ponzio Mazzocchi che, tra un balbettio e una banalità, se ne lavava le mani mentre scorrevano in sovraimpressione i numerosi tweet degli ascoltatori, campioni del politically correct. Ebbene, una vera e propria fiera dell'ipocrisia. Nessuno ha ricordato le numerose interviste di Sarri, da sempre uomo colto, sensibile e progressista. Nessuno ha ricordato le frasi di Lippi e di Moggi (che crede di essere un novello Matteotti) sugli omosessuali. Nessuno ha ricordato i comportamenti dell'ex DS bianconero. Nessuno ha ricordato il coro di Mandorlini o le esternazioni di Tavecchio sui gay, le donne e gli extracomunitari (il quale tra l'altro dovrebbe esprimersi con parole non lusinghiere nei confronti di Sarri in quanto Presidente della Figc. E qui si ride di gusto). Nessuno ha ricordato le parole di Borriello a proposito di Saviano, nessuno ha ricordato le frasi Lotito o di Conte sulla magistratura. Nessuno ha ricordato i casi Sculli e Bari. Nessuno ha ricordato i canti dei tifosi dell'Hellas all'indomani della morte di Morosini e della strage nel Canale di Sicilia. Nessuno ha ricordato lo striscione pro mafia esposto a Palermo. Nessuno ha ricordato il comportamento di una parte della tifoseria della Roma dopo la morte di Ciro Esposito. Ma si potrebbe continuare all'infinito, tra tesserati e ultrà, non propriamente eredi di monsignor Della Casa. Soprattutto sono passate in secondo piano le offese che tutte le domeniche (e non solo) i napoletani devono subire in quasi tutti gli stadi (e non solo) della penisola. Ma in questo caso si tratta solo di goliardia, mica si spera davvero che il Vesuvio "si risvegli". Per il resto nessuna difesa d'ufficio spetta al tecnico toscano. Sarri ha sbagliato, ha usato parole gravi e inopportune e in certi contesti le parole hanno un peso specifico non indifferente. Ma si deve anche riconoscere che l'allenatore azzurro si è assunto le proprie responsabilità, ha affrontato i giornalisti ammettendo le sue colpe, si è dato in pasto ai media senza cercare giustificazioni puerili. Non si è dato alla macchia trincerandosi in un colpevole silenzio come avrebbero fatto alcuni suoi colleghi. Non ha negato a prescindere. Viceversa "lo sfogo pubblico" di Mancini e il successivo fuoco incrociato di alcuni giornalisti sono parsi sospetti. Man mano che passavano i minuti e la polemica montava è forse balenata nelle menti di alcuni la parola destabilizzazione? Come diceva Andreotti a pensar male a volte ci si prende.

Sarri vs Mancini, le polemiche, l’ipocrisia, le reazioni. Un tema caldo e spinoso, una polemica di tipo internazionale. Ho riassunto il mio pensiero in punti. Ora andiamo avanti, scrive il 20 gennaio 2016 Leonardo Ciccarelli su “Fan Page”. Ennesima polemica, ennesimo teatrino, ennesima sceneggiata tutta italiana. La questione è spinosa, difficile, non chiara come la stanno facendo i media italiani o i tifosi partenopei. Andiamo per gradi.

Gli insulti. Gli insulti nel calcio ci sono, nello sport stesso ci sono. E' intrinseco forse della natura umana sparare fuori cose poco piacevoli mentre si fa uno sforzo fisico o mentale per battere un diretto avversario. Possiamo definirlo naturale quasi. Vige una regola fondamentale però perché parafrasando ciò che si dice di Las Vegas: ciò che si fa in campo, resta sul campo. La manfrina indegna di Mancini davanti alle telecamere è ipocrita e fuori luogo, premeditata. Va detto altrettanto che l'insulto di Sarri apre un nervo scoperto e va condannato senza se e senza ma. Poteva/doveva rispondere in altro modo il tecnico toscano.

Razzismo-Omofobia. C'è una differenza tra queste due parole. I due tecnici hanno davvero usato a sproposito il termine "Razzismo" per indicare ciò che è successo ieri. Mancini ha aperto le danze definendo razzista l'insulto di Sarri, che è chiaramente omofobo. Sarri ha risposto in conferenza stampa dicendo che l'esclamazione "Vecchio di merda" è razzista. No signori, non ci siamo. E' un tema delicato che stiamo facendo scadere in una puntata di "Vrenzole" dei The Jackal. Il razzismo è quello che subiamo settimanalmente quando su tutti i campi ci danno il "Benvenuto in Italia", l'omofobia è ritenere insulto l'avere un orientamento sessuale diverso dal proprio.

L'ipocrisia, quella di Sarri. Il tecnico non può dire che è il primo vocabolo che gli è venuto in mente, non è la prima volta che succede perché anche ai tempi dell'Empoli in B successe un episodio simile che fu duramente condannato. Ovviamente una cosa è farlo contro il Varese, l'altra contro l'Inter.

L'ipocrisia, quella di Mancini. Il tecnico dell'Inter si è riempito la bocca con la parola "Razzismo". Un gesto ipocrita e fuori luogo da chi con l'amico Mihajlovic apostrofava con "Negro" e lo insultava tutti i calciatori con un colore di pelle diverso dal proprio. Un gesto ipocrita e fuori luogo da chi difende i tifosi dell'Inter quando si fanno vedere con le buste della spazzatura e le mascherine ogni volta che affrontano il Napoli, dicendo che sono solo sfottò.

L'ipocrisia, quella italiana. Ieri mentre il popolo dell'etere calcistico si indignava condannando Sarri, su altre reti nazionali andava di scena una prosopopea sul matrimonio gay, con più contrari che favorevoli. Un'ipocrisia tutta italiana che si indigna se Sarri dice "Frocio" ma vota per anni Berlusconi che dice "Meglio appassionato di belle ragazze che gay". Un'ipocrisia all'inverso, quella napoletana, che difende a spada tratta Sarri, che ha sbagliato. Difendere Sarri in questa situazione quando pochi mesi fa si aveva la bandiera arcobaleno per festeggiare la legge americana sui matrimoni tra coppie dello stesso sesso è ipocrisia allo stato puro. Altrettanto ipocrita è difenderlo per un insulto del genere. Pensate a parti inverse, con Mancini che dà del terrone a Sarri. Cosa sarebbe successo?

Le scuse. Offendere in un momento di rabbia e tensione è successo a tutti nella vita ed è umano, chiedere scusa, invece, succede a pochi. In questo Sarri è stato un signore, Sarri che sicuramente non è un omofobo e che ha chiesto scusa a Mancini, alla Rai, in conferenza, ovunque ci fosse stato bisogno. Mancini pare che le scuse non le abbia accettate. Indigniamoci anche per questo, rifacendoci al punto sugli insulti.

Lo shock. Siete sicuri di vivere nel terzo millennio? No perché se lo siete andate a leggere i commenti sulle pagine dei tifosi del Napoli. Rabbrividirete.

L'arcigay. "Ci tengo a precisare che non voglio puntare in nessun modo il dito contro Sarri, non servirebbe a niente. Quello che voglio far capire che questi tipi di offese avvengono sui campi di serie minori tutti i giorni senza che nessuno se ne prenda cura". Il punto focale della questione è questo e lo centra in pieno il delegato nazionale dell'Arcygay, Antonello Sannino in diretta a Club Napoli All News su Teleclubitalia. L'insulto di Sarri è grave perché è in cima alla piramide, non perché lo abbia fatto lui contro Mancini. Poteva farlo chiunque, sarebbe stato uguale.

L'estero. All'estero la polemica è stata ripresa pari pari, questo dovrebbe far pensare tifosi e colleghi. I giornalisti dell'estero non vogliono destabilizzare la squadra ma ritengono ugualmente gravi gli insulti di Sarri. Questione che a Napoli non si è colta. Ora il tecnico rischia una squalifica, perché nello sport professionistico non valgono le regole dei campetti di quartiere. Perché Suarez ha chiamato "Negro" Evrà ed è stato squalificato per 8 giornate, nonostante lo abbia fatto in campo. Il professionismo è questo. Se in tv un telespettatore chiama e dice cose contro qualcun altro, il giornalista è tenuto per legge a distaccarsi altrimenti è punibile quanto chi lo ha detto. Questo è il professionismo, questa è la differenza tra Serie A e Eccellenza.

L'inaccettabile moralismo, scrive Dario De Martino su “Tutto Napoli” - “Ho avuto amici omosessuali che sono rimasti amici per tutta la vita”. Non abbiamo dubbi sul fatto che Maurizio Sarri non sia omofobo. Così come non c’è dubbio che Maurizio Sarri abbia sbagliato, e lo diciamo a chiare lettere. L’uscita del tecnico azzurro è stata sicuramente pessima e da condannare. Il tecnico bagnolese, ascoltato a fine partita dalla procura federale, subirà le adeguate conseguenze per queste parole assolutamente fuori luogo. Ma è pure vero che la tensione del campo porta a dire tante parole che in altre circostanze mai Maurizio Sarri avrebbe detto. Se ne sentono tantissime di bestemmie e frasi irripetibili nel rettangolo di gioco. E' una giustificazione!? No, assolutamente! Ma Mancini conosce bene certe dinamiche e avrebbe dovuto chiarire faccia a faccia con Sarri la questione, senza scatenare un putiferio mediatico. Invece l'allenatore jesino ha preferito dirle in pubblico. Il sospetto è che l'abbia fatto per seminare bufera nel meraviglioso clima che si respira a Napoli. E sembra ci stia riuscendo. A leggere i primi titoli di certa stampa e le prime parole degli opinionisti del nulla, si è già capito l'andazzo delle prossime settimane: un processo infinito a Maurizio Sarri e tanta, tantissima ipocrisia. Infine, e chiudiamo qui la brutta parentesi, ricordiamo che Mancini giudicò come semplici sfottò i soliti cori contro Napoli, che pure ieri si sono sentiti dal settore ospiti. Per questo non sono accettabili da lui lezioni di moralismo. “Il moralista dice di no agli altri, l'uomo morale solo a se stesso” (Pier Paolo Pasolini).

Sarri sbaglia e chiede scusa. Le accuse incoerenti dell'"impeccabile" Mancini celano una strategia, scrive Gennaro Di Finizio il 20.01.2016 su Tutto Napoli.net..“Sarri è razzista. Uomini come lui non possono stare nel mondo del calcio. Ha usato parole razziste, mi sono alzato per chiedere dei cinque minuti di recupero. Ha gridato frocio, finocchio. Sono orgoglioso di esserlo se lui è un uomo, persone così non dovrebbero stare nel calcio”. Ha esordito così Roberto Mancini nel post partita del match vinto contro il Napoli. Accuse gravi, rivolte all'indirizzo di Maurizio Sarri per quel parapiglia venutosi a creare nel finale di partita. Il tutto da una lamentela dello stesso Mancini all'indirizzo dell'arbitro. Una lamentela, già di per se un atteggiamento che l'allenatore da buon moralizzatore dovrebbe redarguirsi. Ma Sarri non si nasconde. L'allenatore del Napoli non costruisce scuse davanti alla telecamere, se non quelle rivolte all'allenatore nerazzurro e non accettate. "Mi ero innervosito per l'espulsione di Mertens, non ce l'avevo assolutamente con Mancini. Ho visto che si lamentava per i minuti di recupero e mi è scappata una parola, ma sono cose da campo e dovrebbero terminare lì gli ho chiesto scusa e lui era contrariato”. Un battibecco che farà discutere, una polemica sollevata ad hoc da Roberto Mancini. In campo l'Inter non ha meritato in maniera netta la vittoria, bisogna dirlo, e le differenze sotto il punto di vista del gioco evidenziate nel corso del campionato, sono state chiare anche nella serata di coppa Italia, seppur il Napoli non abbia giocato la sua miglior partita. Chiaro che l'allenatore nerazzurro abbia sollevato una questione “da campo” come la definisce Sarri, probabilmente anche per andare a destabilizzare un ambiente come quello partenopeo che sta vivendo un momento di puro entusiasmo. Un attacco che viene da fuori del rettangolo verde, costruito su un episodio dal moralismo facile. Una situazione controversa, che adesso Sarri dovrà gestire nel migliore dei modi. Certo, il moralizzatore Mancini ci ha messo poco a lanciare accuse di razzismo a Sarri. Ma, forse, il moralizzatore non ricorda bene il modo in cui egli stesso ha gestito la questione dei cori razzisti, rivolti proprio dai suoi tifosi verso i napoletani (episodio verificatosi, tra l'altro, anche ieri sera). "Era solo uno sfottò, come ce ne sono ogni domenica su tutti i campi", giustificò Mancini quando gli si rivolse una domanda proprio riguardante la questione dei cori razzisti ai partenopei: “Non è stato bello leggere certe scritte, ma non si è trattato di una cosa così grave". Niente di grave, quindi. Mentre le parole di Sarri, dettate da un momento concitato dovuto all'emotività della partita, sono state definite “accuse gravi”, da persone che “non dovrebbero stare nel calcio”. Cose da campo, come quelle che successero tra lui e Balotelli ai tempi del Manchester City, quando il moralizzatore ed il suo giocatore vennero addirittura alla mani. Un comportamento riprorevole, quello. L'allenatore del Napoli ha sbagliato e chiesto scusa, e questo dovrebbe bastare, ma Mancini in TV ha raccontato quello che è successo tra lui e Sarri, accusandolo di razzismo.Adesso mi chiedo: perchè il signor Mancini non ha raccontato la sua minaccia a Sarri? ( ti aspetto fuori...)e le sue offese....(sei un vecchio coglione di...) Perchè non ha fatto la stessa cosa quando i tifosi del Napoli, giocatori e allenatore vengono bersagliati da insulti e cori razzisti ad ogni partita ? perchè non ha fatto la stessa cosa sulle esternazioni omofobe e antisemite di Tavecchio?...Questa ipocrisia last minute non va bene affatto, perchè Mancini sa da uomo navigato che sul campo e sulle panchine capita di tutto durante una partita.Quanti giocatori bestemmiano in campo? che facciamo: li accusiamo di blasfemia e li mettiamo al rogo? Mancini forse dimentica le sue dichiarazioni quando la curva dell'inter fu squalificata per cori razzisti contro il Napoli? ...(“era solo uno sfottò, come ce ne sono ogni domenica su tutti i campi”.....) Caro Mancini se è solo uno sfottò allora siamo tutti Mancini e non aggiungo altro.

Quando Mancini non vedeva…, scrive Pierangelo Consoli il 20 gennaio 2016. Lite nel dopo gara: Mancini attacca Sarri per Omofobia, divampano le polemiche. Parole molto forti del Mancio e i giornalisti rincarano la dose. Il vero problema è che quest’anno del Napoli non si riusciva a dire nulla di male e la cosa puzzava a molti. Niente droga, discoteche, prostitute e malavita. Solo lavoro, sacrificio e meritocrazia. Questi termini che non si confanno all’idea nazional popolare che si ha del capoluogo campano, non era possibile, qualcosa di storto, di becero, ci doveva essere e adesso, come sempre accade, tutti ci sguazzeranno felicemente, come maiali nel fango. Quando Sinisa Mihajlovich tesseva le lodi di Željko Ražnatović, per tutti meglio noto come Arkan la tigre. Un criminale di guerra Serbo che per tutti i ruggenti anni novanta si è macchiato di crimini di Guerra, crimini contro l’umanità, genocidio e pulizia etnica. Quando Dejan Stankovich esibiva verso gli ultras Serbi con il numero 3, che sta ad indicare Dio, Patria e Zar, praticamente l’equivalente nazionalista serbo del saluto Nazista. Quando Paolo Di Canio correva verso la curva della Lazio come un esaltato, facendo proprio il saluto Nazista. Quando la curva dell’Inter venne squalificata per cori razzisti all’indirizzo dei Napoletani, a quel tempo, e in tutte le situazioni indicate precedentemente, Mancini manteneva il suo aplomb, sapeva minimizzare, volgeva ciuffo e foularino dall’altra parte. Certo è probabile che Il Mancio, conosca assai meglio la parola “Frocio” che la storia del ventesimo secolo, ma di sicuro, quando si tratta degli amici, è più facile farsi una risata, dire: “che ci vuoi fare…” o, persino, “sono cose di campo…”. Si perché questo è successo ieri, una cosa di campo. Certo Sarri ha sbagliato, usare certi termini è becero e offende la sua intelligenza, ammesso che le abbia davvero usate certe parole, perché Sarri ha avuto persino l’onestà di non smentire, ma nemmeno confermare, avrebbe potuto dire Mancini ha capito male e tutto finiva lì. Si sono usate parole assai dure, nel dopo gara, si è parlato di Omertà, di inadeguatezza a certi livelli, si è detto che è indifendibile, che le sue scuse non si possono accettare, e non si sono proferite a caldo, in preda alla trans agonistica, ma comodamente seduti in uno studio televisivo. Addirittura si sono andati a cercare i precedenti, dando vita ad un processo farsa stile Soviet. La verità è che negli sport di contatto certe cose accadono, sono sempre accadute, nel calcio, come nel rugby, come nel pugilato, solo che tutti hanno sempre avuto la decenza di soprassedere, una volta che il match era finito. Perché sono cose di campo, appunto, non si tratta di omertà, ma di osservare un codice, delle regole non scritte, ma che tutti hanno sempre osservato, che forse da fuori sembrano senza senso come osservare un dialogo tra sordo muti, ma chiare, chiarissime, a tutti quelli che appartengono ad un certo mondo. Mancini non è un eroe, è un permaloso, avrebbe potuto risolvere la cosa a quattrocchi, con il diretto interessato, invece ha fatto la figura dell’educanda, del catechista oltraggiato. E poi finiamola di dire sempre che all’estero certe cose non succedono, siamo stufi di essere offesi di provincialismo, all’estero accade tutto quello che accade anche da noi.

Sarri e l’ipocrisia del calcio, scrive Antonio Ruzzo il 20 gennaio 2016 su “Il Giornale”. Non per difendere Sarri, perchè si defende benissimo da sè e gli insulti a Mancini sono un brutto episodio. Però tutto questo casino ce lo potevamo risparmiare. Ce lo potevano risparmiare prima Sarri e poi Mancini. Gay, diritti civili, matrimoni omosessuali, adozioni sono argomenti che meritano scenari per discussioni più serie, non gazzarre da campo o da bar. E’ chiaro che all’allenatore del Napoli quella frase gli è scappata. E’ chiaro che ha detto una stupidaggine. Però poteva e forse doveva finire lì anche perchè il tecnico azzurro ha ammesso chiaramente di aver fatto una “cazzata” e ha chiesto scusa prima a Mancini e poi a tutti quelli che si sono sentiti offesi. E oggi chi chiede più scusa? Chi ha più il coraggio di andare davanti a una telecamere ad ammettere un errore? Ma il punto è un altro. Che l’antirazismo sia un valore è fuori discussione. Che la “lezioncina” venga dal calcio lascia un po’ più perplessi. Certo sono state fatte campagne pubblicitarie, le squadre se lo sono scritte sulle magliette che al razzismo si deve dire stop, le entrate in campo sono fatte tenendo pe mano bimbi di tutte le nazionalità e di tutti i colori. Bello, tutto molto bello come direbbe Bruno Pizzul. E allora che valga sempre. Che non sia una recitina ad uso e consumo proprio o di un momento o la rabbia che esplode contro un tecnico che tutti considerano un po’ un parvenu e che sta scombinando forse degli schemi acquisiti e non solo perchè va in panchina con la tuta. Perchè sinceramente così pare. Così pare in un movimento sono “morali” le scommesse anche clandestine, dove ai bambini molti allenatori insegnano a simulare, dove la mano di Maradona che inganna l’arbitro diventa la “mano de Dios”. In un mondo che dove l’omertà su scandali e molti altro è all’ordine del giorno, dove di doping e morti di Sla non se ne parla come se nulla fosse mai accaduto. Sembra la recitina di un mondo dove sugli spalti il razzismo è nei cori di tutti i giorni, negli striscioni, nelle aggressioni. Sembra una lezioncina che però arriva da un “prof” che fuma in classe. Allora viene da chiedere a Mancini, che questo polverone ha sollevato, dov’era quando il presidente Carlo Tavecchio insultava donne ed immigrati e soprattutto dov’è quando i tifosi dell’Inter (ma non solo loro) intonano i cori con “Napoli colera” o quando invitano il Vesuvio a seppellire la città?  Quando succederà ancora, perchè succederà, mister Mancini anzichè darsi una pettinata al ciuffo e girarsi dall’altra parte facendo finta di nulla, provi ad andare in mezzo al campo a gridare la sua rabbia…

Povero Sarri, scrive Paolo Di Caro, il 20 gennaio 2016 su “Quelsi”. Nel calcio fai presto ad affibbiare etichette senza senso a gente che guadagna milioni di euro l’anno, per poi andare in tilt al primo “frocio” urlato da un allenatore a un suo collega col ciuffo ribelle. Maurizio Sarri, scartato dal Berlusca per la panchina del Milan perché “comunista”, si avventurò in una intervista a tutto campo, nella quale anziché parlare di schemi, punizioni e calciatori, fu indotto da Andrea Scanzi (manco a dirlo) a raccontarci delle sue simpatie per Landini, del papà operaio, del nonno partigiano, delle sue letture impegnate a colpi di Bukowski, Fante, Vargas Llosa (i primi due li ho letti anch’io, a dimostrazione che di luoghi comuni si muore). Da ieri sera Maurizio Sarri è precipitato nell’inferno del razzismo, del sessismo, del “reazionarismo”, del pubblico ludibrio, della gogna mediatica, perché nel finale concitato di Napoli-Inter di coppa Italia, irritato da chissà cosa, avrebbe dato del “frocio e finocchio” a Roberto Mancini, subito corso in sala stampa a raccontarlo per dire che Sarri “non dovrebbe allenare più”. Scanzi e Mancini, due col ciuffo da intellettuali modaioli (parlo per invidia) che hanno dondolato a turno l’altalena di un uomo “normale”, coi suoi pregi e i suoi difetti, con “l’ignoranza” molto diffusa in un mondo che ti fa passare dall’anonimato alla ricchezza senza sottoporti a lezioni o esami di bon ton, galateo o politicamente corretto. Scanzi si affannò a farne una icona del “calcio operaio”, ossimoro postmoderno per definire uno dei pochi che non trovi nel tempo libero a sperperare i soldi “sudati” sul campo; Mancini, di contro, lo scaraventa nella melma, portandolo senza troppa fatica dalla parte sbagliata dei dibattiti contemporanei su razzismo e omofobia, quasi fosse un “maitre a penser” e non un bravo allenatore di provincia. Lui è Maurizio Sarri: mai stato Proudhon, tanto meno Jack lo Squartatore o un cacciatore di omosessuali; uno di provincia, si, con un linguaggio spesso borderline, a volte molto oltre la linea. Deve imparare a controllarsi e a non “bestemmiare” a favore di telecamera, come un Borriello qualsiasi, perché l’ipertecnologia non ti perdona nulla, anche quando la Coppa Italia la trasmette l’inguardabile e antidiluviana mamma Rai. In fondo, però, in un mondo ipocrita come quello del calcio la colpa è un po’ sua che c’è cascato: non poteva dire a Scanzi di leggere solo la Gazzetta dello Sport, riservandosi Bukowsky per una privatissima serata davanti al camino con sigaro e whisky irlandese? Adesso lapidatelo, suvvia.

Serie A Napoli, Giordano: «Sotto la tuta di Sarri c’era il fratello gemello». Il tecnico degli azzurri ha perso il controllo di se stesso, s’è lasciato andare in un linguaggio che (non solo pubblicamente) non gli appartiene, ha sfondato il muro del suono con un insulto che non può essere etichettato o classificato e s’è ritrovato al centro del villaggio globale, sopraffatto dalla comprensibile controreazione ad una frase choc che però non racchiude un uomo, che sa essere ironico e garbato, paradossale e istrionico e che comunque s’è lanciato nel vuoto, scrive Antonio Giordano il 20 gennaio 2016. L’estasi, poi la notte del tormento: il confine tra il palcoscenico e la gogna è sottilissimo, invisibile, però percettibile. È una voce (stonata) che s’alza nel san Paolo e diviene un’eco che fa il giro del Mondo, perché ormai il passaparola è un attimo, un clic, un mouse, è un universo che s’accende, si scatena, si infiamma, prende posizioni o sceglie di starsene distante, fiancheggia e sopprime per stile, per cultura, magari anche per simpatia o per fede (calcistica). È la moda del Terzo Millennio, o forse - più giustamente - è l’evoluzione del tempo, mica soltanto della tecnologia, che manipola, deforma, comunque diffonde in diretta ciò che avviene al campo o in osteria. S’è scatenata la sociologia di massa e, a scanso di qualsiasi equivoco, conviene subito sottolineare che Sarri ha perso il controllo di se stesso, s’è lasciato andare in un linguaggio che (non solo pubblicamente) non gli appartiene, ha sfondato il muro del suono con un insulto che non può essere etichettato o classificato (perché non ce ne sono di più gravi o di meno gravi: l’offesa, l’ingiuria, sono sgradevoli e basta) e s’è ritrovato al centro del villaggio globale, sopraffatto dalla comprensibile controreazione ad una frase choc che però non racchiude un uomo, che sa essere ironico e garbato, paradossale e istrionico e che comunque s’è lanciato nel vuoto. È successo tutto in una frazione di secondo, ciò che basta per staccare la lingua dal cervello, per disperdersi nell’enorme contenitore mediatico, però è stato un lampo, ahilui abbagliante e fulminante che non può incenerire una vita. E’ stata una spiacevole e dolorosa deviazione da sé che però ha prodotto un’immediata conversione, le scuse in pubblico ed il pentimento sincero per aver riprodotto una versione distorta della propria identità: sotto la tuta c’è un altro Sarri, che esce dal san Paolo sconvolto, stordito, turbato dal fratello «gemello» (direbbe Carletto Mazzone), quello che gli ha preso posto per un secondo e che è già stato scacciato via.

Sarri, l’omofobia e la gogna mediatica: la virtù (stavolta) non sta da nessuna parte, scrive Francesco Maria Romano il 20 gennaio 2016. Polemica Sarri-Mancini. Il tecnico toscano canonizzato dai media: ha sbagliato e pagherà, soprattutto per aver toccato un tasto dolente; pronti 4 mesi di stop. Il quarto di finale di Coppa Italia giocato ieri allo Stadio San Paolo, che ha visto l’Inter battere per 2-0 il Napoli, passerà agli annali non tanto per le prodezze di Jovetic e Ljajic valse ai nerazzurri il raggiungimento delle semifinali, ma piuttosto per la polemica generatasi tra i due allenatori. Nel post-gara, Roberto Mancini si è presentato visibilmente scosso ai microfoni della RAI, denunciando gravi offese ricevute dal collega (“E’ un razzista, mi ha dato del frocio; gente così nel calcio non dovrebbe starci“) e lasciando l’intervista senza parlare della partita (lo farà poi, parzialmente, ai microfoni di Inter Channel); la parola è passata poi a Sarri che interpellato sulla vicenda ha fornito la propria versione: “Ero furioso per l’espulsione di Mertens; l’insulto è figlio della rabbia, mi scuso ma sono cose che dovrebbero restare in campo“. Successivamente, il tecnico del Napoli è stato interrogato dalla Procura Federale fino a serata inoltrata (00.30), prima di lasciare lo stadio; secondo quanto riferisce oggi la Gazzetta dello Sport, rischia fino a quattro mesi di squalifica. Prevedibilmente, le parole di Mancini hanno innescato il classico tam-tam mediatico a mezzo social, spaccando l’opinione di stampa e tifo tra “colpevolisti” e “giustificazionisti” (oltre ad uno scadentissimo filone “complottista”). A tal proposito, vale la pena approfondire come e perché la gaffe di Sarri abbia dato adito ad un così vasto movimento disquisitorio, malgrado il calcio italiano sia tutt’altro che esente da episodi esecrabili. Mancini (e i giornalisti presenti in RAI) ha testualmente parlato di “razzismo” ed “omofobia”, due termini che, nella loro accezione più stretta, presuppongono discriminazione e pertanto rappresentano un’accusa ci un certo spessore nei confronti di Sarri. Di contro, la polemica ruoto attorno all’epiteto “frocio”, inteso comunemente come sinonimo di omosessuale. Tale termine, usato in senso spregiativo e diffamatorio, afferisce ad un radicato quanto bigotto segmento della cultura italiana, tendente ad additare gli omosessuali in maniera canzonatoria più che discriminatoria, conservando un fondo di volgarità ed ignoranza; insomma, in parole povere, un modo desueto e finanche puerile di “offendere”, tale solo nella percezione di chi considera l’omosessualità come patente di inferiorità. Detto questo, e al netto delle stress e della tensione che si possono accumulare durante la partita (la principale “attenuante” che si è concesso Sarri), quella del tecnico del Napoli è stata sicuramente un’uscita infelice, che non è passata inosservata presso gli organi di competenza e che avrà quasi certamente delle ripercussioni disciplinari, com’è giusto che sia. Sulla “delazione” di Mancini, che, a seconda dei punti di vista, ha “denunciato” o “fatto la spia” (la scelta dell’espressione più congrua la lasciamo ai lettori) si registrano due fronti d’opinione piuttosto compatti: “giusto denunciare” -come ha affermato Timossi in RAI- opposto ad un “sono cose che dovrebbero restare in campo” – come dichiarato da Pepe Reina nel post gara. Oggettivamente, la scelta di Mancini appare assolutamente legittima: non c’era (e non c’è) motivo per cui un episodio del genere non venga apertamente sdoganato a mezzo stampa; di contro, questo ha sovraesposto Sarri ad un’autentica inquisizione mediatica al quale il toscano ha fatto fatica a reagire lucidamente. La sosta ai microfoni della RAI è stato un autentico calvario: Gianni Di Marzio (pur appoggiando la tesi del “certe cose rimangono in campo”) ha comunque definito Sarri “indifendibile”; Timossi, senza giri di parole, ha chiesto al tecnico se avesse “dato dall’omosessuale a Mancini“. Le repliche del tecnico si sono rivelate francamente sconnesse e colpevoli di una certa fragilità, da “ho provato a scusarmi” a “ho molti amici omosessuali” fino a “queste cose dovrebbero rimanere in campo”. Stessa linea, più o meno, anche in conferenza stampa. Di fronte alle telecamere, è apparso un Sarri provato dallo stress e diplomaticamente impreparato ad arginare la vasta eco generata dalla “denuncia” del collega. A completamento della nostra analisi, val bene una riflessione sulle reazioni di tifo e stampa, in particolare quelle non strettamente relate ed influenzato dagli schieramenti di tifo. In generale, c’è stata una risposta virale e virulenta a quanto accaduto al San Paolo, che ha rapidamente trasceso i confini di Napoli-Inter. Un episodio di campo si è rapidamente esteso in un dibattito etico-sociologico, evidenziando come l’opinione pubblica del nostro paese sia piuttosto sensibile al tema dell’omosessualità, pur declinato in maniera così goffa nell’affaire Sarri-Mancini. La radicata cultura cattolica della maggior parte degli opinionisti e non, ha partorito roccaforti di opinione severe, quasi marziali, orientate al giustizialismo nei confronti di una persona in chiara difficoltà dialettica e diplomatica. L’Italia si è mostrata pertanto straordinariamente reattiva all’allarme omofobia/razzismo e di questo non possiamo che compiacerci: di contro, però, ricordiamo come esiste la diffusa tendenza a minimizzare quegli episodi che vedono la città di Napoli e la sua gente oggetto di cori e striscioni dal contenuto, a nostro avviso, non meno grave. Se da un lato, non si tratta di casi equiparabili o equivalenti, dall’altro pongono lo stesso problema di fondo, ovvero la presenza di una certa “cattiva cultura” che è più facile condannare che comprendere. A chiudere, almeno dal punto di vista disciplinare, la vicenda (tutt’altro che edificante, di per sé e nella sua evoluzione) dovrebbe arrivare la decisione del Giudice Sportivo; dopodiché spetterà a Sarri e Mancini esporsi per archiviare in maniera definitiva un capitolo di questa stagione di cui avremmo fatto volentieri a meno.

Sarri offende Mancini ed il mondo del calcio scopre il razzismo! Scrive Dario Giuffrida, mercoledì 20 gennaio 2016. Il Napoli esce dalla Coppa Italia, l’Inter espugna il S.Paolo dopo lungo digiuno datato 1997 qualificandosi per la semifinale ma la vera notizia, quella che tiene banco e fa velocemente il giro del mondo, è la lite tra Sarri e Mancini, anzi, le offese di stampo razzista pronunciate dal tecnico del Napoli nei confronti del collega nerazzurro. Ripercorriamo velocemente i fatti: siamo al termine della gara di gioco  e, come da prassi, il quarto uomo indica i minuti di recupero ma , come sempre accade, se per chi sta vincendo i minuti risultano eccessivi contemporaneamente  sono troppo pochi per chi ha bisogno di recuperare il risultato; anche ieri sera , all’accensione della lavagnetta luminosa,  si è verificato il solito siparietto con Mancini accanto all’arbitro a protestare per l’eccessivo recupero e Sarri a chiedere  esattamente il contrario  solo che, diversamente (forse?) dalle altre volte, il buon tecnico del Napoli , da “toscanaccio” qual’è, ha condito le proteste con termini  poco eleganti provocando la reazione prima indignata e poi violenta del “dandy” nerazzurro che viene bloccato  fisicamente dall’ufficiale di gara e quindi espulso dal campo. Ci penserà Mancini, a fine gara, svelando nei dettagli al giornalista intervistatore e quindi ai milioni di telespettatori, i motivi per cui aveva avuto una reazione così violenta; in pratica il tecnico del Napoli aveva usato nei suoi confronti termini di forte contenuto razzista e di stampo “omofobo “!  Ma il bello doveva ancora venire perchè l’allenatore di Jesi, concludendo l’intervista, con un attacco frontale elegante nei toni ma di forte impatto mediatico, metteva in pratica nei confronti di Sarri, una vera e propria gogna mediatica: “Mi ha dato del……..  è un razzista, si dovrebbe vergognare”. Il tecnico nerazzurro, sfogandosi come un fanciullo davanti ai microfoni di mamma Rai, proseguiva così: “A 60 anni non ci si può comportare così, mi ha chiesto scusa ma dovrebbe vergognarsi, gente come lui non può stare nel calcio”. Ok Mister Mancini , Lei  ha ragione da vendere, la volgarità, la violenza di ogni tipo, anche verbale, non trova e non troverà mai una giustificazione ma, Vede, c’è qualcosa, nel Suo moralismo, che odora di eccessivo e, quindi, di falso :  probabilmente sarebbe stato più credibile se  avesse denunciato queste cose in passato  con la stessa veemenza e provato la medesima indignazione per le frasi volgari e le offese pronunciate dai suoi calciatori agli avversari di turno  oppure avesse deprecato le offese di stampo razzista (Vesuvio lavali col fuoco!) indirizzate nei confronti del popolo napoletano  puntualmente cantate anche ieri sera dai  supporters nerazzurri ma , si sa, quando si tratta  di offendere Napoli ed il suo popolo sembra tutto lecito, giustificabile, non fa testo !   La stessa considerazione valga per tutti i giornalisti che hanno cavalcato immediatamente la notizia facendo a gara nel crocifiggere un mortificato Sarri colpevole, senza appello, di aver profanato il dorato e puro mondo del calcio nonostante avesse, prontamente, chiesto scusa. E’ per questo che questa denuncia di Mancini sa di strumentale ed il suo ruolo di moralizzatore intempestivo, sarà forse perchè la sconfitta di campionato ed il titolo di campione d’inverno, scippato al fotofinish, è stata per il buon “Mancio” una pillola difficile da ingoiare e probabilmente, dulcis in fundo, in Napoli comincia a far paura?

Napoli, dopo la lite con Mancini i gay vogliono la testa di Sarri. Sono già al giudice sportivo gli atti sulle offese di Sarri a Mancini, ieri dopo Napoli-Inter, scrive Mario Valenza, Mercoledì 20/01/2016. Sono già al giudice sportivo gli atti sulle offese di Sarri a Mancini, ieri dopo Napoli-Inter. Sarà con ogni probabilità proprio Tosel, che ha già in mano il rapporto degli ispettori della Procura federale con le audizioni immediate dei 2 tecnici, a valutare l’entità delle eventuali sanzioni a Sarri. Si va da una multa o una squalifica breve, in caso le frasi vengano definite "dichiarazioni lesive" fino a una squalifica di "non meno di 4 mesi" se Tosel le riterrà "frasi discriminatorie". Resta aperta la possibilità che il giudice chieda un supplemento di indagini alla procura. Intanto le parole di Sarri hanno scatenato diverse polemichye nel mondo delle associazioni per i diritti degli omosessuali. "Sarri ci ricasca. Dopo due anni torna agli insulti omofobi, questa volta contro il tecnico dell'Inter Mancini, apostrofato come 'frocio, finocchio' al termine della partita di Coppa Italia. Come napoletano e tifoso del Napoli mi vergogno per le parole di Sarri, per cui chiediamo una sanzione esemplare. Chiediamo ad Aurelio De Laurentis e a Tavecchio di incontrarci, ci piacerebbe che il calcio lanciasse una grande campagna contro l'omofobia, uno sport così popolare non può permettersi messaggi di violenza". Così in una nota il portavoce del Gay Center, Fabrizio Marrazzo.

Il coro dei cronisti napoletani: “Il vero obiettivo è il Napoli”, scrive il 20 gennaio 2016 Alberto Francesco Sanci. La polemica scoppiata nel dopopartita del match di ieri sera tra Napoli e Inter, valido per i quarti di finale di Coppa Italia, è di quelle forti e complicate. Il tema è delicato e non ci sono moltissimi precedenti che possano far prevedere gli scenari futuri. La sensazione, però, che un battibecco comunque deprecabile possa essere strumentalizzato per destabilizzare l’ambiente napoletano, mai come quest’anno sotto le luci della ribalta, è forte e diffusa. Molti dei giornalisti che seguono da vicino e con maggiore passione il Napoli hanno commentato nelle scorse ore l’accaduto, sottolineando che, da un lato gli atteggiamenti di Roberto Mancini, e dall’altro quello dei giornali e dei media che hanno cavalcato l’onda lunga della questione, tutto sembra essere mirare a rovinare il momento positivo attraversato dalla società e dall’ambiente partenopei. Carlo Alvino, telecronista Sky e giornalista di Tv Luna, ha così commentato: “Ingenui o in malafede coloro che credono che Mancini si sia sentito offeso da Sarri. Ma quale omofobia. È il Napoli il vero obiettivo!”. Raffaele Auriemma, telecronista Mediaset, ha invece usato le seguenti parole su Twitter, lasciando un hashtag di solidarietà all’allenatore azzurro: “Vergognoso attacco mediatico dopo Napoli-Inter con intenti destabilizzatori: altro che omofobia, il problema è lo scudetto. #iostoconsarri”. Ancora più dettagliato il commento di Luigi Roano, giornalista de Il Mattino, particolarmente critico con Sarri nell’estete scorsa, che amplia la questione esprimendo qualche perplessità sulla denuncia pubblica di Mancini davanti alle telecamere Rai: “Solo un vigliacco va in televisione a fare il falso moralista denunciando banalissime gergalitá. Certo poco eleganti. Ho tanti amici gay sono sicuro che loro sono i primi che se la ridono. Chi bestemmia in campo allora è anticattolico e va messo al rogo? E poi perché quando il Napoli gioca a Milano e lì si che ci sono i razzisti non dice che san siro va chiuso? La realtá é che fuori dal mondo si é messo lui. Il Napoli é forte e sarà ancora più rabbioso. Inutile che faccia giochetti. Una cosa è certa, comunque vada, tutti con SARRI! Un grande uomo e un maestro di calcio. Io chiedo scusa al mister per il becerume che c’é in tivvù e perché gli ho mosso critiche irriguardose in estate. Forza Maurizio non mollare mai”. Il fatto che gli insulti siano sempre da condannare è fuori discussione. Ma che l’episodio, purtroppo non così raro sui campi da calcio di tutte le categorie, sia stato colto come l’occasione per minare credibilità e valore del tecnico del Napoli, appare ormai evidentissimo. La sensazione si rafforza a ogni lettura, ascolto, visione delle cronache dei media mainstream.

L'incoerenza di Mancini, quando disse: "Striscioni razzisti? Siete dei falsi moralisti, non fateli vedere!". In molti contestano la decisione di Roberto Mancini di presentarsi davanti ai microfoni del post gara Napoli-Inter e rivelare lo scambio di insulti avvenuto con il tecnico del Napoli Maurizio Sarri. Lascia qualche perplessità la logica che ha spinto il tecnico dell'Inter a fare questo passo, essendo stato in passato su posizioni opposte in merito a questioni altrettanto spinose. Un esempio, andando indietro nel tempo, furono le sue dichiarazioni, datate 2007, dopo alcuni striscioni a sfondo razzista esposti a San Siro durante un Inter-Napoli. "Napoli fogna d'Italia", "partenopei tubercolosi" e "Ciao colerosi". Le sue dichiarazioni furono diametralmente opposte anche se il terreno di discussione era a sfondo razzista: "Iniziate a non farli vedere, quegli striscioni. Voi fate cronaca? E io dico la mia... Siete dei falsi moralisti".  Il giudice sportivo non seguì il suo consiglio e squalificò la curva nerazzurra proprio per razzismo territoriale. Pensieri che si incrociano a distanza di tempo e che mettono in evidenza una mancanza di incoerenza da parte del tecnico nerazzurro.

Mancini e il politically correct che tarpa le ali alla libertà d'espressione. Froci, zingari, clandestini e handicappati non esistono più. La "neolingua" impone gay, rom, migranti e diversamente abili e ora invade anche i campi di calcio, scrive Francesco Curridori, Mercoledì 20/01/2016, su "Il Giornale". “Sarri è un razzista, uomini come lui non possono stare nel calcio. Mi son alzato per chiedere al quarto uomo del recupero. Lui ha iniziato ad inveire contro di me, dicendo ‘frocio e finocchio’ Sono orgoglioso di esserlo se lui è un uomo. Persone come lui non possono stare nel calcio, se no non migliorerà mai. Ha 60 anni, si deve vergognare”. Con queste parole Roberto Mancini rischia di inguaiare Maurizio Sarri. I due allenatori hanno avuto un brutto battibecco al termine della partita di Coppa Italia e l’insulto scappato al coach del Napoli rischia di costargli caro. Secondo le norme della Figc chi ha “stop "un comportamento discriminatorio e ogni condotta che comporti offesa per motivi di sesso" ​rischia quattro mesi di squalifica che andrebbero scontati anche in campionato. Mancini ha rotto la regola aurea del calcio che può essere riassunta con la frase di un celebre film:“ciò che avviene dentro il miglio verde rimane dentro il miglio verde” e così il web si è diviso su Twitter tra chi scriveva #iostoconMancio e #iostoconsarri. Siamo all’apoteosi del politicamente corretto. Fabrizio Marrazzo, portavoce di Gay Center ha chiesto un incontro con il presidente del Napoli, Auelio De Laurentis e Carlo Tavecchio, presidente della Figc perché “uno sport così popolare non può permettersi messaggi di violenza". Siamo sicuri che molti di questi benpensanti di sinistra che si indignano per un “frocio” scappato in un campo di calcio, dove gli insulti e le bestemmie sono di casa, sono scesi in piazza a difesa della libertà d’espressione quando l’Isis ha fatto la strage di Charlie Hebdo. Fintanto che si insulta la Chiesa cattolica o qualcuno dipinge un Gesù Cristo immerso nella pipì tutto va bene ma se si dice frocio, zingaro, clandestino, cieco o handicappato allora apriti cielo. Nella neolingua dei benpensanti frocio deve chiamarsi “gay”, il clandestino “migrante”, cieco diventa "non vedente", zingaro “rom” e l’handicappato si trasforma in “diversamente abile”. Come se anche i cosiddetti “normodotati” non siano diversamente abili tra loro. Non tutti gli uomini “comuni” hanno le stesse abilità e anche chi non è in sedia a rotelle, nella maggior parte dei casi, ha abilità diverse se messo a confronto con Rocco Siffredi e Stephen Hawking. Chi vive in sedia a rotelle, chi non vede o chi non sente è, invece, portatore di uno o più handicap, ossia di svantaggi cui non si è ancora è posto il giusto rimedio con un adeguata opera di abbattimento delle barriere architettoniche. Eppure la sinistra cosa si accinge a fare? Una proposta di legge per aumentare le pensioni d’invalidità, al momento ferme a poco più di 200 euro? No, la preoccupazione di Sel è quella di cambiare la dicitura “handicappato” in “diversamente abile” dal testo di legge 104, come conferma al giornale.it da Erasmo Palazzotto, promotore della proposta di legge che arriverà in Parlamento presumibilmente a febbraio. Se si va avanti di questo passo si dovrà chiedere a Iva Zanicchi di cambiare la sua canzone da “dammi questa mano, zingara” a “dammi questa mano, rom”. Dire “frocio” fa scandalo proprio nel momento in cui il governo depenalizza il reato di ingiuria tanto che persino Vittorio Sgarbi, per protesta, ha abbandonato una trasmissione tivù senza insultare nessuno. A breve sarà impossibile anche dare del “cornuto” all’arbitro. Preparatevi al marito con una moglie “diversamente fedele”… Siamo alle comiche finali del politicamente corretto.

Mancini-Sarri, io sto con il tecnico dell’Inter: di omofobia si muore. O nel migliore dei casi si vive di merda. L'allenatore dell'Inter, denunciando in diretta tv le offese omofobe ricevute, ha infranto uno dei tabù più duri a morire, quello di un calcio machista e greve, da rutto libero e cori contro una minoranza qualsiasi. Sarri non ha giustificazioni, non ha scuse, non ha alibi. Fossimo al suo posto, prenderemmo atto di un errore clamoroso e ne trarremmo le dovute conseguenze. Fossimo Roberto Mancini, invece, oggi saremmo molto orgogliosi di noi stessi, scrive Domenico Naso il 20 gennaio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". “La prima regola del Fight Club è che non si parla del Fight Club”. Peccato, però, che non siamo in un romanzo di Chuck Palahniuk né in un film con Brad Pitt, ma su un campo di calcio, in Italia, nel 2016. E Maurizio Sarri non allena il Borgorosso Football Club ma il Napoli, leader della classifica di serie A, squadra con milioni di tifosi e dalla storia gloriosa. Ecco perché il “frocio” urlato a Roberto Mancini non può e non deve venire liquidato con un sorrisetto e una alzata di spalle. E ancora più grave è l’argomentazione di chi, per difendere l’allenatore del Napoli, comincia con la solita storiella del gioco maschio, del campo che esaspera gli animi, dell’adrenalina che ti porta a dire cose che non diresti in una situazione “normale”. No, non è così. Perché il campo di calcio, a maggior ragione se si incontrano due top club e qualche milione di persone sta guardando la partita in diretta tv, non è un non-luogo dove tutto è sospeso, dalla semplice buona educazione al rispetto per gli altri. Se così fosse, dovremmo smettere da subito di criticare duramente (e giustamente) le orde di ultras che settimana dopo settimana si producono in vergognose esibizioni di razzismo, antisemitismo e a volte addirittura di violenza fisica. Dobbiamo riflettere, una volta per tutte, su cosa rappresenta il calcio in Italia. Perché all’estero il problema è bello che risolto: fosse successo in Premier League quello che è successo ieri sera, Maurizio Sarri avrebbe già raccolto le sue cose e sarebbe stato mandato a casa a pedate. Non per buonismo o politicamente corretto, nossignore. Semplicemente perché le parole sono importanti, soprattutto se a pronunciarle è l’allenatore della squadra prima in classifica. Sono solo parole, diranno i più superficiali. Nemmeno per idea, risponderà chi ha un minimo di contezza di ciò che accade nel mondo e purtroppo anche nel nostro paese. Andate a dire che sono solo paroleal teenager gay che viene quotidianamente tormentato dai compagni di classe o non è accettato e compreso dal padre, e che al culmine di una frustrazione umiliante non trova altra soluzione se non un salto nel vuoto da quinto piano! Di omofobia si muore, caro Sarri. O, nel migliore dei casi, di omofobia si vive di merda. Anche in Italia, sissignore. Nella stessa Italia che tra pochi giorni ospiterà a Roma l’ennesima manifestazione contro il riconoscimento dei diritti delle coppie omosessuali. Nella stessa Italia che è fanalino di coda in Europa sullo stesso tema e la cui classe politica in queste ore sta litigando e discutendo per partorire l’ennesimo pastrocchio, l’ennesimo compromesso al ribasso sulla pelle di milioni di cittadini di serie B. Sarri non ha giustificazioni, non ha scuse, non ha alibi. Fossimo al suo posto, prenderemmo atto di un errore clamoroso e ne trarremmo le dovute conseguenze. Fossimo Roberto Mancini, invece, oggi saremmo molto orgogliosi di noi stessi. L’allenatore dell’Inter, denunciando in diretta tv le offese omofobe ricevute, ha infranto uno dei tabù più duri a morire, quello di un calcio machista e greve, da rutto libero e cori contro una minoranza qualsiasi. Mancini ha allenato in Inghilterra e sa meglio di chiunque altro che su queste cose non può esserci margine di tolleranza. Non per buonismo, ripetiamo, ma per il rispetto dovuto a chi giorno dopo giorno deve scalare montagne impervie di pregiudizi e odio, di violenza verbale e fisica, di umiliazioni e frustrazioni. Mancini ha infranto la prima regola: ha parlato del Fight Club. E probabilmente nell’ambiente calcistico in queste ore starà raccogliendo soprattutto critiche e sguardi colmi di biasimo. La parte sana del paese, se c’è davvero e se ha una consistenza anche solo lievemente maggioritaria, dovrebbe ringraziarlo dal profondo del cuore. Perché proprio nei giorni in cui si discute in Parlamento delle briciole di dignità da concedere a milioni di paria, lui ha deciso di non far passare sotto traccia l’ennesimo sfregio del calcio al vivere civile.

Mancini-Sarri, io sto con il tecnico del Napoli: ha sbagliato. Ma l’omofobia è un’altra cosa e i perbenisti non aspettavano altro. La famosa legge per cui “quello che succede in campo finisce in campo” esiste e ha un senso. E non per una concezione machista del pallone. In fondo quindici anni fa, quando al termine di un Lazio-Arsenal di Champions League Mihajlovic fu accusato da Patrick Vieira di insulti razzisti, fu proprio l’amico Mancini a dire: “Qualche insulto in campo ci può stare, l’importante è che tutto finisca lì”, scrive Lorenzo Vendemiale il 20 gennaio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Sarri razzista, Sarri omofobo, cattivo Sarri. Ma povero Sarri. Il tecnico napoletano è il nuovo “mostro” del calcio italiano, additato pubblicamente da tutti i maestri del “politically correct” che abbondano nel nostro Paese. È colpevole di aver dato del “frocio, finocchio” a Roberto Mancini. Nessuno lo giustifica: ha fatto una pessima figura, si è dimostrato rozzo e volgare, ha macchiato la reputazione che si era costruito negli ultimi anni. Ma nelle parole di chi adesso lo condanna senza appello c’è tanto stucchevole perbenismo, o ipocrisia, a seconda dei casi. Maurizio Sarri, nato a Napoli, figlio di operai toscani, uomo sanguigno che anche in conferenza stampa (dove è apprezzato per la sua schiettezza ed ironia) non lesina concetti forti e parolacce, ha semplicemente usato il primo insulto che gli è venuto in mente per offendere il suo collega che lo aveva fatto innervosire. Quello sbagliato, certo. Ma Sarri non è omofobo. Come Carlo Tavecchio non è razzista. Cambia il contesto, ma la vicenda non è molto diversa dallo scandalo suscitato nell’estate 2014 dalle parole del presidente della Figc, che usò epiteti discriminatori per riferirsi ai giocatori di colore. Chi scrive, oggi come allora, crede che il razzismo e l’omofobia siano un’altra cosa. E che confondere un linguaggio scorretto – radicato in una cultura d’altri tempi (come può essere quella di un uomo di 70 anni, o di un meridionale verace di estrazione popolare) –,  con un’ideologia discriminatoria sia un errore, dannoso anche per la vera battaglia per il rispetto della diversità. A Sarri è sfuggita una parola di troppo in un momento di tensione fuori dal comune, in cui può capitare purtroppo di abbandonarsi ai propri istinti primordiali: ti scappa una frase in dialetto, una bestemmia. O appunto un insulto grave, che però in certi contesti culturali e geografici (specie al Sud) è una semplice offesa slegata da ogni tipo di connotazione omofoba. Questo dimostra quanto ci sia ancora da lavorare nella testa dell’italiano medio per superare i pregiudizi e capire l’importanza delle parole. Ma è un cambiamento lento, che non può essere imputato interamente a Sarri. Forse il tecnico del Napoli ha persino ragione quando ha detto che “Mancini non doveva dire quelle cose: è stata una litigata di dieci secondi e doveva finire lì”. La famosa legge per cui “quello che succede in campo finisce in campo” esiste e ha un senso. E non per una concezione machista del pallone, ma semplicemente perché chi è uomo di sport sa bene che in trance agonistica si fanno e si dicono cose che nella vita quotidiana non passerebbero neanche nell’anticamera del cervello. Ci saremmo risparmiati questo sgradevole polverone e l’ennesima figuraccia a livello internazionale. In fondo quindici anni fa, quando al termine di un Lazio-Arsenal di Champions League Mihajlovic fu accusato da Patrick Vieira di insulti razzisti, fu proprio l’amico Mancini a dire: “Qualche insulto in campo ci può stare, l’importante è che tutto finisca lì”. Evidentemente oggi ha cambiato idea. Oppure vissuto sulla propria pelle fa un effetto diverso. Mancini ieri sembrava realmente toccato dalle offese ricevute, sarebbe ingiusto mettere in dubbio la genuinità della sua denuncia (al contrario di certi commenti, titoli di giornali e prese di posizione, che appaiono molto più strumentali).  Se si è sentito offeso ha fatto bene a parlare, l’omertà non è un valore predicabile. Sarri, però, non merita di essere lapidato pubblicamente. Ha sbagliato, ha chiesto scusa e lo farà ancora. Per il suo errore pagherà tanto, in termini di sanzione e di reputazione. L’omofobia, però, per fortuna è un’altra cosa.

Sarri, il mister "rosso" ma solo di vergogna. Suona strano che il "comunista" Sarri sia scivolato sul terreno accidentato dei gay, scrive Vittorio Feltri, Giovedì 21/01/2016, su "Il Giornale". In questa Italia ipocrita e perbenista che affetta atteggiamenti politicamente corretti, ogni tanto i progressisti fanno la pipì fuori dal vaso e rivelano la loro autentica natura volgare, identica a quella dei populisti, come vengono etichettati coloro che stanno col centrodestra, magari con la Lega, plebea per antonomasia e perfino omofoba. Si dà il caso che martedì sera si sia disputata una partita di calcio quasi importante: Napoli-Inter, vinta dai milanesi, che hanno acquisito così il diritto ad accedere alla semifinale di Coppa Italia. I partenopei schierano una formazione raccogliticcia, lasciando i campioni in panchina per non usurarli in vista del girone di ritorno del campionato, quello vero. L'allenatore, Sarri, ex funzionario di banca (Monte dei Paschi), sotto di due gol e quindi già sconfitto, litiga con il collega che guida gli avversari. Non entriamo nel merito della discussione, non ne vale la pena. Segnaliamo soltanto che volano parole pesanti. Il trainer del Napoli attinge a piene mani dal linguaggio da trivio e, al culmine dell'ira, dice a Mancini: sei un finocchio, un frocio. Nello sfogo si è risparmiato il termine più in uso sotto il Vesuvio per definire gli omosessuali: orecchione. Forse si è trattato di una dimenticanza dovuta allo stato d'animo eccitato del valente e troppo focoso mister. Una bega di questo tipo avrebbe meritato di essere dimenticata. Invece, è stata alimentata dallo stesso Mancini che ha rifiutato le scuse di Sarri (resosi conto di aver ecceduto nelle intemperanze verbali) e incrementato la polemica, affermando che il vivace interlocutore non ha l'educazione idonea a calcare i campi di calcio. Insomma, per rimanere nel tema pecoreccio, è scoppiato un gran casino. Il bisticcio è diventato un affare di Stato, di cui ieri si è dibattuto da mane a sera su ogni media. Nel nostro Paese di caciaroni ciò che andrebbe silenziato, al contrario viene amplificato. Cosicché lo scazzo fra i due uomini di sport rischia ora di precipitare in politica. In effetti, suona strano che il «comunista» Sarri sia scivolato sul terreno accidentato dei gay, proprio lui che, essendo di sinistra dovrebbe sapere che è lecito tutto dalle nostre parti tranne che trasformare in insulto l'attitudine sessuale di moda. Sfottere i froci è considerato un reato. E forse è giusto così. Rimane da chiedersi perché, viceversa, è normale dare del puttaniere a uno che ha la fissa delle donne. Ma questo è un altro discorso. In conclusione, Sarri ha commesso un grave errore, ha rimediato una figuraccia. Sarebbe velleitario cercare di difenderlo. Un personaggio pubblico non dovrebbe scadere a frequentatore di bettole. L'allenatore in questione però ha avuto il coraggio di porgere le proprie scuse all'offeso, e questi avrebbe fatto bene ad accettarle anziché dare fiato alle trombe dell'indignazione. Sarebbe stato opportuno chiudere il contenzioso e archiviarlo, onde evitare strascichi grotteschi. Merita infine ricordare che la sinistra, attualmente tanto delicata nei confronti dei «froci», un tempo era talmente bacchettona da avere espulso Pier Paolo Pasolini dal partito per «indegnità morale», liquidando il poeta con questa frase poco elegante: «Un pederasta borghesuccio degenerato», solo perché amava i maschi e non aveva concubine. L'organo ufficiale del Pci, L'Unità, in proposito scrisse questo leggiadro corsivo: «Prendiamo spunto dai fatti che hanno determinato un grave provvedimento disciplinare a carico di Pasolini per denunciare le influenze di correnti filosofiche e ideologiche dei vari Gide, Sartre e altrettanto decantati letterati, che si vogliono spacciare quali progressisti, ma che in realtà raccolgono i più deleteri aspetti della degenerazione borghese». Caro Sarri, come vede, anche se lei ha torto marcio è in buona compagnia. Togliatti sui gay aveva la sua stessa opinione. Faccia valere questa circostanza: sarà perdonato. Speriamo anche da Mancini. Vittorio Feltri.

Quattro mesi a Sarri? Scrive Gianfranco Turano su “L’Espresso" del 20 gennaio 2016. Dopo la botta di finocchio a Roberto Mancini, l'allenatore del Napoli Maurizio Sarri si gode gli aspetti meno piacevoli della notorietà mediatica. Ieri era l'allenatore intellettuale, l'uomo in tuta blu che legge John Fante e Charles Bukowski, oggi è l'orrido omofobo che va sanzionato con pugno di ferro. La condanna possibile arriva a quattro mesi. Perché non quattro anni? Perché non i lavori forzati? In un sistema di giustizia sportiva che si distingue per la sua clemenza con taroccatori di partite e scommettitori internazionali, tutti trattati con la massima umanità, Sarri potrebbe scontare il suo momento di isteria con un'inibizione che all'incirca gli costerebbe il resto della stagione. La bufera mediatica è ridicola. Per categorie spiccano le seguenti assurdità:

1/quelli che il calcio non è per signorine e a me ne dicono di ogni tutte le volte che scendo in campo, eppure faccio i tornei di pizza e fichi e pago per giocare;

2/quelli che Mancini è una carogna che ha rotto la legge dell'omertà dello spogliatoio anche se non si era affatto nello spogliatoio ma in mezzo al campo;

3/quelli che l'omofobia nel calcio va fermata con leggi draconiane perché chi è strapagato per allenare in serie A dovrebbe quanto meno avere un minimo di self-control, come se il self-control fosse proporzionale al 730;

4/quelli che l'omofobia è soprattutto nelle serie minori;

5/quelli che l'omofobia è dovunque, in cielo in terra e in ogni luogo, e bisogna dare l'esempio in modo che i finocchi e queste quattro lesbiche (copyright di un alto dirigente Figc) possano trovarsi a loro agio negli spogliatoi.

Date tre giornate a Sarri e facciamola finita. Come pena aggiuntiva in senso riabilitativo, affidiamo il mister del Ciuccio a un colloquio privato con Gareth Thomas, ex nazionale gallese di rugby (1,90mt x 115 kg). Vediamo se riesce a dare del finocchio anche a lui.

Sarri e i diritti umani da salotto, scrive Patrizio Gonnella su “L’Espresso” del 20 gennaio 2016. I diritti umani sono spesso fraintesi e ridimensionati ad argomento da salotto. E nei salotti frequentati dalle persone per bene tutti versano una lacrima per il bambino di colore che muore di fame o per Ebola in Africa. In Africa per l’appunto. Poi quando quel bambino arriva con un barcone in Italia, sempre nei salotti, capita di sentire che non abbiamo lavoro per tutti e dunque non possiamo farci carico di lui ma soprattutto dei suoi genitori (neri).  Nei salotti si storce il muso nei confronti delle esecuzioni capitali in Cina, della repressione politica in qualche paese lontano. Ma se qualcuno racconta che nelle carceri italiane i detenuti sono privati del diritto ad avere rapporti sessuali con i loro cari o anche con chi gli pare, allora nei salotti si dice che la pena deve essere anche un po’ punizione altrimenti che pena è. Nei salotti ci si indigna per parole di Maurizio Sarri definito razzista, omofobo etc.etc., ma si glissa sui diritti degli omosessuali italiani a cui è negato il diritto a fare ed essere famiglia. Sarri ha detto cose volgari che hanno un brutto retrogusto. Peggio di Sarri però ci sono i suoi censori salottieri, quelli che impediscono all’Italia di essere un Paese dove le libertà civili siano garantite a tutti, dove tutti si possano sposare, dove la tortura sia reato anche se commessa nei confronti di un terrorista o di uno straniero, dove coltivare cannabis per curarsi non sia un crimine. Dunque Sarri, che a prima vista non mi pare uomo da salotto, qualora sospeso per qualche giornata, ha una buona occasione per riflettere, sporcarsi le mani, dire parole e fare opere per le libertà civili e i diritti umani, non in un paese lontano, ma qui in Italia e ora.

Razzismo, sessismo e insulti: quando i volti del calcio diventano ultrà della parola. L’attacco di Sarri a Mancini è soltanto l’ultimo di una serie di episodi incresciosi legati al mondo del calcio: da Tavecchio all’«antisemita» Balotelli e al «razzista» Messi. E poi le Curve..., scrive Maria Strada su “Il Corriere della Sera” il 20 gennaio 2016.

1. Sarri e i «froci». La lite con Roberto Mancini ha portato il tecnico del Napoli Maurizio Sarri a dare del «frocio e finocchio» all’avversario, salvo poi scusarsi, a freddo. Ma l’allenatore toscano ha, però, a suo carico anche un altro precedente in cui il linguaggio è stato di analogo cattivo gusto: dopo un Varese-Empoli mal diretto, a suo avviso, dall’arbitro, sbottò: « Il calcio è diventato uno sport per froci».

2. Tavecchio e gli insulti per tutti. Il presidente della Federcalcio italiana, Carlo Tavecchio, ha avuto parole per tutti. Offensive, spesso. Dai «mangiabanane» agli «omosessuali», dagli «handicappati» agli «ebreacci». Una specie di record, assolutamente da non imitare. E, per chi avesse avuto ancora dubbi, va ricordata anche la gaffe contro l’attaccante della nazionale italiana Mario Balotelli dopo un infortunio. Di lui la guida della Figc disse: «È tornato al suo paese». Si giocava a Milano, la partita era Italia-Croazia.

3. «Le calciatrici? Quattro lesbiche». Felice Belloli, successore di Tavecchio alla presidenza della Lega Nazionale Dilettanti, attacca il calcio femminile. Un movimento che è sotto la sua diretta responsabilità: «Basta! Non si può sempre parlare di dare soldi a queste quattro lesbiche». Le 12.000 atlete del calcio italiano senza tutela assicurativa e previdenziale, senza tfr e senza contratto collettivo ringraziano.

4. Ferrero e «il filippino». Visto che l’Oriente ancora mancava, come non ricordare una gaffe del presidente della Sampdoria Massimo Ferrero? «Er Viperetta» voleva difendere l’ex presidente onorario dell’Inter, Massimo Moratti. E del numero uno nerazzurro attuale, l’indonesiano Erick Thohir, esclamò: «Avevo detto a Moratti: “caccia quel filippino”».

5. Cassano: «Froci in nazionale? Problemi loro». Euro 2012, Fantantonio scatena il caos da Cracovia: l’opinionista Cecchi Paone ha appena commentato che, sicuramente, almeno «due gay, un bisessuale e tre metrosexual» vestono la maglia azzurra. Il ct Cesare Prandelli, previdente, ha provato a mettere in guardia l’attaccante. Ma questi, in conferenza stampa, non usa mezzi termini: «Io spero che di froci non ce ne siano e comunque sono problemi loro».

6. «In campo non voglio checche». Ezio Capuano, allenatore dell’Arezzo (Lega Pro), nel novembre 2014 concesse un’intervista a Radio Giove. La squadra aveva appena perso ad Alessandria, subendo un gol allo scadere e mentre era in superiorità numerica: «Se avessero perso in maniera diversa non avrei detto nulla, però in campo le checche non vanno bene. In campo devono andare gli uomini con le palle e non le checche», chiosa il vulcanico Capuano.

7. Arrigo Sacchi e i giovani «di colore». Anche l’ex ct Arrigo Sacchi nel febbraio dello scorso anno è finito nel mirino per una frase dai toni razzisti. Lamentando il disastroso stato dei vivai, disse: «Troppi giocatori di colore nelle squadre giovanili». Poi, si difese con un’intervista al Corriere«Non posso essere razzista, io sono intelligente».

8. Mihajlovic e Vieira nel 2000. Ottobre 2000: Sinisa Mihajlovic, allora alla Lazio, con il microfono in mano chiede scusa per uno scambio di insulti avvenuto nella partita precedente, Lazio-Arsenal. Il serbo è stato accusato d’aver detto «bastardo negro» e «scimmia negra di m...» a Patrick Vieira. Ammise le sue colpe ma non si pentì, difendendosi sostenendo che il francese, ex milanista, lo aveva chiamato «zingaro».

9. Balotelli «razzista e antisemita». L’uso dei social network da parte di Mario Balotelli gli vale accuse di razzismo e antisemitismo da parte dell’opinione pubblica inglese. Un post scherzoso su Instagram, una foto dell’eroe dei videogiochi Super Mario Bros e la scritta «Non essere razzista! Sii come Mario.È un idraulico italiano, creato dal popolo giapponese, che parla inglese e sembra un messicano... Salta come un nero e afferra soldi come un ebreo», gli vale pesanti critiche e lo costringe a pubbliche scuse.

10. Messi e il «negro» Drenthe. Anche il super-Pallone d’Oro Leo Messi è stato accusato di razzismo. Nel 2010 l’olandese Royston Drenthe, del Real Madrid, si rifiutò di stringere la mano al giocatore del Barcellona. E due anni dopo spiegò: «Non faceva che ripetere “Hola negro” (Ciao, negro, ndr). Capisco che è normale in Sud America, ma non posso sopportarlo».

11. Eranio e i calciatori di colore «che non pensano». «I calciatori di colore sono forti fisicamente, ma quando c’è da pensare purtroppo spesso fanno questi errori». Per questa frase pronunciata lo scorso ottobre l’ex calciatore del Milan Stefano Eranio è stato licenziato dalla tv svizzera Rsi.

12. I tifosi e il fantoccio nero impiccato in curva. Grandi protagoniste, soprattutto quando riguarda il razzismo, sono soprattutto le Curve. Uno dei casi più clamorosi riguardò l’olandese Maickel Ferrier, olandese del Verona. I tifosi gialloblù, mascherati da membri del Ku Klux Klan, espressero il loro dissenso esibendo un manichino impiccato accompagnato da alcuni striscioni emblematici: «Il negro ve l’hanno regalato, fategli pulire lo stadio» e «Mazzi (allora presidente, ndr), Ferrier portalo al cantier». Le indagini risalirono ad alcuni esponenti del Msi.

13. I trevigiani e il caso Omolade. Il 18enne Akeem Omolade, nigeriano, nel 2000-01 giocava nel Treviso. Al momento dell’esordio fu sommerso dai fischi dei suoi tifosi, che poi abbandonarono gli spalti. La squadra di casa reagì con un celebre gesto di solidarietà e, alla partita successiva, i titolari, i giocatori della panchina e l’allenatore scesero in campo con il volto tinto di nero. Un gesto di solidarietà che non piacque al sindaco della Marca, il leghista Giancarlo Gentilini, che esplicitamente parlò di «Colore della vergogna».

14. Zoro contro i tifosi dell’Inter. Nel novembre 2005, durante Messina-Inter, l’ivoriano Marco André Zoro Kpolo dopo 65’ prende il pallone in mano e minaccia di andarsene dopo l’ennesimo «buuu» razzista ricevuto dagli spalti. Avversari (su tutti Adriano e Obafemi Martins) e compagni lo convincono a rimanere in campo.

15. Cagliari, i cori contro Balotelli ed Eto’o. Nel 2009, dopo che Mario Balotelli e Samuel Eto’o erano stati sommersi dai fischi dei tifosi del Cagliari, il presidente nerazzurro Massimo Moratti aveva parlato di necessità di sospendere la partita. L’anno dopo rischia di essere accontentato: il camerunense riceve fischi fin dall’allenamento e, dopo appena 3’, l'arbitro Tagliavento ferma il gioco, convoca i capitani in mezzo al campo e invita lo speaker dello stadio a riportare l’ordine. Proprio Eto’o segnerà il gol della vittoria dell’Inter.

16. I tifosi del Chelsea in trasferta a Parigi. L’idiozia del tifoso non è solo italiana, anzi. A febbraio 2015, in occasione di una trasferta a Parigi, i tifosi del Chelsea impedirono a un uomo, di colore, di salire sulla metropolitana. Per fugare ogni dubbio, cantano: «Siamo razzisti, siamo razzisti e così ci piace».

17. Roberto Carlos e le banane. Nel marzo 2011 il brasiliano Roberto Carlos, che giocava nell’Anzhi di Makhachkala, in Russia, si vede offrire una banana da un tifoso dello Zenit di San Pietroburgo. Il campione del mondo dichiara di non essere rimasto offeso, ma dovrà abbozzare anche qualche mese dopo quando la banana gli verrà lanciata sul campo da un ultrà del Samara. Il presidente della Federcalcio russa, oggi alla guida del comitato per Russia 2018, commenta: «Non era una forma di razzismo. In Russia “ricevere una banana” significa aver fallito qualcosa...».

18. Boateng e i tifosi della Pro Patria. Il 3 gennaio 2013 il Milan è impegnato in un’amichevole a Busto Arsizio. Kevin Prince Boateng, beccato costantemente - come gli altri giocatori di colore - dai tifosi della Pro Patria, scaglia il pallone in tribuna. Il Milan abbandona l’amichevole. I tifosi colpevoli vengono identificati: saranno condannati a 40 giorni e un risarcimento alle parti civili.

19. Insulti razzisti, Constant abbandona il campo. Nell’estate dello stesso anno Constant lascia il campo durante il Trofeo amichevole Tim.

La brava Maria Strada, però, ha dimenticato le offese ai meridionali.

Mandorlini ed il coro sui "Terroni", scrive Arianna Ravelli. Una «parodia», «una goliardata», arriva ad ammettere possa dirsi «una ripicca, però ironica, nei confronti di quello che abbiamo subìto a Salerno», ma una frase razzista, proprio no. Andrea Mandorlini risponde come uno che si aspettava la telefonata e anche le domande, senza un briciolo di pentimento. «Sì, quel coro, "Ti amo terrone"... Ho visto i filmati su youtube, ripresi dai siti dei giornali». Esatto, proprio quelli. «Se li ha visti anche lei avrà notato che quando i tifosi cominciano con "Salernitana vaff..." io li fermo e attacco l'altro coro, che poi è una canzone degli Skiantos, una cosa divertente». Martedì sera, stadio di Verona, presentazione dell'Hellas che ha appena conquistato la serie B, dopo quattro anni di campi di periferia in Lega Pro, tremila tifosi sugli spalti (non con una bella fama, visti i tanti precedenti, quelli senza dubbi, di razzismo conclamato), il sindaco leghista Andrea Tosi in prima fila che ride divertito (e che adesso dice: «Il tecnico non aveva minimamente intenzioni razziste e se al Sud cantassero "Ti amo polentone" noi non ci offenderemmo»). Mandorlini, l'osannato artefice della promozione, prende il microfono e inizia: «Bisogna rendere omaggio ai nostri avversari, leali, sportivi e anche simpatici». Palesemente ironico. «È vero, ero ironico, ma forse non sapete cos' è successo durante le finali playoff». Che è successo? «Lasciamo perdere, non voglio enfatizzare, sappiamo che su qualche campo in Italia queste cose succedono. Però io ho ricevuto minacce di morte, siamo stati praticamente aggrediti in sala stampa, dove è entrato chiunque. E poi la rissa il giorno della finale: ho rimediato una macchina fotografica in testa, siamo rimasti nello stadio, sotto assedio, fino a notte». Le cronache parlano di lancio di bottiglie e sassi, due carabinieri feriti, 10 fermati. Ma le polemiche sul fronte Verona-Salerno nascono prima. La Salernitana, infatti, o raggiunge la B o fallisce (cosa poi successa), Mandorlini insinua («Leggo che il destino della Salernitana è legato alla promozione, una nuova pretattica. Si tratta di un club al collasso da tempo: è una richiesta di aiuto che va invece dato alle società sane»), i dirigenti della Salernitana si imbufaliscono e «danno mandato agli avvocati di tutelare il club», il Verona vince la prima partita con due rigori a favore e la tensione esplode al ritorno a Salerno. Il Verona viene promosso, la Salernitana fallisce. E si arriva all' infelice coro di martedì. «Una goliardata, avevo vicino Maietta, che è calabrese, e ho coinvolto pure lui. E poi non devo neanche spiegare che il razzismo è una cosa lontana da me, che sono pieno di amici meridionali, che ho allenato in Romania, ma non ha senso dirle queste cose, dovrebbero essere scontate». Ma, scusi, allora, non era meglio evitare, vista anche la fama degli ultrà del Verona? «Secondo me è meglio evitare le minacce di morte e le aggressioni. Però, per me è tutto finito, io non ce l'ho con la Salernitana». Il sindaco di Salerno Vincenzo De Luca (del Pd, ma in buoni rapporti con Tosi) un po' con lui invece sì: «Caro Mandorlini, ma è proprio così difficile comportarsi in maniera civile e responsabile?». Che risponde? «Il mio era uno scherzo, però là ho rischiato la vita». Ravelli Arianna. Pagina 040/041 (21 luglio 2011) - Corriere della Sera.

Quando al nord sono ipocriti.

«Casting per razzisti e omofobi» Regione Piemonte contro «Ciao Darwin». L'affondo dell'assessore alle Pari Opportunità e all'Immigrazione Monica Cerutti contro la trasmissione di Mediaset condotta da Paolo Bonolis, scrive “Il Corriere della Sera” il 20 gennaio 2016. La regione Piemonte contro la trasmissione di Mediaset condotta da Paolo Bonolis «Ciao Darwin». La denuncia arriva da Monica Cerutti, assessore regionale alle Pari Opportunità, Diritti civili e Immigrazione. «AAA cercasi uomini o donne contrarie all'integrazione degli stranieri in Italia e contro i diritti delle unioni gay», così comincia il lungo post pubblicato in Rete. «Ciao Darwin - scrive sulla sua pagina Internet - a Torino ha cercato razzisti e omofobi per sottoporli a un casting per partecipare alla nuova edizione del programma. Il casting si è tenuto il 12 gennaio» scrive. Quindi l'affondo: «Si tratta di un vero e proprio schiaffo al rispetto delle persone e dei diritti di tutti e tutte. È inaccettabile che in un momento come questo, durante il quale l’odio nei confronti del diverso è sempre maggiore, ci siano programmi televisivi che vogliono alimentari xenofobia e omofobia. I media devono assumersi la responsabilità che hanno sulle spalle. Ci sono milioni di persone che purtroppo affidano la propria informazione e formazione esclusivamente alla televisione ed è impensabile che questa parli loro attraverso stereotipi, populismi e strumentalizzazioni» E ancora, scrive l'assessore: «Ho deciso di chiedere che il caso del casting omofobo e razzista a Torino, tenuto dalla trasmissione tv Ciao Darwin, venga segnalato all’UNAR, Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali. Le istituzioni non possono continuare a predicare nel deserto».

"A Torino casting di Ciao Darwin per razzisti e omofobi": la denuncia dell'assessore. Monica Cerutti, responsabile regionale delle Pari opportunità, contro lo show di Bonolis: la selezione di uomini e donne "contrari a immigrati e gay" si è effettivamente svolta il 12 gennaio. "Porterò il caso in Consiglio", scrive il 20 gennaio 2016 “La Repubblica”. Cercansi uomini o donne "contrarie all'integrazione degli stranieri in Italia" e "contro i diritti delle unioni gay". Monica Cerutti, assessore all'Immigrazione e alle Pari opportunità della Regione Piemonte, attacca "Ciao Darwin", la trasmissione televisiva di Mediaset condotta da Paolo Bonolis, che, accusa Cerutti, "a Torino ha cercato razzisti e omofobi per sottoporli a un casting". Obiettivo, la partecipazione alla nuova edizione del programma che si basa su "contrapposizioni" tra due gruppi opposti, il tutto condito da belle ragazze vestite il meno possibile. Il casting, aggiunge l'assessore in un comunicato ufficiale della Regione Piemonte, si è tenuto il 12 gennaio. No comment, per ora, da Mediaset e dallo stesso Bonolis. «Si tratta di un vero e proprio schiaffo al rispetto delle persone e dei diritti di tutti e tutte - dice Cerutti - È inaccettabile che in un momento come questo, durante il quale l'odio nei confronti del diverso è sempre maggiore, ci siano programmi televisivi che vogliono alimentare xenofobia e omofobia. I media devono assumersi la responsabilità che hanno sulle spalle. Ci sono milioni di persone che purtroppo affidano la propria informazione e formazione esclusivamente alla televisione ed è impensabile che questa parli loro attraverso stereotipi, populismi e strumentalizzazioni». La Regione Piemonte, dice l'assessore, "si sta impegnando per approvare una legge contro ogni forma di discriminazione: lunedì prossimo durante la seduta della I Commissione del Consiglio regionale cominceremo a discutere gli emendamenti che sono stati presentati. Ho deciso di chiedere che il caso del casting omofobo e razzista a Torino, tenuto dalla trasmissione Ciao Darwin, venga segnalato all'Unar, l'Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali. Le istituzioni - ha concuso Cerutti - non possono continuare a predicare nel deserto». Il segretario del Pd piemontese, e capogruppo nel Consiglio regionale, Davide Gariglio getta però acqua sul fuoco della polemica: "Personalmente trovo un casting per razzisti e omofobi di cattivo gusto e inopportuno, però non credo debba essere la politica a ricoprire il ruolo del censore sui contenuti di una trasmissione televisiva. Condivido il merito sollevato dall'assessora - aggiunge Gariglio - e mi preoccupa una simile deriva della proposta televisiva, ma lascerei il tema al livello culturale e non lo inserirei tra quelli della politica, che tra l'altro di problemi ne ha già parecchi".

Il Comune adesso sostiene il sabato gay. E arriva un premio per i programmi più favorevoli al mondo lgbt, scrive Daniela Uva, Giovedì 21/01/2016, su "Il Giornale". Dopo l'apertura del registro per le coppie di fatto, il riconoscimento dei matrimoni contratti all'estero da persone dello stesso sesso e i corsi di sadomaso arriva l'ennesima apertura della giunta Pisapia al mondo gay. Con il patrocinio al Diversity media awards, il premio riservato ai migliori contenuti di media, cinema, tv e pubblicità sui temi legati al mondo lgbt. Non finisce qui, perché il Comune ha ospitato nella sala stampa di Palazzo Marino la presentazione delle nomination di quelli che sono stati definiti gli Oscar contro la discriminazione. I riconoscimenti saranno consegnati a maggio dall'ideatrice Francesca Vecchioni, ma già si conosce la lista dei possibili premiati. Dalla fiction «Un posto al sole» a «È arrivata la felicità», passando per «Grey's anatomy», «Beautiful», la trasmissione condotta da Fabio Fazio «Che tempo che fa» e il reality «Pechino Express». Ci sono personaggi molto noti al grande pubblico, come Laura Pausini, Tiziano Ferro, Fedez e Mika. Non poteva mancare, fra i relatori, l'assessore comunale ai Servizi sociali nonché candidato per le primarie del Pd, Pierfrancesco Majorino. «Obiettivo dell'amministrazione comunale è estendere e promuovere i diritti - precisa -, per questo due anni fa abbiamo creato il registro delle unioni civili. E le istituzioni devono andare avanti e si devono mobilitare insieme ai cittadini». Il prossimo passo è già stato deciso: offrire il sostegno dell'amministrazione al gay day in programma sabato in piazza Scala, proprio davanti alla sede del Comune. «Iniziative come questa dimostrano che Pisapia, Majorino e tutta la maggioranza non hanno più argomentazioni - commenta il vicepresidente del Consiglio comunale, Riccardo De Corato -. Già in passato idee come quella di organizzare corsi sadomaso all'interno della Casa dei diritti, e quindi in un luogo del Comune, si sono dimostrate veri e propri autogol. Appoggiare anche questo premio è l'ennesima dimostrazione che la giunta non ha altri argomenti validi». Fra le tante iniziative a favore del mondo gay, quella che più di tutte ha fatto discutere è stata la trascrizione delle unioni fra persone dello stesso sesso contratte all'estero, e riconosciute nel capoluogo lombardo. Un provvedimento poi annullato dal Tar del Lazio. «Pisapia e il suo assessore Majorino hanno agito al di fuori delle norme della Costituzione - conclude De Corato -, in Italia non esiste una norma giuridica che permetta di dare valore legale a un matrimonio fra persone dello stesso sesso. Nonostante questo, il Comune continua a fare da sponsor a iniziative di ogni genere, che provengono da associazioni amiche. Pisapia accusa la Regione e il centrodestra di partecipare con il gonfalone al Family Day, e poi appoggia manifestazioni che nulla hanno a che fare con la nostra Costituzione e le nostre norme».

Calcio, l'allenatore Sarri su Mancini: "Avrei potuto definirlo democristiano". La Dc lo querela. Il tecnico del Napoli insulta il collega dell'Inter e poi si giustifica con la battuta sullo Scudocrociato. Ma il partito non ci sta e porta il caso in tribunale: "Lesi i valori democristiani". Denuncia del figlio del primo presidente della Regione Sicilia Giuseppe Alessi, scrive il 22 gennaio 2016 “La Repubblica”. Approda in un'aula di giustizia la polemica tra l'allenatore del Napoli, Maurizio Sarri, e quello dell'Inter, Roberto Mancini, scoppiata sul campo di calcio, dopo la partita di Coppa Italia Napoli-Inter. Ma non per gli insulti lanciati da Sarri all'indirizzo di Mancio a fine match. Ad offendersi è stata la Democrazia cristiana, che ha presentato oggi al procuratore capo di Palermo, Francesco Lo Voi, una denuncia-querela nei confronti di Maurizio Sarri, attraverso i legali Anthony De Lisi e Angela Ajello del foro di Palermo. A fare scattare la denuncia sono state le frasi pronunciate da Sarri in conferenza stampa, quando, per giustificarsi per gli insulti a Mancino, ha spiegato: "Ho detto la prima offesa che mi è venuta in mente, gli avrei potuto dire sei un democristiano". Parole che hanno fatto saltare sulla sedie i democristiani. Secondo la Balena bianca, "non vi è dubbio che il comportamento di Sarri abbia di fatto leso l'appartenenza a colori i quali si riconoscono nella Democrazia Cristiana, oltre che a tutti i cittadini che comunque ne riconoscono la valenza sociale, politica e culturale". L'esposto è a firma di Alberto Alessi, segretario nazionale della Democrazia Cristiana Nuova, ex deputato Dc, nonché figlio di Giuseppe Alessi, primo presidente della Regione Siciliana e tra i fondatori della Democrazia Cristiana e del suo simbolo. "La storia personale e politica dell'onorevole Giuseppe Alessi non lascia residuare dubbio alcuno sulla di lui paternità della idea sociale e politica che diede vita proprio alla Democrazia Cristiana - si legge nell'esposto - Infatti, quest'ultimo, unitamente a Sturzo e ad altri padri fondatori della Costituzione Repubblicana Italiana del dopo guerra, viene universalmente ricordato e riconosciuto quale emblema e simbolo, non solo del partito in questione, ma di un movimento Cristiano popolare che ebbe a segnare la storia del nostro Paese per oltre cinquanta anni". "Pur non volendo ulteriormente ribadire come la Democrazia Cristiana ha significato per oltre cinquanta anni l'appartenenza ad un partito di maggioranza di Italia e ad una classe dirigente che ha dato al Paese illustri Presidenti della Repubblica, Presidenti del consiglio, ministri e personalità di ogni genere di cui ancora il nostro paese ne vanta le qualità, non può farsi a meno di rassegnare che a tutt'oggi la Democrazia Cristiana, la sua storia e le sue promanazioni sono talmente radicate nel nostro paese e in numerosissimi cittadini italiani che ne avvertono ancora l'orgoglio di appartenenza", si legge nella denuncia. Ed ecco il "fattaccio": "In data 19 gennaio, in occasione della partita Napoli-Inter si è verificato uno spiacevole episodio, non solo per lo sport in genere ma anche per il disvalore sociale che ha rappresentato, tra gli allenatori delle squadre dell'Inter e del Napoli - si legge nell'esposto -L'episodio, che è stato riportato da tutti i media anche internazionali, ha avuto uno triste e offensivo seguito in danno dell'odierno denunciante sia personalmente che in rappresentanza di quei valori sin qui esplicitati. Infatti, il signor Sarri nel volersi giustificare per le parole offensive proferite in pregiudizio del collega Mancini ha rilasciato alla stampa, in occasione di una conferenza, trasmessa altresì dal telegiornale del TG1 di giorno 20.01.2016, delle dichiarazioni altamente lesive e diffamatorie". E spiega: "Infatti, il Sarri per giustificare le gravi ingiurie formulate in danno del collega Mancini ha testualmente proferito le seguenti parole: "ho detto la prima offesa che mi è venuta in mente, gli avrei potuto dire sei un democristiano". Tale gravissima diffamazione non può non essere valutata autonomamente e in relazione al contesto in cui è stata proferita. Infatti, è bene, innanzitutto, porre l'attenzione sul soggetto che ha proferito la gravissima offesa quale uomo "pubblico" e italiano per cui non può nemmeno ritenersi che lo stesso abbia proferito le precedenti parole in quanto non a conoscenza della storia del nostro Paese e quindi della valenza ed importanza che la "Democrazia Cristiana" ha avuto e continua ad avere nella cultura e nella formazione dell'essere di tanti cittadini". "In secondo luogo, non può non contestualizzarsi il comportamento posto in essere dall'odierno denunciato. Il Sarri, infatti, come ben può apprendersi dalle testate giornalistiche e non solo, ha paragonato le offese di "frocio e finocchio", che di per sè assumono un disvalore sociale, culturale e umano, con l'appartenenza alla "Democrazia Cristiana", dice il segretario della Dc Alberto Alessi attraverso i suoi legali, Anthony De Lisi e Angela Ajello. Per Alessi, "tale comportamento assume una forza lesiva pragmatica se si considera proprio il paragone reso esplicito dal Sarri. Invero, lo stesso ha posto a paragone, con evidente atteggiamento denigratorio e razzista, oltre che omofobo, l'essere omosessuale all'appartenenza alla Democrazia Cristiana. Orbene, il comportamento posto in essere dal Sarri non lascia residuare dubbio sulla portata denigratoria e offensiva di quanto proferito". "Infatti, non può non essere trascurato l'impatto che tali affermazioni hanno avuto anche sui social network i quali offrono tangibile dimensione dell'impatto diffamatorio che il comportamento del Sarri ha generato. Pertanto, non vi è dubbio alcuno che la fattispecie de qua integri appieno il delitto di diffamazione a mezzo stampa". Il querelante si è, infine, riservato di "costituirsi parte civile nel prosieguo dell'eventuale instaurando giudizio". "La decisione di querelare l'allenatore del Napoli Maurizio Sarri per le sue parole sulla Democrazia cristiana non è un fatto personale. Ma intendo difendere i valori della Democrazia cristiana e di uomini come Sturzo, De Gasperi e non ultimo mio padre - commenta Alessi - credo che i valori della Dc non siano morti - dice - Mi piace ricordare che anche il nostro attuale Presidente e il di lui fratello sono nati e formati alla luce di quei valori".

Mario Giordano su “Libero Quotidiano” il 22 gennaio 2016: "Mancini e Sarri? Ha vinto la lobby gay. Se dici finocchio..." Due giornate di squalifica vi sembrano poche? A me sembrano perfino troppe. D'altra parte l'allenatore del Napoli Maurizio Sarri la punizione l'ha già avuta: è stato lapidato pubblicamente, sottoposto a gogna, messo al bando dalla società civile per la grave colpa di aver litigato ai bordi di una campo di calcio, come avviene all’incirca ogni domenica in ogni angolo della Penisola. Come si è permesso? Le voci dell’indignazione politicamente corretta si sono subito levate a difendere la moralità offesa dei gay: «Non si fa», «Non è ammissibile», «Non è tollerabile», È indegno». È ovvio: ci si schiera sempre con il più forte. In Italia siamo campioni mondiali nel salto sulla barca che ha il vento in poppa (e poppa lo dico senza allusioni, sia chiaro, sennò vengo processato anch’io). Non c’è dubbio che i gay in questo momento sono forti, sono il pensiero dominante, stanno cambiando le leggi, possono decidere le sorti di un’azienda (chiedere informazioni a Barilla), possono stabilire perfino come e dove si possono fabbricare i bambini. Chi ha il coraggio di opporsi alla schiacciante armata arcobaleno? Nessuno, è ovvio. Infatti nessuno lo fa. Hanno tutti paura. Ho sentito amici che fino all’altro giorno si ergevano a campioni del politicamente scorretto che all’improvviso sono diventati paladini del sessualmente corretto, difensori strenui del frocismo offeso. Gente che usa il turpiloquio più del dentifricio che all’improvviso si scandalizza come una mammoletta perché un allenatore in tuta ha detto «frocio». Mamma mia, ha detto frocio. Dove andremo a finire, signora mia? L’omofobia è dilagante, il razzismo pure. Probabilmente siamo già a un passo dalle camere a gas, e non ce ne siamo accorti. Se Sarri, per dire, oltre a frocio e finocchio avesse detto anche culatone, voleva dire che il nazi-sterminio dei gay era già cominciato. «Non capisci, non capisci», mi ha urlato uno di questi amici, ex politicamente scorretto, riconvertitosi alla linea del gaysmo militante. Dice che non capisco che bisogna rispettare i tabù. In pratica: si possono insultare tutti, gli uomini, le donne, persino i bambini, figurarsi gli anziani. Ma i gay no. Non si può dire «frocio», né «finocchio», però per esempio si può dire «troia» a una donna e «tua mamma è una puttana» a un uomo. Tanto, si sa, la categoria delle puttane non conta nulla, non organizza nemmeno un Prostitute Pride. Gli omosessuali invece sì: loro organizzano le marce, organizzano i boicottaggi, decidono chi ha successo e chi non ce l’ha, che cosa è trendy e che cosa non lo è. Dunque, non si può offenderli. È un tabù. Il tabù di non offendere i più forti. Chiunque sia stato su un campo di calcio, anche solo di periferia, anche nelle categorie amatoriali, sa che mentre si gioca ci si dice di tutto. I difensori cominciano dal primo minuto a insultare gli attaccanti, i centrocampisti mettono in dubbio la verginità delle sorelle altrui, i terzini bestemmiano come turchi con i calli infiammati. Ma quello che si dice in campo finisce in campo, è sempre stata la regola. Una regola che anche Mancini conosce bene, visto che quando il suo amichetto Mihajlovic si macchiò di insulti razzisti durante una partita, correva l’anno 2000, lui lo difese dicendo: «Nel corso di una partita l’agonismo esasperato può portare a momenti di tensione e grandi nervosismo: l’importante è che tutto finisca lì». Perché ciò che valeva allora per Mihajlovic non vale ora per Sarri? Forse perché «negro di m.» si può dire e «frocio» invece no? O perché a Mancini fa comodo così? Qualcuno ha scritto che pure l’allenatore dell’Inter chiamò «frocio» un giornalista quando era a Firenze: l’interessato ha smentito. Sinceramente, non m’interessa. Così come non m’interessa se è vero o no quel che si mormora, e che cioè la polemica sarebbe stata studiata a tavolino per destabilizzare il Napoli primo in classifica. Può essere o forse no, poco importa: questo è un fatto che riguarda solo il mondo pallonaro. Quello che ci riguarda tutti, invece, è l’insurrezione armata, l’allineamento coatto, lo schieramento dei plotoni d’esecuzione che hanno sparato fuoco ad alzo zero contro il povero Sarri, facendolo secco in un batter d’occhio. Fateci caso: nemmeno le sue scuse sono state accettate. Ovvio, no? Se uno dice «frocio» è per sempre. Se uno dice «frocio» è evidentemente inguaribile, irredimibile, marchiato a vita per la tremenda colpa di aver usato una parola sbagliata, quella parola sbagliata. Se Sarri avesse offeso Dio, la Madonna e tutti i santi del Paradiso, ecco, sarebbe andato bene a tutti, magari gli avrebbero dato pure una medaglia. Invece ha detto «frocio» e dunque deve espiare. Due giornate di squalifica? Non bastano. Ma neppure dieci. Neppure venti. Neppure tre anni. Neppure l’ergastolo. Ho l’impressione che non basterebbe un’intera vita ai lavori forzati per scontare la pena di aver detto frocio. Almeno, se prima non ci s’iscrive ai corsi di recupero dell’Arcigay, dove t’insegnano come si diventa allenatori politicamente corretti: via la tuta, metti la scarpetta rosa, via le sigarette Nazionali, avanti col lucidalabbra. Ogni mattina inginocchiati davanti alla statua di Malgioglio e recita una preghiera alla trinità Luxuria, Vendola e Platinette. E così sia, nei secoli dei secoli gay. Di Mario Giordano.

A proposito di Sarri. Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Gli interisti sono come i comunisti: quando perdono è perchè gli altri rubano (così risuccederà con la Juve) o gridano al "razzista" per farli degradare, come succede al Napoli. Se poi i media sono in mano a giornalisti di sinistra o comunque del nord è tutto dire. I salottieri si scandalizzano del "Frocio" dato al furbo Mancini, ma si sbrodolano con la parola "terrone" data a destra ed a manca in ogni tempo e in ogni dove. E' vero che ormai il potere è gay (vedi le leggi in Parlamento) e le femministe si sono prostate all'Islam (vedi le reazioni su Colonia), ma frocio è una offesa soggettiva. Terrone è una offesa ad un intero popolo. Ma tutti tacciono, anche i meridionali coglioni. Se "Terrone" vuol dire cafone ignorante: bèh , non prendo lezioni dai veri razzisti e ignoranti. (Se qualcuno ha qualche commento fuori luogo. Gli consiglio di leggere il mio libro "L'Italia Razzista"!

Oriana Fallaci (Firenze, 29 giugno 1929 – Firenze, 15 settembre 2006) è stata una famosa scrittrice e giornalista italiana. Nel 2004 Oriana Fallaci pubblica Oriana Fallaci intervista sé stessa - L'Apocalisse, il terzo libro della Trilogia di Oriana. È proprio nel phamphlet che la scrittrice esprime compiutamente il suo pensiero sull'omosessualità.

La giornalista, ad esempio, critica il primo ministro socialista spagnolo José Luis Rodríguez Zapatero reo di aver consentito e sostenuto l'approvazione del matrimonio gay: «la bravata del senor Zapatero che imitando il sindaco di San Francisco, (antiamericani sì, ma non quando gli americani ti suggeriscono cattive idee), buttava alle ortiche il concetto biologico di famiglia e autorizzava il matrimonio gay. Quel che è peggio, mille volte peggio, l'adozione gay. E questo senza che nessuno gli rispondesse per le rime. Senza che nessuno gli dicesse almeno cretino: il mondo va a fuoco, l'Occidente fa acqua da tutte le parti, il terrorismo islamico non fa che tagliarci la testa, e tu perdi tempo coi matrimoni-gay e le adozioni-gay? Questo senza che la Chiesa Cattolica si ribellasse, senza che il Papa (di nuovo) si difendesse. Magari tirando in ballo la Madonna di Czestochowa a cui è tanto devoto e che certo non avrebbe gradito l'iniziativa di Zapatero. Tutti zitti. Tutti intimiditi, impauriti, incapaci di commentare la cosa in modo raziocinante lo spontaneo. Tutti ricattati dalla tirannia dei Politically Correct. Perché se dici la tua sui matrimoni-gay e l'adozione-gay, finisci al rogo come quando dici la tua sull'Islam. Ti danno di razzista, di fascista, di bigotto, di incivile, di reazionario. Come minimo ti accusano di pensarla come Hitler che gli omosessuali li gettava nei forni crematori insieme agli ebrei. Insomma ti mettono alla gogna. Be': dopo la sfuriata iniziale, anche stavolta caddi in una stanchezza profonda. Assai più profonda di quella in cui ero caduta a causa delle due Simonette. Perché sull'accettazione dell'omosessualità il senor Zapatero non ha da insegnarmi nulla.»

In un altro passo il matrimonio gay è definito come un tentativo di "sovvertire il concetto biologico di famiglia": «In qualsiasi società, in qualsiasi angolo della Terra, in qualsiasi paese esclusa la Spagna di Zapatero, il matrimonio è l'unione di un uomo e di una donna. Tale rimane anche se da quell'unione non nascono figli. Così capisco i risultati del referendum che in dodici Stati americani si è concluso con la vittoria schiacciante del No, insomma con un assordante rifiuto del suddetto matrimonio. Non capisco, invece, perché in una società dove tutti possono convivere liberamente cioè senza dar scandalo, senza essere condannati o considerati reprobi, gli omosessuali sentano l'improvviso e acuto bisogno di sposarsi davanti a un sindaco o a un prete. Magari con l'abito bianco, il mazzolino di fiori in mano, e lo spettro del divorzio che costa un mucchio di tempo e un mucchio di soldi. Spero che sia un'isteria temporanea, un capriccio alla moda, una forma di esibizionismo o di conformismo. Perché, se non lo è, si tratta d'una provocazione legata alla pretesa di adottare i bambini e sovvertire il concetto biologico di famiglia. Insomma d'una intimidazione. Non mi piacciono le provocazioni, non mi piacciono le intimidazioni. Gira e rigira, sono sempre di natura politica. E in tal caso a quei fidanzati, quelle fidanzate, dico: accontentatevi del sacrosanto diritto che il mondo civile riconosce a chiunque. Il diritto di amare chi si vuole, come si vuole.»

Ancora, Oriana Fallaci esprime "fastidio" per la cosiddetta lobby gay: «Voglio dire: l'omosessualità in sé non mi turba affatto. Non mi chiedo nemmeno da che cosa dipenda. Mi dà fastidio invece quando, come il femminismo, si trasforma in ideologia. Quindi in categoria, in partito, in lobby economico-cultural-sessuale, e grazie a ciò diventa uno strumento politico. Un'arma di ricatto, un abuso Politically and Sexually Correct. O-fai-quello-che-voglio-io-o-ti-faccio-perdere-le-elezioni.»

È negativo, ancora, sui gay pride: «Mi dà fastidio anche quando, attraverso le loro lobby, a discriminare il prossimo sono proprio gli omosessuali. E ancor più quando, attraverso l'arroganza della categoria, il prossimo lo offendono con le becere Gay Parades alle quali si presentano seminudi o travestiti e truccati da baldracche».

È negativo, ancora, il suo giudizio sulla genitorialità gay: «Un omosessuale maschio l'ovulo non ce l'ha. Il ventre di donna, l'utero per trapiantarcelo, nemmeno. E non c'è biogenetica al mondo che può risolvergli un tale problema. Clonazione inclusa. L'omosessuale femmina, sì, l'ovulo ce l'ha. Il ventre di donna necessario a fargli compiere il meraviglioso viaggio che porta una stilla di Vita a diventare un germoglio di Vita poi un'altra Vita, un altro essere umano, idem. Ma la sua partner non può fecondarla. Sicché se non si unisce a un uomo o non chiede a un uomo per-favore-dammi-qualche-spermatozoo, si trova nelle stesse condizioni dell'omosessuale maschio. E a priori, non perché è sfortunata e i suoi bambini muoiono prima di nascere, non partecipa alla continuazione della sua specie. Al dovere di perpetuare la sua specie attraverso chi viene e verrà dopo di lei. Con quale diritto, dunque, una coppia di omosessuali (maschi o femmine) chiede d'adottare un bambino? Con quale diritto pretende d'allevare un bambino dentro una visione distorta della Vita cioè con due babbi o due mamme al posto del babbo e della mamma? E nel caso di due omosessuali maschi, con quale diritto la coppia si serve d'un ventre di donna per procurarsi un bambino e magari comprarselo come si compra un'automobile? Con quale diritto, insomma, ruba a una donna la pena e il miracolo della maternità? Il diritto che il signor Zapatero ha inventato per pagare il suo debito verso gli omosessuali che hanno votato per lui?!?»

In un altro brano la Fallaci aggiunge: «Lo Stato non può consegnare un bambino, cioè una creatura indifesa e ignara, a genitori coi quali egli vivrà credendo che si nasce da due babbi o due mamme non da un babbo e una mamma. E a chi ricatta con la storia dei bambini senza cibo e senza casa (storia che oltretutto non regge in quanto la nostra società abbonda di coppie normali e pronte ad adottarli) rispondo: un bambino non è un cane o un gatto da nutrire e basta, alloggiare e basta. È un essere umano, un cittadino, con diritti inalienabili. Ben più inalienabili dei diritti o presunti diritti di due omosessuali con smanie materne o paterne. E il primo di questi diritti è sapere come si nasce sul nostro pianeta, come funziona la Vita sul nostro pianeta. Cosa più che possibile con una madre senza marito, del tutto impossibile con due "genitori" del medesimo sesso. Punto e basta».

Alla dichiarazione, fanno da contraltare due episodi personali rammentati dalla scrittrice. Nel primo la vediamo assumere posizioni di contrarietà all'omofobia: «[...] guai a chi fa del male a un omosessuale in quanto omosessuale. Chiunque egli sia, e che l'omosessuale in questione lo conosca o no. Anni fa, nel mio villaggio in Toscana, il postino mi raccontò che due omosessuali della zona erano rimasti senza casa perché il padrone di casa s'era accorto che vivevano «come-marito-e-moglie». E li aveva cacciati. Io non li conoscevo, non li avevo mai visti. Ma udire una cosa simile mi mandò il sangue al cervello. Non per pietà, bada bene. Per principio. E dissi al postino: «Voglio incontrarli. Me li porti qui». Il postino me li portò e mi trovai davanti due giovanotti molto civili, molto educati, che con gran dignità si lamentavano: «L'albergo costa troppo e non sappiamo dove andare». Così gli mostrai una graziosa casetta attigua alla mia, la casetta che tengo per gli ospiti, e: «Se vi piace, state qui». Ci stettero qualche anno. Cioè fino a quando si separarono ed entrambi lasciarono l'Italia. Cosa che mi dispiacque in quanto il nostro era diventato un rapporto quasi familiare. M'ero abituata a loro, di loro non mi dispiaceva nulla escluso il fatto che a volte tenessero il volume della radio troppo alto e che uno adorasse esser chiamato gay. Inappropriato anzi stupido termine che detesto anche perché in inglese «gay» vuoi dire «allegro», e quando scrivo in inglese non so a che santo votarmi per dire allegro. Da quel punto di vista la parola «gay» è un vero furto al vocabolario e vorrei proprio sapere chi è l'irresponsabile che la mise in giro, che la adottò».

Nel secondo l'autrice ricorderà la sua amicizia e frequentazione con Pier Paolo Pasolini: «Eravamo in un ristorante lungo la via Appia, ricordo, e seduti al tavolo aspettavamo Alekos che era molto in ritardo a causa d'uno sciopero aereo. D'un tratto Pier Paolo mi accarezzò una mano e riferendosi al mio libro Lettera a un bambino mai nato (libro che odiava) mormorò: «Quanto a infelicità, anche tu non scherzi». Credendo che si riferisse al mio libro gli chiesi da dove venisse quell' anche, il discorso scivolò immediatamente sulla sua incontrollabile omosessualità».

Oriana Fallaci: ecco il perchè della contrarietà alle adozioni gay. La compianta Oriana Fallaci ha spiegato con buon piglio ed un’ottima dose di buon senso la sua posizione lontana dall’essere omofoba, ma di totale contrarietà nei confronti dell’omosessualità che diviene ideologia e soprattutto contraria all’ipotesi di far adottare i bambini a coppie di gay.

"L’omosessualità in sé non mi turba affatto. Non mi chiedo nemmeno da che cosa dipenda. Mi dà fastidio, invece, quando (come il femminismo) si trasforma in ideologia. In categoria, in partito, in lobby economico-cultural-sessuale. E grazie a ciò diventa uno strumento politico, un’arma di ricatto, un abuso Sexually Correct. O-fai-quello-che-voglio-io-o-ti-faccio-perdere-le-elezioni. Pensi al massiccio voto con cui in America ricattarono Clinton e con cui in Spagna hanno ricattato Zapatero. Sicché il primo provvedimento che Clinton prese appena eletto fu quello di inserire gli omosessuali nell’esercito e uno dei primi presi da Zapatero è stato quello di rovesciare il concetto biologico di famiglia nonché autorizzare il matrimonio e l’adozione gay. Un essere umano nasce da due individui di sesso diverso. Un pesce, un uccello, un elefante, un insetto, lo stesso. Per essere concepiti, ci vuole un ovulo e uno spermatozoo. Che ci piaccia o no, su questo pianeta la vita funziona così. Bè, alcuni esperti di biogenetica sostengono che in futuro si potrà fare a meno dello spermatozoo. Ma dell’ovulo no. Sia che si tratti di mammiferi sia che si tratti di ovipari, l’ovulo ci vorrà sempre. L’ovulo, l’uovo, che nel caso degli esseri umani sta dentro un ventre di donna e che fecondato si trasforma in una stilla di Vita poi in un germoglio di Vita, e attraverso il meraviglioso viaggio della gravidanza diventa un’altra Vita. Un altro essere umano. Infatti sono assolutamente convinta che a guidare l’innamoramento o il trasporto dei sensi sia l’istinto di sopravvivenza cioè la necessità di continuare la specie. Vivere anche quando siamo morti, continuare attraverso chi viene e verrà dopo di noi. E sono ossessionata dal concetto di maternità. Oh, non mi fraintenda: capisco anche il concetto di paternità. Lo vedrà nel mio romanzo, se farò in tempo a finirlo. Lo capisco così bene che parteggio con tutta l’anima pei padri divorziati che reclamano la custodia del figlio. Condanno i giudici che quel figlio lo affidano all’ex-moglie e basta, e ritengo che nella nostra società oggi si trovino più buoni padri che buone madri. (Segua la cronaca. Quando un padre impazzito ammazza un figlio, ammazza anche sé stesso. Quando una madre impazzita ammazza un figlio, non si ammazza affatto e va dal parrucchiere). Ma essendo donna, e in più una donna ferita dalla sfortuna di non esser riuscita ad avere figli, capisco meglio il concetto di maternità………Ma qualcun altro me lo chiederà. Quindi ecco. Un omosessuale maschio l’ovulo non ce l’ha. Il ventre di donna, l’utero per trapiantarcelo, nemmeno. E non c’è biogenetica al mondo che possa risolvergli tale problema. Clonazione inclusa. L’omosessuale femmina, si, l’ovulo ce l’ha. Il ventre di donna necessario a fargli compiere il meraviglioso viaggio che porta una stilla di Vita a diventare un germoglio di Vita poi un’altra Vita, un altro essere umano, idem. Ma la sua partner non può fecondarla. Sicché se non si unisce a un uomo o non chiede a un uomo per-favore-dammi-qualche-spermatozoo, si trova nelle stesse condizioni dell’omosessuale maschio. E a priori, non perché è sfortunata e i suoi bambini muoiono prima di nascere, non partecipa alla continuazione della sua specie. Al dovere di perpetuare la sua specie attraverso chi viene e verrà dopo di lei. Con quale diritto, dunque, una coppia di omosessuali (maschi o femmine) chiede d’adottare un bambino? Con quale diritto pretende d’allevare un bambino dentro una visione distorta della Vita cioè con due babbi o due mamme al posto del babbo o della mamma? E nel caso di due omosessuali maschi, con quale diritto la coppia si serve d’un ventre di donna per procurarsi un bambino e magari comprarselo come si compra un’automobile? Con quale diritto, insomma, ruba a una donna la pena e il miracolo della maternità? Il diritto che il signor Zapatero ha inventato per pagare il suo debito verso gli omosessuali che hanno votato per lui?!? Io quando parlano di adozione-gay mi sento derubata nel mio ventre di donna. Anche se non ho bambini mi sento usata, sfruttata, come una mucca che partorisce vitelli destinati al mattatoio. E nell’immagine di due uomini o di due donne che col neonato in mezzo recitano la commedia di Maria Vergine e San Giuseppe vedo qualcosa di mostruosamente sbagliato. Qualcosa che mi offende anzi mi umilia come donna, come mamma mancata, mamma sfortunata. E come cittadina. Sicché offesa e umiliata dico: mi indigna il silenzio, l’ipocrisia, la vigliaccheria, che circonda questa faccenda. Mi infuria la gente che tace, che ha paura di parlarne, di dire la verità. E la verità è che le leggi dello Stato non possono ignorare le leggi della Natura. Non possono falsare con l’ambiguità delle parole «genitori» e «coniugi» le Leggi della Vita. Lo Stato non può consegnare un bambino, cioè una creatura indifesa e ignara, a genitori coi quali egli vivrà credendo che si nasce da due babbi o due mamme non da un babbo e una mamma. E a chi ricatta con la storia dei bambini senza cibo o senza casa (storia che oltretutto non regge in quanto la nostra società abbonda di coppie normali e pronte ad adottarli) rispondo: un bambino non è un cane o un gatto da nutrire e basta, alloggiare e basta. E’ un essere umano, un cittadino, con diritti inalienabili. Ben più inalienabili dei diritti o presunti diritti di due omosessuali con le smanie materne o paterne. E il primo di questi diritti è sapere come si nasce sul nostro pianeta, come funziona la Vita nella nostra specie. Cosa più che possibile con una madre senza marito. Del tutto impossibile con due «genitori» del medesimo sesso". Oriana Fallaci

Dà della lesbica all'ex compagna. Condannato: un anno e 2 mesi. Invano il difensore dell'uomo, Marco De Giorgio, cerca di spiegare al giudice che «lesbica» non può essere un insulto omofobo, perché la omosessualità femminile non dispone di eufemismi e di oltraggi, scrive Luca Fazzo, Mercoledì 03/02/2016, su "Il Giornale". In aula al Senato la legge sulle unioni gay muove i primi, tormentati passi; negli stessi minuti, ieri mattina, cinquecento chilometri più nord, anche in un'altra aula, si parla di unioni gay. Ma questa è un'aula di tribunale, al piano terreno del palazzo di giustizia milanese: e il processo che vi si svolge racconta la distanza profonda che c'è tra il dibattito politico e un sentire comune e diffuso, soprattutto nelle fasce meno acculturate e politicamente corrette. Un mondo dove un padre trova difficile accettare che la propria compagna abbia una relazione omosessuale; e addirittura intollerabile che la propria figlia venga ospitata e coccolata dalla nuova coppia, dalle due donne divenute amanti.L'uomo reagisce male: e ieri, nell'aula dei processi per direttissima, si trova a rispondere di maltrattamenti in famiglia, articolo 572 del codice penale. Non è accusato di avere messo le mani addosso a nessuno, ma la sua ex compagna, la madre di sua figlia, lo ha denunciato per le reazioni verbali che ebbe quando seppe della relazione, e soprattutto quando le due donne iniziarono a prendere con sè la bambina, che allora aveva otto anni. «Sei una tr.. lesbica», le disse al colmo della rabbia per quegli incontri a tre che non riusciva a capire. E il giudice Mauro Gallina lo condanna: un anno e due mesi. Invano il difensore dell'uomo, Marco De Giorgio, cerca di spiegare al giudice che «lesbica» non può essere un insulto omofobo, perché la omosessualità femminile non dispone di eufemismi e di oltraggi; e che il resto si colloca nell'inevitabile scoramento prodotto dal frantumarsi di valori che l'uomo portava con sè. Certo, il mondo sta cambiando. Ma a lui non lo avevano spiegato.

“Frocio” non si dice. “Figlio di troia” sì, scrive Francesco Merlo il 26 gennaio 2016 su "La Repubblica". Dunque “frocio” non si può dire e “figlio di troia” sì? E “siciliano mafioso” non è razzismo, mentre “zingaro di merda” lo è? E se fosse ridicolo tutto questo affanno del perbenismo italiano nel compilare classifiche di legittimità dell’insulto? Non si può infatti applicare il politicamente corretto all’ingiuria, non esiste l’offesa sterile, non ci sono parolacce detergenti e anzi spesso il più turpe vaffanculo, quando è lanciato sotto stress e non quando diventa progetto politico, disinnesca il pugno. Le male parole come sfogo, come valvole liberatrici durante uno scontro sul campo di gioco, o sulla strada o persino in Parlamento, fanno muro ai ceffoni, disarmano gli istinti violenti, impediscono le botte, sono l’unico modo di darsele di santa ragione senza farsi male. E chissà se per Mandzukic è più offensiva la parola “zingaro” o la parola “merda”? Ed è più politicamente scorretto Sarri, che ha dato del finocchio a Mancini, oppure Mancini che aveva assolto se stesso quando aveva dato del “finocchio” ad un cronista? E’ infatti una giostra il mondo del politicamente corretto. Basta un piccolo cambio di scena e l’ingiuriante diventa ingiurato come nel film i Mostri dove Vittorio Gassman, pedone sulle strisce, si indigna e si ribella perché gli automobilisti, mentre gli sfiorano il sedere, gli gridano. E Gassman incede su quelle strisce a passo volutamente lento e abusa dell’asilo politico che gli offre il codice della strada: come Mancini, “ci marcia”. Ma poi quando sale sulla sua cinquecento il mostro Gassman sfreccia su quelle stesse strisce mostrando le corna ai pedoni. Più ancora della strada, lo sport è metafora di guerra, la vita combattuta con altre armi, non la politica astrusa e neppure la cultura dei privilegiati, ma il mondo dei sentimenti, materia forse non semplice ma sicuramente selvatica: il mondo del turpe eloquio. E però Konrad Lorenz tratterebbe De Rossi come uno dei suoi spinarelli e non certo come un razzista. Anche Freud sorriderebbe dinanzi alle accuse di omofobia a Sarri. Per non dire di Lévi-Strauss che si sentirebbe beato davanti a tanti selvaggi. Tanto più che, con un formidabile testa-coda, il politicamente corretto avvelena anche i selvaggi. Ieri, nelle tante trasmissioni radio, persino gli ultrà romanisti si sono impasticcati di politicamente corretto e, dando vita alla figura ossimorica dell’ultra per bene, dell’estremista formalista, per salvare il loro De Rossi hanno solennemente stabilito che non essendo Mandzukic uno zingaro non può sentirsi offeso dalla parola zingaro. Con questa logica se dici puttana a una puttana la offendi, se invece lo dici a una signora, va bene. L’importante infatti è non ledere i diritti della minoranza sfruttata (le puttane) anche a costo dell’onore della maggioranza (le signore). Insomma sei un gran maleducato, ma politicamente corretto; sei un vero facchino ma non sei un razzista. Applicando questa logica anche all’ingiuriato, solo un frocio si arrabbia se gli dicono frocio. Dunque se Mancini si arrabbia vuole dire che è frocio? La giustizia sportiva, per trovare delle attenuanti a Sarri, ha accolto questa stramba tesi degli ultrà e ne ha fatto una fonte di legge condannando l’allenatore del Napoli a solo due giorni di squalifica, e per giunta in coppa Italia, a riprova che la nostra giustizia sportiva coniuga le regole con l’humus, la legge con gli umori, in nome del popolo italiano politicamente corretto, vale a dire della curva sud che strologa di diritto, del bar sport dove il tifoso-fedele si traveste da laico. Come si vede, il politicamente corretto della plebe, che di natura è scorretta, è alla fine un pasticcio, è l’innesto del birignao nella suburra. Come se Marione Corsi, l’ex terrorista dei Nar, divo della più importante radio romanista (dice), conducesse “Che Tempo che fa” al posto di Fabio Fazio. Infine c’è la televisione che amplifica e rende caricaturale il politicamente corretto perché costringe a mentire, non conosce sfumature, insegna a parlare con la mano davanti alla bocca e dunque a occultare il corpo del reato, come ha ben spiegato ieri Spalletti, il nuovo allenatore della Roma. Alla Camera dei deputati sono stati vietati per regolamento gli zoom proprio per evitare la lettura del labiale e dunque le indiscrezioni rivelatrici, le schermate dei siti porno visitati mentre si discute della Finanziaria, l’ingrandimento del display del cellulare di Verdini terminale di traffici e commerci, le parolacce dette e scritte nei pizzini che gli onorevoli si scambiano tra loro. E certo non ci piace che sia stata oscurata la casa di vetro della democrazia. Ma una vota Dino Zoff raccontò che dovendo subire un rigore, il suo allenatore Trapattoni gli impartì un ordine in forma di consiglio: buttati a destra perché quello lì calcia i rigori sempre sulla destra. Al momento del tiro, Zoff per istinto avrebbe voluto andare a sinistra, ma prevalse l’obbedienza al Mister. Fu gol. E Zoff scomodò il cielo con una bestemmia e con un insulto secco e forte contro Trapattoni. Lo avesse ripreso la televisione, Zoff sarebbe passato alla storia del calcio come un insolente e un blasfemo, nemico di Dio e del proprio allenatore. Ecco dunque l’ultimo pasticcio del politicamente corretto: la televisione condanna alla trasparenza che però tanto più sembra fedele quanto più è infedele perché travisa mentre mostra, deforma mentre informa. E’ allora meglio nascondersi al politicamente corretto? Oppure è meglio comportarsi come profetizzava Italo Calvino? . Conosco un omosessuale che vive in un piccolo paese e che all’insulto “frocio”, che ogni tanto gli capita di subire, reagisce con orgoglio.

Insultare una fascista (incinta) non è reato, scrive Gian Marco Chiocci il 2 febbraio 2016 su “Il Tempo”. Giorgia Meloni non ha bisogno di avvocati d’ufficio, la conoscete, sa difendersi da sola. Ma quel che la fogna di internet le sta vomitando addosso dopo l'annuncio del bebè in arrivo, imporrebbe una risposta dura e bipartisan che a distanza di 48 ore ancora non s'è vista. Madri, padri, figli di, parenti prossimi o trapassati: di insulti familistici la politica si alimenta ogni giorno ma non se n'erano sentiti rivolti a un feto. I cultori della doppia morale, della superiorità intellettuale, culturale ed esistenziale, ci regalano sovente perle di ironia che a parità di sarcasmo, se rivolte a un'immigrata, una lesbica, una politica di sinistra, scatenano reazioni veementi, rimostranze parlamentare, raccolte di firme e sit-in in girotondo. Prendete la Boldrini. Impegnata com'è a far rispettare l'articolo determinativo femminile, "la" presidente della Camera ha espresso solidarietà all'ex ministro solo quando Fabio Rampelli (l'ombra lunga di Giorgia) ha evidenziato la sua partigianeria nell'esprimere solidarietà solo a chi non la pensa come la leader di An. Va detto che anche le politicanti di centrodestra si sono fatte riconoscere. Hanno tergiversato fino a quando non s'è mossa la Carfagna, dopodiché qualcuna ha preso coraggio e s'è indignata. Insomma, se la Bindi è più bella che intelligente, giustamente il mondo s'indigna con Berlusconi. Ma guai a scandalizzarsi se esponenti democratici condividono su facebook Madonna Meloni che concepisce senza peccare oppure ritwittano quel gentiluomo di sua sobrietà di Vladimir Luxuria che cinguetta sperando di tramandare la specie («auguri e figli trans»). Ti sentirai rispondere che è satira, sarcasmo, ironia. Ma sì, minimizziamo. Ridimensioniamo l’accaduto. Lo facevano anche i katanga dell’autonomia operaia quando sprangavano i missini e si difendevano così: «Uccidere un fascista non è reato».

Un orrore sul sito dell'Annunziata: giusto insultare il figlio della Meloni, scrive “Libero Quotidiano” il 3 febbraio 2016. Sull'Huffington Post di Lucia Annunziata un intervento di rara violenza contro Giorgia Meloni. A firmarlo è Deborah Dirani, che si definisce "donna, prima. Giornalista, poi". Nel mirino la leader di Fdi-An, bersagliata da insulti e sfottò dopo aver rivelato di essere incinta. E la signora Dirani, de facto, spiega che la Meloni si merita questo tipo di linciaggio. Chiarissimo l'attacco del suo articolo: "Giorgia Meloni è incinta. Giorgia Meloni è una delle responsabili della degenerazione della politica del mio Paese. Di quella politica fatta di esclusione, di negazione dei diritti, di slogan populisti e di intolleranze culturali". Dunque, la Dirani aggiunge che la Meloni "è incinta e io sono ben contenta, dico sul serio". E subito dopo riprende a manganellare: "Ma la gravidanza non fa di lei una persona migliore, non la trasforma magicamente in una donna aperta al diverso da sé. Resta esattamente quella che è e raccoglie esattamente quello che tanto si è prodigata a seminare: intolleranza". Insomma, l'intolleranza raccolta dalla Meloni in questi giorni - ricordiamolo: insulti e sfottò al nascituro, qualcosa di vergognoso che non c'entra nulla con la politica - sarebbe dovuta alla presunta intolleranza del personaggio Meloni. Quale intolleranza? Si suppone il sostenere politiche di destra, una roba che la signora Dirani non può tollerare, tanto che nello stesso, improponibile e violento, commento si spinge a scrivere: "Buona gravidanza, Giorgia Meloni e... Speriamo che sia femmina (volevo aggiungere anche comunista!)".   

Vacca: Family day non reazionario, la sinistra rischia la deriva nichilista. Il filosofo marxista ritiene giusto il sì alle unioni civili, ma sulla stepchild adoption sposa la posizione del Circo Massimo: «Come si fa a dire che avere un figlio è un diritto?» Scrive Massimo Rebotti il 2 febbraio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Giuseppe Vacca è un filosofo marxista, una vita nel Pci e nelle sue successive declinazioni, fino al Pd di cui è uno degli intellettuali più autorevoli. Nel 2012, insieme ad altre figure di riferimento della sinistra, come Mario Tronti e Pietro Barcellona, firma un documento sulla «emergenza antropologica»: si sostiene che esistono «valori non negoziabili» e si apprezza l’impegno della Chiesa, allora di Benedetto XVI, per difenderli. Ai firmatari viene affibbiata l’etichetta di «marxisti ratzingeriani». Qualche anno dopo quei temi sono al centro del dibattito sulle unioni civili; il professor Vacca ha seguito con attenzione sia il Family day che le iniziative a favore del ddl Cirinnà.

Che cosa pensa di chi dice che le piazze contro le unioni civili sono reazionarie?

«Definire il Family day reazionario è assolutamente improprio. Su come regolare le questioni della vita non si può applicare la coppia progresso-reazione. Quella folla esprime un modo di vedere la famiglia che appartiene a una vasta parte della società italiana».

Si sente equidistante?

«No. Io penso che sia un bene che la legge sulle unioni civili passi. Ma si deve risolvere il nodo della stepchild adoption: trovo fondate le osservazioni di chi dice che può essere un modo surrettizio per introdurre la maternità surrogata, l’utero in affitto».

Hanno quindi ragione i manifestanti del Family day?

«Sul punto sì, il problema c’è. Così come penso che non sia necessario declinare al plurale la famiglia, che è una. Detto questo, è necessario riconoscere le unioni civili».

C’è un clima da fronti contrapposti?

«Direi di no. Al netto delle sigle politiche che si sono aggiunte, penso che entrambe le piazze fossero dialoganti. Chiunque giochi alla contrapposizione, sbaglia».

Un passo avanti rispetto ad altri «scontri» tra laici e cattolici?

«Sì, il confronto è più maturo rispetto ai tempi dell’aborto o del divorzio. Basta guardare l’intervista, molto bella, che il cardinale Ruini ha rilasciato al Corriere quando ha detto che non c’è una sola modernità».

A proposito di modernità: lei ha parlato di una «emergenza antropologica».

«È un’epoca in cui ci sentiamo sottoposti a varie minacce, il discrimine tra il naturale e l’artificiale si mescola, non ci sono solo “magnifiche sorti e progressive”. È una deriva per cui, come diceva Margaret Thatcher, la società non esiste ma esistono solo gli individui».

C’entra con le unioni civili?

«Come si fa a dire, per esempio, che avere un figlio è un diritto? Come si può pensare di declinare tutto nella chiave della libertà individuale, come se ciò che accade prescindesse dal modo in cui si compongono le volontà e le coscienze dei gruppi umani?».

Sbaglia la sinistra a fare dei diritti individuali il fulcro della sua azione politica?

«Assolutamente sì. La sinistra subisce una deriva nichilista, in termini marxisti la definiremmo spontaneista».

Cioè?

«Non è più capace di grandi visioni sul mondo, dalle guerre ai conflitti economici. Assolve mediamente i suoi compiti nazionali, ma sui grandi scenari mostra un impoverimento culturale che genera analisi povere. Negli anni Settanta laici e cattolici hanno fatto la più bella riforma del diritto di famiglia. E dopo? Di fronte a quello che cambia su questi temi, la sinistra non ha più niente da dire? Penso al referendum sulla fecondazione assistita quando tutto è stato ridotto a uno scontro tra fede e scienza. Insomma, il professor Veronesi è un grande medico, ma non uno statista...».

La piazza cattolica le è sembrata più consapevole dei «grandi scenari»?

«Lì si è manifestato un denominatore comune, la nostra civiltà cristiana. È una grande eredità».

Del resto del calo demografico non gliene fotte niente a nessuno.

PARLIAMO DEL CALO DEMOGRAFICO.

Il popolo senza età del Paese vuoto, scrive Ilvo Diamanti l'1 febbraio 2016 su “La Repubblica”. È il tempo della demografia. Argomento importante e discusso almeno quanto la democrazia. È sufficiente, a questo proposito, osservare le manifestazioni e gli avvenimenti che hanno mobilitato il Paese, in questa fase. In nome della famiglia e delle unioni civili. Delle adozioni e della maternità surrogata. Questioni di grande rilievo etico e politico. Ma, indubbiamente, anche "demografico". Come, a maggior ragione, le migrazioni che, da mesi, proseguono, dall'Africa e dal Medio Oriente. E premono alle nostre frontiere. È il tempo della demografia. Un tempo inquieto, pervaso di paure e tensioni. E grandi discussioni. In ambito politico, mediatico. E sociale. Perché la demografia è importante quanto la democrazia. I due piani: si incrociano e si condizionano reciprocamente. Basti pensare a come democrazie considerate all'avanguardia dei diritti reagiscano alle sfide demografiche. Ai movimenti migratori che "risalgono" da Sud verso il Nord. La Svezia: ha deciso di espellere 80mila immigrati. Di rimpatriarli, con voli speciali. Mentre la Finlandia intende seguirne l'esempio. Promette di rimandarne a casa almeno 20mila. In Danimarca, invece, il governo liberale, con il sostegno dell'opposizione socialdemocratica, ha deciso effettuare prelievi forzosi sui beni personali dei richiedenti asilo, per sostenere le spese di accoglienza. In Italia non sono state ancora prese decisioni di questo genere. Ma le tensioni e le discussioni politiche sono accese. Da anni. D'altronde, Lampedusa è stata, fino a poco tempo fa, la prima "porta verso l'Europa" dell'immigrazione in fuga dalla Libia. Prima che i flussi si spostassero verso la Grecia e la Turchia. Spinti dai conflitti con l'Is nell'area fra Siria e Iraq. Ma la "questione migratoria" ha continuato a essere agitata dagli "imprenditori della paura". Che alimentano la minaccia dell'invasione. Gli stranieri alle porte, che minacciano il nostro benessere. Il nostro futuro. Un argomento inquietante - e dunque attraente - in questi tempi inquieti. Noi, d'altronde, siamo un Paese in "transizione", sotto il profilo democratico (anche se la transizione, suggerisce Stefano Ceccanti, in un saggio in uscita per Giappichelli, sarebbe "quasi finita"). Ma in via di "estinzione" sotto il profilo demografico (come suggerisce il dossier del Foglio di lunedì scorso). I dati, al proposito, sono noti da tempo. Ma, di recente, appaiono perfino drammatizzati. Per la prima volta, dopo il biennio 1917-18, cioè dall'epoca della Grande Guerra, la popolazione residente in Italia, nel 2015, è diminuita. Di circa 150 mila unità, segnala il demografo Gian Carlo Blangiardo (sul portale neodemos.info). Perché sono aumentati i decessi, mentre le nascite hanno continuato a calare. E il contributo demografico degli immigrati si è molto ridimensionato, rispetto ad alcuni anni prima. La paura dell'invasione, dunque, contrasta con la realtà dei fatti. Ma anche con la posizione (e la percezione) dell'Italia, presso gli stranieri. Il nostro Paese, infatti, agli immigrati che arrivano appare prevalentemente un "luogo di passaggio". Una stazione provvisoria. Verso altre destinazioni, più ambite. D'altronde, i flussi migratori sono strettamente legati agli indici di crescita economica e dell'occupazione. Ma anche all'estensione del welfare. Condizioni favorevoli all'accoglienza, che, tuttavia, si stanno deteriorando ovunque, in Europa. E da noi in modo particolare. La nostra "demografia", dunque, soffre. Come la nostra economia e la nostra occupazione, che difficilmente avrebbero potuto svilupparsi, negli ultimi vent'anni, senza il "soccorso" degli immigrati. Noi, tuttavia, non ce ne accorgiamo. E soffriamo l'arrivo degli "altri". Il nostro declino demografico riflette, inoltre, l'invecchiamento. La popolazione anziana (da convenzione: oltre 65 anni), in Italia, costituisce, infatti, il 21,4% della popolazione. Il dato più alto in Europa, dove la media è del 18,5%. Accanto a noi, solo la Germania. Per avere un'idea della crescita, si pensi che, nel 1983, la quota di popolazione anziana, da noi, era intorno al 13%. Sul piano globale, l'Italia è già oggi il terzo paese per livello di invecchiamento, anche perché appena il 14% dei residenti è al di sotto dei 15 anni. D'altronde, noi invecchiamo in misura maggiore che altrove non solo per la caduta dei tassi di natalità e per l'aumento della mortalità, ma perché l'emigrazione colpisce anche noi. Sono partiti dall'Italia quasi 95mila italiani nel 2013 (secondo il Rapporto della Fondazione Migrantes), poco meno di 80mila nell'anno precedente. Molti più degli stranieri arrivati in questi anni. Si tratta, soprattutto, di giovani (fra 18 e 34 anni). In possesso di titolo di studio elevato. I nostri giovani, i nostri figli. Soprattutto se dispongono di un grado di istruzione elevato. E ambiscono a occupazioni adeguate. Se ne vanno. Praticamente tutti. Perché l'Italia non riesce a trattenerli. A offrire loro opportunità qualificanti. Così invecchiamo sempre di più. E ci sentiamo sempre più soli. Anche se ci illudiamo di restare giovani sempre più a lungo. Per sempre giovani. Basti pensare che (secondo un sondaggio dell'Osservatorio Europeo sulla Sicurezza, curato da Demos-Oss. Pavia e Fondazione Unipolis, di prossima pubblicazione) il 19% degli italiani pensa che la giovinezza possa durare anche oltre i 60 anni. Il 45% che finisca tra 50 e 60 anni. Io, che, a 63 anni compiuti, mi considero (almeno) anziano, senza rimpianti e, anzi, con una certa soddisfazione, per aver conquistato il "privilegio" di una maturità avanzata, mi devo rassegnare. Alla condanna di non invecchiare. O meglio (peggio...), di non diventare adulto. Una minaccia che, come hanno rammentato di recente Ezio Mauro (su Repubblica) e Gustavo Zagrebelsky (in un saggio pubblicato da Einaudi), incombe su di noi. In particolare, sugli italiani. Abitanti di un Paese che non c'è. In un tempo che non c'è. Per questo dovremmo fare appello alla demografia. Leggerne le indicazioni e gli ammonimenti. Ma per non estinguerci, per non finire ai margini, dovremmo davvero chiudere le frontiere. Verso Nord. Per impedire agli immigrati - come ai nostri giovani - di andarsene altrove. E di lasciarci "a casa nostra". Sempre più vecchi. Sempre più soli. Sempre più incazzati. Con gli altri. Ma, in realtà: con noi stessi.

Perché rinunciamo a fare figli. Madri da paura. Oltre le statistiche ci sono le domande sul futuro, gli egoismi, le ansie, gli ingorghi del femminismo e le irresponsabilità dei padri. Fra punture, camici bianchi e ostinazioni. Un’indagine di Annalena Benini su “Il Foglio” del 23 Gennaio 2016. E adesso che puoi avere tutto, cosa c’è che non va? Adesso che puoi decidere, puoi vivere, puoi dire no, puoi chiedere aiuto, puoi diventare chi sei. Adesso che non devi liberarti da un’oppressione. Ora che puoi correre incontro ai tuoi desideri. Fare un po’ come ti pare, abbracciare il caos. Non dirmi che hai paura, adesso. Paura di perdere qualcosa, paura di non avere abbastanza cose. Paura di non essere brava come scrivono nei libri. Paura di annoiarti. Paura di diventare cattiva. Paura di amarlo poco, di amarlo male. Paura di soffocare gli altri desideri. Paura di dire: voglio un figlio, e se tu amore invece non lo vuoi, se te ne stai lì sulla porta a dire no, è presto, è tardi, non so, allora però adesso spostati, che mi stai bloccando il traffico. Paura, adesso che sai bene il mondo che cos’è, di farne ricominciare un altro, però sconosciuto: insieme alla vita di un figlio viene alla vita, sempre, nuovamente, anche il mondo, ricomincia da capo. E’ uno sconvolgimento, una sovversione, non è vero che è soltanto un fatto naturale. Non lo è. Per lui che nasce, ma anche per te che torni nuovamente a nascere, questa volta come madre, che metti una vita a disposizione della vita, tiri un calcio al sé immutabile e fai entrare nei pensieri e negli incubi la baby-sitter, le malattie, le cadute dal quarto piano, gli orsi affamati, le dimissioni in bianco, l’utero retroverso. Per il padre, che in sala parto, stravolto, si accorge per la prima volta di questo principio di alterità, e dell’incognita: non sapevamo, non abbiamo mai saputo e non sapremo mai, nonostante quindici ecografie anche tridimensionali, chi stavamo aspettando. E per tutti quelli che stanno intorno a guardare, e sentono un’energia potentissima che arriva addosso ed è la vita nuova. Per il mondo, che da quel momento accoglie l’uomo in più, così somigliante a tutti eppure totalmente diverso. Così simile a te, o con quel modo di muovere le mani che riconosci eppure nessuno gli ha mai insegnato, somigliante ma sconosciuto, misterioso, un altro. E’ uscito da te, ma non sei tu, è altro sangue, nuovi desideri, e il bisogno carnale che ha di te. Ti guarda e piange, ti guarda e aspetta, lo guardi e sì, adesso lo vedi quanta paura, quanta voglia avevi. Il 2015 è stato in Italia un anno senza figli. Poche nascite, un minimo storico continuamente superato da nuovi minimi storici. Meno di cinquecentomila bambini, meno del 2014, meno del 2013, meno dell’anno precedente e così via. Decine di migliaia di figli che non sono venuti al mondo, molti mondi in meno da far ricominciare. E’ brutto anche solo scriverlo, sembra un film distopico in cui l’umanità si estingue e i cani randagi vanno a caccia di bambini, ma nascono meno persone di quante ne muoiono, ed è da più di vent’anni una tendenza piuttosto continua, salvo un piccolo boom nel 2006 (gli statistici dicono: grazie agli immigrati) che però non ha spostato la media nazionale: un figlio virgola tre per coppia, adorato, viziato, analizzato, conteso, sulle spalle del quale far pesare tutto il mondo nuovo, tutti questi anziani (e i loro diritti alle pensioni) che lo osservano, lo studiano, scrivono manuali su come crescerlo nel modo migliore, come giocare con le costruzioni e avere successo nella vita, come sbagliare e avere successo, come colorare fuori dagli spazi e avere successo, come usare l’iPad e avere successo, come fare a botte e non farsi sgridare, come rassicurare la madre sul fatto che è la migliore del mondo: madre elicottero tigre orso libellula chioccia riccio (senza parlare della terribile madre coccodrillo), per ogni bambino cento manuali, per ogni manuale un tipo di madre diversa ma concentrata nel tirare fuori il meglio e vincere la gara, e tutti gli anziani in cerchio, molto preoccupati, molto ansiosi, fissano da sotto gli occhiali il bambino con l’abito d’oro e gli dicono: hai paura vero, adesso che tocca a te? Perché se i bambini diminuiscono, se ogni nascita è un evento sociale, una prova di coraggio, il figlio che viene al mondo porta con sé quel che resta dell’idea di futuro. E’ lui stesso, la sua esistenza, o il sogno di lui, la prova di una speranza, di un desiderio ingovernabile che si fa largo in mezzo ad altri desideri, ad altri bisogni, che supera le opposizioni, i discorsi sull’opportunità, sulla precarietà, e che sgomita e lavora dentro e prende spazio, e una notte fa dire a un ragazzo dentro un letto, sopra un divano, su una spiaggia o dentro un’automobile: proviamoci dai, che ci importa, e sull’onda di quel “che ci importa” (che ha dentro l’amore, l’abbandono, la libertà) può arrivare la sorpresa, l’incertezza di una vita certissima che sovverte ogni equilibrio, manda all’aria tutti i programmi e fa vincere, sopra questo mondo teso all’eliminazione di ogni incognita, la tenerezza insieme allo sgomento. Oppure succede qualcos’altro, in un’altra notte dentro una stanza d’albergo, un ventilatore sulla testa perché a Ho Chi Minh d’estate si muore di caldo, e un’amica chiede all’altra, alla fine di un lungo aggiornamento sui tumulti sentimentali, per questi fidanzati sofferenti, tormentati, coetanei infinitamente ragazzini, “ma tu tra dieci anni come vedi la tua vita?”. Questa domanda non era un giudizio, era una curiosità, un modo per addormentarsi chiacchierando sotto il ventilatore, ma a lei è arrivata addosso come un vento freddo, dentro il caldo che faceva lì: a trentaquattro anni, con tutto quello che voglio, con questo desiderio di mondo e di amore e di bellezza e anche con queste teste di cazzo di cui mi innamoro, io però che cosa voglio, adesso che tengo gli occhi fissi su quel ventilatore e non posso più dormire, lo so: voglio un figlio. A Ho Chi Minh di notte il desiderio ha preso il sopravvento, e al ritorno a Roma lei ha detto a lui: spostati, la mia vita deve passare da qui, o vieni dentro o te ne vai fuori. “Il desiderio della madre – ha scritto lo psicoanalista Massimo Recalcati in “Le mani della madre” (Feltrinelli) – non può essere ridotto al ‘voler avere un figlio’; non è ricerca spasmodicamente attiva del figlio, ma disposizione all’attesa… E’ necessario un ‘sì’ radicale”. Questa disposizione all’attesa, questa disposizione alla sorpresa, all’incertezza, al futuro, e questa voglia che brucia nello stomaco, a un certo punto, che fa cambiare strada, cambiare sguardo, che si fa largo fra altre mille cose anche bellissime, e supera terrori e disastri e calcoli matematici, e dentro grida “sì” (e riguarda però non soltanto le donne al cospetto della possibilità di una vita nuova, riguarda anche gli uomini, riguarda i genitori che verranno), sta drammaticamente diminuendo in Italia, ogni mese un po’ di più, ogni mese meno mondo da scoprire, e ogni anno si alza ancora un po’ l’età media in cui una donna ha il primo figlio. Siamo a trentun anni e mezzo, e ai corsi preparto per ogni ventottenne terrorizzata ci sono almeno tre trentanovenni in preda al panico. Sembra sempre troppo presto, anche quando è un po’ tardi, e questa lotta tra la biologia e la paura, tra la biologia e la razionalità, tra la biologia e il controllo, tra l’amore e la programmazione (anche tra l’amore e i fidanzati stronzi), ha creato, a poco a poco, nuove possibilità, molta tecnologia, conquistata con le unghie e con i denti, lotte durissime e scontri culturali e ideologici, amicizie infrante in nome degli embrioni (chi sarebbe pronto a usarli per farsi ricrescere i capelli, chi li chiama ciascuno per nome e li iscrive all’università), convinzione a intermittenza che il congelamento degli ovuli salverà le nostre vite e le carriere e guarirà i disastri sentimentali di tutte le splendide quarantenni, ma il risultato non cambia: i nuovi nati non aumentano in alcun posto del mondo, le donne che fanno figli diminuiscono anche in Francia e mercoledì scorso il Figaro ha dedicato quattro pagine a questa “chute inquiétante”, della natalità: uno virgola novantasei figli per donna, per la prima volta da quasi vent’anni, “simbolo inquietante per il rinnovamento delle generazioni”, e ha accusato Hollande, e in generale la gauche, “di avere sacrificato la famiglia sull’altare di una solidarietà non equa” (il matrimonio per tutti, scrive il Figaro, è stato la priorità, e la famiglia è stata privata da questa politica incoerente di tre miliardi di euro). Perché, ognuno al proprio posto, dal proprio punto di vista, pensa di avere la spiegazione, il colpevole, lo sbaglio occidentale (per Emil Cioran sarebbe semplicemente questo: “Quando un popolo ama la vita, rinuncia implicitamente alla sua continuazione”), qualcosa che spieghi lo stupore, e anche il sospetto, che proviamo nel guardare le famiglie numerose (due genitori atei di quattro figli raccontano che la prima domanda è sempre: siete molto religiosi?, siete contrari alla contraccezione?, ma loro non sono contrari a niente, nemmeno alle domande sceme: per anni avevano provato ad avere un figlio, e non succedeva, avevano deciso di non decidere niente, di non pensarci più, poi non pensandoci più lei è rimasta incinta quattro volte in dieci anni, e però “abbiamo fatto qualche figlio, non degli attentati”). Mio nonno, che aveva fatto i figli negli anni Cinquanta e poi nei Sessanta, mi diceva quando ero bambina: tu non sposarti mai eh, non fare figli, i figli sono una schiavitù, lo diceva ridendo ma un po’ serio, lui che amava andare in giro per le campagne, portarmi gatti in regalo, abbracciare gli alberi anche, e forse tornare a casa la sera, dentro un appartamento di città da cui si vedeva il fiume ma solo dalla finestra, non era sempre esaltante. Mio padre e mia madre, che studiavano a Bologna nei primi anni Settanta e avevano venticinque anni quando sono nata io, mi dicevano ugualmente: non fare figli, non sposarti, e intanto si tiravano qualche piatto, mia madre ogni tanto lanciava delle magliette dentro una borsa di pelle e mi diceva mettiti la giacca che ce ne andiamo, ma non andavamo mai via davvero, e nel frattempo hanno fatto mia sorella, e le dicevano: mi raccomando, non fare figli. Non li abbiamo mai ascoltati, né loro né mio nonno, non abbiamo mai pensato che volessero dire qualcosa di terribile come: peccato che siete nate, piccole e pesanti catene alla caviglia che hanno impedito ai genitori di realizzarsi e andare liberi in giro per il mondo, e sono sicura di no, era solo un modo di sentirsi un po’ speciali, disincantati, ideologici negli anni in cui fare figli era totalmente ovvio ma cominciava a sbattere contro le esigenze di libertà femminile, contro “la fine della dedizione assoluta”, come l’ha definita la filosofa femminista francese Elisabeth Badinter in un suo libro importante, “L’amore in più, storia dell’amore materno” (Fandango), e a un certo punto, dentro le lotte e le sigarette e la ribellione, quasi tutte le ragazze indossavano dei camicioni sotto cui si intravedeva la pancia (mia nonna nemmeno si era accorta di essere incinta, andava a insegnare in una scuola di campagna in motorino, con il cane che le correva dietro, però un giorno non le si chiudeva più la gonna e allora le è venuto un dubbio). Loro prima di noi non erano più ricchi, più preparati, più sicuri, ben serviti, mantenuti o accuditi dallo stato, i loro genitori avevano visto la guerra, avuto fame e paura e tormento, probabilmente non erano nemmeno più solidamente innamorati, erano però più disposti a fare spazio, anche a farlo prima, ad abbandonarsi con fiducia incosciente a una promessa di futuro che sarebbe arrivato sotto forma di bambino rosa e di nuove paure di povertà e sofferenza, ma un bambino in fondo non aveva bisogno di chissà quale dispiegamento di forze e di oggetti e allora, come ha scritto Natalia Ginzburg in un racconto del 1962, “baderò che i miei figli abbiano i piedi sempre asciutti e caldi, perché so che così dev’essere se appena è possibile, almeno nell’infanzia. Forse anzi per imparare poi a camminare con le scarpe rotte, è bene avere i piedi asciutti e caldi quando si è bambini”. Il sentimento verso i figli, e quindi verso il domani, può prevedere anche l’eventualità delle scarpe rotte e la coscienza della fragilità (prima eravamo pronti a gettarci fra i cannibali, bere acqua dalle pozzanghere, lanciarci dagli aerei, mangiare vermi vivi, dormire a casa di sconosciuti con coltelli fra i denti, adesso per bere un biccher d’acqua abbiamo bisogno di uno sterilizzatore, e gettiamo sulle cose uno sguardo sospettoso che prima non ci riguardava), ma mai mai mai può contenera quest’idea occidentale di appassimento. Appassimento di speranza, vitalità, possibilità, nonostante scarpe sempre asciutte e nuove, incapacità di scegliere il proprio passo: è questo il disegno che compie la paura, girando su se stessa e attorno al resto delle cose della vita, trovando che sia troppo presto, troppo tardi, troppo casino, troppo pericoloso, troppo impossibile. Troppo difficile, dopo, avere tutto, che è poi l’argomento principale del dibattito anglosassone sulla maternità, con tutte le signore del potere che spiegano, con questo senso molto concreto della vita quotidiana, che invece basta lavorare spesso da casa, chiedere sempre aumenti, sposare un uomo servizievole, restare magre. Secondo la storica Marina D’Amelia, che ha scritto anche un libro sull’evoluzione della madre, “c’è nel profondo un conflitto, anche non accettato, tra la libertà della donna e le esigenze di cura: la maternità è anche un evento narcisistico e le donne si sono conquistate molte altre aspettative di gratificazione”. Gli psicoanalisti dicono che vivere un figlio come un ingombro, come un ostacolo alla propria realizzazione, come possibilità di offuscamento di sé ha generato questa donna freudiana innamorata di sé, che quando diventa madre fa molti danni, soprattutto con le figlie femmine: una specie di cannibalessa che svaluta tutto ciò che lei non è. Invece Giulia ha trentasei anni e vuole un figlio da quando ne aveva diciotto, ma ha paura che poi non le diranno più: quanto sei brava, vieni a progettare anche questo palazzo?, e il suo fidanzato, pochi anni in più, le dice: godiamoci un po’ di tempo noi prima, andiamo a bere un bicchiere, andiamo in Messico a Natale, “e allora anche a me vengono i dubbi, perché lui fa una faccia spaventata”. Ma tu, tu che cosa vuoi? Io voglio farlo con tanta voglia io, ma pure con tanta voglia lui, non con tanta paura noi. Fanno discorsi sensati, parlano di welfare che non c’è e di accoglienza che manca, di uomini che non lasciano il posto alle donne incinte sull’autobus, di capi che le licenziano, di nord Europa più evoluto (“In Olanda la puericultrice va a casa, pagata dallo stato!”), e anche di caviglie grosse e di cellulite, dell’eventualità di impazzire e di perdere il senso dell’umorismo (“e se poi parlo solo di pappe biologiche e di sculture con la pasta di pane?”), ma poi dicono tutti: paura. La parola è sempre: paura. Negata, rimangiata, derisa. “Ma no io non ho per niente paura, te lo giuro, ma quale paura, ho solo paura di diventare troppo ansiosa con un bambino, e poi lui non vuole farlo, ha paura di essere troppo vecchio”. Antonella ha trent’anni e mezzo, il suo fidanzato quarantasei. Per fare un figlio serve una disposizione ad aspettarlo, oltre alla fortuna di riuscire a concepirlo, con o senza l’aiuto e la fatica di aghi, ormoni, insuccessi, ginecologhe che guardano preoccupate il tracciato della tua “riserva ovarica” e scuotono la testa. Serve un uomo (anche se a volte invece non serve, può andarsene a quel paese, ma Elisabeth Badinter, spesso contraria agli uomini e anche ai figli, ha preso atto “di questa irriducibile volontà femminile di condividere con l’uomo e l’universo e i figli”), un uomo che dica: sono qui, però promettimi che smetti di fumare. Sono qui, però giura che non andrà alla Montessori. Sono qui, ci pensiamo insieme. Lo facciamo insieme. Anzi, ora che ci penso, sento che ho le doglie: la psicoanalista Simona Argentieri li ha definiti “padri materni” in un pamphlet pubblicato da Einaudi: uomini dolci e apprensivi che si inchinano davanti a bambini molto accessoriati, li porgono con delicatezza alle madri per l’allattamento on demand (a richiesta), mandano messaggi agli amici: oggi pesiamo sei chili e quattrocento grammi e siamo lunghi cinquantasette centimetri. Ho visto un padre di quarant’anni, al suo primo bellissimo figlio, alzarsi da una lunga tavolata di amici e dire, in una trattoria in Umbria: scusateci un momento, noi andiamo ad allattare, e dirigersi fieramente, moglie accanto e neonato in braccio, verso un luogo più riparato. E uscire di corsa sotto la pioggia, in preda a un impulso irrefrenabile, per andare ad acquistare il maialino divora pannolini, un bidone cilindrico bianco e blu che quando ci getti dentro un pannolino lo comprime. Lui ha preteso il diritto di precedenza sul cambio pannolino, anche di notte, lei glielo ha ceduto volentieri ma adesso è gelosa, dice: ormai preferisci il maialino a me, non ci butti nemmeno più i pannolini per non offenderlo. Lui, che prima del figlio partiva per viaggi solitari, stava giorni senza parlare, faceva a botte allo stadio, scalava le montagne e frequentava suonatrici di flauto con poncho peruviani che dormivano nelle soffitte gelate, adesso ha scelto il riscaldamento a pavimento perché il bambino possa gattonare sereno, e usa ogni sera il mostruoso aspira muco, una cannuccia nella narice del bambino e una nella bocca del padre, perché il bambino dorma sereno, anche se non ha il raffreddore. “La responsabilità verso un figlio si è ulteriormente aggravata”, dice Marina D’Amelia, “si sono modificati i criteri di allevamento di un bambino, gli standard di bravi genitori sono altissimi e costosi, in termini di libertà, denaro, tempo per sé”. Mia figlia quando è nata ha dormito per un anno in una carrozzina in corridoio, poi in un lettino in corridoio, poi in una stanzetta tutta per sé, che infatti ha odiato e tornava sempre in corridoio con i libri accatastati intorno e la polvere a cui non è per fortuna allergica. “Abbiamo paura di un soffio di vento, d’una nuvola in cielo”, scrive Natalia Ginzburg ne “I rapporti umani”, “non verrà la pioggia? Noi che avevamo preso tanta pioggia, a testa nuda, coi piedi nelle pozzanghere! Adesso abbiamo un ombrello. E ci piacerebbe avere anche un portaombrelli, a casa, nell’anticamera”. E pensiamo che senza portaombrelli, senza umidificatore, senza maiale porta pannolini, senza carta da parati con i coniglietti, senza nonni disposti a portarlo a judo e a violino, senza risparmi per farlo studiare a Cambridge, anche, sarebbe da irresponsabili fare un bambino. E’ la nuvola minacciosa dell’accudimento compulsivo, stabilito nei dettagli, amplificato da un’idea affaticata di presente, davanti alla quale anche la più hippie delle amiche si trasforma in una signora del bridge con i capelli cotonati che stringe oscuri rapporti con altre madri ossessive, è questa idolatria competitiva a creare tormenti e senso preventivo di inadeguatezza (“le mie ansie hanno l’ansia”, dice Charlie Brown): un figlio sembra un’impresa per pochi bionici eletti oppure integralisti cattolici, o milionarie annoiate e biologiche. Quando abbiamo perso la leggerezza, lo slancio verso il futuro, quell’allegra tristezza da scarpe rotte indossate con baldanza e sbadataggine? Qualcosa ha gettato in noi le radici della timidezza, il presente non supera la soglia del tempo, e tutto intorno vediamo pericoli, scarafaggi, chiodi arrugginiti, precipizi, violenza, rinunce e inganni anche del cuore. Margherita, che ha avuto il primo figlio a quarant’anni, dopo avere abortito a trenta perché lui era un irresponsabile e lei si sentiva sola, dopo avere detto non avrò più figli perché non me li merito, perché dentro di me i fiori appassiscono e fuori di me non cresce più nulla, ha incontrato un uomo che le si è inginocchiato davanti: voglio una bambina che abbia i tuoi occhi. E lei ha vuto paura. Non dei pannolini e del lavoro, non delle notti in bianco o degli attentati: paura di non essere in grado di volere abbastanza bene a qualcuno a cui sarei stata legata per sempre, ha detto. Paura di sentirmi dentro una gabbia e di impazzire. Ma lui insisteva, voleva chiamare la bambina come sua madre, e una sera dopo una festa lei è rimasta da sola con un’amica, tutti erano andati via, il momento più bello delle feste è quando si resta soli a sparlare, dice Stefania Sandrelli in cucina con i piatti sporchi e gli occhi lucidi ne “La famiglia” di Ettore Scola, e l’amica le ha detto: fallo questo bambino, se non lo amerai lo dai a me, lo amerò io al posto tuo, lo amerò io abbastanza per tutti, io che non li ho fatti i figli perché ho aspettato tanto, troppo, fino a quando quel coglione mi ha detto che aveva messo incinta la sua insegnante di spagnolo. Se non l’ho ucciso, se non mi sono uccisa, potrò amare tuo figlio come se fosse mio. Si sono messe a piangere, hanno finito il tiramisù rimasto nei piatti degli altri, hanno bevuto champagne caldo dalla bottiglia, e Margherita ha buttato via la pillola che prendeva di nascosto (a trentanove anni, che la prendi a fare? le ha detto la sua amica, presuntuosa che sei) ma non succedeva niente. La ginecologa le ha prescritto una serie di analisi e poi le ha guardate con una specie di ghigno. “E’ praticamente impossibile, e più passa il tempo più lo sarà”. Per timidezza, e per quel senso di colpa che le fa dire sempre: me lo merito, per il passo indietro che tengono a volte quelle nate a metà degli anni Settanta (tutta l’autocoscienza delle loro madri, e l’ingorgo del femminismo in provincia, e la sensazione, fin da piccole, di avere un compito preciso: non disturbare), Margherita non aveva mandato al diavolo la ginecologa, anzi si era aggrappata diligente a quelle punture nella pancia, gli ormoni, esaminare l’ovulo, chiedergli come si sente stamattina, sei abbastanza vigoroso per farti fecondare? Vari insuccessi nel giro di un anno, e la fatalistica convinzione che era meglio non disturbare oltre. “Me lo merito”, anche. Così, quando ha avuto un ritardo di diciotto giorni, Margherita ha pensato che era sicuramente “la menopausa precoce”. Sudava, aveva un nodo allo stomaco, una sensazione strana di sdoppiamento, ha anche pensato: sono malata, me lo merito. L’amica l’ha incontrata per un caffè in piazza Farnese e le ha detto subito: quand’è che sei diventata così cretina? Andiamo a fare il test. Quale test? Di gravidanza, ma che cosa ti è successo, hai battuto la testa? No, ma è la menopausa, oppure il cancro. Solo una vera amicizia può passare attraverso il fuoco dei più violenti improperi, e così è stato per loro. Sul test è comparsa una croce blu, identica alla croce blu delle istruzioni: se il risultato è incinta, comparirà una linea blu che incrocia l’altra linea blu. E adesso? E adesso che cosa? Adesso che faccio? Adesso vai dalla ginecologa e le sfasci lo studio e le dici che è una stronza. Ma Margherita ci teneva al suo passo indietro e alla timidezza, così andò dalla ginecologa che cambiò solo un poco la forma del ghigno e le fece l’ecografia in silenzio, poi le disse che comunque c’era un distacco della placenta e doveva mettersi a letto per almeno due mesi, forse tre, “alla tua età rischi molto, poi se tutto invece va bene programmiamo il cesareo”. Margherita ubbidiva, stava a letto e pensava che se lo meritava, e che era meglio non affezionarsi a quei due centimetri dentro la pancia, meglio non pensare al nome, meglio non pensare a niente. Al massimo tornerà tutto come prima, forse dentro di me non deve crescere niente, devo solo aspettare la dissoluzione, però vestita carina, e intanto mangiare biscotti sul divano. Lui, anche dopo aver scongiurato il pericolo dei primi tre mesi, le ha impedito di prendere l’autobus, l’automobile, il taxi, le ha proibito di portare fuori il cane, le ha chiesto di non cucinare, di non lavorare, di non urlare, di respirare piano. Una sera in cui lei ha bevuto un bicchiere di vino, le ha detto: “Ti riterrò responsabile di qualunque cosa succeda a mia figlia”. Allora lei ha raccolto la timidezza, se l’è messa in tasca e l’ha mandato al diavolo, si è accesa una sigaretta ed è uscita di casa a mezzanotte, con il cane che abbaiava di gioia e strattonava il guinzaglio. Il giorno dopo ha cambiato ginecologa. La bambina è nata maschio, e Margherita ha sentito una cosa che si scioglieva dentro, come una gioia forte, come un dolore che scappa via, e giura di aver visto, nella piantina sul davanzale della finestra, un fiore giallo che sbocciava. L’ho visto mentre si apriva, capisci? Ma avevi le doglie, urlavi, deliravi, hai tirato un calcio al tuo fidanzato, te lo sei sognato. Margherita non ha replicato, è ancora timida ma senza più timidezza, e dentro di sé ha tenuto sempre quel fiore giallo che si apre piano, e non c’è nessun’altra strada se non aprirsi, è quello il destino. E’ il destino dei desideri, dei pensieri, del cielo, dell’amore, è il destino della civiltà. Andare avanti oltre quello che conosciamo, oltre il recinto della prudenza e della stanchezza, del ritmo affannoso per cercare il nostro posto e l’equilibrio, e attraversare i momenti di abitudine e compiacimento, senza più uno stupore, solo lamentarsi e preoccuparsi, fare domande sospettose, ostinarsi sui dettagli, sui piccoli desideri, invece che su quelli grandi. Così che i piccoli desideri soffocano senza farsene accorgere quelli grandi, perché nei piccoli desideri parla soltanto la ragione e muove sentenze, disserta, cita studi recentissimi sulla conciliazione di carriera e famiglia, sul ritorno del morbillo in forme pesantissime, sul denaro necessario per portare due bambini al mare a prendere aria, e l’incolumità personale sembra minacciata da questa specie di malinconico cinismo, dall’abitudine alla rinuncia, così che guardiamo i passeggini degli altri, le pance a Parigi, i figli della badante moldava nelle foto in camera da letto, e pensiamo: che coraggio, ma che egoismo, e torniamo alle nostre occupazioni con un senso di fastidio e di tumulto insieme. Un padre di due figli, separato, che adesso ha cinquant’anni e si rotola con loro nella colla e poi nelle piume di piccione e li porta alle feste e fa sculture di pongo e da anni ha le spalle dei maglioni macchiate di bava di bambino addormentato, dice che era convinto che “mettere al mondo un figlio fosse un atto di violenza”. In un mondo cattivo e stanco, che cosa ci farà un bambino? Come crescerà, su quali strade camminerà, e a che cosa mi costringerà a rinunciare? Tutta questa collettiva lucidità, e dunque scetticismo, questo allargamento delle responsabilità dei genitori, questa età adulta continuamente rimandata ma anche indagata e offesa, ha creato un’intolleranza impaurita per il domani (oltre alla consapevolezza che è ancora e sempre tutto centrato sulle capacità femminili di cura, spiegano i sociologi: i figli, gli anziani, questo presente fatto di lunga vita, che ignora la famiglia ma le lascia tutto sulle spalle). Ma le indagini sociali, le statistiche, le filosofie, e anche la fiducia in tecniche che salveranno la nostra fertilità e il nostro momento perfetto dalla disperazione, e tutti i diversi pezzetti del puzzle che compone le cause di nascite sempre più rare, perdono la loro spaventosità davanti a ogni neonato dentro un marsupio per strada, o due gemelli in un passeggino doppio, uno dorme e l’altro piange, e quella madre spinge il passeggino con una forza che nessun rapporto Istat può sfiorare. La paura di vivere se ne va vivendo. E anche se un mattino ci si sveglia nichilisti, le sorprese arrivano ancora. Per questo racconto sulla natalità caduta ho mandato un messaggio un po’ timido, all’ultimo momento, a Margherita. So che non ha tempo, il suo bambino non ha nemmeno sei mesi, ma le ho scritto: dimmi soltanto di che cosa avevi paura, prima. Lei mi ha risposto subito: “Dei serpenti, dell’Isis, delle scogliere, delle trombe dell’ascensore, delle smagliature sulla pancia, ma soprattutto di cambiare, e di non essere capace di farlo”. Però avevi questo desiderio, sempre. “Per dire una cosa un po’ trash, sai quella canzone di Baglioni, la paura e la voglia di essere nudi? Ecco, oltre a quella io ho sempre avuto anche la paura e la voglia di avere un figlio”. Ma ti posso telefonare? “No”. Perché? “Sto in un casino”. Hai un bambino buonissimo, hai il cane che bada a lui, non fare la fanatica. Margherita allora mi ha inviato un’immagine su Whatsapp, ma non riuscivo ad aprirla, e comunque tutte queste foto di neonati, mille foto al giorno in qualunque posa, anche vestiti da coccinella per carnevale, sono ricattatorie: bisogna sempre rispondere che meraviglia, e se non rispondi sei Erode. Ma questa volta stranamente non era una bambina vestita da coccinella, e nemmeno la foto di un bagnetto, né il video di una ninnananna o del primo gorgheggio. Era una specie di termometro bianco, con due striscette blu incrociate. “Ho fatto il test adesso mentre mi scrivevi, non so come sia potuto succedere”. Davvero non ne hai idea? “Quasi nessuna, e sono molto preoccupata: non ho più paura”. 

Magdi Allam: “Diritti ai gay? Così sovvertiamo società e abbiamo calo natalità”, scrive il 14 maggio 2014 Gisella Ruccia su “Il Fatto Quotidiano”. “Se noi dobbiamo recuperare questo grave deficit demografico, dobbiamo sostenere la famiglia naturale, perché, piaccia o meno, solo il sodalizio tra un uomo e una donna può rigenerare la vita. Se vogliamo incentivare la natalità, dobbiamo sostenere la famiglia naturale”. Lo afferma Magdi Cristiano Allam, candidato per Fratelli d’Italia alle elezioni europee, durante il talk show politico “Lo Schiaffo”, su Class Tv. “Se noi diciamo” – continua – “che l’essere eterosessuali, bisessuali, omosessuali, lesbiche, transessuali, intersessuali devono corrispondere a pari diritti sul piano del matrimonio e delle adozioni dei figli, noi sovvertiamo quello che è stato tradizionalmente, per ragioni biologiche e non ideologiche, la struttura fondante della nostra società”. Il conduttore Marco Gaiazzi ribatte che il calo demografico in Europa non è certo dovuto a un’esplosione di omosessuali nel mondo. “No” – replica il giornalista egiziano – “ma si scardina culturalmente la centralità della famiglia naturale nel momento in cui questa Europa ci dice che la base su cui si fonda la società non è più il rapporto dialettico tra uomo e donna, ma l’orientamento sessuale. Noi abbiamo bisogno di rigenerare la vita, perché diversamente la società finisce. Se non facciamo figli, la società finisce. E con la società finisce anche la nostra civiltà”. “Non vedo il nesso”, ribadisce Gaiazzi. “Questo” – afferma Allam – “è un fatto che riguarda la concezione della società nella quale la famiglia naturale è sempre più emarginata e sempre più vessata”.

Le nozze gay suicidio dell'Europa. I matrimoni omosex scardinano i valori della famiglia naturale. Unico rimedio alla crisi demografica del continente, scrive Magdi Cristiano Allam, Lunedì 04/02/2013, su "Il Giornale". La legalizzazione del matrimonio omosessuale in Francia e in Gran Bretagna, una realtà già presente in Svezia, Norvegia, Danimarca, Olanda, Belgio, Spagna, Portogallo, Islanda, che è stata accreditata dall'Unione Europa e dal Consiglio d'Europa, evidenzia che in questa Europa è prevalso il relativismo valoriale che scardina le fondamenta della costruzione sociale incentrata sulla famiglia naturale. Non si tratta solo della violazione di un «valore non negoziabile», secondo l'espressione cara a Benedetto XVI, ma innanzitutto di un venir meno alla ragione e al legittimo amor proprio. L'Europa è in assoluto l'area del mondo che ha il più basso tasso di natalità e, purtroppo, l'Italia è tra i Paesi europei che ha il più basso tasso di natalità. Ebbene, se noi - al fine di porre un argine a questo suicidio-omicidio demografico - usassimo la ragione e facessimo prevalere il sano amor proprio, dovremmo sostenere la centralità della famiglia naturale perché, piaccia o meno, è solo dall'unione tra un uomo e una donna che può generarsi la vita. Concretamente per favorire la natalità dovremmo sostenere la maternità, ciò che oggi si traduce nell'attribuzione di congrui sussidi per le madri che scelgono di dedicarsi a tempo pieno o anche a tempo parziale alla famiglia, ai figli e alla casa, riconoscendo la valenza economica del lavoro domestico. Proprio recentemente in Francia da un'inchiesta pubblicata dal Figaro emerge che il lavoro domestico corrisponde a circa il 33% del Pil! Invece questa Europa relativista non solo non sostiene la famiglia naturale, ma ha scelto di scardinarla dalle fondamenta sostenendo che la società non si basa più sul rapporto tra uomo e donna, ma che dobbiamo far riferimento a cinque parametri che corrispondono all'orientamento sessuale, dove l'essere eterosessuali, bisessuali, omosessuali, lesbiche e transessuali, deve essere considerato la piattaforma sociale a cui corrispondere assoluta parità sia per ciò che concerne il matrimonio sia per l'adozione dei figli. Ed è così che in quest'Europa relativista che rischia di scomparire sul piano demografico per quanto attiene alla popolazione autoctona, il matrimonio omosessuale viene indicato come l'apice di una civiltà i cui capisaldi sono la negazione della cultura della vita, ovvero la legalizzazione dell'aborto, dell'eugenetica e dell'eutanasia. Gli ideologi del relativismo demografico ritengono che il problema sia facilmente risolvibile spalancando le frontiere agli immigrati provenienti da Paesi che hanno un più alto tasso di natalità, operando in un contesto puramente quantitativo, a prescindere dalla dimensione qualitativa che concerne la condivisione o meno dei diritti fondamentali della persona, del rispetto delle regole fondanti della civile convivenza, della disponibilità a integrarsi per cooperare alla costruzione di un futuro migliore. Ecco perché se questi immigrati sono, ad esempio, i cinesi dediti all'invasione economica o gli islamici dediti all'invasione religiosa, il risultato sarà inesorabilmente il tracollo della civiltà europea in parallelo al declino della popolazione autoctona. Tutto ciò dovrebbe essere considerato ragionevole e di buon senso. Ebbene, se oggi non lo è, significa che abbiamo messo in soffitta la ragione e non ciò vogliamo più del bene, facendo prevalere un'imposizione ideologica ispirata al relativismo valoriale che nega la nozione stessa di verità e al buonismo che ci porta ad anteporre le istanze altrui anche a dispetto delle conseguenze negative per noi stessi. Ecco perché questo pregiudizio ideologico si configura come una dittatura relativista che, per un verso, è l'altro lato della dittatura finanziaria e, per l'altro, è supportato dalla dittatura mediatica. Anche la dittatura finanziaria fa venir meno la centralità della persona come depositaria di un valore intrinseco, della famiglia naturale e della comunità di uomini e donne liberi, sostituendoli con la centralità della moneta, delle banche e dei mercati. E né la dittatura relativista né la dittatura finanziaria potrebbero affermarsi senza il supporto della dittatura mediatica che, mistificando la realtà, ci propina una rappresentazione ideologica facendosi sembrare come l'apice della civiltà ciò che il fondo del baratro in cui siamo precipitati non avendo più la certezza di chi siamo, delle nostre radici, fede, valori, identità e regole. L'epilogo di questa deriva è la dittatura in senso letterale, dove anche se siamo chiamati a partecipare al rito delle elezioni, ne sappiamo anticipatamente l'esito perché la triplice dittatura relativista, finanziaria e mediatica non consentono alcuna devianza rispetto al «nuovo ordine mondiale». Ciascuno di noi sarà libero di produrre e di consumare, di copulare con chi gli pare, di credere in Gesù o Allah a condizione di metterli sullo stesso piano, ma non potremo affermare la verità, credere nei valori non negoziabili e perseguire il bene comune.

Family Day. Una marea di bella gente. Un ciclone di vite normali, scrive il 31 Gennaio 2016 Luigi Amicone su "Tempi". Finalmente si affaccia una luce nuova. Si muove un sacco di gente. Si capisce cos’è uno sguardo benevolo e non risentito al mondo comune. Quasi un milione e mezzo di famiglie italiane sono in miseria, abbondantemente al di sotto della soglia di povertà. E il parlamento non vede come priorità – e strilla che questa sarebbe la nostra “maglia nera in Europa”, questa l' “arretratezza”, “lo scandalo”, “l’inciviltà”- il fatto che non abbiamo ancora fatto le “unioni civili”. Che non scimmiottiamo ancora il matrimonio. Che non abbiamo ancora dato i bambini al desiderio di due uomini o due donne. Bambini che saranno condannati a non avere una madre e un padre. Ci sono poco più di 500 bambini in Italia, dati Istat, e non 100 mila, venuti al mondo per il desiderio di due adulti che sono andati a comprarsi un utero in affitto o inseminazioni artificiali all’estero. E deve diventare un mercato, un’opera di umanità, un timbro della mutua, la pratica di separare la procreazione dalla sessualità e fare della vita nascente un prodotto dell’industria genetica ed eugenetica (perché se poi il figlio non è come lo vuole il desiderio, si prende e lo si butta via)? Ritorno alla realtà. In pieno delirio di propaganda, bufale e prepotenza ideologica, succede un 30 gennaio 2016, Roma, Family Day. Possibile? Possibile che gente che non ha soldi, giornali, televisioni, organizzazione, in sole due settimane riescano a riempire la piazza più grande d’Italia? Qualcosa si è mosso nel più profondo dei cuori e delle coscienze degli italiani. Improvvisamente i sondaggi si sono fatti persone. E quell’80 per cento di stimati contrari alla legge Cirinnà costruita sul pilastro del simil matrimonio e delle adozioni, si è materializzato per le vie della capitale. Una marea di bella gente. Un ciclone di vite normali. Una cascata di varietà di interpreti la famiglia fatta non di tradizione o di figli, amori ed esistenze perfetti, come una teoria o una pubblicità. Ma di umanità normalissima che cammina nella buona e nella cattiva sorte. Nella concordia e nei cerotti sulle ferite. Semplicemente realtà, l’unica realtà che possa definirsi famiglia, un uomo e una donna, figli, nonni, zii e che d’ora in poi si ricorderà che il 30 gennaio 2016 sono stati a Roma. In ambasceria e rappresentanza di quell’80 per cento di italiani che pensano alle persone omosessuali con tutti i diritti necessari. Ma i bambini no. I bambini non si toccano. E il matrimonio è una cosa tra un uomo e una donna. Non perché lo dice una tradizione o il prete. Ma perché così stanno le cose. Perchè questa è la verità. E perché puoi chiamare le cose come ti pare ma quella cosa lì dice una e una sola verità possibile: la scintilla della vita nasce tra due corpi e anime che non sono uguali, nasce tra due alterità. Questa è la risposta alla legge Cirinnà e al seguito di prepotenza acida e di bugie dolciastre sparse a piene mani sull’evidenza che la vita è fatta di una mamma e un papà, i bambini non sono merce dei desideri adulti, gli adulti si dessero una regolata. Il mondo dei capricci e dei narcisi sta riempiendo la società di un “non si capisce più niente” e “non si costruisce più niente”. Finalmente si affaccia una luce nuova. Si muove un sacco di gente. Si capisce cos’è uno sguardo benevolo e non risentito al mondo comune. Pochi sofismi: se del raduno oceanico dei sindacati nel 2001 al Circo Massimo i giornali scrissero la meraviglia dei 3 milioni di Cofferati, ieri, nello stesso posto, con un oceano che è esondato fino a lambire i palazzi della Fao, ce n’erano comunque più della piazza di Cofferati e più di quanto negli ultimi vent’anni si ricordi su qualsiasi piazza italiana. Ma perché milioni di persone, gente semplice, gente gente, mamme soprattutto, padri e bambini, che già tiran la carretta durante la settimana, si sobbarcano anche il sacrificio di ore e ore di treno o di autostrada, da Trieste e da Trapani, per un gesto di pura presenza, nient’altro che presenza? Quando rimontiamo sul Frecciarossa dopo la giornata campale, mentre sale sul predellino un amico si volta e ci dice: “Tu pensa, siamo venuti a Roma per dirci un’ovvietà. Per dirci che quando non ci sono le nuvole il cielo è sereno”. E dire che il cielo ieri era pieno di nuvole. E noi che eravamo lì, a un certo punto abbiamo visto che in cielo spuntava il sole. Così come da quella piazza, ha detto a un certo punto dal palco il regista e oratore della giornata Massimo Gandolfini, è spuntato un faro – altro che “fanalino d’Europa” - che con l’altra Europa fende di luce l’oscurantismo imperante. Non indietro è l’Italia. È avanti ed è di traverso a quell’intruglio di falsificazione e violenza che è l’ideologia, l’industria e il commercio dell’indifferenza sessuale. Se l’Italia fosse il fanalino di coda dell’Europa, come effettivamente lo è la legge Cirinnà che buon ultima viene a pappagallare i famosi paesi del blabla e caos Lgbt, due milioni di persone non si metterebbero in marcia con la naturalezza e fulmineità dimostrata ieri, da e per Roma. Rilanceremo fino al dettaglio il grande e appassionato intervento conclusivo di Gandolfini. Un capolavoro che ha ripreso e sistematizzato con potenza e chiarezza argomentativa impeccabile il lavoro e le ragioni che in tanti, sfidando la manipolazione vigente nell’informazione di massa, hanno svolto in questi mesi nelle piazze, scuole e ambienti di lavoro. Infine è successo che un popolo ha preso il treno, il pullman o l’aereo così come si prende l’ascensore di casa. Adesso i politici che dicono di essere stati al Circo Massimo “col cuore” devono ricordarselo bene questo gesto naturale di un mare di gente comune. Dopo il cuore, o rischiano anche la poltrona piuttosto che accettare una legge irriformabile, sbagliata e folle. O si scordino che tutto sarà come prima. La resistenza è nell’aria. La guidano le mamme e i papà. Renzi deve stare tranquillo. Se passa la rottamazione della famiglia secondo natura e Costituzione, se i bambini diventano merce e il matrimonio la borsa della spesa al bazar dei desideri, lui ha finito di bulleggiare.

Terribile la storia raccontata da un giornale locale, scrive “Vox News” del 4 gennaio 2016. Si parla tanto di calo demografico, ma quando degli italiani fanno figli – magari troppi, vista la loro condizione, ma non è questo il punto – non li si aiuta, anzi, li si punisce. Carmela, 36 anni, e il marito Pasquale, 45 anni, vivono ormai con un solo figlio di 34 giorni. Dopo che gli assistenti sociali del Comune si sono presi gli altri 9: cinque maschi e cinque femmine. Ora tre (tutti maschi, i più grandi: 17, 15 e 14 anni) sono in una comunità. Gli altri sei (da 12 a 2 anni) in due case famiglia. E Dio solo sa che enorme business sono le case famiglia. Gli ultimi due saranno tolti definitivamente alla famiglia, per finire adottati. Almeno questa è l’intenzione degli ‘assistenti sociali’. I giudici del Tribunale dei Minori, dal 14 gennaio cominceranno a esaminare il loro caso. I due genitori non sono, ovviamente, liberi da responsabilità, ma le famiglie si aiutano, non si distruggono. Ci chiediamo perché per i giovani maschi africani ci siano gli hotel, anche a Napoli, e invece per una famiglia di 12 membri, italiani, c’è invece solo un monolocale. A Napoli la situazione abitativa è drammatica, ma allora perché non impegnarsi a risolverla, invece di importare immigrati? E il vescovo, invece di aprire i ricchi spazi della Curia ai clandestini, perché non si occupa di questa famiglia?

Il Foglio: calo demografico dovuto alle donne laureate. Camillo Langone su "Il Foglio" del 29 gennaio 2016 vede una correlazione tra calo delle nascite e aumento delle lauree femminili in Italia. Ecco qui l’articolo completo: “Ai padri con figlie in età da università. Anche lo storico americano Steven Mintz, professore dell’Università del Texas e autore di “The prime of life. A history of modern adulthood”, vede nella laurea una causa del declino demografico: “Il rallentamento dell’economia e la crescita dell’importanza attribuita a una buona formazione universitaria fa sì che sempre più giovani ritardino il matrimonio o scelgano di non sposarsi”. Non solo in Italia, dunque, ma nell’intero Occidente l’istruzione universitaria di massa, che sposta troppo in avanti la scelta di riprodursi, si configura come un pericolo per la sopravvivenza della società. Oltre che per la trasmissione dell’onomastica famigliare e del dna genitoriale. I padri ci pensino bene prima di mandare all’università le figlie (Mintz parla dei figli in generale ma siccome la fertilità maschile si conserva più a lungo il problema è innanzitutto femminile): commetterebbero un gesto antisociale.”

“Famiglie, vi odiamo!”. Che pena l’Italia che non vuole i bimbi al ristorante ma accetta i cani ovunque. Gli italiani sono diventati tutti gidiani, anche se André Gide non lo si è mai sentito nominare. l’Europa sta morendo di sterilità e un dandy inizio millennio come me, che seguendo la tradizione le famiglie le detesta, quando legge che il ristorante romano “La fraschetta del pesce” vieta l’ingresso ai bambini viene colto dallo sconforto, scrive Camillo Langone il 21 Gennaio 2016 su "Il Foglio". "Famiglie, vi odiamo”. Gli italiani sono diventati tutti gidiani, anche quelli, e saranno la stragrande maggioranza visti i dati Istat sulla lettura, che André Gide non l’hanno mai nemmeno sentito nominare. “Famiglie! Vi odio! Focolari chiusi; porte serrate; geloso possesso della felicità”, scriveva lo scrittore francese nei “Nutrimenti terrestri”, ed era l’idiosincrasia di un dandy fin de siècle, al tempo dell’Europa prolifica. I tempi sono cambiati, i secoli sono passati, l’Europa sta morendo di sterilità e un dandy inizio millennio come me, che seguendo la tradizione le famiglie le detesta, quando legge che il ristorante romano “La fraschetta del pesce” vieta l’ingresso ai bambini viene colto dallo sconforto. L’Italia che nella canzone di De Gregori era metà giardino e metà galera adesso è metà ospizio e metà canile: esteticamente parlando non si può dire un progresso. Fosse soltanto la folcloristica, plurisecolare scortesia dell’oste romano, pazienza. Ma chiaramente il titolare della Fraschetta del pesce è un avanguardista dell’estinzione nazionale. Dietro questo ristoratore, che forse non a caso alza la sua serranda nei pressi del cimitero del Verano, c’è l’Italia compattamente erodiana dal Brennero al Canale di Sicilia e quindi da Giazza, provincia di Verona, dove la pizzeria Al Torrente fa sapere che i bambini “troppo vivaci” non sono graditi mentre i cani sì, fino a Barletta dove nel ristorante Bacco hanno mandato una mia amica ad allattare in bagno, di nascosto, come una drogata dedita alla puntura di eroina. Al ristorante Bacco è stata appena comminata una stella Michelin, e avendoci mangiato abbastanza di recente non riesco a capirne il motivo. O invece sì, lo intuisco: la guida Michelin fa parte del gran complotto malthusiano che sta depauperando il continente. Al Bacco e agli altri ristoranti della guida pneumatica fanno gioco i vecchi ricchi, i sodomiti silenziosi, i dozzinali dandy fuori tempo massimo che aborrono la prole ma le cui ricche pensioni sono o saranno pagate dai giovani che la pensione non la vedranno nemmeno col binocolo. Futuro, questo sconosciuto. Ovviamente ogni pagliuzza ha sempre la sua trave: l’apartheid nei confronti dei bambini riposa sui problemi causati dalla loro maleducazione. Li si accusa di essere chiassosi, fastidiosi. Il che è spesso vero ma non c’entra nulla. A parte che i bambini non mordono, a differenza dei cani molto apprezzati (mediante appositi cartelli) dai ristoratori e dagli albergatori estinzionisti, se aspettiamo una generazione di bambini educati facciamo in tempo a scomparire del tutto. Lo avete voluto Rousseau, il metodo Montessori, Reggio Children? E adesso vi tenete il pargolo sfrenato. Gli stessi che al ristorante si lamentano dei bimbi molesti sono i delatori pronti a denunciare i genitori che domano la prole attraverso le benedette punizioni corporali. A me i bambini non piacciono perché in loro la componente animale è ancora molto forte: sono pertanto egoisti e cattivi tipo bestie, soltanto l’educazione e la pressione sociale possono renderli passabilmente umani. Ma chi li respinge sta strangolando la vita e si merita di frequentare il Verano dove i pianti vengono soffocati nei fazzoletti e non disturbano chi non vuole essere disturbato dalla realtà.

L'Italia in declino demografico che rischia di sparire, scrive Luigi Troiani il 28 giugno 2015 su “La voce di New York". Quella dei prossimi decenni sarà un’Italia a composizione etnica, culturale e religiosa molto diversa da quella che conosciamo. Secondo l’Istat, la popolazione italiana ha toccato lo scorso anno livelli demografici mai raggiunti dal biennio 1917-1918: il declino di quegli anni di guerra fu il risultato di un omicidio collettivo, l’attuale è il risultato di una sorta di grande suicidio collettivo. Gli ultimi dati sull’andamento demografico e sulla composizione delle famiglie, mostrano che la parte italiana della popolazione che risiede nel belpaese ha imboccato la strada dell’estinzione. Sempre che non decidano di abbandonarci al nostro destino (cosa che da qualche anno fanno con numeri significativi), alla nostra sopravvivenza come popolo contribuiranno gli stranieri. Quella dei prossimi decenni sarà un’Italia a composizione etnica, culturale e religiosa molto diversa da quella che conosciamo, e non è detto che si tratterà di un paese peggiore, visto lo stato in cui versa oggi la “cosa” italica. Il nostro decremento demografico, racconta l’Istat Istituto italiano di statistica, ha toccato lo scorso anno livelli mai raggiunti dal biennio 1917-1918, quando i regi comandi spedivano i poveracci arruolati per le prime linee, fuori dalle trincee a farsi inutilmente massacrare. La significativa coincidenza con il centenario della grande strage di inizio Novecento porta ad un’amara considerazione. Il declino di quegli anni di guerra fu il risultato di un omicidio collettivo, l’attuale è il risultato di una sorta di grande suicidio collettivo. Sul perché gli italiani di questo inizio di XXI secolo abbiano scelto di non riprodursi a sufficienza per garantire alla loro specie di perpetuarsi, sociologi e demografi del futuro avranno chiavi interpretative di cui noi contemporanei non disponiamo. Abbiamo però l’evidenza dei numeri, e da quelli qualche utile riflessione possiamo derivarla. A fine 2014 la popolazione nazionale contava 60.795.000 residenti, solo 12.944 in più del 2013, saldo del quale siamo tributari alla componente non italiana delle presenze (più di 5 milioni, 8,5% della popolazione). Noi italiani abbiamo perso quasi 100.000 connazionali nel saldo tra nati e morti. E altri 70.000 nel saldo della porta girevole della residenza estera, visto che su circa 100.000 italiani in uscita, in rientro ne abbiamo avuti solo 30.000. I fattori del saldo negativo possono quindi essere così riassunti: il numero degli anziani aumenta (l’età media dell’attuale popolazione è 44,4, secondi solo ai giapponesi) le nostre ragazze non fanno figli, i giovani in particolare quelli meglio preparati ci abbandonano diminuendo la base potenziale di procreazione autoctona e cooperando all’invecchiamento statistico della popolazione. Il mutamento della struttura della famiglia, tradizionale incentivo alle nascite e sostegno ai nati, va visto come uno degli elementi significativi del declino. Solo il 5,3% dei figli vive anche con i nonni. Il 62,4% sta con genitori e fratelli, il 17,9% solo con i genitori, il 6,5% con un solo genitore. I minori di 18 anni sono in prevalenza figli unici (le coppie con minori hanno per il 51,6% un solo figlio, per il 39,9% due, per l’8,5% tre o più figli), e in numero doppio degli altri figli vivono in famiglie monogenitoriali. Se è vero, come è vero, che non vi è legame diretto tra crisi economica e svuotamento delle culle (la possente economia tedesca non eviterà alla Rft la perdita di 10 milioni di tedeschi entro 45 anni, e la Francia è passata dal declino alla ripresa demografica senza alcun legame con l’altalenante ciclo economico), va considerato che la falcidie di ricchezza e opportunità delle famiglie, intervenuta in Italia dal 2008, ha ovviamente accentuato la tendenza all’impoverimento demografico, ad esempio spingendo altrove la nostra “meglio gioventù”, e non consentendo allo stato di disporre di risorse per sostenere la famiglia e incentivare le coppie a procreare. 

La fecondità degli immigrati e altre mezze bugie che non fermeranno la morte demografica del nostro paese, scrive il 21 Settembre 2014 Rodolfo Casadei su Tempi”. La verità è che sull’invecchiamento della popolazione italiana e sulla sostenibilità del nostro welfare le cose stanno anche peggio di come ce le raccontano. Intervista al demografo Gian Carlo Blangiardo. Lo sapevate che in Italia gli ultranovantacinquenni sono circa 100 mila, ma nel 2065 saranno la bellezza di 1 milione e 258 mila? Che la popolazione residente in Italia non supererà mai i 62,1 milioni, dopodiché scenderà fino a essere, nel 2065, la stessa di oggi, cioè 59,4 milioni, ma con la differenza che oggi meno di 1 cittadino su 10 è straniero, mentre nel futuro lo sarà 1 su 5? Lo sapevate che la famosa alta fecondità degli immigrati è un mito, considerato che nell’arco di appena cinque anni il numero di figli per donna fra le straniere residenti in Italia è sceso da 2,5 a 2,1? Che da più di un decennio il numero degli over 65 ha superato quello degli under 20 e che nel 2027 gli ultraottantenni saranno più numerosi dei residenti italiani sotto i 10 anni di età? E che in dieci anni (fra il 2001 e il 2011) la classe d’età degli attuali 25-29enni italiani ha perso 30 mila unità a causa dell’emigrazione dei cervelli e delle braccia giovani? Queste e altre poco incoraggianti cose ancora sapreste se aveste partecipato al piccolo incontro tenuto dal demografo Gian Carlo Blangiardo, ordinario di demografia all’Università di Milano-Bicocca, svoltosi durante l’ultimo Meeting di Rimini presso lo stand del Movimento per la Vita. Uno di quegli incontri di nicchia che sono una specialità della kermesse riminese, fuori dal programma ufficiale, ma ricchi e stimolanti come gli altri. Quel pomeriggio Blangiardo ha parlato e mostrato powerpoint spiegando altre cose ancora. Ha puntualizzato che in Italia dagli anni Novanta il saldo naturale, cioè la differenza fra le nascite e i decessi, continua ad essere negativo, e l’afflusso di immigrati non ha cambiato il panorama, perché il numero di figli che mettono al mondo annualmente e va a sommarsi a quelli generati dagli italiani non è sufficiente a coprire il numero dei morti. La popolazione continua a crescere leggermente grazie all’immigrazione di adulti, ma fatalmente l’età media aumenta (non lo ha detto Blangiardo, ma secondo statistiche americane l’Italia è il terzo paese più anziano del mondo dopo il Giappone e la Germania). Ha esemplificato l’effetto che l’invecchiamento della popolazione avrà sulla sostenibilità finanziaria della spesa sociale evocando i 7 miliardi di euro che costerebbe il solo assegno di accompagnamento per il milione e 200 mila ultranovantacinquenni nel 2065.Le affermazioni più forti hanno riguardato il contributo degli stranieri alla sostenibilità del welfare e del sistema pensionistico italiani, che secondo Blangiardo non rappresenta affatto la panacea che molti dicono ma solo un rinvio del problema che si presenterà aggravato, e la sottovalutazione dell’emigrazione giovanile, quando «si può stimare che la “perdita netta” di giovani italiani nell’arco del decennio 2001-2011 vada ben oltre le 100 mila unità». Per tutti questi motivi abbiamo voluto approfondire con Gian Carlo Blangiardo i vari argomenti.

Professore, pare di capire che il saldo migratorio, che in Italia è positivo dal 1991, non sia sufficiente a invertire l’invecchiamento della popolazione italiana. È così?

«Sì, è così. Il fenomeno dell’immigrazione è rappresentato da immigrati che nella grandissima maggioranza arrivano qui già adulti. Trascorrono alcuni anni e vanno ad aumentare il numero degli anziani. Non fanno tutto il percorso, da bambino ad adolescente a giovane, poi ad adulto e infine ad anziano, che fa chi nasce in Italia. Danno una boccata di ossigeno al ringiovanimento della popolazione nel momento in cui arrivano, ma poi, col passar del tempo se la riprendono quando diventano a loro volta anziani».

Si dice che gli immigrati hanno un tasso di natalità più alto degli italiani, mettono al mondo più bambini, e questo dovrebbe contribuire al ringiovanimento della nostra popolazione più del semplice arrivo di immigrati. Lei però afferma che la loro fertilità diminuisce rapidamente quando sono in Italia? In che misura, e perché?

«Gli immigrati danno un contributo in termini di natalità che è importante, ma che non rappresenta una soluzione miracolosa ai nostri problemi. I nati da donne straniere sono cresciuti rapidamente dagli anni Novanta ad oggi, da 10 mila sono passati ai circa 80 mila attuali. Si sono stabilizzati attorno a questa cifra annua, magari cresceranno un po’ in futuro ma solo perché crescerà la popolazione straniera totale. Una volta esaurita la fase dei grandi ricongiungimenti familiari al seguito delle sanatorie che li permettevano, gli immigrati piuttosto rapidamente sono passati da livelli di fecondità largamente superiori alla soglia di ricambio generazionale a livelli che permettono appena il ricambio generazionale. Nelle grandi città italiane, dove è più difficile gestire la presenza di figli, l’indice di fecondità della popolazione straniera è largamente al di sotto del tasso di ricambio generazionale. Questo avviene per il semplice motivo che le coppie straniere incontrano le stesse difficoltà che incontrano le coppie italiane ad avere figli, e spesso in forma ancora più esasperata».

Ma è vero che la loro la fecondità è di 2,1 figli per donna mentre fra gli italiani è 1,4?

«È 1,3 per le italiane per l’esattezza, e 2,1 per le donne straniere. Però non bisogna dimenticare che appena cinque anni fa per queste ultime era 2,5. Nell’arco di poco tempo c’è stata una consistente riduzione. In certe realtà locali il dato è inferiore ai 2 figli per donna anche fra gli stranieri: Milano, Roma, Napoli, Palermo. Il disagio di essere genitore in emigrazione è un qualcosa di chiaramente tangibile».

Il saldo naturale in Italia attualmente è negativo, e lo è da più di vent’anni nonostante l’apporto di nascite degli stranieri. Quando tornerà – se mai tornerà – ad essere positivo?

«La domanda mi dà l’opportunità di ricordare che il 2013 è stato un anno record nella storia della demografia dell’Italia unita: non c’è mai stato un anno con un numero di nascite così basso. In tutto sono state 513 mila. E la proiezione dei dati dei primi tre mesi del 2014 promette un quasi 10 per cento in meno per il dato finale di quest’anno».

Quindi il saldo naturale continuerà a restare negativo e sarà compensato solo dall’immigrazione?

«Sicuramente, per un motivo molto semplice. Essendo una nazione sempre più vecchia, non solo le nascite non crescono, ma le morti aumentano. Il numero totale dei morti, che oggi è di circa 600 mila all’anno, è destinato in futuro, a causa della struttura della popolazione, a salire a 700-750 mila».

La popolazione residente in Francia è di poco superiore a quella italiana, eppure lì i nati sono 750 mila all’anno, anziché 500 mila come da noi. Perché c’è questa differenza del 50 per cento?

«Perché i francesi prendono sul serio la demografia. È un’eredità storica, derivante dalla necessità di affrontare ad armi pari la Germania con cui si trovavano sempre in conflitto. Comunque sia, hanno sempre fatto più attenzione di noi alle dinamiche demografiche e, dove necessario, agli interventi a favore della natalità, per raddrizzare certe tendenze. La Francia è solita prendere misure economiche, che costano, per sostenere la natalità. Laicamente, non si preoccupa se le coppie sono sposate o no, ma fornisce supporti economici perché vengano messi al mondo dei figli. Loro eliminano le cause che in Italia impediscono di far nascere i figli che si vorrebbero avere. Perché, non dimentichiamolo, in Italia le inchieste ci dicono che le donne vorrebbero 2,19 figli a testa, ma nella realtà ne hanno solo 1,3».

Lei sostiene che non saranno gli stranieri a risolvere il problema pensionistico italiano, ma in un certo lasso di tempo diventeranno parte del problema. Su che dati si basa?

«Chi dice “abbiamo rinunciato a 100 mila bambini ma abbiamo imbarcato 100 mila immigrati e alla fine il totale quadra”, non ha capito come funziona la demografia. La sostenibilità del welfare dipende dal rapporto fra anziani e attivi. Quanto più si sbilancia verso gli anziani, tanto maggiore sarà la quota di Pil che va a finire in pensioni, nella sanità, eccetera. La fetta di welfare che vanno a mangiarsi gli anziani va a raddoppiare. È sbagliato fare la divisione fra quanti sono oggi gli stranieri che lavorano e quelli che sono in pensione, per concludere che il carico è bassissimo e tutto va bene: bisogna ragionare guardando al futuro. Devo mettere in conto che quelli che oggi sono lavoratori, alla fine saranno soggetti che beneficeranno delle prestazioni pensionistiche e sanitarie. Se noi prendiamo in considerazione gli anni di vita futura della popolazione, che per l’Italia sono 2,4 miliardi, e calcoliamo quanti di questi anni saranno spesi in formazione, quanti lavorando e quanti a carico del sistema, scopriamo che l’“indice di carico” degli immigrati, cioè la loro pressione sul welfare nel corso di tutta la vita, è identica a quella degli italiani. Non abbassano il valore complessivo, danno solo una boccata d’ossigeno per un certo numero di anni, che poi pagheremo successivamente. Ci sono modelli matematici che dimostrano che c’è un beneficio di una ventina d’anni per la sostenibilità del welfare. Se io, in teoria, tolgo di mezzo 200 mila nascite e ci metto 200 mila immigrati trentenni, succede che il carico per una ventina di anni si abbassa, poi nel momento in cui la popolazione diventa stazionaria, il carico è più alto di quello che sarebbe stato senza l’arrivo degli immigrati al posto dei nati».

Come influisce la crisi demografica sull’economia?

«Non sono un economista, ma è intuitivo che una popolazione che cresce è una popolazione che esprime una domanda di beni, quella domanda che oggi non c’è e tutti invocano. Se fossimo una popolazione in aumento, come accadeva negli anni del miracolo economico, avremmo una spinta alla crescita economica attraverso una serie di consumi che permettono alla popolazione di crescere e andare avanti. Nel momento in cui la popolazione invecchia, l’economia ne risente perché l’anziano fa manutenzione, non fa investimento. Allora si spera di fare una compensazione attraverso gli immigrati e i loro consumi. Ma è gente con redditi che viaggiano attorno agli 800 euro mensili, una parte dei quali mandano ai paesi di origine: non hanno tanta disponibilità al consumo. Quando si dice “gli immigrati contribuiscono un tot al Pil”, io resto un attimo scettico, perché mi chiedo come facciano con 800 euro al mese a dare questi grandi contributi al Pil, al gettito fiscale, eccetera. Mi sembrano discorsi demagogici».

Anche i dati relativi ai giovani che lei ha presentato sono preoccupanti. Sembra che ci siano classi d’età che scompaiono.

«Abbiamo due problemi. Il primo è che le persone che raggiungono l’età per essere definiti giovani provengono da coorti di nati che si sono via via ridotte. Il totale della popolazione giovane risente di una immissione di forze fresche che nel tempo è andata riducendosi. Il secondo, che viene poco considerato e molto sottovalutato, è l’emigrazione giovanile. Non è più quella delle valigie di cartone, di 100 o di 60 anni fa, ma un’emigrazione di giovani talenti che si spostano perché altrove ci sono condizioni per ottenere maggiore gratificazione da tanti punti di vista. Stiamo perdendo cervelli, non valorizziamo i nostri giovani e loro se ne vanno».

A Rimini lei ha detto che chiuso dentro a un cassetto della presidenza del Consiglio c’è un Piano per la Famiglia. Cosa c’è scritto in questo piano? E perché lei dice che alcuni suoi provvedimenti sono necessari ma impopolari?

«Il Piano contiene tante cose. Fu steso da una commissione creata sotto il governo Berlusconi, ma si trattò di un progetto condiviso da tutti, c’erano dentro anche i sindacati. Si lavorò dal 2009 al 2012, ne facevo parte anch’io. Il documento è stato presentato dal ministro Riccardi e approvato dal Consiglio dei ministri al tempo del governo Monti. Poi l’hanno congelato ed è finita lì. Contiene proposte di natura economico-fiscale e altre a costo zero o quasi. Introdurre il fattore famiglia vorrebbe dire tirare fuori 16 miliardi di euro: se non ce li abbiamo, non si può fare. Però ci sono anche altre cose che sono più abbordabili: favorire le strutture per gli asili nido dei bambini, un clima culturale più favorevole alle famiglie che hanno figli, iniziative che rafforzino la compatibilità fra maternità e lavoro: ci sono misure che non costano molto e che varrebbe la pena di riconsiderare».